Categoria: Approfondimenti

Computer e robot al posto di lavoratori in carne e ossa? Ecco cosa ci aspetta secondo uno studio della Bocconi

I progressi tecnici e tecnologici hanno creato un mondo letteralmente nuovo e inimmaginabile solo cinquant'anni fa. Ci ritroveremo “vittime” di quelle tecnologie da noi stessi progettate? Il timore riguarda soprattutto il mondo del lavoro, dove un computer o un robot possono – tranquillamente (?) – prendere il posto di un lavoratore in carne ed ossa. Sarà davvero così? È nel tentativo di rispondere a questa complessa domanda nonché di favorire una reale consapevolezza e conoscenza scientifica che nasce Lavoreremo ancora? Tecnologie informatiche e occupazione, uno studio della Sda Bocconi School of Management condotto da Pier Franco Camussone [nella foto in basso a destra], ordinario di Sistemi informativi presso l'università di Trento, e Alfredo Biffi [nella foto in basso a sinistra] affiliate professor di Information System presso Sda Boccconi School of Management, con il supporto di Aica (l'associazione italiana per l’informatica e il calcolo automatico), da sempre impegnata nell’aggiornamento sul digitale nella scuola primaria e secondaria e per l’alta formazione e le professioni autonome e di impresa. Le 180 pagine del volume si suddividono in due parti: una più “teorica”, in cui si illustra in maniera chiara e con un linguaggio non eccessivamente tecnico il reale impatto che l’utilizzo delle nuove tecnologie informatiche avrà sul mondo del lavoro, e l’altra diretta a verificare, tramite una specifica indagine, il grado di consapevolezza che hanno a tal proposito gli attori in gioco, ossia manager d’azienda e responsabili del personale aziendale ma anche start upper e studenti. Ma cosa c’è da aspettarsi quindi da questo futuro? Studiosi di tecnologia ed economisti si schierano su fronti opposti: per i primi «l’impatto dell’informatizzazione spinta sulla società sarà più traumatica della prima rivoluzione industriale della fine del settecento» e per questo «dovremo prepararci a fronteggiare crisi sociali e periodi di riqualificazione della forza lavoro che rimarrà senza occupazione». Per gran parte degli economisti, invece, «il sistema economico troverà un suo equilibrio a medio termine, riassorbendo la forza lavoro in eccesso»; una visione ottimistica che trae fiducia dal passato: ogni innovazione ha infatti creato una disoccupazione momentanea, ma ha poi sempre generato, a lungo termine, un incremento della domanda. «Quest’ultima, a sua volta, ha indotto un aumento produttivo, che ha determinato un riassorbimento dei lavoratori disoccupati o la generazione di opportunità nuove per giovani in cerca di occupazione».Su una cosa, però, sono tutti d’accordo: le attività più a rischio, in cui è più probabile che  lavoratori in carne e ossa vengano sostituiti da computer e apparecchi robotici, sono quelle strutturate e di routine, che seguono procedure prestabilite e ripetitive nella produzione di beni o servizi. Si parla quindi di aziende manifatturiere, industrie di processo, società che erogano servizi prestabiliti come quelle telefoniche, di erogazione di energia, società di gestione delle reti di trasmissione dati e così via: saranno dunque le «classi salariali intermedie» a sperimentare la più significativa riduzione di lavoratori, poiché «da un punto di vista economico e di efficienza sul posto di lavoro il computer non ha rivali». Diverso il destino di coloro che svolgono un’attività non routinaria, sia questa manuale o concettuale, dove la necessità di componenti quali creatività e soggettività permetterà di considerare al riparo il posto di lavoro: «I computer sono infatti dei lavori ideali e infaticabili quando si tratta di svolgere compiti predefiniti» ma non sono esenti da punti deboli: «sono in difficoltà se devono prendere decisioni senza regole guida. Il loro intuito è al momento molto rudimentale, la loro capacità di cogliere le situazioni o di orientarsi in una situazione relazionale delicata è per ora poco sviluppata». Per questo la macchine potrebbero qui, nel settore non routinario, non sostituire l’uomo ma affiancarlo, così da facilitargli il lavoro e migliorarne il risultato. Al di là dell’opzione “sostituzione - non sostituzione” c’è però un altro tipo di minaccia che si profila all’orizzonte: la nascita di nuovi modelli di business. Grazie alla diffusione delle nuove tecnologie digitali, infatti, la relazione tra domanda e offerta potrebbe  – e in parte sta già succedendo – cambiare notevolmente, avvicinando fornitori e consumatori dei servizi a tal punto da rendere superflua la presenza di un “mediatore”. Qualche esempio noto? Uber o BlaBlaCar, per i servizi di trasporto, o AirB&B per quelli di alloggio. Insomma, nuove piattaforme che consentono la presa diretta tra domanda e offerta «saltando l’intermediazione delle tradizionali agenzie» e consentendo quindi un notevole risparmio. Si profila, dunque, «un’economia dei freelancer», un’economia in cui ognuno sarà in grado di individuare da solo il prodotto ricercato o, viceversa, di vendere da solo il prodotto o servizio di cui dispone. «In questo caso è lecito domandarsi: si rende più efficiente il mercato o si creano le condizioni per una giungla economica?» scrivono Biffi e Camussone.Una cosa è certa: bisogna prepararsi ad affrontare i cambiamenti che verranno, arginando il più possibile gli effetti indesiderati. Come? Secondo gli autori i problemi da affrontare sono essenzialmente due: recuperere la forza lavoro resa disponibile dai processi di automazione e formare le nuove leve, coloro che entreranno in un mondo del lavoro con caratteristiche molto diverse da quello attuale. Per la prima area di intervento, ad esempio, bisognerebbe sforzarsi di «pianificare dei corsi di formazione», permettendo a coloro che sono stati sostituiti dalle macchine di imparare un mestiere nuovo e richiesto dall'attuale e futuro mercato del lavoro; mentre per la seconda occorrerebbe introdurre già a scuola materie come la logica informatica, i principi di economia, la generazione e gestione della conoscenza e il funzionamento delle interfacce uomo-macchina.La responsabilità di come si metteranno le cose sarà un po’ di tutti: dei governi, che dovranno appunto ripensare il sistema educativo e rivedere le materie di insegnamento, ma anche i meccanismi di redistribuzione della ricchezza con strumenti fiscali che permettano a tutti di avere un reddito dignitoso senza che la ricchezza finisca tutta in mano ai “tecnocrati”; delle aziende, che dovranno «mantenere la competenza umana del lavoro dove ciò fa effettivamente la differenza»; e dei singoli individui, a cui sarà richiesto di «adeguarsi alla scomparsa dei lavori più ripetitivi e attualmente più comuni». Bisogna pensare fin dall’adolescenza a «come inserirsi in un mondo in cui sarà necessaria un’elevata specializzazione per poter lavorare ancora, oppure dedicarsi ad attività più creative e artistiche, oppure ancora prendere in considerazione le professioni artigianali». Ma soprattutto sarà necessario cambiare mentalità nei confronti del lavoro, che non dovrà più essere percepito come una necessità ma come una via per realizzarsi. Se le macchine produrranno ricchezza e lo stato provvederà a redistribuirla garantendo a tutti uno status di vita soddisfacente, «noi potremmo dedicarci a svolgere le attività che più ci sono congeniali»: alcuni potranno scegliere di proseguire col proprio lavoro in un settore che dà ancora possibilità, altri potranno dedicasi alla ricerca o all’impegno sociale. La cosa essenziale sarà creare un sistema in cui ognuno abbia la possibilità di fungere a suo modo da punto attivo e creativo, così che la differente redistribuzione del lavoro non porti a sentimenti di noia, smarrimento o depressione.Eppure non tutti sono ben consapevoli di ciò che sta succedendo. Chi si trova già nel mondo del business - come manager, hr manager, start upper e opinion leader - ha generalmente abbastanza chiaro cosa sta accadendo ed è consapevole che l’evoluzione delle tecnologie digitali distruggerà il lavoro routinario mentre danneggerà molto più lievemente il lavoro concettuale di alto livello; chi non è ancora entrato nel sistema, come studenti e neo-laureati, ha invece maggiore fiducia nella «capacità della tecnologia di sviluppare ambiti di lavoro e nell’uomo di poterli governare». Ma per governarli servono informazione e preparazione, e così tale fiducia, più che un punto di arrivo può e dev’essere invece il giusto punto di partenza.  Giada Scotto

Interns have an operative role in UN organizations – but they're often unpaid, and that's a problem

