Categoria: Approfondimenti

Tornano le “Botteghe di mestiere” in Abruzzo, 170 tirocini a 600 euro al mese: candidature fino al 16 aprile

Sembrava un’esperienza ormai conclusa, e invece le “botteghe di mestiere” sono tornate, anche se in formato ridotto. A due anni dal bando per il progetto nazionale “Botteghe di mestiere e dell’innovazione”, la Regione Abruzzo ha infatti deciso di raccogliere la sua eredità attraverso un progetto regionale, attivato nell’ambito del Programma operativo del Fondo sociale europeo 2014-2020, con lo stanziamento di un milione di euro.  170 tirocini da sei mesi presso aziende o laboratori artigianali appartenenti a vari settori produttivi, con un rimborso mensile di 600 euro al mese, di cui 500 messi dalla Regione e 100 dall’azienda ospitante. L’obiettivo, come si legge nel bando, è quello di «apprendere i segreti per diventare un nuovo artista del made in Italy». I requisiti per presentare la domanda – che scade lunedì 16 aprile 2018 alle ore 14, per effetto di una proroga rispetto alla scadenza iniziale del 5 aprile – sono: essere cittadini italiani, europei o extracomunitari con regolare permesso di soggiorno; avere tra i 18 e i 35 anni non compiuti; essere disoccupati o inoccupati alla data di attivazione del tirocinio e durante il suo svolgimento. Ci si può candidare direttamente dal sito internet, selezionando la bottega di proprio interesse e compilando l’apposito form. Per “bottega di mestiere” si intende un raggruppamento composto da un soggetto promotore e da una o più aziende. Le botteghe presenti nel bando sono nove e appartengono alle seguenti categorie: enogastronomia, agroalimentare, ristorazione, grande distribuzione, artigianato artistico, automotive e industria del mobile. Le figure richieste sono le più svariate: cuochi, baristi, macellai, panettieri, meccanici, operai, orafi etc. Ogni bottega prevede l’inserimento massimo di dieci tirocinanti. Il bando nazionale delle Botteghe di mestiere e dell’innovazione (2016) – precedentemente Programma Amva (Apprendistato e mestieri a vocazione artigianale) –  aveva registrato oltre 8mila candidature di aspiranti tirocinanti (di cui 6.763 idonee), e l’attivazione di 1.784 tirocini in 181 botteghe, coinvolgendo 1.246 aziende e 115 soggetti promotori. I tirocinanti erano in prevalenza uomini (58% contro 42%) di età compresa fra i 18 e i 25 anni (53%). Per la maggior parte, a livello di titolo di studio, avevano un "diploma di istruzione secondaria che permette l'accesso all'università", seguito dalla "licenza media". Questi i settori di maggiore interesse: filiera e settore agroalimentare/enogastronomia/ristorazione, grande distribuzione organizzata e meccanico. Puglia, Marche, Calabria, Sicilia e Campania le regioni con più progetti finanziati. Solo dieci le botteghe di mestiere finanziate e attivate in Abruzzo. Ma come mai proprio qui è maturata l’idea di ripetere l’esperienza? «Nell’edizione nazionale del progetto diciassette botteghe abruzzesi erano state ammesse a graduatoria ma non finanziate» spiega alla Repubblica degli Stagisti Vincenzo Pallini, funzionario dell’ufficio Gestione Formazione FSE della Regione Abruzzo: «Da qui è nata la decisione di investire sul piano regionale, considerato che i settori coinvolti erano quelli trainanti dell’economia abruzzese». Le botteghe da diciassette sono diventate nove: «Dopo due anni alcune aziende sono venute meno, altre ancora oggi ci chiedono di entrare, ne terremo conto qualora il progetto si dovesse ripetere. Il primo giorno di pubblicazione del bando abbiamo avuto ben 11mila visualizzazioni e ciò ci fa ben sperare sulla partecipazione», aggiunge Pallini.Ma come mai invece il progetto nazionale non è mai ripartito? «Oggi ci limitiamo a fornire supporto tecnicoal progetto regionale in quanto la nostra è diventata una società per azioni di proprietà dell’Anpal» spiega alla Repubblica degli Stagisti Alessandro Vaccari, responsabile dell'ufficio stampa di Italia Lavoro: «La sua mission è molto cambiata e non opera più per progetti, alla luce del fatto che dopo il Referendum le competenze in materia di lavoro e formazione sono rientrate a pieno titolo in mano alle regioni». In particolare «oggi la società è costituita da tre divisioni: un’area knowledge, di conoscenza, comunicazione e formazione per gli operatori; un’area servizi al lavoro, che gestisce tutto l’indotto che riguarda la ricerca del lavoro e il collocamento, nonché il reintegro dei lavoratori e le crisi aziendali; e un’area transizioni, che si occupa dell’alternanza scuola lavoro e dei tutor, e di tutto quello che unisce il mondo della formazione al mercato del lavoro».Vaccari ci tiene a precisare che l'archiviazione del progetto nazionale non è quindi dovuta a un fallimento degli sbocchi occupazionali post tirocinio, anche perché «il progetto Botteghe di Mestiere non aveva come finalità l'occupazione, ma era viceversa orientato verso il campo esperienziale, della conoscenza e delle soft skills». Anche se permangono i dubbi sulla necessità di sei mesi di tirocinio per apprendere alcuni mestieri, come ad esempio quello del barista, se non finalizzati a un inserimento. In virtù del mancato orientamento all'assunzione, il progetto non prevedeva un feedback occupazionale da parte delle aziende e/o degli ex tirocinanti. Per questo i dati che si hanno a disposizione sono stati raccolti su base volontaria e sono molto parziali. In particolare, il feedback riguarda solo 393 dei 1.784 tirocini attivati, cioè il 22%, e si limita ai soggetti che hanno trovato un lavoro. La percentuale più alta riguarda coloro che sono stati assunti con un contratto a tempo determinato (32% dei 393), di cui l'81% dalla stessa azienda. Al secondo e al terzo posto l'apprendistato professionalizzante e altre esperienze di tirocinio. 28 i fortunati ex tirocinanti che hanno ottenuto un contratto a tempo indeterminato dall'azienda ospitante (7% dei 393).   La prosecuzione del progetto resta oggi demandata alle regioni. «L’Abruzzo ha giudicato molto positiva l’esperienza delle Botteghe di mestiere: rinnovandola, ha dimostrato ancora una volta che è una Regione molto attiva e che dopo il terremoto sta recuperando sul piano imprenditoriale» conclude Vaccari. Rossella Nocca

Aspiranti psicologi, ecco le specialistiche che danno più chance di trovare lavoro