Holding a degree is no longer a sufficient qualification to enter the labor market, nor having a work experience - such as an internship - appear to be essential for a graduate’s career. These are some of the outcomes of the Global Intern Survey, launched in August 2017 by the Fair Internship Initiative, an independent youth led initiative focused at advocating for quality and accessible internships. The survey was developed together with the Geneva Interns Association, the Graduate Institute Students’ Associations and Intern Boards in Geneva.The data have been presented at the end of February. These results are very important because for the first time an independent report has revealed key data on UN internships, their conditions of work and the effects of unpaid stages on job prospects. This 1st Independent Report on UN internships should now be a key tool for organizations to better understand interns’ state of affairs.What could be shocking for most readers but it is, instead, something Repubblica degli Stagisti has been discussing for many years, is that previous work experience is almost always required for entry-level vacancies and increasingly even internship openings. That’s why many are forced to go through unpaid or underpaid work. This system is generally unfair, but it is even more serious when it happens in UN organizations. In fact, as the Fair Internship Initiative stated in the report, these organizations «should be coherent with their own principles and values, as well as with development objectives enshrined in the 2030 Agenda for Sustainable Development». The explosion of internships, instead, is everywhere: in the developed world as in the developing countries. «1.5 million internships are filled in the United States alone each year, while similar estimates from the United Kingdom suggest some 100,000 internships per year», according to the report. And in some cases the number of internships advertised has even outnumbered the one of job vacancies - in direct contradiction «to Article 23.2 of the Universal Declaration of Human Rights, according to which “Everyone, without any discrimination, has the right to equal pay for equal work”. Compared to both temporary work and apprenticeships, traineeships/internships seem to be the arrangements that are most at risk of pushing young people into persistent precariousness rather than supporting their entry into decent work», says the report.Almost eight out of ten survey responders stated that their internships have helped them advance their career. But if 90 percent of paid interns say this, only 74 percent of unpaid ones think the same. This because only two out of ten former unpaid interns were usually offered a contract after the internship.The most frequent critique to unpaid internships is that they contribute to deepening social inequalities. They are, in fact, accessible only to some. So employers are missing out on talented people and talented people are missing opportunities to advance. This is particularly troubling for some fields, in fact unpaid internships are more frequent in economic sectors as politics, media, banking, law, industries and professions dominated by people from specific economic backgrounds.One of the survey question was dedicated to this problem, asking if an internship caused interns or his family any financial hardship, and answers are really impressing. «I used all my savings. So I lived very minimal life», «A family member was forced to sell an apartment, a vehicle and furniture because of my desire to add the prestige of working at the UN to my resume only to find out it was not worth it at all» (well, this may be a little bit overstated... but it certainly happens to families to make sacrifice for their loved ones), «I am in massive debt. More than I would be in if I had not done the internship».Moreover, unpaid internships are less likely to have a learning plan or appropriate supervision and often they are offered to fill staff positions made redundant. What the Global Intern report states is the risk «to be a dead end especially felt by candidates from less privileged backgrounds».Thus, it does not surprise that paid interns are much more geographically diverse than unpaid ones. If almost 56% of paid interns are from high income nationality, this percentage grow up to 68% for unpaid stages. This probably because most of available UN internships are in Europe or in the United States and the absence of financial support favors the recruitment of people already living in those countries.The report shows the high cost for those coming from other countries, with an average of 750 US dollars only for relocation costs. That being the case, the one and only factor that can enhance the presence of people from less developed countries is to offer paid internships. Otherwise, the main factor playing a role in accepting an unpaid internship is the family economic background.Health insurance costs is another huge problem for UN interns: only 12% of them receive financial contributions to cover health insurance costs, which is an issue especially for locations such as Switzerland or United States where costs can be really high. But if paid internships are much more likely to contribute to health insurance costs, unpaid ones never do. The paradox, says the report, is the case «of the World Health Organizations, which actively campaigns for universal health coverage, while it provides no support to cover health insurance to its interns and volunteers».Many respondents of the Global Intern Survey feel they didn’t have opportunities to learn or develop skills or that they had a learning experience. Which sounds quite in contrast with the stated objective of UN internships, namely to be only a learning experience, and a relevant problem if you think this is «one of the main justifications as to why most UN institutions provide no financial support to interns».This report, moreover, confirms «interns have a fundamentally operative role in UN organizations, raising doubts as to whether their function is actually just to experience a learning process or whether to replace paid entry level positions». Most of the time, internships are unpaid and «a study by the ILO confirms that unpaid internship programs are at higher risk to have a worse post program outcome than paid ones». That’s why measures should be taken to secure structured, eligible and paid learning programs.The survey shows how the majority of UN paid and unpaid interns contribute to work that may have otherwise been completed by paid staff, another evidence of the relevant contribution of interns inside these offices.The work of Fair Internship Initiative is now available to all UN agencies: they have the task of taking their cue from the data, to review their internship programs and ensure real opportunities for all young people.Marianna Lepore

Stage, in provincia di Trento l'indennità non ha solo un limite minimo ma anche uno massimo: 600 euro al mese

Con la delibera della giunta provinciale n.1953 del 24 novembre 2017, subito esecutiva, la provincia autonoma di Trento ha approvato “Criteri e modalità per l’applicazione dei tirocini formativi e di orientamento”. Ha così recepito le “Linee guida in materia di tirocini formativi e di orientamento” contenute nell’accordo adottato dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano il 25 maggio scorso, e lo ha fatto rispettando la scadenza, fissata al 25 novembre 2017. Il testo è frutto di un confronto con le organizzazioni sindacali e datoriali e, prima di approdare in giunta regionale, è stato discusso e approvato dalla Commissione provinciale per l’impiego. In vari passaggi, la normativa provinciale si discosta dalle linee guida nazionali. Innanzitutto, in continuità con la precedente normativa (risalente al 2014), essa contempla solo la categoria dei tirocini formativi e di orientamento, e non quella dei tirocini di inserimento e reinserimento lavorativo. Fermo restando che lo stage - oltre che ai neodiplomati e neolaureati a meno di 12 mesi dal conseguimento dell'ultimo titolo - resta aperto ai soggetti in stato di disoccupazione, ai lavoratori beneficiari di strumenti di sostegno al reddito in costanza di rapporto di lavoro, ai lavoratori a rischio disoccupazione, ai soggetti già occupati che siano in cerca di altra occupazione e ai soggetti disabili e svantaggiati. E ancora, a differenza delle linee guida nazionali, quelle della provincia di Trento non fissano solo il tetto minimo del rimborso - sempre di 300 euro al mese - ma anche quello massimo, che ammonta a 600 euro mensili, come nella normativa precedente. «Questa regola era stata introdotta per ricondurre il tirocinio al suo ruolo di strumento formativo»  spiega alla Repubblica degli Stagisti Andrea Grosselli, segretario confederale della Cgil Trentino con delega alle politiche del lavoro «perché esistevano casi in cui la borsa rischiava di rappresentare una retribuzione più che un’indennità».  Un’altra variazione significativa rispetto alle linee guida nazionali riguarda la platea di imprese ritenute idonee a ospitare tirocinanti. Con la nuova normativa provinciale, potranno avere un tirocinante anche le aziende prive di lavoratori dipendenti. «Questo passaggio ci lascia perplessi, perché» commenta Grosselli «anche se è plausibile che in alcuni campi di lavoro autonomo – si pensi alle imprese di manutenzione edile o all’idraulico – ci siano imprese che possono avere funzione formativa, è difficile per un lavoratore autonomo riuscire ad assolvere a tale funzione. Per questo vigileremo affinché non si faccia un abuso di questo tipo di tirocinio. Inoltre, vista la vocazione turistica del territorio, controlleremo che non ci sia una sostituzione del lavoro dipendente stagionale con il tirocinio». Proprio l’impianto di monitoraggio e di controllo è uno dei punti di forza delle politiche del lavoro nella provincia autonoma di Trento. «Abbiamo un’agenzia per il lavoro tripartita, che comprende organizzazioni sindacali, organizzazioni datoriali e istituzioni locali» spiega il sindacalista «e inoltre i Centri per l’impiego funzionano bene: questo è garanzia di una reale applicazione della normativa». Per chi trasgredisce sono fissate precise sanzioni, ad esempio la mancata corresponsione dell’indennità di partecipazione al tirocinio comporta per il soggetto ospitante una sanzione amministrativa che va da un minimo di 1.000 a un massimo di 6mila euro. Per le violazioni non sanabili, in continuità con le linee guida nazionali, si stabilisce l’intimazione della cessazione del tirocinio e l’interdizione per 12 mesi - che possono crescere fino a 24 in caso di “recidiva” - per il soggetto promotore e/o ospitante dall’attivazione di nuovi tirocini. Per quanto riguarda la durata fissata per i tirocini extracurriculari, essa è in linea con la normativa nazionale. Anche se il testo parla di una durata massima non superiore ai sei mesi (proroghe comprese), esso prevede anche il rinnovo per un periodo massimo di sei mesi – quindi per un totale di dodici - per i soggetti in stato di disoccupazione, i lavoratori beneficiari di strumenti di sostegno al reddito in costanza di rapporto di lavoro, i lavoratori a rischio disoccupazione e i soggetti già occupati che siano in cerca di altra occupazione. Per i soggetti disabili e i soggetti svantaggiati la durata massima è rispettivamente fissata a 24 e 12 mesi. Sempre in linea con la normativa nazionale, la durata minima non può essere inferiore a due mesi, ad eccezione del tirocinio svolto presso soggetti ospitanti che operano stagionalmente, per i quali è ridotta a un mese. Sempre in riferimento ai tirocini extracurriculari, in un provvedimento a margine, la provincia di Trento ha introdotto per i tirocini extracurriculari un "contributo a favore della previdenza complementare". In particolare, i tirocinanti extracurriculari di età inferiore a trentasei anni e la cui indennità di partecipazione è a carico dell'Agenzia del lavoro (es. disabili e disoccupati di lunga durata), facendo apposita domanda, possono ricevere un contributo pari al 33% della borsa, sotto forma di contributi versati al Fondo di previdenza complementare a cui sono iscritti. Un segnale per dare continuità al risparmio previdenziale, ovviando a quello che è avvertito come uno dei principali limiti della forma del tirocinio. Per il momento si tratta di una misura ancora sperimentale e residuale: solo una dozzina le domande pervenute da gennaio 2017.Su una popolazione di circa 84mila persone tra i 15 e i 29 anni, secondo l'ultimo Rapporto annuale sulle comunicazioni obbligatorie del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, i tirocini extracurriculari attivati nella provincia autonoma di Trento nel 2016 sono stati 2.658, e negli ultimi anni il numero si è mantenuto più o meno costante. Resta ora da capire se le nuove regole porteranno dei cambiamenti sia nelle modalità di utilizzo che nella quantità di tirocini attivati.   Rossella Nocca

Alternanza scuola-lavoro in Bosch, ecco come ci si allena per il futuro

Che cosa significa fare alternanza scuola-lavoro? E’ uno strumento che funziona? Che cosa ne dicono le aziende? Per rispondere a queste domande la Repubblica degli Stagisti coinvolge direttamente le aziende del suo network, dando loro la parola per raccontare i percorsi che offrono ai ragazzi delle scuole superiori.Entrare nel mondo del lavoro richiede preparazione in termini di competenze – ma non solo. Ci vogliono preparazione mentale, spirito di collaborazione, voglia di rimboccarsi le maniche. È proprio come allenarsi in uno sport. E infatti è su questa metafora che si basa il programma di alternanza scuola-lavoro di Bosch, “Allenarsi per il futuro”. Un progetto grande e articolato, che mira a contrastare la disoccupazione giovanile attraverso il coinvolgimento degli studenti fin dai primi anni di scuola in attività di formazione e alternanza. I ragazzi, dalla elementari all’università, hanno così l’opportunità di iniziare ad approcciarsi al mondo del lavoro, di lavorare su di sé per prendere le scelte migliori per il proprio futuro, e anche di toccare con mano la realtà di una tra le aziende più grandi e importanti a livello europeo e mondiale. Questo anche e soprattutto attraverso il coinvolgimento di importanti sportivi di fama internazionale, che portando le loro testimonianze trasmettono i valori di passione, impegno e responsabilità. Lanciato nel 2014, il format di Allenarsi per il futuro è stato ideato da Bosch Italia in collaborazione con Randstad e altre imprese, enti e istituzioni in tutta Italia: la Repubblica degli Stagisti segue questa iniziativa fin da quando è nata. Il percorso di Allenarsi per il futuro si struttura in due diversi moduli: prima una sessione di orientamento a scuola, che coinvolge fino a duecento studenti per volta e punta ad aiutarli a schiarirsi le idee sul proprio futuro e su come funziona il mondo del lavoro. Poi, per i più grandi, arriva la vera e propria alternanza scuola-lavoro, dove i ragazzi vengono divisi tra le diverse funzioni aziendali e lavorano su progetto molto pratici, all’insegna della multimedialità. Dal 2014 ad oggi sono state coinvolte ben 866 scuole in tutto il territorio: Bosch ha incontrato oltre 173mila studenti, e attivato oltre 2mila work experience di alternanza in tutte le sue sedi sparse sul territorio italiano, dalla Lombardia alla Puglia.«Avevamo già iniziato a fare alternanza scuola-lavoro ancora prima che venisse resa obbligatoria dalla riforma del governo, anche se i percorsi non erano così strutturati come ora. Siamo sempre stati in contatto con scuole e istituzioni, abbiamo sempre avuto tanti ragazzi in “tirocinio”, e crediamo che gli studenti siano il nostro futuro» racconta alla Repubblica degli Stagisti Erika Colomba, HR Business partner di Bosch, in azienda dal 2012. Già tra il 2014 e il 2015, prosegue Colomba, Bosch aveva raggiunto con il suo programma duecento scuole e attivato 180 percorsi di alternanza. L’anno successivo i numeri sono raddoppiati, fino ad arrivare alle 340 scuole e ben 1.600 percorsi di alternanza attivati soltanto l’anno scorso. La ragione dietro a questi importanti numeri è che, oltre ad essere un’azienda molto grande, Bosch è sempre stata molto attiva nel contattare le scuole - che cambiano di anno in anno - per dare ai ragazzi delle occasioni concrete di formazione e mandare avanti il progetto. I percorsi si svolgono normalmente in una decina di tranche durante l’anno, da marzo a novembre. A seconda dell’età degli studenti, nella prima fase di orientamento Bosch li coinvolge con presentazioni differenziate: alle elementari l’approccio è più giocoso, mentre alle medie è pensato per orientare verso il liceo; alle superiori e all’università, invece, l’intento è di dare una panoramica delle competenze essenziali nel mondo del lavoro, ma anche delle possibilità e dei vantaggi del continuare a studiare. «Ai ragazzi diamo un’idea di quello che succederà nella loro vita: in media questi ragazzi arriveranno a svolgere più di dieci mansioni nel loro percorso lavorativo» racconta ancora Colomba. «Li aiutiamo a ragionare sull’innovazione e sull’importanza delle soft skills, che rappresentano un plus e aiutano ad affrontare il mondo lavorativo con maggiore consapevolezza». A questo punto, poi, si inserisce la testimonianza dello sportivo, che solitamente «ha molto successo fra i ragazzi». Tra i tanti nomi dello sport che Bosch ha coinvolto in questi anni nelle sue visite scolastiche ci sono Maurizia Cacciatori, pallavolista, Igor Cassina, ginnasta, la runner Ivana Di Martino, la tennista Mara Santangelo e il ciclista Claudio Chiappucci, solo per citarne alcuni. Tante eccellenze da tutti gli sport, insomma, per ispirare i ragazzi e renderli più consapevoli del fatto che, per avere successo nella vita e nel lavoro, dovranno impegnarsi molto e, a volte, anche fare dei sacrifici. Per quanto riguarda strettamente l’alternanza scuola-lavoro, invece, il modello bi-settimanale in azienda prevede la partecipazione dei ragazzi a dei corsi di formazione offerti da Randstad, che ruotano su aspetti come la redazione del proprio cv, la preparazione ad un colloquio di lavoro e l’identificazione dei propri punti forti, mentre sempre sull’onda della metafora sportiva, ai ragazzi di Milano viene offerto di andare in visita a Casa Milan per visitare il museo e incontrare un’altra realtà aziendale. Durante le due settimane i ragazzi lavorano su un progetto multimediale, che prevede attività come alcune interviste doppie tra due rappresentanti dell’azienda, con domande sul loro percorso di studi e in Bosch, e la raccolta di fotografie e brevi filmati volti a rappresentare il percorso degli studenti in azienda. La seconda settimana invece vengono inseriti, a seconda della loro scelta, nei vari reparti aziendali (il format di Bosch prevede infatti un sistema di job posting in cui sono i ragazzi stessi a decidere in quale settore andare a fare alternanza). In più, alla fine delle due settimane gli studenti raccontano con delle slide di presentazione in una sessione plenaria ciò che hanno fatto e cosa hanno imparato. Un lavoro intenso, di cui però i ragazzi risultano entusiasti: «All’inizio arrivano svogliati, ma dopo due settimane non vogliono più andare via, perché mettono le mani in pasta» precisa Colomba. «Hanno tanta voglia di vedere e questo rappresenta una bella ventata di freschezza anche per noi». Il feedback positivo è confermato anche dai questionari che vengono consegnati alla fine del percorso, volti a valutare l’esperienza sia dal punto di vista dell’organizzazione che da quello dei contenuti. Che cosa si portano a casa una volta concluso il percorso? Soprattutto, osserva Colomba, imparano come muoversi in azienda: «due settimane sono un po’ troppo brevi per acquisire la tecnica del lavoro, ma l’esperienza è una bella palestra, perché all’inizio non sanno come comportarsi, mentre invece diamo loro delle regole. Non è scontato infatti dare del lei a tutte le persone, o capire come si gestiscono certe situazioni». Dietro a tutto questo, un team dedicato di cinque addetti HR di Bosch coordina e organizza tra novembre e febbraio le attività per i ragazzi. E’ un lavoro impegnativo ma, fortunatamente, privo di grossi ostacoli: fatta eccezione per le questioni burocratiche, risolvibili con le liberatorie che vengono fatte firmare ai genitori dei ragazzi per qualsiasi aspetto dell’alternanza, non ci sono mai grossi problemi. E anche dal punto di vista delle differenze di provenienza dei ragazzi, il percorso è studiato per essere adatto sia per gli studenti di istituti tecnici e professionali, sia per i liceali, con piccoli accorgimenti a seconda dei ruoli che andranno a ricoprire nell’azienda. L’alternanza, insomma, per Bosch è una pratica positiva, adatta agli studenti di qualsiasi scuola superiore, dai licei agli istituti tecnici alle scuole professionali, e costituisce un importante step per aiutarli ad orientarsi meglio nel mondo del lavoro, aumentando la loro occupabilità futura. E sicuramente costituisce una vera e propria “mission sociale” per quelle aziende che decidono di aprire le proprie porte ai ragazzi. «Forse si potrebbe ipotizzare un incentivo economico per le realtà più piccole, per aiutarle a promuovere questi percorsi, ma non credo sia quello il cuore dell’alternanza», riflette Colomba. Per il momento, Bosch prosegue con i suoi percorsi, e quest’anno punta ad attivare ben 1.800 percorsi di alternanza su tutto il territorio italiano. Non solo. In pentola bolle anche un ulteriore progetto per il 2018, che stavolta Bosch ha pensato per una delle categorie di giovani più fragili attualmente – quella dei Neet. Il programma #Neet andiamo a vincere offrirà a dieci giovani tra i 20 e i 29 anni, disoccupati da almeno un anno, uno stage extracurriculare di sei mesi in una delle aziende partner del progetto. Due i pilastri fondamentali: l’accrescimento della motivazione e autostima dei ragazzi e la trasmissione di buone pratiche sotto il profilo della salute e del benessere, fondamentali per avere l’approccio migliore verso il lavoro e per trarne la giusta soddisfazione. In particolare, i giovani si misureranno su dodici life skill trasversali e saranno seguiti da quattro “campioni di vita”: un campione sportivo, un esperto di salute e benessere, un mentor aziendale e un imprenditore di startup, con cui si confronteranno settimanalmente, facendosi aiutare nelle loro sfide giornaliere. «Il nostro KPI [Key Performance Indicator, l'indice che misura la performance di un processo aziendale, ndr] è di fare in modo che i ragazzi tornino ad essere attivi nel mondo del lavoro, ricercandolo attivamente» conclude Colomba. «Come misurarlo? Entro i sei mesi successivi i ragazzi dovranno aver trovato lavoro: sarà questo l’indicatore chiave del successo del progetto». Le selezioni sono attive già adesso su JustKnock: per partecipare al progetto pilota, che partirà a maggio, basta andare sul sito e candidarsi.Irene Dominioni