Un paziente sdraiato sul lettino a raccontare le proprie inquietudini e un esperto seduto accanto a lui per ascoltarlo e aiutarlo. È così che, complici le tante scene dei film, il mestiere dello psicologo - da non confondere con quello dello psichiatra, che viene invece da una laurea in medicina! - figura da sempre nell’immaginario comune. Eppure questa professione sembra vivere oggi una fase di profonda trasformazione, che porta lo psicologo al centro di ambiti lavorativi nuovi e differenziati, fornendogli così anche nuovi sbocchi occupazionali, quanto mai necessari in una fase in cui la figura stereotipata di “terapeuta di un disagio” sembra trovare poco spazio. Secondo i dati dell’ultimo rapporto Almalaurea, infatti, il tasso di occupazione per i laureati in psicologia a un anno dal titolo si aggira intorno al 45%, per salire poi al 79% a cinque anni dal conseguimento del titolo. Anche per quanto riguarda la retribuzione le prospettive non sono delle più rosee, piazzandosi questa all’ultimo posto sia a uno che a cinque anni: si parla infatti rispettivamente di 727 e 1.011 euro al mese.È forse proprio per queste difficoltà che il numero di iscritti alle facoltà di psicologia risulta ormai da qualche anno in calo: dieci anni fa (anno accademico 2008/2009) gli iscritti erano oltre 47mila, nell'anno accademico 2015/2016 poco più di 40mila, con una diminuzione del 15%. L’andamento negativo si riscontra però solo nella laurea triennale, convertendosi invece in una linea lievemente crescente per gli iscritti alla laurea magistrale, passati da 18mila a oltre 20mila. Se gli aspiranti psicologi sono molti mentre le opportunità scarseggiano, insomma, è bene infatti rinforzare il proprio curriculum formativo per cercare così di accaparrarsene una. La tendenza a proseguire negli studi dopo la laurea di primo livello risulta evidente anche dai dati provenienti dall’Ordine degli Psicologi, secondo cui la quasi totalità dei circa 105mila iscritti risulta registrata nella sezione A dell’albo, riservata a coloro che hanno nel proprio cv non soltanto la laurea triennale ma anche quella magistrale, più un anno di tirocinio e il superamento dell’esame di Stato per l’abilitazione professionale. Solo poche centinaia sono invece iscritti alla sezione B, che prevede diverse limitazioni alla prassi professionale e a cui si può accedere con la sola laurea triennale, accompagnata da tirocinio semestrale e debito esame di stato. Dei 105mila iscritti all'albo, tuttavia, solo 60mila svolgono effettivamente la professione di psicologo, secondo i dati Enpap: che ci sia dunque una difficoltà ad inserirsi attivamente nel mercato del lavoro è evidente. Ma ci sono specialistiche che, alla prova dei fatti, danno qualche chances occupazionale in più? «In linea di massima le opzioni di scelta per il biennio di specialistica si dividono tra clinica, area dello sviluppo e lavoro/marketing, e chi si laurea in psicologia del lavoro, del marketing o delle organizzazioni ha una strada più facile da percorrere in termini di chances occupazionali» risponde alla Repubblica degli Stagisti Cecilia Pecchioli, presidente dell’associazione Giovani psicologi della Lombardia. Questo perché «per esercitare come psicologo del lavoro non è necessaria l’abilitazione professionale, quindi non si deve fare l’esame di stato né iscriversi all’ordine degli psicologi, e, cosa più importante, ci si scontra subito con una ricca domanda». Il mondo aziendale infatti, sia per obblighi legislativi e fiscali che per evoluzione sociale, richiede sempre più la figura dello psicologo per quanto riguarda l’ambito della selezione del personale, il potenziamento delle risorse, il mondo del welfare aziendale. «Con una laurea in psicologia del lavoro si può già iniziare a lavorare, perché non sono richieste grandi specializzazioni. Un titolo in più può sempre aumentare le possibilità di assunzione, ma parliamo di corsi e/o master che impegnano uno/due anni, non di più. Anche l’esperienza pratica è più facile da realizzare, in quanto non ci si deve scontrare con il diritto alla privacy di un paziente che deve parlare dei suoi problemi», spiega Pecchioli. Diverso è invece il destino di coloro che decidono di intraprendere la strada della psicologia clinica, dove è innanzitutto obbligatoria l’abilitazione professionale, e bisogna quindi considerare di spendere almeno altri due anni tra tirocinio post lauream ed esame di stato. «Dopodiché la strada è tutta in salita. Non si possono fare affiancamenti presso studi privati per una questione sia deontologica che di privacy del paziente. E la semplice laurea non è sufficiente per farsi spazio nel mondo del lavoro». Per questo è necessario specializzarsi in qualche ambito: «la maggior parte intraprende la specializzazione in psicoterapia. Altri prendono strade diverse, nel mondo della scuola o nell’area giuridica». Strade differenti ma tutte ugualmente lunghe e impegnative, che richiedono molte ore di pratica. Se c’è però tra queste un ramo che offre maggiori chances è quello scolastico, che «negli ultimi anni ha avuto un’impennata», osserva Pecchioli. Il problema della saturazione del mercato però resta, perché «siamo tanti, forse troppi», tanto che l’Ordine nazionale è arrivato tempo fa a proporre addirittura la chiusura di alcune facoltà o perlomeno un irrigidimento delle prove d’accesso al corso di studi. «Il bisogno di psicologi c’è, lo si vede quotidianamente, ma la società fa ancora fatica a riconoscere la psicologia come qualcosa di necessario. Credo però che la nostra categoria stia vivendo anche un’importante fase di cambiamento»: da poco la psicologia è stata riconosciuta come professione sanitaria e le prestazioni psicologiche sono entrate a far parte dei “Livelli essenziali di assistenza” (Lea); «Fino a pochi mesi fa non eravamo contemplati se non come un surplus nel settore pubblico, tanto che il numero di psicologi presenti nel sistema sanitario nazionale era, ed è, decisamente esiguo, e inquadrato in modo decisamente precario, con contratti a progetto o collaborazioni a partita iva. L’impostazione è ancora prettamente medica, ma crediamo che queste novità legislative siano la premessa per una grande cambiamento».Al momento, però, il settore pubblico sembra pressoché impenetrabile per uno psicologo: «il numero di psicologi stabilmente assunti nel sistema sanitario nazionale permane ormai da molti anni intorno alle 6mila unità» conferma Luigi Castelli, presidente della Scuola di psicologia di Padova, al primo posto nell’ultima classifica della didattica Censis. Per questo i principali posizionamenti professionali risultano attualmente nell’ambito privato ma anche nel terzo settore, in particolare nell’ambito clinico e educativo (cooperative, comunità, rsa ecc.): «Il modello professionale dello psicologo si è modificato significativamente negli ultimi decenni: rispetto al classico stereotipo di psicologo-psicoterapeuta che riceve pazienti nel suo studio individuale i ruoli professionali sono evoluti: nel terzo settore, il “privato sociale”, trovano lavoro molti laureati in psicologia, soprattutto nelle fasi iniziali della carriera». Se la differenza tra opportunità nel privato e nel pubblico si fa sentire, la stessa cosa sembra riscontrarsi anche tra le chances occupazionali in Nord e Sud Italia. Le regioni del Nord continuano infatti ad essere considerate quelle più ricche di opportunità, ma ciò non fa che produrre una saturazione del mercato in quelle zone – con conseguente disoccupazione di coloro che vi hanno riposto le proprie speranze – e l’andare deserti di concorsi pubblici al Sud, che falliscono poiché non ci sono iscritti. «Molti colleghi si trasferiscono a Milano, Padova, Pavia e Roma perché qui ci sono le facoltà più “forti”, dopodiché restano qui, pensando che in una metropoli come Milano ci sia maggiore possibilità di trovare un lavoro» spiega Pecchioli: «Ma in realtà è un paradosso, se pensiamo che la Lombardia ha circa 19mila psicologi, di cui più della metà sono collocati nel capoluogo. Il Sud Italia è oggettivamente un terreno più fertile».Ma cosa serve per mettere a frutto una laurea in Psicologia? Secondo Castelli innanzitutto «una forte proattività, ma anche buone competenze progettuali da adattare continuativamente e una solidissima formazione teorico-metodologica di base in ambiti applicativi anche molto diversi» perché «l’evoluzione dei bisogni sociali è rapida e richiede professionisti in grado di anticipare e rispondere adattativamente ai loro continui cambiamenti».Giada Scotto

Ragazze che guardano le stelle, la passione per astronomia e astrofisica porta lontano

Osservare e venire a capo dei fenomeni che muovono le stelle. È l’affascinante compito dell’astronomia, una delle scienze più antiche. Alla fine dell’800 ad essa si è affiancata l’astrofisica, studio rivolto ad applicare le leggi della fisica alla comprensione e all’analisi della struttura delle stelle. Oggi tuttavia la distinzione fra astronomia e astrofisica è diventata molto meno netta. Basti pensare che in Italia la facoltà di Astronomia esiste solo in due università (Padova e Bologna), quindi la prevalenza dei cosiddetti “astronomi” viene da un corso di laurea in Astrofisica, specializzazione della facoltà di Fisica.Un percorso, quello “tra le stelle”, che affascina sempre più giovani, anche sulla scia della tradizione positiva che il nostro Paese si sta costruendo. C’è un’astronoma italiana nella lista dei dieci scienziati più influenti del 2017 stilata dalla rivista Nature. Si chiama Marica Branchesi, ha 40 anni e ha ricevuto il prestigioso riconoscimento in virtù del suo contributo alla ricerca sulle onde gravitazionali. Ed è proprio l’astronomia uno dei campi che sembrano destinati a contribuire in maniera più rilevante al superamento del gap di genere negli studi e nelle carriere in ambito Stem (Science, Technology, Engineering and Mathematics). «L’Italia, oltre a essere una delle dieci nazioni più produttive nell’International Astronomical Union» spiega alla Repubblica degli Stagisti Angela Iovino, ricercatrice presso l’Inaf-OA Brera (Istituto nazionale di astrofisica-Osservatorio astronomico di Brera) nel campo dell’astronomia extragalattica «è anche tra le prime per presenza femminile, con il 27%». Tra le ragioni, ci sono sicuramente gli illustri precedenti di donne italiane “tra le stelle”: «Sappiamo quanto sono importanti i role model: Margherita Hack ha ispirato molte donne e spero che allo stesso modo Samantha Cristoforetti ispirerà le ragazzine di oggi», auspica la ricercatrice.Angela Iovino all’astronomia ci è arrivata “per vie traverse”, ma neanche così tanto. «Dopo il liceo scientifico ho optato per lo studio della filosofia. La vedevo come qualcosa che non mi rinchiudesse nello stereotipo della professoressa di matematica, come avrebbero voluto i miei genitori», racconta. Poi aggiunge: «La filosofia comprende tanti aspetti diversi, tra i quali l’epistemologia e la logica matematica, così mi sono ritagliata un percorso che mi ha condotto verso i miei interessi. E una volta laureata, nell’attesa di rientrare nelle graduatorie dell’insegnamento, sono ritornata sui miei passi e mi sono iscritta alla facoltà di Astronomia dell'università di Padova. Ringrazio i miei genitori che mi hanno detto “Provaci”».Stessa università ma percorso un po' diverso quello di Valentina D’Odorico, ricercatrice presso l’Osservatorio di Trieste. «Ho studiato fisica a Padova: inizialmente non sono partita con la passione per l’astrofisica, tuttavia anche mio padre è astronomo ed era un argomento che conoscevo». Il suo lavoro consiste nell’analizzare i dati grezzi ottenuti dai telescopi europei e ricavarne dati fisici astronomici sulla formazione delle prime galassie, sulle caratteristiche delle prime stelle etc. «Lo amo perché è un lavoro affascinante e che dà molta libertà di pensiero, di sviluppare le proprie idee».Certo non sono mancati gli ostacoli. «I momenti di maggiore difficoltà ci sono stati nel 2004 quando ho avuto la prima figlia» racconta «e avevo un assegno di ricerca, che mi è stato interrotto per i cinque mesi obbligatori di astensione dal lavoro. Dopo sono tornata al lavoro e, non essendo mio marito ed io originari di Trieste ed essendo quindi le nostre famiglie lontane, ho dovuto assumere una babysitter fissa». Con la seconda figlia la situazione è stata differente: «È nata quando avevo un contratto a tempo indeterminato, quindi in questo caso avrei avuto diritto alla maternità, però sono comunque tornata al lavoro dopo l'astensione obbligatoria di tre mesi e ha preso il congedo di paternità mio marito, che in quel momento lavorava a Bologna e così ha avuto la possibilità di rimanere a casa. Io ho ottenuto l'orario ridotto per allattamento - un'ora in meno al giorno - per il primo anno. Nel nostro lavoro non esiste il part-time, o comunque nessuno lo prende, tuttavia adesso è possibile chiedere di lavorare da casa per qualche giorno alla settimana e a breve dovrebbero attivare anche lo smart work».Ma come si fa a bilanciare la presenza di uomini e donne nei luoghi dove si fa ricerca scientifica? L’Inaf per esempio ha un Comitato unico di garanzia (Cug), che ha il compito di spronare l’Istituto affinché promuova l’equilibrio di genere e il trattamento rispettoso di tutti coloro che lavorano all’interno dell’ente. L’organo ha diffuso qualche mese fa  i risultati di un monitoraggio dei dipendenti Inaf, dal quale risulta che le donne rappresentano il 35% fra personale di ricerca, personale tecnico e personale amministrativo. Isolando il personale di ricerca, si nota che nel percorso di carriera le donne si perdono, infatti si passa dal 37% del III° livello al 17% del I° livello. Ed estendendo l'osservazione all'ambito universitario nazionale, il “soffitto di cristallo” si conferma: sono donne il 33,3% degli assegnisti di ricerca in Astrofisica e Astronomia, il 25,6% dei ricercatori, il 20,3% degli associati e soltanto il 10,6% dei professori.«Lo stillicidio che fa sì che le giovani donne vadano perse nel percorso verso livelli apicali» afferma Iovino, che presiede il Cug «è dovuto da un lato ai pregiudizi ma dall’altro a situazioni oggettive di difficoltà, come la cura parentale e genitoriale. Per questo bisognerebbe favorire le donne con misure sociali, come asili nido, flessibilità lavorativa  e altre forme di supporto alla conciliazione tra vita privata e lavoro. A maggior ragione in un campo come quello della ricerca dove i tempi di accesso a lavori a tempo indeterminato sono così lunghi». Le fa eco Valentina D’Odorico: « Dal punto di vista della carriera, faccio più fatica rispetto a mio marito ad andar via per lunghi periodi, cosa che diventare responsabile di progetti grossi comporterebbe. Anche per questo nei progetti tecnologici le donne sono poche e non occupano posizioni di responsabilità. E, quando si tratta di decidere i relatori dei convegni, è difficile trovare donne all’altezza, perché molte abbandonano dopo il dottorato - e questo non solo in Italia». Iovino non disdegna le quote di genere come soluzione transitoria: «Ho apprezzato molto la legge Golfo-Mosca, visto quanto sono difficili e piccoli i passi dei molti cambiamenti da fare». Ma le difficoltà non devono dissuadere le ragazze che hanno sviluppato una passione per l’astronomia dallo scegliere questo settore. «Penso che sia un momento d’oro per la ricerca astronomica» assicura Angela Iovino: «Ci sono tante domande a cui ancora c’è da rispondere: è un ambito che può offrire grandi soddisfazioni e stimoli intellettuali. In più oggi non si lavora più nell’isolamento del proprio ufficio, ma le collaborazioni sono tipicamente internazionali e girare il mondo facendo quello che ci piace è impagabile». Tra i punti di forza di questo settore c’è proprio la dimensione internazionale, che rende il lavoro dell’astronomo molto spendibile oltre nazione: «Tutte le pubblicazioni e le presentazioni a congressi internazionali sono in lingua inglese e comunque si collabora giornalmente con colleghi stranieri, con cui si comunica generalmente in inglese». Tra gli sbocchi internazionali ci sono i centri di ricerca in Europa, primo fra tutti l'Eso, l'ente europeo che gestisce i telescopi europei costruiti in Cile, la cui sede europea è a Monaco di Baviera. Poi nel Regno Unito ci sono grossi istituti di Astrofisica a Cambridge e a Durham, in Germania, molti istituti Max Planck, così come in Olanda, Francia, Spagna, Danimarca. Numerosi italiani lavorano anche in centri di ricerca negli Stati Uniti e in Cile, dove l'astronomia si sta molto sviluppando perché la maggior parte dei telescopi più importanti del mondo si trova lì e gli astronomi cileni hanno diritto a una quota di tempo di osservazione riservata del 10%.Riguardo le prospettive del settore, tra gli scenari più interessanti ci sono quelli che riguardano gli “attrezzi del mestiere”, destinati a rivoluzionare la ricerca. «Io faccio parte di un gruppo di lavoro internazionale che, insieme agli ingegneri, si occupa dello sviluppo di strumentazioni di nuova generazione, che saranno operative tra il 2020 e il 2030», racconta D’Odorico. Che aggiunge: «Ci sono tante nuove competenze necessarie: ad esempio stiamo andando verso una fase di big data, quindi occorrono persone che sappiano anche come trattare grandi quantità di dati. Proprio le aziende specializzate nel trattamento dei dati e in informatica/statistica sono tra i possibili altri sbocchi degli astronomi, anche se in Italia è  abbastanza difficile essere assorbiti dall'industria con questo tipo di laurea». «Conosco giovani che avevano lavorato sul data mining in astrofisica e si son spostati in banche o aziende che fanno data mining in altri ambiti» aggiunge Angela Iovino: «Lo stesso per coloro che lavorano applicando ad esempio algoritmi di intelligenza artificiale alle immagini astronomiche. I laureati in Astrofisica sono spesso ricercati anche per le loro capacità di problem solving, programmazione e lavoro con codici complessi, ad esempio da ditte che producono software».Oggi l’Italia, come comunità astrofisica, è ben inserita nel contesto internazionale dei grandi progetti: onde gravitazionali, studio della cosmologia e dei pianeti al di fuori del sistema solare e così via. L’Inaf è stato riconosciuto tra i primi istituti al mondo nella ricerca di eccellenza e l'anno scorso l'industria italiana si è aggiudicata commesse per la costruzione del nuovo telescopio E-Elt (European Extremely large telescope) per un valore di 450 milioni di euro, a fronte di un investimento di 45 milioni di euro da parte del governo. Eppure il sostegno alla ricerca è ancora troppo debole: «L’astronomia nel nostro paese sta vivendo anni di dolorosi tagli nel finanziamento alla ricerca. Gli enti pubblici di ricerca hanno bisogno di tornare almeno ai livelli di finanziamenti di 10-15 anni fa», è l’appello dell’astronoma Inaf. Le grandi sfide del futuro passano anche da questo, e la sensazione è che donne avranno un ruolo da protagoniste. Rossella Nocca