Abruzzo, entra in vigore la nuova normativa sui tirocini: pochi i cambiamenti

Il 29 marzo scorso sono entrate in vigore le nuove “Linee guida per l’attuazione dei tirocini extracurriculari nella regione Abruzzo”, approvate dalla Giunta regionale con il Dgr n. 112 del 22 febbraio 2018. Così, a quattro mesi dalla deadline fissata, anche l’Abruzzo ha recepito le “Linee guida in materia di tirocini formativi e di orientamento” contenute nell’accordo adottato dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano il 25 maggio 2017. Ma cosa cambia per gli aspiranti tirocinanti abruzzesi? Vi sono alcune novità rispetto all’ultimo aggiornamento delle linee guida (risalente al settembre 2015), ma nessuna di grande rilievo. Si parte col superamento della suddivisione dei tirocini in tre tipologie: tirocini formativi e di orientamento; tirocini di inserimento e/o reinserimento al lavoro; tirocini di orientamento, formazione e inserimento/reinserimento finalizzati all’inclusione sociale, all’autonomia delle persone e alla riabilitazione. Con la nuova normativa i tirocini si distinguono infatti in base ai soggetti destinatari: disoccupati, Neet, beneficiari di strumenti di sostegno al reddito, lavoratori a rischio disoccupazione e soggetti disabili o svantaggiati. «Reputiamo positiva la modifica sulla compatibilità tra tirocinio e strumenti di sostegno al reddito, precedentemente non consentita», commenta Rita Innocenzi, componente della segreteria regionale Cgil Abruzzo con delega alle politiche del lavoro.Il tetto massimo per la durata dei tirocini è fissato a 12 mesi, 24 per le persone con disabilità, in linea con la normativa nazionale. Ma, a differenza di quest’ultima, fanno eccezione i tirocini di istruzione e formazione professionale, di istruzione secondaria di secondo grado, master e dottorato, per i quali è stabilito il tetto massimo di 6 mesi. Il limite minimo di durata resta di due mesi, ad eccezione dei tirocini presso soggetti ospitanti che svolgono la propria attività in cicli stagionali, che possono durare anche un solo mese. Il tetto scende a 14 giorni, infine, per i tirocini rivolti a studenti, promossi dai centri per l’impiego e svolti durante il periodo estivo.  L’entità del rimborso rimane invariata rispetto alla normativa regionale precedente: ogni tirocinante dovrà percepire un minimo di 600 euro mensili, tetto che scende a 450 nel caso in cui l’interessato percepisca "altre forme di aiuto/sostentamento". Al pari di altre regioni, anche l’Abruzzo si discosta quindi dalle linee guida nazionali, che avevano stabilito la cifra minima di 300 euro al mese. Un’altra novità è l’estensione della platea dei potenziali tirocinanti: possono attualmente svolgere un tirocinio extracurriculare non solo i disoccupati ma anche i lavoratori a rischio di disoccupazione e i soggetti già occupati che siano in cerca di altra occupazione, categorie non incluse nella precedente normativa regionale. Novità rispetto al 2013 anche sui limiti numerici dei tirocini attivabili per le aziende. In adeguamento alla normativa nazionale, il numero massimo di tirocinanti per ogni azienda verrà calcolato tenendo conto non solo dei contratti a tempo indeterminato ma anche di quelli a tempo determinato attivi al momento della richiesta. I numeri restano gli stessi: un tirocinante per le aziende che hanno fino a cinque dipendenti, due per le aziende tra i sei e i venti dipendenti, non oltre il 10% dei lavoratori assunti per le aziende con ventuno o più dipendenti. Inoltre per le aziende che hanno più di venti dipendenti a tempo indeterminato, oltre che alla quota di contingentamento, l’attivazione di nuovi tirocini è vincolata alla stipula di un contratto di lavoro subordinato della durata di almeno sei mesi entro 120 giorni da termine del tirocinio. Nel 2017 la regione Abruzzo - la cui popolazione conta poco di 200mila giovani tra i 15 e i 29 anni - ha registrato 7.200 tirocini extracurriculari, di cui la maggior parte nelle piccole e medie imprese, che qui rappresentano il 90% del totale. Secondo l'ultimo Rapporto annuale sulle comunicazioni obbligatorie del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, i tirocini extracurriculari sono cresciuti rispetto al 2016, in cui ne erano stati attivati 5.541, ma il picco c'era stato nel 2015, con 8.077 tirocini. La Cgil Abruzzo mette in guardia sulle possibili distorsioni legate all'aumento del numero dei potenziali tirocinanti. «Abbiamo il timore che quanto scritto nelle premesse di raccomandazione, in linea con l’indirizzo dell’Unione europea, circa la vigilanza sul fatto che il tirocinio debba essere uno strumento genuino, un percorso esperienziale e formativo e non lavoro subordinato fittizio, sia disatteso dalla quotidianità italiana e regionale» spiega Innocenzi: «e che esso continui ad essere sostitutivo del lavoro subordinato, stabile e regolare, in quanto strumento con un costo di molto inferiore e senza le stesse tutele, come ferie retribuite e contributi». Il problema è che «quello che dovrebbe essere uno strumento parziale, di corredo, troppo spesso diventa la sola forma di lavoro esistente, cosa che differenzia l’Italia dagli altri paesi europei, che lo concepiscono molto diversamente».    La Cisl Abruzzo-Molise esprime soddisfazione per la nuova normativa, sempre a patto che si vigili sulla sua applicazione. «La revisione delle norme sui tirocini è un’occasione per elevarne la qualità, contrastarne gli abusi e rafforzare l’occupabilità dei giovani e delle figure svantaggiate nel mercato del lavoro» commenta Leo Malandra, segretario generale del sindacato: «La Cisl chiede che  vengano operate maggiori restrizioni e controlli nell’uso dei tirocini ed una loro più coerente finalizzazione: per questo è importante e fondamentale un’azione di monitoraggio che dovrà far conoscere punti di forza e di debolezza dei nuovi tirocini».   Insomma, le novità individuate nel testo della nuova normativa sui tirocini extracurriculari nel complesso sono percepite positivamente, ma resta ora da capire se i prossimi tirocini attivati in Abruzzo, come d'altronde nelle altre regioni, ne saranno davvero la fedele espressione.    Rossella Nocca