Alternanza scuola-lavoro: ecco come funziona in EY

Che cosa significa fare alternanza scuola-lavoro? E’ uno strumento che funziona? Che cosa ne dicono le aziende? Per rispondere a queste domande la Repubblica degli Stagisti apre una nuova rubrica che coinvolge direttamente le aziende del suo network, dando loro la parola per raccontare i percorsi che offrono ai ragazzi delle scuole superiori.Solitamente quando si parla di alternanza scuola-lavoro si pensa immediatamente a un tipo di formazione molto pratica. D'altra parte, l'obiettivo della misura introdotta dalla riforma della "Buona scuola" è proprio quello di far vivere agli studenti un'esperienza "sul campo", che faccia loro toccare con mano che cosa significa essere nel mondo del lavoro, mettendoli a contatto con processi, prodotti e routine lavorative. Come funziona però l'alternanza in un'azienda che produce e vende non prodotti tangibili, bensì servizi? Per esempio... un'azienda di consulenza? EY per formare gli studenti si è inventata un format tutto suo, chiamato "Stairway to Your Future".«La nostra sfida principale è di avvicinare i ragazzi al nostro mondo, perché semplicemente non sanno chi siamo» racconta alla Repubblica degli Stagisti Riccardo Quaglia, Employer branding manager di EY, in azienda dal 2012 e con dieci anni di esperienza in Risorse umane, recruting e international mobility alle spalle: «Innanzitutto il cambio di nome, da Ernst & Young a EY, ha confuso un po’ le idee tra il pubblico, e poi in tanti non sanno chi sono e cosa fanno le società di revisione e consulenza, quindi l’alternanza è anche utile per farci conoscere».Stairway to Your Future parla ai ragazzi coinvolgendoli attraverso lezioni frontali e workshop pratici volti a creare un mix valido di skill utili nel mondo del lavoro: come si costruisce un curriculum, come si affronta un colloquio di selezione o di personal branding (con un occhio particolare all’utilizzo dei social media), ma anche cybersecurity, analytics e project management agile. Il focus sul digitale, «che inevitabilmente sta impattando il modo in cui lavoriamo noi, ma soprattutto i nostri clienti» racconta il manager, è centrale, ma con la sua alternanza EY cerca anche di stimolare nei ragazzi le qualità più richieste dal mondo del lavoro: passione, curiosità, perseveranza, capacità di analisi critica e problem solving. Il percorso è condensato in 40 ore su due settimane e nel 2017 ha coinvolto due gruppi di 50 ragazzi ciascuno, provenienti da cinque diverse scuole di Milano tra liceo scientifico, liceo classico e istituti tecnici e commerciali: Sacro Cuore, Don Gnocchi, Carducci, Regina Mundi e Feltrinelli. «L’obiettivo era di unire ragazzi provenienti da contesti diversi, ma il progetto di alternanza era lo stesso per tutti» prosegue Quaglia.Nelle prime due edizioni il percorso funzionava così: il primo giorno welcome session con presentazione di EY, seguita da un workshop sul project management agile, il secondo giorno una lezione sulla cybersecurity e poi un lavoro di gruppo; il terzo, un modulo di analytics seguito da un business case. Seconda settimana focalizzata invece sul personal branding e la costruzione del cv: gli studenti affrontavano “finti” colloqui con i recruiter di EY e poi esploravano gli uffici «per vedere il nostro modo di lavorare», infine, le ultime due giornate erano dedicate ai lavori di gruppo. «Abbiamo anche organizzato la visita di un professore del Politecnico perché portasse la sua testimonianza su che cosa significa essere all’università e per dire ai ragazzi che cosa devono aspettarsi e quale approccio avere» aggiunge Quaglia. «L’avevamo immaginata come un modo per mettere in contatto l’azienda con le scuole superiori e l’università, anche se poi purtroppo non è andata proprio come ci aspettavamo e più che altro abbiamo avuto una classica presentazione dell’ateneo».Il lavoro di gruppo finale, in cui gli studenti dovevano mettere a frutto ciò che avevano imparato durante le due settimane di alternanza, consisteva nell’elaborazione di un piano di marketing per una scuola immaginaria. I ragazzi, divisi in gruppi da dieci, hanno quindi dovuto pensare a delle strategie per farsi conoscere all’esterno, attraverso il sito, i social media e così via. «Abbiamo cercato di mantenere i moduli il più vicino possibile al funzionamento dell’azienda, per far vedere ai ragazzi che cosa facciamo e come approcciamo il nostro lavoro» specifica Quaglia. «All’inizio erano molto ingessati, però abbiamo fatto capire loro che dentro EY si lavora anche in maniera informale, e soprattutto alcune delle attività, per esempio la preparazione ad un colloquio di lavoro, le hanno viste molto vicine a sé».I ragazzi si sono dichiarati soddisfatti, anche attraverso il feedback raccolto tramite i questionari che EY chiedeva loro di compilare alla fine di ogni giornata. In particolare è emersa «la presa di coscienza di quanto ancora il mondo della scuola sia distante da quello del lavoro e il bisogno che invece abbiamo riscontrato nei ragazzi di saperne di più».Per entrare in contatto con le scuole e avviare l’alternanza EY si è affidata ad un partner esterno, ma i contenuti e i moduli sono stati pensati e sviluppati direttamente all’interno dell’azienda da un team dedicato di professionisti interni ed esterni in ambito di formazione, che hanno anche tenuto le lezioni frontali: «Facciamo molta formazione interna ed abbiamo anche un master certificato Asfor a cui ci siamo ispirati per alcuni dei contenuti delle lezioni» aggiunge Quaglia.In particolare EY ha individuato nella combinazione di corsi classici e workshop come il metodo vincente per praticare l’alternanza. «Il nostro è un lavoro molto specifico in cui vendiamo servizi e, al contrario di aziende più di “prodotto”, per noi sarebbe stato difficile coinvolgere i ragazzi direttamente sulle mansioni quotidiane, da un lato per ragioni di privacy dei clienti e dall’altro perché i ragazzi delle superiori spesso non hanno ancora le competenze sufficienti per toccare davvero con mano che cosa significa fare il nostro lavoro. Avremmo finito per fargli fare le fotocopie e non era quella la nostra intenzione» spiega il manager. Per EY, infatti, i diplomati non sono un target diretto, dato che l’azienda assume soltanto laureati in prevalenza di lauree specialistiche: «abbiamo cercato di interessare e di incuriosire gli studenti verso la nostra realtà in modo che, se dovessero decidere di intraprendere l’università, magari un giorno potranno dire di conoscerci e di considerarci come potenziale employer». Quest’anno EY punta a coinvolgere anche scuole al di fuori del territorio milanese. Un istituto tecnico di Lecce li ha infatti già contattati per portare un gruppo di studenti in trasferta a Milano, in previsione della nuova edizione del programma a giugno. Oltre all’alternanza, l’azienda partecipa a iniziative in scuole e università con presentazioni aziendali, e la Fondazione EY Italia Onlus, nata nel 2012, promuove progetti specifici in contesti di bisogno, in particolare rivolti a giovani in situazioni di disagio. Ma la novità più importante per il 2018 sembra prospettarsi proprio sul fronte dell’alternanza: «Stiamo pensando ad una nuova edizione di Stairway to your Future con contenuti più esperienziali e meno frontali per gli studenti, per rendere ancora più coinvolgente la loro partecipazione» conclude Quaglia. «Crediamo che le aziende abbiano la responsabilità di formare le nuove generazioni e che i percorsi come l’alternanza scuola lavoro non debbano essere visti come un dovere, ma come un’opportunità di arricchimento sia per i giovani che per l’azienda. Il nostro sistema di formazione ha bisogno di un cambio di paradigma e di riformare i metodi didattici per uno sviluppo integrale della persona. Per questo motivo l’alternanza è utile come strumento di orientamento e “occupabilità” futura, e lo Stato dovrebbe incentivare le aziende più virtuose in questo senso».Irene Dominioni

Stage nelle agenzie dell'Onu, continua la battaglia per riattivare i tirocini con rimborso spese alla Fao

L’allarme la Repubblica degli Stagisti l’aveva già lanciato a fine agosto, quando aveva dato conto della possibilità che la Fao a partire dal 2018 avrebbe eliminato il rimborso spese per i suoi stagisti, fino ad allora di 700 dollari al mese. Oggi, sei mesi dopo, le notizie non sono buone.Innanzitutto, alla pagina delle Faq proprio sul sito della Fao continua a campeggiare l'avviso del fatto che il rimborso spese è «attualmente in fase di revisione». Inoltre, fonti interne non danno alcuna speranza. Dal 28 agosto, data in cui inizialmente avevamo parlato di questo problema, la Fair internship initiative - una coalizione di numerose organizzazioni (tra cui la Geneva Interns Association, la Graduate Institute Students Association e la Conference Universitaire des Associations d’Etudiantes) tutte convinte che i tirocini senza rimborso spese rappresentino una pratica discriminatoria – ha cercato a più riprese di ottenere qualche chiarimento su questo fronte.La prima lettera inviata  al direttore generale Da Silva per esprimere preoccupazione per questa decisione, di cui la Repubblica degli Stagisti aveva raccontato in anteprima i contenuti,  risale allo scorso 6 dicembre. In quella missiva si ricordava alla Fao che «la maggior barriera che limita l’accesso agli stage è il costo associato alle spese di soggiorno. Limitando l’accessibilità solo ai pochi che possono permettersi di lavorare gratuitamente, aumentando le disparità sia all’interno sia tra i vari paesi».Il 22 dicembre Cinzia Leonetti, assistente delle risorse umane della Fao, per conto di Kazumi Ikedalarhed, vicedirettore della divisione Partnership and South South Cooperation aveva inviato alla coalizione un documento di risposta firmato direttamente dalla direttrice Marcela Villareal. In questo testo Villareal comunicava di aver «preso nota delle vostre vedute del nostro programma di tirocinio e volontariato e dei vostri suggerimenti sull’espansione delle opportunità di partecipazione» e prima di assicurare che la Fao avrebbe continuato a «diversificare e ampliare le opportunità di partecipazione al nostro programma di tirocinio e di volontariato» ricordava come la stessa agenzia fosse «attualmente partecipando alla “Revisione dei programmi di tirocinio nel sistema delle Nazioni Unite” al fine di migliorare l’armonizzazione delle politiche pertinenti attraverso il sistema delle Nazioni Unite».La “review” a cui si riferiva Villareal è quella in corso della Joint Inspection Unit, su cui la Repubblica degli Stagisti aveva già provato ad avere dettagli senza ricevere risposta. Matteo De Simone della Fair Internship Initiative aveva detto alla nostra testata che «in realtà l’unica cosa prevista» era «l’abolizione della borsa di 700 dollari per gli stagisti, lasciando così solo il programma di volontariato che verrebbe a rimpiazzare quello di tirocini con un semplice cambio di nome». Oggi De Simone aggiunge un altro dettaglio: «Non c’è una delle raccomandazioni dell’ultima review, del 2009, che sia stata poi implementata dall’Onu, quindi abbiamo dubbi su quanto poi effettivamente seguiranno le raccomandazioni».Il riferimento è, appunto, alla Joint inspection unit del 2009 in cui, tra le altre cose, si analizzavano 16 organizzazioni dell’Onu e il loro comportamento nei confronti degli stagisti sul fronte del pagamento: previsto all’epoca solo da 5 agenzie su 16. Un documento in cui si raccomandava, ad esempio, di prevedere buoni pasti giornalieri, abbonamenti per i trasporti, e un contributo economico per coprire i costi assicurativi per gli stagisti senza rimborso spese.La Fair internship initiative, per conto della Global intern coalition, a inizio febbraio ha deciso di rispondere nuovamente  a Ikedalarhed e Leonetti, assicurando che la Coalition monitorerà la conformità delle organizzazioni alle nuove raccomandazioni della Joint inspection unit, non appena saranno pubblicate. Ma soprattutto la FII nella sua nuova missiva condivide un nuovo importante traguardo delle battaglie condotte fino ad oggi.«È ormai confermato che dal giugno 2018 i tirocinanti dell’Unhcr riceveranno un rimborso spese equivalente al 10% del DSA (l’indennità giornaliera). Questa è la quarta organizzazione delle Nazioni Unite, dopo Ilo, Unitar e Unicef, che ha nel corso dell’ultimo anno introdotto o aumentato il supporto finanziario per gli stagisti». Un elemento fondamentale per rendere il programma di tirocini accessibile a tutti, in linea con lo spirito degli obiettivi strategici e di sviluppo sostenibile.L’auspicio è che presto la Fao ritorni sui suoi passi e decida di continuare a prevedere un equo rimborso spese. Anche se al momento gli annunci di stage presenti sono tutti per tirocini che non prevedono alcun emolumento. Eppure, sono proprio i dati di un’organizzazione delle Nazioni Unite, in questo caso dell’Ilo, a mostrare ancora una volta i lati negativi dei tirocini senza rimborso. Secondo l’ultima pubblicazione “Quality Traineeships” «in Italia e Germania un numero considerevole di giovani laureati svolge tirocini senza rimborso spese dopo i propri studi, rispettivamente il 25 e 11 per cento». Non solo, questi tirocini hanno «un impatto negativo sulla probabilità di trovare un lavoro, sui guadagni e sulla soddisfazione lavorativa».Insomma la pubblicazione ancora una volta dimostra quello che dalla Fair Internship Initiative dicono da tempo e per cui con la Global Intern Coalition sono state svolte molte manifestazioni, l’ultima il 20 febbraio 2018. E cioè che l’indennità per gli stagisti è necessaria, per svolgere meglio i propri compiti, ed essere autonomi dalle proprie famiglie. E soprattutto perché il lavoro, a qualsiasi livello, deve sempre essere pagato. È triste che la Fao, dopo  aver garantito per anni 700 dollari al mese ai suoi stagisti, ora abbia cambiato rotta e deciso di dirigersi... dalla parte opposta rispetto ai diritti degli stagisti.Marianna Lepore

Stage nell'edilizia (e non solo): non sta ai tirocinanti comprare il materiale, bensì sempre alle aziende

Che gli stage non si svolgano solo dietro a una scrivania ma siano anzi spesso una pratica sul campo in azienda in settori come l’edilizia, i laterizi o il marmo, non è una novità. Quello però che a volte non si sa è che questi stagisti hanno gli stessi diritti di ogni altro lavoratore in termini di sicurezza e deve essere proprio l’azienda che li prende in tirocinio a doversi fare carico di ogni spesa relativa alla loro sicurezza. L’approfondimento che la Repubblica degli Stagisti ha svolto parte proprio da una richiesta di una madre che sul forum aveva raccontato del figlio iscritto a una scuola professionale e dei due periodi di stage che avrebbe svolto in un’azienda durante l’anno, chiedendo: «A scuola gli è stato detto di acquistare le scarpe antinfortunistiche. Ma secondo la legge chi deve fornire questo ausilio?».La legge di riferimento è il Testo unico sicurezza, ovvero il decreto legislativo 81/2008, che definisce il lavoratore una «persona che, indipendentemente dalla tipologia contrattuale, svolge un’attività lavorativa nell’ambito dell’organizzazione di un datore di lavoro pubblico o privato, con o senza retribuzione, anche al solo fine di apprendere un mestiere, un’arte o una professione». Il testo sulla sicurezza equipara al lavoratore vari altri individui e tra questi anche «il soggetto beneficiario delle iniziative di tirocini formativi e di orientamento (….); l’allievo degli istituti di istruzione e universitari e il partecipante ai corsi di formazione professionale nei quali si faccia uso di laboratori, attrezzature di lavoro».In pratica, spiegano alla Repubblica degli Stagisti dall’Ance, l’associazione nazionale costruttori edili, «lo stagista è un lavoratore a tutti gli effetti e il datore di lavoro presso cui presta la sua attività è tenuto a rispettare tutti gli obblighi a suo carico previsti dal Testo Unico Sicurezza, tra cui la fornitura dei dispositivi di sicurezza individuale». Infatti, l’articolo 18, comma 1, del decreto afferma che il datore di lavoro deve «fornire ai lavoratori i necessari e idonei dispositivi di protezione individuale, sentito il responsabile del servizio di prevenzione e protezione».Quindi se un giovane inizia uno stage lì dove è necessario adottare dei dpi, questi «sono assolutamente in carico all’azienda», conferma Stefano Macale, segretario della Filca Cisl, la federazione di categoria della Cisl che si occupa dei lavoratori dell’edilizia.E l’azienda non ha alcun modo per tirarsi indietro da questo obbligo. «Se lei andasse a fare un’intervista in un cantiere, l’azienda dovrebbe fornire anche a lei che non è un dipendente i dispositivi di protezione individuali atti a che lei non si faccia male nel cantiere o nel luogo di lavoro», continua a spiegare Macale alla Repubblica degli Stagisti. Non solo, l’obbligo è tale che «nel caso in cui il lavoratore inavvertitamente o per usura rompa, ad esempio, le scarpe antinfortunistiche, l’azienda deve fornirgliene di nuove».L’obbligo spetta dunque senza ombra di dubbio al datore di lavoro. Che deve effettuare la valutazione dei rischi per tutti i lavoratori e in base a questa decidere il tipo di dpi da fornirgli. In pratica, spiega l’Ance «se a seguito della valutazione dei rischi, lo stagista non risultasse esposto a rumore, non sarà necessario fornirgli le cuffie antirumore». Ma i dispositivi costano, e l'azienda potrebbe asserire di non poterseli permettere anche per gli stagisti. Problema suo: non può comunque delegare ad altri il loro acquisto. Al massimo «se sono ancora idonei possono essere riutilizzati i dispositivi già presenti in azienda» precisa il segretario Cisl.Ma cosa fare se l’azienda si sottrae, e non ottempera all'obbligo di fornire agli stagisti – e in generale ai dipendenti – scarpe antinfortunistica, caschetti protettivi e altri dispositivi obbligatori? Dall’Ance consigliano di «far presente al datore di lavoro quali sono gli obblighi a suo carico enunciati nel decreto legislativo 81/08. E, per essere tutelato, informare il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza dell’azienda». Insomma in ogni caso rifiutarsi di lavorare senza protezione visto che fornirla è «un obbligo legislativo, etico e morale dell’azienda». Della stessa idea anche Macale, che aggiunge: «Se lo stagista ritiene che non avere le dotazioni di sicurezza individuale può ledere alla sua incolumità, può rifiutarsi di svolgere le mansioni che gli sono state incaricate. E rivolgersi alle organizzazioni sindacali o alle asl se presenti sul territorio».Nel primo caso per quanto riguarda la Filca Cisl oltre ad uffici che si occupano di sicurezza e problemi contrattuali, «abbiamo in quasi tutti i territori la figura degli RLST, che sono dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza a livello territoriale, non aziendale. Certo la prima persona a cui lo stagista può rivolgersi è il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza aziendale, gli RLS, ma visto che in alcune aziende molto piccole sono di comodo, come sindacato abbiamo scelto la figura degli RLST, che non dipende direttamente da nessuna azienda».Senza dimenticare che, nel caso degli stagisti, il primo punto di riferimento è il tutor del soggetto promotore, cioè l'ente (per esempio il centro per l'impiego) che ha attivato materialmente lo stage, e che deve vigilare sul buon andamento del progetto formativo – anche dal punto di vista del rispetto delle prescrizioni di legge.Quello che è certamente importante ricordare è che non è lecito obbligare un giovane a farsi carico delle spese per qualsiasi equipaggiamento indispensabile allo svolgimento dello stage. «Se l’azienda vuole le prestazioni di uno stagista deve mettere in conto che ci sono anche le protezioni individuali» conclude Macale, aggiungendo che «i costi per la sicurezza e l’incolumità dello stagista devono essere messi tra quelli assolutamente prioritari».Marianna Lepore