Laurea in lingue, ecco gli sbocchi lavorativi piu' gettonati

Un titolo che permette di viaggiare, di entrare in contatto con altre culture, di mediare tra mondi differenti: di diventare, insomma, vero cittadino del mondo. È questa la prospettiva che rende attrattiva la laurea in lingue, sempre più gettonata tra gli studenti alle prese con la scelta dell’università; se quasi dieci anni fa il numero di iscritti alle triennali linguistiche ammontava a quasi 12mila studenti, nell’ultimo anno accademico si arriva a circa 26mila, secondo l’anagrafe Miur. Un “più che raddoppio” che non può passare inosservato, nonostante i dati dell’ultimo rapporto Almalaurea attestino il settore linguistico tra quelli con il più basso tasso di occupazione e di retribuzione: a un anno dal titolo magistrale risulta occupato solo il 68% dei laureati, con uno stipendio netto mensile che non arriva a mille euro; le cose migliorano un po' a cinque anni dalla laurea, quando il tasso occupazionale tocca l’80%, sebbene la retribuzione mensile raggiunga a fatica i 1200 euro.Eppure soprattutto nel nostro Paese «la conoscenza delle lingue resta ancora limitata e una solida preparazione può risultare per questo particolarmente spendibile» riflette Leonardo Buonomo, coordinatore del corso di laurea in Lingue e letterature straniere dell’università di Trieste, al primo posto nell’ultima classifica Censis per la didattica – «un risultato lusinghiero, raggiunto grazie all’attenzione dedicata alla formazione linguistica e culturale dei nostri studenti, al lavoro sui testi in lingua originale e alla collaborazione tra docenti di lingua e letteratura», tutti parametri da controllare e tenere bene in conto al momento della scelta di un ateneo.Ma quali sono le possibilità che si aprono a un futuro studente di lingue al momento della scelta del corsodi studi? Per quanto riguarda la laurea triennale, le opzioni sono essenzialmente due, sebbene si possano riscontrare differenze da ateneo a ateneo: il corso in lingue e letterature / culture straniere, il più tradizionale, di stampo linguistico e letterario, e quello in traduzione e mediazione linguistica, che mira a formare più specificatamente traduttori e mediatori interlinguistici e interculturali. Due corsi simili ma fino a un certo punto, così come risulta anche dagli sbocchi occupazionali, che appaiono più “indeterminati” e dunque anche variegati per il primo corso di studi e più chiari per chi invece sceglie la strada della traduzione: «Un laureato in lingue e letterature straniere può trovare occupazione nell’editoria, ad esempio come redattore per lingue straniere, ma anche in enti turistici e internazionali; può inoltre lavorare nelle aziende, soprattutto negli uffici addetti all’import-export, o puntare all’insegnamento, nel qual caso sarà poi però necessario il titolo magistrale e il Fit, il vecchio tirocinio formativo attivo» spiega alla Repubblica degli Stagisti Renata Londero [nella foto a destra] , docente di lettura spagnola e membro dell’Associazione laureati in lingue dell’università di Udine. Per i laureati in traduzione e mediazione si aprono invece le porte della traduzione a 360 gradi: «possono lavorare nell’ambito della traduzione dei testi letterari o turistici, ma anche di quelli più specificatamente tecnici, come i testi economici e giuridici». Se la laurea triennale fornisce però delle buone basi, la magistrale, pur prevedendo i medesimi sbocchi occupazionali, fornisce agli studenti di entrambi i corsi di laurea competenze più specifiche, «ed è per questo che consiglio di proseguire, soprattutto agli studenti del primo corso di studi, poiché il secondo risulta già un po’ più professionalizzante». Anche per la professione di traduttore o interprete, però, la laurea magistrale è fortemente consigliata, come sottolinea Tiziano Angelo Leonardi [nella foto in basso] , presidente dell’Associazione nazionale italiana traduttori e interpreti: «Il quadro europeo delle qualifiche prevede che, per esercitare queste professioni, si abbia il titolo magistrale. Per questo resto perplesso quando alcune università dicono agli studenti che basta una triennale».Traduttore e interprete non indicano tuttavia la stessa professione e la consapevolezza di quale dei due percorsi s’intende intraprendere è fondamentale per fare delle buone scelte: «Normalmente le facoltà di lingue sono più votate alla traduttologia, quindi al codice scritto, ed è per questo che consiglio di controllare l’offerta formativa dei vari corsi di laurea su internet», così da scegliere il percorso più adatto: «Un aspirante traduttore dovrà seguire sicuramente lezioni di filologia e traduttologia ma, rispetto al collega aspirante interprete, ha la strada più spianata; dopo la laurea magistrale infatti può già iniziare a lavorare» anche se «il mio consiglio è quello di chiedere, di legarsi magari ad un’associazione come la nostra, che può aiutarlo a muovere i primi passi, anche semplicemente fornendogli delle informazioni» dice Leonardi. Per un aspirante interprete, invece, le chances occupazionali aumentano con un master post-laurea magistrale «che conviene fare all’estero».Nel settore pubblico le opportunità per interpreti e traduttori si riscontrano soprattutto nella pubblica amministrazione, di cui fanno parte organi come il ministero degli Esteri e quello dell’Interno, ma anche nelle istituzioni europee, «che bandiscono spesso concorsi in cui vengono richieste lingue poco comuni ma appartenenti al gruppo europeo, come il danese o il neo-ellenico» evidenzia Leonardi. Nel privato invece a farla da padroni sono i grandi organismi multinazionali, a cui si affiancano altre possibilità: «Una è quella del traduttore letterario, sebbene il percorso sia reso difficoltoso dal fatto che molte case editrici hanno già un loro circuito di traduttori collaudati; un’altra strada è poi quella per un traduttore di lavorare da freelance, aprendo uno studio tramite cui si pone sul mercato per un settore specifico, ad esempio come traduttore in ambito giuridico, per il quale però sono chiaramente richieste anche competenze di diritto».Ma, scelto l’ateneo e lo specifico corso di laurea, quali lingue studiare? Ogni ateneo permette infatti agli studenti di scegliere due, a volte tre, lingue da approfondire; ma se Londero suggerisce di «abbinare una lingua a maggiore diffusione con una più “di nicchia” tra quelle dell’Unione europea», Buonomo consiglia invece l'opposto, e cioè di «abbinare l’inglese a un’altra lingua a larga diffusione, come spagnolo, francese o tedesco, che rappresentano una carta importante da giocare nel mondo del lavoro». Qualora la curiosità spingesse poi a guardare verso le lingue orientali, sempre più gettonate dai giovani iscritti, è bene prendere in considerazione prima di scegliere il fatto che «per conoscerle bene è necessaria una più lunga permanenza all’estero, indispensabile per avvicinarsi a culture così lontane dalla nostra» avverte Leonardi. Fermo restando, però, che un periodo all’estero serve a tutti in questo tipo di laurea, non solo per l’apprendimento della lingua, ma anche per una vera e propria «acquisizione della forma mentis». Un fattore da non tralasciare al momento della scelta della lingua è poi senza dubbio anche il territorio in cui si opera, poiché la domanda proveniente dal mercato del lavoro varia molto anche a seconda delle attività e del turismo che caratterizzano ciascuna area: «In una regione come la nostra, ad esempio, la conoscenza di una lingua minore come lo sloveno può aprire molte porte» evidenzia Buonomo, e per fare qualche ricerca di questo tipo è sufficiente rivolgersi per esempio alla camera di commercio locale, che può dare qualche dritta.Ma, se si punta in alto, il lavoro non finisce qui: se la conoscenza di più lingue, accompagnata da un soggiorno all’estero, può essere considerata già un buon biglietto da visita, «le possibilità di trovare lavoro aumentano infatti considerevolmente se, a questi, gli studenti affiancano altre conoscenze, come l’informatica, il marketing o la capacità di muoversi con disinvoltura nel terreno dei social network», conclude Buonomo.Giada Scotto

Professioni sanitarie: occupazione in crescita, ma attenti all'indirizzo

Ci sono anche le professioni sanitarie riabilitative tra i “lavori del futuro” individuati dall’Istat. Si tratta di quelle categorie professionali che dal 2011 al 2016 hanno registrato significative variazioni in positivo dell’occupazione. In particolare, nell’ultima rilevazione AlmaLaurea il numero di laureati nelle professioni sanitarie occupati a un anno dal conseguimento del titolo di studio triennale è passato dal 63,4% (laureati nel 2014 censiti nel 2015) al 66,7% (laureati nel 2015 censiti nel 2016). Per loro la retribuzione netta mensile media è di 1.220 euro, che salgono a 1.355 per i laureati alla magistrale. «Questi numeri sono possibili anche grazie a una programmazione molto rigorosa» spiega Angelo Mastrillo, Segretario della Conferenza permanente delle classi di laurea delle professioni sanitarie e docente presso le università di Bologna e Ferrara «25mila i posti totali, di cui 15mila per gli infermieri e 10mila per le restanti professioni». Inoltre «quella delle professioni sanitarie è l’unica area che applica realmente il sistema formativo “3+2”» aggiunge «e che, in generale, dà la possibilità immediata di lavorare dopo tre anni, anche grazie a una formazione nel triennio già altamente professionalizzante. Non a caso solo il 2% dei laureati si iscrive poi al corso di laurea magistrale per diventare dirigente dei servizi». Nell'anno accademico 2016/2017 secondo l'anagrafe Miur si sono iscritti al primo anno dei corsi di laurea triennale nelle professioni sanitarie - escludendo professioni infermieristiche e ostetriche - 9.510 studenti. A primo anno dei corsi di laurea magistrale gli iscritti sono stati invece solo 1.179. A prevalere, in tutte le aree professionali, sono state le donne, con una differenza maggiore (+26,4%) - a sorpresa - nelle professioni sanitarie riabilitative, come fisioterapista, podologo e logopedista. Oltre il 60% di donne anche nelle professioni sanitarie tecniche, come tecnico audiometrista e tecnico di radiologia.Secondo l'elaborazione dei dati di federazioni e associazioni di categoria a cura di Angelo Mastrillo, in Italia gli operatori delle professioni sanitarie - escludendo gli infermieri - sono oltre 244mila. Tra questi spiccano: quasi 65mila fisioterapisti, 28mila tecnici di laboratorio e altrettanti tecnici di radiologia, circa 31mila educatori professionali, oltre 16mila tecnici prevenzione, 11mila logopedisti e quasi 8mila igienisti dentali. La situazione occupazionale è diversificata fra le 22 professioni: in cima alla lista degli occupati a un anno dalla laurea ci sono: gli igienisti dentali (87% di occupati), i logopedisti e i fisioterapisti (86%), i tecnici audioprotesisti (83%) e i podologi (78%). Mentre gli indirizzi più ambiti sono Fisioterapia (14 domande per ogni posto a bando) e Logopedia (10 domande per ogni posto). L’invecchiamento della popolazione e i maggiori sbocchi nel privato sono due delle ragioni di questo successo, destinato a confermarsi. «Le professioni che in futuro andranno per la maggiore» sostiene Mastrillo «saranno quelle per la terza età, legate agli organi sensoriali, come l’apparato acustico. visivo e masticatorio, e alla riabilitazione. In particolare, quelle che gravitano nel privato – come tecnici audioprotesisti e igienisti dentali, con il 90% di occupazione nel privato – avranno più richieste e stipendi più alti». «Il sistema di formazione per queste categorie di professionisti ha funzionato molto bene in Italia, in termini di qualità e di competenza» aggiunge Giuseppe Novelli, presidente dell’Osservatorio nazionale per le professioni sanitarie presso il Miur e rettore dell’università di Roma “Tor Vergata”: «Sono convinto che altre professionalità in futuro potranno certamente raggiungere gli stessi standard occupazionali. Penso anche alle nuove professioni da formare secondo quanto previsto dalla legge Lorenzin: osteopati e chiropratici».In basso alla classifica delle ventidue figure professionali ci sono invece: tecnici di fisiopatologia cardiocircolatoria (32%), tecnici audiometristi (34%), tecnici di laboratorio (35%), tecnici di radiologia (36%) e ostetriche (44%). Il calo più evidente riguarda i tecnici di radiologia: per loro nel 2007 l’occupazione a un anno dalla laurea era addirittura del 92%. Un crollo che ha portato molti professionisti a spostarsi all'estero, in particolare in Inghilterra, dove la categoria è molto richiesta e ben retribuita. «Sono stati compiuti degli errori di valutazione, e c’è stato un esubero dei posti messi a bando: fino a dieci anni fa erano 1.500, oggi sono stati ridotti a 750» aggiunge Mastrillo: «Non è facile fare una stima dei fabbisogni, perché in alcuni casi mancano dati certi per poter stabilire il turn over». L'ultima indagine AlmaLaurea conferma che ad oggi è il settore privato a trainare l'occupazione nelle professioni sanitarie. In particolare, a un anno dalla triennale lavora nel privato l'88,7% dei laureati nelle professioni sanitarie tecniche, il 78,5% dei laureati nelle professioni della prevenzione (tecnico della prevenzione nell'ambiente e nei luoghi di lavoro e assistente sanitario) e il 75% dei laureati nelle professioni sanitarie riabilitative. Per queste ultime risulta particolarmente significativo il dato sul lavoro autonomo (46,3%), molto comune soprattutto tra i fisioterapisti. Esercita la libera professione anche il 35,5% degli occupati nelle professioni sanitarie tecniche, tra cui spiccano igienista dentale e dietista. Un miglioramento nella previsione della domanda si avrà forse per effetto dell’introduzione degli ordini professionali (Legge Lorenzin): i primi tre ad essere stati istituiti sono gli Ordini degli infermieri, delle ostetriche e dei tecnici di radiologia, figure che già disponevano di un albo e saranno più facilmente censite. A queste si aggiungeranno gradualmente tutte le altre professioni. «Considero in maniera molto positiva l’istituzione degli ordini professionali» commenta Novelli «in quanto ne apprezzo l’importanza nella promozione, organizzazione e valutazione delle attività formative e nell’aggiornamento continuo dei professionisti. E sarebbe auspicabile prevederne un ruolo più rilevante in materia di accreditamento dei professionisti, anche al fine dello sviluppo dell’ampliamento delle competenze che si stanno delineando».Insomma, quello delle professioni sanitarie sembra destinato a confermarsi ancora a lungo uno dei settori con maggiori sbocchi occupazionali, soprattutto per quelle categorie che hanno la possibilità di lavorare privatamente, sia in qualità di dipendenti dei centri specializzati che nella libera professione.  Rossella Nocca