Studiare da infermieri conviene, ecco perché

Se nell’immaginario comune i corsi universitari che danno più chances dopo la laurea sono classicamente ingegneria e medicina, forse non tutti sanno che anche infermieristica non scherza: secondo i dati dell’ultimo rapporto Almalaurea per le professioni sanitarie infermieristiche e ostetriche, infatti, il tasso di occupazione a un anno dal titolo è di circa il 70%, con una retribuzione netta mensile che supera i 1.300 euro. Un buon risultato per i neoinfermieri, soprattutto se si considera che la maggior parte dei neo-occupati ha trovato un impiego completando solamente il primo ciclo di studi, ovvero la laurea triennale, senza proseguire con la laurea magistrale o un master di primo livello: solo l’1,4% degli intervistati dichiara infatti di lavorare frequentando intanto un corso magistrale. A confermare questa tendenza arrivano anche i dati dell'anagrafe Miur, secondo cui nell'anno accademico 2015/2016 sono stati oltre 17.500 gli iscritti al primo anno di laurea triennale mentre solo 1.038 gli iscritti al primo anno di specialistica, così come i laureati che superano i 12.700 alla triennale ma non arrivano a mille se si guarda alla magistrale.Eppure una laurea magistrale qualche chances in più dovrebbe fornirla, in virtù del titolo ma soprattutto delle maggiori competenze acquisite. Ma quali sono allora le prospettive concrete che si offrono ai laureati di primo e secondo livello? Gli infermieri continueranno ad essere ancora così richiesti in Italia, non solo negli ospedali ma anche sul territorio? Per capire come orientarsi al meglio, formandosi un’idea più chiara delle possibilità a disposizione, Repubblica degli Stagisti ha chiesto aiuto agli atenei di Modena e Reggio Emilia e di Udine, rispettivamente al primo e al secondo posto nella classifica della didattica Censis 2017/2018 per il settore medico-sanitario. «La popolazione sta invecchiando e questo ci suggerisce un crescente bisogno di assistenza infermieristica, che risulta già evidente» spiega Alvisa Palese [nella foto a destra], coordinatrice del corso di laurea in infermieristica dell’università di Udine: «Una ricerca dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico ha riportato che nel 2015 in Europa la media di infermieri “attivi” ogni mille abitanti era di 9.0, mentre in Italia di 5.4». C’è dunque bisogno di infermieri, e sempre di più, considerando che «anche la popolazione infermieristica sta invecchiando e molti, tra pochi anni, andranno in pensione».Gli sbocchi occupazionali per i futuri infermieri sono essenzialmente tre: lavoro dipendente nel pubblico, lavoro dipendente nel privato e lavoro autonomo, che sembra tuttavia raccogliere ancora una ristretta parte della categoria; nel 2015, infatti, dei 371mila infermieri occupati solo 17mila risultavano impegnati nella libera professione (come singoli o come associati) di contro ai ben 354mila infermieri dipendenti. Colpisce come oltre il 75% degli infermieri totali fosse occupato nei servizi ospedalieri, mentre i restanti in studi medici, strutture di assistenza residenziale e non residenziale.La necessità di infermieri non si fa sentire tuttavia solo negli ospedali, considerati il loro regno naturale, ma anche nelle strutture pubbliche e private dislocate sul territorio, che possono essere legate alla Usl o al comune (non per forza all'ospedale) e «accolgono pazienti affetti da malattie croniche» spiega Daniela Mecugni [nella foto in basso a sinistra], presidente del corso di infermieristica dell’università di Modena e Reggio Emilia; se infatti in passato il prevalere di malattie acute rendeva gli ospedali centrali nel sistema sanitario, adesso il prevalere di malattie croniche richiede uno spostamento da un sistema ospedalocentrico verso uno “territoriale”, dove queste ultime possono venire trattate più facilmente, salvo riacutizzazioni. «In queste residenze l’infermiere risulta una figura centrale, poiché è in grado di prendere in carico il paziente sotto tutti gli aspetti, come dimostra l’elevata soddisfazione testimoniata da chi vi si è rivolto». In via di sviluppo è poi l’area della libera professione, che offre all’infermiere più opportunità: «può infatti lavorare da libero professionista sia come singolo che come associato, con medici – aprendo una partita iva – o con altri infermieri, come ad esempio con un fisioterapista» prosegue Mecugni. Ma è bene tenere sempre gli occhi aperti, facendo attenzione a non scivolare in casi di sfruttamento, tutt'altro che rari nel privato: «Bisogna infatti distinguere subito tra lavoro interinale e nell'ambito delle cooperative» riflette Barbara Mangiacavalli [nella foto in basso a destra], presidente della Federazione nazionale ordini delle professioni mediche; «nel primo caso il lavoro è normato contrattualmente con accordi nazionali che, pur non essendo quelli del Servizio sanitario nazionale, tutelano in parte la dignità professionale dei nostri laureati. Nelle cooperative, invece, si assiste spesso a un vero e proprio sfruttamento degli infermieri, pagati anche 5 euro all'ora e costretti ad accettare simili condizioni pur di non restare disoccupati. È  per questo che la Federazione nell'ultimo anno si è battuta e ha ottenuto l'equo compenso anche per la professione infermieristica ma, nonostante ciò, l'abolizione delle tariffe minime professionali, con la complicità della crisi economica, ha senz'altro agevolato la contrattazione dei compensi al ribasso, determinando una sensibile diminuzione dei redditi professionali». Per coloro che preferissero invece proseguire nella formazione, così da buttarsi nel mondo del lavoro con un bagaglio di competenze più ampio, c’è poi la possibilità di intraprendere il corso di laurea magistrale in Scienze infermieristiche, della durata di due anni, o uno dei master di primo livello che «preparano su specifiche problematiche, quali ad esempio cure primarie, critiche o palliative» spiega Palese. Se dunque il proseguimento degli studi non è obbligatorio per l’accesso alla professione, garantito già con il titolo triennale, l’approfondimento dato da un ulteriore step formativo è consigliabile: «vogliamo andare il più velocemente possibile nella direzione di una maggiore specializzazione, come è in medicina» dice Mecugni.A ben guardare infatti la laurea magistrale, grazie alle competenze fornite, amplia non di poco le possibilità future per i giovani infermieri: «con la magistrale si può accedere a ruoli dirigenziali, di docenza nei corsi di laurea ma anche al dottorato in Scienze infermieristiche, necessario per poter accedere al concorso per ricercatori» evidenzia Mecugni. Anche in termini di retribuzione poi la differenza tra laureati triennali e magistrali si fa sentire: a un anno dal titolo, un laureato triennale guadagna circa 1.308 euro, mentre un magistrale 1.529 euro.Per chi tuttavia non riuscisse a trovare in Italia la propria strada, è senz’altro da considerare come molti paesi stranieri guardino proprio al nostro paese in cerca di infermieri già formati. Si tratta in particolar modo di Inghilterra, Germania e Irlanda: «In questi paesi i nostri neo-laureati sono davvero molto apprezzati per le loro competenze» osserva Palese; «nella nostra esperienza del corso di studi in infermieristica dell’università di Udine, ad esempio, nel 2016 ha deciso di lavorare come infermiere in Europa il 17% dei laureati, con una netta preferenza per il Regno Unito (92%), ma anche per Svezia (5,4%) e Spagna (2,6%). Nel Regno Unito prevalgono le opportunità lavorative nel settore pubblico (97,1%) con contratti a tempo indeterminato (94,3%)». Le opportunità per i neo-infermieri dunque ci sono. Ma è bene fare attenzione perché non mancano delle criticità, sia - come visto - nel settore privato, che nel settore pubblico, dove ad ostacolare, e non poco, le assunzioni è ancora il blocco del turn over che «agevola nell’occupazione la libera professione», la quale «rappresenta uno sviluppo e una crescita per l’attività lavorativa» da sostenere però con la «definizione di strumenti professionali e proponendo percorsi legislativi dedicati, che si occupino degli standard economici e di quanto serve per rendere attuativo il neo-normato equo compenso», spiega Mangiacavalli.   A risentire di tali difficoltà sono intanto non solo gli infermieri ma anche la popolazione che, a fronte del crescente livello di non autosufficienza e cronicità, si ritrova con pochi infermieri professionali convenzionati sul territorio ed è quindi costretta a ricorrere ad infermieri “privati”, pagando di tasca propria. Secondo una ricerca Censis, 12,6 milioni di italiani sono ricorsi nel 2016 a infermieri a domicilio, spendendo circa 6,2 miliardi di euro. E uno su due ha pagato in nero, evidenzia la ricerca. Chi invece si trova economicamente impossibilitato ad affrontare questa spesa si è visto costretto a rivolgersi a “non infermieri”, come parenti e badanti che, intervenendo su casi talvolta clinicamente complessi, «portano inevitabilmente a un aggravarsi della condizione clinica e a un ricorso il più delle volte improprio al pronto soccorso» sottolinea Mangiacavalli. La soluzione? Istituire la figura dell’infermiere convenzionato sul territorio, analoga a quella del medico di medicina generale. Questo è ciò che chiede anche il 53,8% degli italiani, che non smettono infatti di dichiarare la propria fiducia negli infermieri (l’84,7%), apprezzati soprattutto dagli ultrasessantacinquenni (90%). Tanta fiducia ma anche qualche problema, quindi, che spesso può demotivare gli aspiranti infermieri o far sorgere in loro qualche dubbio. A chiarire le cose può allora subentrare, forse, solo la passione: «Fare l’infermiere dà molta soddisfazione, perché implica un aspetto di grande disponibilità verso l’altro» evidenzia Mecugni. «L’impatto emotivo nella nostra professione è sempre forte e per questo si può scegliere di praticarla solo se si amano gli altri, se si desidera stargli vicino e contribuire a farli stare meglio».Giada Scotto