Tornano le “Botteghe di mestiere” in Abruzzo, 170 tirocini a 600 euro al mese: candidature fino al 16 aprile

Sembrava un’esperienza ormai conclusa, e invece le “botteghe di mestiere” sono tornate, anche se in formato ridotto. A due anni dal bando per il progetto nazionale “Botteghe di mestiere e dell’innovazione”, la Regione Abruzzo ha infatti deciso di raccogliere la sua eredità attraverso un progetto regionale, attivato nell’ambito del Programma operativo del Fondo sociale europeo 2014-2020, con lo stanziamento di un milione di euro.  170 tirocini da sei mesi presso aziende o laboratori artigianali appartenenti a vari settori produttivi, con un rimborso mensile di 600 euro al mese, di cui 500 messi dalla Regione e 100 dall’azienda ospitante. L’obiettivo, come si legge nel bando, è quello di «apprendere i segreti per diventare un nuovo artista del made in Italy». I requisiti per presentare la domanda – che scade lunedì 16 aprile 2018 alle ore 14, per effetto di una proroga rispetto alla scadenza iniziale del 5 aprile – sono: essere cittadini italiani, europei o extracomunitari con regolare permesso di soggiorno; avere tra i 18 e i 35 anni non compiuti; essere disoccupati o inoccupati alla data di attivazione del tirocinio e durante il suo svolgimento. Ci si può candidare direttamente dal sito internet, selezionando la bottega di proprio interesse e compilando l’apposito form. Per “bottega di mestiere” si intende un raggruppamento composto da un soggetto promotore e da una o più aziende. Le botteghe presenti nel bando sono nove e appartengono alle seguenti categorie: enogastronomia, agroalimentare, ristorazione, grande distribuzione, artigianato artistico, automotive e industria del mobile. Le figure richieste sono le più svariate: cuochi, baristi, macellai, panettieri, meccanici, operai, orafi etc. Ogni bottega prevede l’inserimento massimo di dieci tirocinanti. Il bando nazionale delle Botteghe di mestiere e dell’innovazione (2016) – precedentemente Programma Amva (Apprendistato e mestieri a vocazione artigianale) –  aveva registrato oltre 8mila candidature di aspiranti tirocinanti (di cui 6.763 idonee), e l’attivazione di 1.784 tirocini in 181 botteghe, coinvolgendo 1.246 aziende e 115 soggetti promotori. I tirocinanti erano in prevalenza uomini (58% contro 42%) di età compresa fra i 18 e i 25 anni (53%). Per la maggior parte, a livello di titolo di studio, avevano un "diploma di istruzione secondaria che permette l'accesso all'università", seguito dalla "licenza media". Questi i settori di maggiore interesse: filiera e settore agroalimentare/enogastronomia/ristorazione, grande distribuzione organizzata e meccanico. Puglia, Marche, Calabria, Sicilia e Campania le regioni con più progetti finanziati. Solo dieci le botteghe di mestiere finanziate e attivate in Abruzzo. Ma come mai proprio qui è maturata l’idea di ripetere l’esperienza? «Nell’edizione nazionale del progetto diciassette botteghe abruzzesi erano state ammesse a graduatoria ma non finanziate» spiega alla Repubblica degli Stagisti Vincenzo Pallini, funzionario dell’ufficio Gestione Formazione FSE della Regione Abruzzo: «Da qui è nata la decisione di investire sul piano regionale, considerato che i settori coinvolti erano quelli trainanti dell’economia abruzzese». Le botteghe da diciassette sono diventate nove: «Dopo due anni alcune aziende sono venute meno, altre ancora oggi ci chiedono di entrare, ne terremo conto qualora il progetto si dovesse ripetere. Il primo giorno di pubblicazione del bando abbiamo avuto ben 11mila visualizzazioni e ciò ci fa ben sperare sulla partecipazione», aggiunge Pallini.Ma come mai invece il progetto nazionale non è mai ripartito? «Oggi ci limitiamo a fornire supporto tecnicoal progetto regionale in quanto la nostra è diventata una società per azioni di proprietà dell’Anpal» spiega alla Repubblica degli Stagisti Alessandro Vaccari, responsabile dell'ufficio stampa di Italia Lavoro: «La sua mission è molto cambiata e non opera più per progetti, alla luce del fatto che dopo il Referendum le competenze in materia di lavoro e formazione sono rientrate a pieno titolo in mano alle regioni». In particolare «oggi la società è costituita da tre divisioni: un’area knowledge, di conoscenza, comunicazione e formazione per gli operatori; un’area servizi al lavoro, che gestisce tutto l’indotto che riguarda la ricerca del lavoro e il collocamento, nonché il reintegro dei lavoratori e le crisi aziendali; e un’area transizioni, che si occupa dell’alternanza scuola lavoro e dei tutor, e di tutto quello che unisce il mondo della formazione al mercato del lavoro».Vaccari ci tiene a precisare che l'archiviazione del progetto nazionale non è quindi dovuta a un fallimento degli sbocchi occupazionali post tirocinio, anche perché «il progetto Botteghe di Mestiere non aveva come finalità l'occupazione, ma era viceversa orientato verso il campo esperienziale, della conoscenza e delle soft skills». Anche se permangono i dubbi sulla necessità di sei mesi di tirocinio per apprendere alcuni mestieri, come ad esempio quello del barista, se non finalizzati a un inserimento. In virtù del mancato orientamento all'assunzione, il progetto non prevedeva un feedback occupazionale da parte delle aziende e/o degli ex tirocinanti. Per questo i dati che si hanno a disposizione sono stati raccolti su base volontaria e sono molto parziali. In particolare, il feedback riguarda solo 393 dei 1.784 tirocini attivati, cioè il 22%, e si limita ai soggetti che hanno trovato un lavoro. La percentuale più alta riguarda coloro che sono stati assunti con un contratto a tempo determinato (32% dei 393), di cui l'81% dalla stessa azienda. Al secondo e al terzo posto l'apprendistato professionalizzante e altre esperienze di tirocinio. 28 i fortunati ex tirocinanti che hanno ottenuto un contratto a tempo indeterminato dall'azienda ospitante (7% dei 393).   La prosecuzione del progetto resta oggi demandata alle regioni. «L’Abruzzo ha giudicato molto positiva l’esperienza delle Botteghe di mestiere: rinnovandola, ha dimostrato ancora una volta che è una Regione molto attiva e che dopo il terremoto sta recuperando sul piano imprenditoriale» conclude Vaccari. Rossella Nocca

Aspiranti psicologi, ecco le specialistiche che danno più chance di trovare lavoro

Un paziente sdraiato sul lettino a raccontare le proprie inquietudini e un esperto seduto accanto a lui per ascoltarlo e aiutarlo. È così che, complici le tante scene dei film, il mestiere dello psicologo - da non confondere con quello dello psichiatra, che viene invece da una laurea in medicina! - figura da sempre nell’immaginario comune. Eppure questa professione sembra vivere oggi una fase di profonda trasformazione, che porta lo psicologo al centro di ambiti lavorativi nuovi e differenziati, fornendogli così anche nuovi sbocchi occupazionali, quanto mai necessari in una fase in cui la figura stereotipata di “terapeuta di un disagio” sembra trovare poco spazio. Secondo i dati dell’ultimo rapporto Almalaurea, infatti, il tasso di occupazione per i laureati in psicologia a un anno dal titolo si aggira intorno al 45%, per salire poi al 79% a cinque anni dal conseguimento del titolo. Anche per quanto riguarda la retribuzione le prospettive non sono delle più rosee, piazzandosi questa all’ultimo posto sia a uno che a cinque anni: si parla infatti rispettivamente di 727 e 1.011 euro al mese.È forse proprio per queste difficoltà che il numero di iscritti alle facoltà di psicologia risulta ormai da qualche anno in calo: dieci anni fa (anno accademico 2008/2009) gli iscritti erano oltre 47mila, nell'anno accademico 2015/2016 poco più di 40mila, con una diminuzione del 15%. L’andamento negativo si riscontra però solo nella laurea triennale, convertendosi invece in una linea lievemente crescente per gli iscritti alla laurea magistrale, passati da 18mila a oltre 20mila. Se gli aspiranti psicologi sono molti mentre le opportunità scarseggiano, insomma, è bene infatti rinforzare il proprio curriculum formativo per cercare così di accaparrarsene una. La tendenza a proseguire negli studi dopo la laurea di primo livello risulta evidente anche dai dati provenienti dall’Ordine degli Psicologi, secondo cui la quasi totalità dei circa 105mila iscritti risulta registrata nella sezione A dell’albo, riservata a coloro che hanno nel proprio cv non soltanto la laurea triennale ma anche quella magistrale, più un anno di tirocinio e il superamento dell’esame di Stato per l’abilitazione professionale. Solo poche centinaia sono invece iscritti alla sezione B, che prevede diverse limitazioni alla prassi professionale e a cui si può accedere con la sola laurea triennale, accompagnata da tirocinio semestrale e debito esame di stato. Dei 105mila iscritti all'albo, tuttavia, solo 60mila svolgono effettivamente la professione di psicologo, secondo i dati Enpap: che ci sia dunque una difficoltà ad inserirsi attivamente nel mercato del lavoro è evidente. Ma ci sono specialistiche che, alla prova dei fatti, danno qualche chances occupazionale in più? «In linea di massima le opzioni di scelta per il biennio di specialistica si dividono tra clinica, area dello sviluppo e lavoro/marketing, e chi si laurea in psicologia del lavoro, del marketing o delle organizzazioni ha una strada più facile da percorrere in termini di chances occupazionali» risponde alla Repubblica degli Stagisti Cecilia Pecchioli, presidente dell’associazione Giovani psicologi della Lombardia. Questo perché «per esercitare come psicologo del lavoro non è necessaria l’abilitazione professionale, quindi non si deve fare l’esame di stato né iscriversi all’ordine degli psicologi, e, cosa più importante, ci si scontra subito con una ricca domanda». Il mondo aziendale infatti, sia per obblighi legislativi e fiscali che per evoluzione sociale, richiede sempre più la figura dello psicologo per quanto riguarda l’ambito della selezione del personale, il potenziamento delle risorse, il mondo del welfare aziendale. «Con una laurea in psicologia del lavoro si può già iniziare a lavorare, perché non sono richieste grandi specializzazioni. Un titolo in più può sempre aumentare le possibilità di assunzione, ma parliamo di corsi e/o master che impegnano uno/due anni, non di più. Anche l’esperienza pratica è più facile da realizzare, in quanto non ci si deve scontrare con il diritto alla privacy di un paziente che deve parlare dei suoi problemi», spiega Pecchioli. Diverso è invece il destino di coloro che decidono di intraprendere la strada della psicologia clinica, dove è innanzitutto obbligatoria l’abilitazione professionale, e bisogna quindi considerare di spendere almeno altri due anni tra tirocinio post lauream ed esame di stato. «Dopodiché la strada è tutta in salita. Non si possono fare affiancamenti presso studi privati per una questione sia deontologica che di privacy del paziente. E la semplice laurea non è sufficiente per farsi spazio nel mondo del lavoro». Per questo è necessario specializzarsi in qualche ambito: «la maggior parte intraprende la specializzazione in psicoterapia. Altri prendono strade diverse, nel mondo della scuola o nell’area giuridica». Strade differenti ma tutte ugualmente lunghe e impegnative, che richiedono molte ore di pratica. Se c’è però tra queste un ramo che offre maggiori chances è quello scolastico, che «negli ultimi anni ha avuto un’impennata», osserva Pecchioli. Il problema della saturazione del mercato però resta, perché «siamo tanti, forse troppi», tanto che l’Ordine nazionale è arrivato tempo fa a proporre addirittura la chiusura di alcune facoltà o perlomeno un irrigidimento delle prove d’accesso al corso di studi. «Il bisogno di psicologi c’è, lo si vede quotidianamente, ma la società fa ancora fatica a riconoscere la psicologia come qualcosa di necessario. Credo però che la nostra categoria stia vivendo anche un’importante fase di cambiamento»: da poco la psicologia è stata riconosciuta come professione sanitaria e le prestazioni psicologiche sono entrate a far parte dei “Livelli essenziali di assistenza” (Lea); «Fino a pochi mesi fa non eravamo contemplati se non come un surplus nel settore pubblico, tanto che il numero di psicologi presenti nel sistema sanitario nazionale era, ed è, decisamente esiguo, e inquadrato in modo decisamente precario, con contratti a progetto o collaborazioni a partita iva. L’impostazione è ancora prettamente medica, ma crediamo che queste novità legislative siano la premessa per una grande cambiamento».Al momento, però, il settore pubblico sembra pressoché impenetrabile per uno psicologo: «il numero di psicologi stabilmente assunti nel sistema sanitario nazionale permane ormai da molti anni intorno alle 6mila unità» conferma Luigi Castelli, presidente della Scuola di psicologia di Padova, al primo posto nell’ultima classifica della didattica Censis. Per questo i principali posizionamenti professionali risultano attualmente nell’ambito privato ma anche nel terzo settore, in particolare nell’ambito clinico e educativo (cooperative, comunità, rsa ecc.): «Il modello professionale dello psicologo si è modificato significativamente negli ultimi decenni: rispetto al classico stereotipo di psicologo-psicoterapeuta che riceve pazienti nel suo studio individuale i ruoli professionali sono evoluti: nel terzo settore, il “privato sociale”, trovano lavoro molti laureati in psicologia, soprattutto nelle fasi iniziali della carriera». Se la differenza tra opportunità nel privato e nel pubblico si fa sentire, la stessa cosa sembra riscontrarsi anche tra le chances occupazionali in Nord e Sud Italia. Le regioni del Nord continuano infatti ad essere considerate quelle più ricche di opportunità, ma ciò non fa che produrre una saturazione del mercato in quelle zone – con conseguente disoccupazione di coloro che vi hanno riposto le proprie speranze – e l’andare deserti di concorsi pubblici al Sud, che falliscono poiché non ci sono iscritti. «Molti colleghi si trasferiscono a Milano, Padova, Pavia e Roma perché qui ci sono le facoltà più “forti”, dopodiché restano qui, pensando che in una metropoli come Milano ci sia maggiore possibilità di trovare un lavoro» spiega Pecchioli: «Ma in realtà è un paradosso, se pensiamo che la Lombardia ha circa 19mila psicologi, di cui più della metà sono collocati nel capoluogo. Il Sud Italia è oggettivamente un terreno più fertile».Ma cosa serve per mettere a frutto una laurea in Psicologia? Secondo Castelli innanzitutto «una forte proattività, ma anche buone competenze progettuali da adattare continuativamente e una solidissima formazione teorico-metodologica di base in ambiti applicativi anche molto diversi» perché «l’evoluzione dei bisogni sociali è rapida e richiede professionisti in grado di anticipare e rispondere adattativamente ai loro continui cambiamenti».Giada Scotto

Ragazze che guardano le stelle, la passione per astronomia e astrofisica porta lontano