Sussidio di disoccupazione e indennità di tirocinio sono cumulabili: la conferma ufficiale dell'Inps

Le Regioni italiane stanno gradualmente aggiornando le proprie normative per gli stage extracurriculari, e uno dei punti caldi è rappresentato dalla compatibilità tra l’indennità di tirocinio con quella di disoccupazione. L’Inps ha recentemente diffuso una circolare a riguardo, la n. 174, per ribadire che la Naspi, Aspi e mini Aspi sono cumulabili con l’indennità di tirocinio, oltre che con una serie di altri compensi, come quelli derivanti da borse di studio e di lavoro, e con i redditi derivanti dallo svolgimento di attività sportive dilettantistiche. La compatibilità era infatti un criterio già valido, come riportato negli articoli 9 e 10 del decreto legislativo n. 22 del 4 marzo 2015. Le Regioni, però, avevano regolamentato la questione come meglio credevano (la Repubblica degli Stagisti aveva approfondito il tema a più riprese, entrando nel merito della questione per tutte le regioni, da nord a sud), e alcune, come la Sicilia e la Lombardia, avevano addirittura vietato alle aziende ospitanti di corrispondere l’indennità di tirocinio a fronte della presenza di un sussidio di disoccupazione per lo stagista. Ora, la nuova circolare dell’Inps ha chiarito nuovamente questo principio. La Repubblica degli Stagisti hacontattato Francesco Maresca, esperto di politiche del lavoro del job center di Gallarate, per analizzare nel dettaglio i contenuti della circolare. «Effettivamente era già una prassi consolidata ritenere che l’indennità di tirocinio fosse compatibile con la Naspi. L'intervento della circolare però è ben accetto, perché ci dice nero su bianco cose che prima non erano chiarissime» dice Maresca. «Non solo il fatto che l’indennità di tirocinio sia compatibile, ma anche che il lavoratore non ha l’obbligo di fare la comunicazione all’Inps rispetto al fatto che comincia un tirocinio rappresenta già un chiarimento, perché nel decreto 22 non si diceva niente sui tirocini». Gli articoli 9 e 10 del decreto 22, quello che norma la Naspi e la compatibilità con attività lavorative successive al riconoscimento al lavoratore della Naspi, infatti, entravano solo nel merito dei lavoratori dipendenti e dei lavoratori autonomi in generale. Nella nuova circolare, invece, viene scritto esplicitamente che, seppur assimilato ai redditi da lavoro, il tirocinio non è un’attività lavorativa, e quindi si conferma interamente cumulabile con i sussidi di disoccupazione.Le Regioni stanno ora implementando nelle proprie normative il passaggio contenuto nelle linee guida per gli stage del 25 maggio 2017. Qui, tra coloro che ricevono un'indennità di disoccupazione, viene fatta la distinzione tra i lavoratori sospesi (ovvero quelli che sulla carta sono occupati, ma a zero ore, per esempio i cassintegrati) e i lavoratori disoccupati, ovvero quelli che hanno perso il lavoro. In entrambi i casi, l'indennità di tirocinio non deve essere necessariamente pagata («non è dovuta l’indennità» dicono le linee guida), e l’azienda ha quindi la facoltà di corrispondere il rimborso spese per il tirocinio. Non è però obbligata a farlo, dato che lo stagista riceve già un sussidio di disoccupazione. Siccome niente è mai semplice in Italia, però, nel caso l'azienda decida di dare un'indennità il trattamento per le due tipologie è diverso. Nel caso di tirocini in favore di lavoratori sospesi «l’indennità di tirocinio è corrisposta per il periodo coincidente con quello di fruizione del sostegno al reddito solo fino a concorrenza con l’indennità minima prevista dalla normativa regionale di riferimento per i lavoratori sospesi e percettori di sostegno al reddito». Cioé: i lavoratori sospesi possono ricevere dall’azienda un’indennità di tirocinio che va a integrare quella di disoccupazione fino al raggiungimento dell’importo del rimborso spese minimo previsto dalla legge della regione. «Se l’indennità minima di una regione è 500 euro» spiega Maresca, «e il lavoratore percepisce 300 euro di Naspi, potrà integrare il sussidio di disoccupazione con un’indennità di 200 euro». Ma non più di 200 euro, perché altrimenti sforerebbe il minimo regionale.Per i lavoratori disoccupati che ricevono forme di sostegno al reddito, invece, «è riconosciuta la facoltà ai soggetti ospitanti di erogare un’indennità di partecipazione cumulabile con l’ammortizzatore percepito, anche oltre l’indennità minima prevista dalle discipline regionali». In altre parole: i lavoratori disoccupati possono ricevere un'indennità anche oltre il limite minimo previsto dalla singola regione. Ma perché mai, se l’ente ospitante è libero di dare al suo stagista percettore di Naspi un rimborso spese, non dovrebbe avere la possibilità di dargli quanto meglio crede, potenzialmente al di sopra del minimo previsto per legge, anche nel caso dei lavoratori sospesi? In fondo, se sia i lavoratori disoccupati che quelli sospesi hanno uguale diritto a ricevere la Naspi, verrebbe naturale pensare che abbiano diritto a ricevere anche l’indennità di tirocinio in egual misura. Invece no: ai lavoratori sospesi, per qualche oscura ragione, viene riservato un trattamento più avaro e restrittivo.Fatta eccezione per questo piccolo segmento specifico di fruitori, la nuova circolare Inps costituisce comunque un passo avanti, soprattutto per quelle Regioni in cui nella vecchia normativa sugli stage vigeva il divieto di corrispondere l’indennità di tirocinio. «Questo ha creato molti problemi da noi in Lombardia, perché molte volte c’erano aziende che volevano pagare l’indennità, ma abbiamo dovuto dire loro che non potevano farlo, perché vietato» racconta Maresca. «Si poteva solo far scegliere al lavoratore se rinunciare all’indennità di Naspi per poter ricevere quella di tirocinio, nel caso in cui la cifra fosse stata più alta». Il nuovo regolamento, spiega Maresca, in questo senso costituisce un passo avanti. «Io non capivo la ratio di non far pagare, perché il vantaggio non veniva allo Stato ed era solo una ulteriore forma di incentivo all’azienda». L'esperto fa l'esempio dei tirocini attivati per giovani provenienti da altre regioni che scoprivano di non poter ricevere l'indennità di tirocinio: «dover spiegare loro che in Lombardia non potevano prendere l’indennità se godevano del sussidio di disoccupazione era sinceramente imbarazzante». Non solo: il fatto che la Naspi consenta di lavorare con forme di lavoro precarie sotto gli 8mila euro all’anno strideva fortemente con il fatto che invece un tirocinante non potesse accumulare il suo piccolo reddito all’indennità della Naspi. «Io sono contento, come operatore, che si sia parzialmente corretta questa cosa, perché era evidente una disparità di trattamento» dice Maresca. Ma le Regioni potrebbero ancora negare la facoltà alle aziende di erogare l’indennità di tirocinio per i percettori di forme di sostegno al reddito? A questo proposito Maresca risponde che le regioni devono per forza di cose recepire gli aspetti direttamente indirizzati dalle linee guida, e quindi anche la Lombardia non avrebbe più potuto confermare il divieto. In realtà non è proprio così: le linee guida non hanno carattere prescrittivo e le Regioni, nelle loro normative, possono anche discostarsi da questo o quel passaggio del testo concordato in sede di conferenza Stato-Regioni.Comunque per il momento, sul punto della compatibilità disoccupazione-indennità, la maggior parte delle Regioni ha integrato nelle nuove leggi le indicazioni sulla compatibilità per filo e per segno dalle linee guida. Ma ce n'è almeno una, come la Sicilia, che ha conservato il divieto di corrispondere l’indennità ai tirocinanti che godono di forme di sostegno al reddito. La speranza è che, laddove le Regioni consentono ai propri enti ospitanti di corrispondere l’indennità di tirocinio anche in presenza di sussidio di disoccupazione, sempre più aziende decidano di farlo. A questo proposito, l'esperto osserva: «l’Europa ci chiede sempre più, quando c’è un sussidio o una Naspi, di spingere la persona ad attivarsi. Però tipicamente si creano delle suggestioni psicologiche per cui alcuni lavoratori che percepiscono la Naspi sono quasi più preoccupati di iniziare un lavoro che la interrompe che non di trovarsi un lavoro solido. Per aiutare il lavoratore ad uscire dalla dipendenza da un sussidio o da un ammortizzatore, la compatibilità del lavoro - e quindi la possibilità di iniziare a fare dei lavori brevi, precari, o dei tirocini, senza stare fermi ma aggiornandosi su altre competenze - secondo me ci sta». L’esperto conclude con una raccomandazione: «Io sono per una compatibilità di tirocinio assoluta non solo dal punto di vista dell’Inps, ma anche per obbligare l’azienda a pagare l’indennità».La circolare Inps intanto ha gettato un po’ di luce sulla materia della compatibilità, facendo chiarezza anche per gli stessi operatori del settore. Rimane solo da vedere se le altre Regioni (Sicilia a parte), continueranno a riconoscere la cumulabilità tra rimborso spese e Naspi. Irene Dominioni