Osservare e venire a capo dei fenomeni che muovono le stelle. È l’affascinante compito dell’astronomia, una delle scienze più antiche. Alla fine dell’800 ad essa si è affiancata l’astrofisica, studio rivolto ad applicare le leggi della fisica alla comprensione e all’analisi della struttura delle stelle. Oggi tuttavia la distinzione fra astronomia e astrofisica è diventata molto meno netta. Basti pensare che in Italia la facoltà di Astronomia esiste solo in due università (Padova e Bologna), quindi la prevalenza dei cosiddetti “astronomi” viene da un corso di laurea in Astrofisica, specializzazione della facoltà di Fisica.Un percorso, quello “tra le stelle”, che affascina sempre più giovani, anche sulla scia della tradizione positiva che il nostro Paese si sta costruendo. C’è un’astronoma italiana nella lista dei dieci scienziati più influenti del 2017 stilata dalla rivista Nature. Si chiama Marica Branchesi, ha 40 anni e ha ricevuto il prestigioso riconoscimento in virtù del suo contributo alla ricerca sulle onde gravitazionali. Ed è proprio l’astronomia uno dei campi che sembrano destinati a contribuire in maniera più rilevante al superamento del gap di genere negli studi e nelle carriere in ambito Stem (Science, Technology, Engineering and Mathematics). «L’Italia, oltre a essere una delle dieci nazioni più produttive nell’International Astronomical Union» spiega alla Repubblica degli Stagisti Angela Iovino, ricercatrice presso l’Inaf-OA Brera (Istituto nazionale di astrofisica-Osservatorio astronomico di Brera) nel campo dell’astronomia extragalattica «è anche tra le prime per presenza femminile, con il 27%». Tra le ragioni, ci sono sicuramente gli illustri precedenti di donne italiane “tra le stelle”: «Sappiamo quanto sono importanti i role model: Margherita Hack ha ispirato molte donne e spero che allo stesso modo Samantha Cristoforetti ispirerà le ragazzine di oggi», auspica la ricercatrice.Angela Iovino all’astronomia ci è arrivata “per vie traverse”, ma neanche così tanto. «Dopo il liceo scientifico ho optato per lo studio della filosofia. La vedevo come qualcosa che non mi rinchiudesse nello stereotipo della professoressa di matematica, come avrebbero voluto i miei genitori», racconta. Poi aggiunge: «La filosofia comprende tanti aspetti diversi, tra i quali l’epistemologia e la logica matematica, così mi sono ritagliata un percorso che mi ha condotto verso i miei interessi. E una volta laureata, nell’attesa di rientrare nelle graduatorie dell’insegnamento, sono ritornata sui miei passi e mi sono iscritta alla facoltà di Astronomia dell'università di Padova. Ringrazio i miei genitori che mi hanno detto “Provaci”».Stessa università ma percorso un po' diverso quello di Valentina D’Odorico, ricercatrice presso l’Osservatorio di Trieste. «Ho studiato fisica a Padova: inizialmente non sono partita con la passione per l’astrofisica, tuttavia anche mio padre è astronomo ed era un argomento che conoscevo». Il suo lavoro consiste nell’analizzare i dati grezzi ottenuti dai telescopi europei e ricavarne dati fisici astronomici sulla formazione delle prime galassie, sulle caratteristiche delle prime stelle etc. «Lo amo perché è un lavoro affascinante e che dà molta libertà di pensiero, di sviluppare le proprie idee».Certo non sono mancati gli ostacoli. «I momenti di maggiore difficoltà ci sono stati nel 2004 quando ho avuto la prima figlia» racconta «e avevo un assegno di ricerca, che mi è stato interrotto per i cinque mesi obbligatori di astensione dal lavoro. Dopo sono tornata al lavoro e, non essendo mio marito ed io originari di Trieste ed essendo quindi le nostre famiglie lontane, ho dovuto assumere una babysitter fissa». Con la seconda figlia la situazione è stata differente: «È nata quando avevo un contratto a tempo indeterminato, quindi in questo caso avrei avuto diritto alla maternità, però sono comunque tornata al lavoro dopo l'astensione obbligatoria di tre mesi e ha preso il congedo di paternità mio marito, che in quel momento lavorava a Bologna e così ha avuto la possibilità di rimanere a casa. Io ho ottenuto l'orario ridotto per allattamento - un'ora in meno al giorno - per il primo anno. Nel nostro lavoro non esiste il part-time, o comunque nessuno lo prende, tuttavia adesso è possibile chiedere di lavorare da casa per qualche giorno alla settimana e a breve dovrebbero attivare anche lo smart work».Ma come si fa a bilanciare la presenza di uomini e donne nei luoghi dove si fa ricerca scientifica? L’Inaf per esempio ha un Comitato unico di garanzia (Cug), che ha il compito di spronare l’Istituto affinché promuova l’equilibrio di genere e il trattamento rispettoso di tutti coloro che lavorano all’interno dell’ente. L’organo ha diffuso qualche mese fa  i risultati di un monitoraggio dei dipendenti Inaf, dal quale risulta che le donne rappresentano il 35% fra personale di ricerca, personale tecnico e personale amministrativo. Isolando il personale di ricerca, si nota che nel percorso di carriera le donne si perdono, infatti si passa dal 37% del III° livello al 17% del I° livello. Ed estendendo l'osservazione all'ambito universitario nazionale, il “soffitto di cristallo” si conferma: sono donne il 33,3% degli assegnisti di ricerca in Astrofisica e Astronomia, il 25,6% dei ricercatori, il 20,3% degli associati e soltanto il 10,6% dei professori.«Lo stillicidio che fa sì che le giovani donne vadano perse nel percorso verso livelli apicali» afferma Iovino, che presiede il Cug «è dovuto da un lato ai pregiudizi ma dall’altro a situazioni oggettive di difficoltà, come la cura parentale e genitoriale. Per questo bisognerebbe favorire le donne con misure sociali, come asili nido, flessibilità lavorativa  e altre forme di supporto alla conciliazione tra vita privata e lavoro. A maggior ragione in un campo come quello della ricerca dove i tempi di accesso a lavori a tempo indeterminato sono così lunghi». Le fa eco Valentina D’Odorico: « Dal punto di vista della carriera, faccio più fatica rispetto a mio marito ad andar via per lunghi periodi, cosa che diventare responsabile di progetti grossi comporterebbe. Anche per questo nei progetti tecnologici le donne sono poche e non occupano posizioni di responsabilità. E, quando si tratta di decidere i relatori dei convegni, è difficile trovare donne all’altezza, perché molte abbandonano dopo il dottorato - e questo non solo in Italia». Iovino non disdegna le quote di genere come soluzione transitoria: «Ho apprezzato molto la legge Golfo-Mosca, visto quanto sono difficili e piccoli i passi dei molti cambiamenti da fare». Ma le difficoltà non devono dissuadere le ragazze che hanno sviluppato una passione per l’astronomia dallo scegliere questo settore. «Penso che sia un momento d’oro per la ricerca astronomica» assicura Angela Iovino: «Ci sono tante domande a cui ancora c’è da rispondere: è un ambito che può offrire grandi soddisfazioni e stimoli intellettuali. In più oggi non si lavora più nell’isolamento del proprio ufficio, ma le collaborazioni sono tipicamente internazionali e girare il mondo facendo quello che ci piace è impagabile». Tra i punti di forza di questo settore c’è proprio la dimensione internazionale, che rende il lavoro dell’astronomo molto spendibile oltre nazione: «Tutte le pubblicazioni e le presentazioni a congressi internazionali sono in lingua inglese e comunque si collabora giornalmente con colleghi stranieri, con cui si comunica generalmente in inglese». Tra gli sbocchi internazionali ci sono i centri di ricerca in Europa, primo fra tutti l'Eso, l'ente europeo che gestisce i telescopi europei costruiti in Cile, la cui sede europea è a Monaco di Baviera. Poi nel Regno Unito ci sono grossi istituti di Astrofisica a Cambridge e a Durham, in Germania, molti istituti Max Planck, così come in Olanda, Francia, Spagna, Danimarca. Numerosi italiani lavorano anche in centri di ricerca negli Stati Uniti e in Cile, dove l'astronomia si sta molto sviluppando perché la maggior parte dei telescopi più importanti del mondo si trova lì e gli astronomi cileni hanno diritto a una quota di tempo di osservazione riservata del 10%.Riguardo le prospettive del settore, tra gli scenari più interessanti ci sono quelli che riguardano gli “attrezzi del mestiere”, destinati a rivoluzionare la ricerca. «Io faccio parte di un gruppo di lavoro internazionale che, insieme agli ingegneri, si occupa dello sviluppo di strumentazioni di nuova generazione, che saranno operative tra il 2020 e il 2030», racconta D’Odorico. Che aggiunge: «Ci sono tante nuove competenze necessarie: ad esempio stiamo andando verso una fase di big data, quindi occorrono persone che sappiano anche come trattare grandi quantità di dati. Proprio le aziende specializzate nel trattamento dei dati e in informatica/statistica sono tra i possibili altri sbocchi degli astronomi, anche se in Italia è  abbastanza difficile essere assorbiti dall'industria con questo tipo di laurea». «Conosco giovani che avevano lavorato sul data mining in astrofisica e si son spostati in banche o aziende che fanno data mining in altri ambiti» aggiunge Angela Iovino: «Lo stesso per coloro che lavorano applicando ad esempio algoritmi di intelligenza artificiale alle immagini astronomiche. I laureati in Astrofisica sono spesso ricercati anche per le loro capacità di problem solving, programmazione e lavoro con codici complessi, ad esempio da ditte che producono software».Oggi l’Italia, come comunità astrofisica, è ben inserita nel contesto internazionale dei grandi progetti: onde gravitazionali, studio della cosmologia e dei pianeti al di fuori del sistema solare e così via. L’Inaf è stato riconosciuto tra i primi istituti al mondo nella ricerca di eccellenza e l'anno scorso l'industria italiana si è aggiudicata commesse per la costruzione del nuovo telescopio E-Elt (European Extremely large telescope) per un valore di 450 milioni di euro, a fronte di un investimento di 45 milioni di euro da parte del governo. Eppure il sostegno alla ricerca è ancora troppo debole: «L’astronomia nel nostro paese sta vivendo anni di dolorosi tagli nel finanziamento alla ricerca. Gli enti pubblici di ricerca hanno bisogno di tornare almeno ai livelli di finanziamenti di 10-15 anni fa», è l’appello dell’astronoma Inaf. Le grandi sfide del futuro passano anche da questo, e la sensazione è che donne avranno un ruolo da protagoniste. Rossella Nocca