Finanziaria 2018, le novità a favore dei giovani

A fine dicembre è stata approvata la Legge di Bilancio 2018. Tra i vari provvedimenti, alcuni riguardano da vicino l’occupazione e gli incentivi alle assunzioni dei giovani. La Repubblica degli Stagisti li ha analizzati con il supporto di Giampiero Falasca, avvocato specializzato in diritto del lavoro e Rosario De Luca, presidente della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro.Innanzitutto, sono fissati gli sgravi fiscali per le assunzioni a tempo indeterminato, a precise condizioni: è prevista una decontribuzione al 50% per tre anni fino a un massimo di 3mila euro l’anno per l’assunzione a tempo indeterminato di under 35, solo per il 2018, e, a partire dal prossimo anno, solo di under 29. «Si tratta di provvedimenti focalizzati principalmente sui giovani al primo impiego», spiegano entrambi.Per beneficiare dell’incentivo è necessario non essere mai stati impiegati con contratto a tempo indeterminato in passato. L’agevolazione vale poi solo per chi è assunto con contratto a tutele crescenti e si applica anche a chi passa da un contratto a termine al contratto a tutele crescenti. Resta quindi valido e «necessario» in questo senso il contratto istituito con il Jobs Act, così come resta uguale la durata, triennale, delle agevolazioni, con la possibilità poter «portare» con sé in un’altra azienda gli anni residui dell’agevolazione. «Chi, ad esempio, trascorre un anno in un’azienda con un’assunzione tramite contratto a tutele crescenti e relativi sgravi, dà la possibilità a un’eventuale seconda azienda che lo assumerà di impiegarlo con i residui due anni di agevolazioni», chiarisce Falasca.Una manovra che dovrebbe costare, stando a quanto dichiarato dal Governo lo scorso ottobre, «circa 300 milioni che salgono a 800 milioni nel 2019 e 1,2 miliardi nel 2020».Tuttavia rispetto a quanto già attualmente in vigore con il Jobs Act, le nuove disposizioni si possono considerare maggiormente restrittive. In primo luogo perché si passa da una decontribuzione totale a una parziale (50%). Lo sgravio totale resta solo in alcuni casi, ossia per l’assunzione di giovani entro sei mesi dal conseguimento del titolo di studio, se hanno svolto apprendistato o alternanza scuola-lavoro presso la stessa azienda. L'agevolazione totale vale anche per i giovani del sud, ossia soggetti che non abbiano compiuto i 35 anni di età o di età superiore ai 35, purché privi di un impiego regolarmente retribuito da almeno 6 mesi, e per i Neet, cioè giovani che non studiano e non lavorano, iscritti al programma Garanzia Giovani.«Per il sud resta la decontribuzione totale e non c'è il tetto dei 35 anni per chi è senza un impiego regolarmente retribuito da almeno sei mesi, tuttavia le assunzioni possono avvenire solo nel corso di quest'anno», chiarisce De Luca.Un altro limite riguarda precedenti assunzioni con contratto a tempo indeterminato: «la precedente disposizione contenuta nel Jobs Act vietava le agevolazioni solo a chi aveva già avuto un contratto a tempo indeterminato nei mesi precedenti, in questo caso l’accesso allo sgravio è ulteriormente ristretto», spiega Falasca.«I nuovi provvedimenti vanno in continuità con i precedenti in quanto confermano il ricorso alle forme incentivanti già proposte in passato.Tuttavia se la decontribuzione al 50% può essere senz'altro un aiuto per le imprese diventa una criticità, in quanto, essendo rivolta ai lavoratori che non sono mai stati impiegati a tempo indeterminato restringe di molto la platea dei potenziali assunti. Il tema dell'età rappresenta poi un ulteriore paletto. Ci chiediamo a questo punto chi rimanga 'vergine', cioè assumibile», si domanda De Luca.Un altro aspetto fondamentale sono le disposizioni relative al licenziamento: «le aziende possono beneficiare degli sgravi a patto che non abbiano effettuato un licenziamento collettivo - ossia da quattro dipendenti in su - o un licenziamento oggettivo individuale o per motivi economici nei sei mesi precedenti ma anche nei sei successivi all’assunzione» precisa Falasca.Un tema, quello dei licenziamenti, sempre attuale dal Jobs Act in poi, avendo di fatto il contratto a tutele crescenti «superato» l’articolo 18: «In parecchi temono già che con la fine dei tre anni di contributi previsti dal Jobs Act le aziende si liberino dei dipendenti che gli costerebbero di più. Bisogna però essere prudenti su questo punto: potrebbero verificarsi situazioni critiche, ma in generale se un’azienda assume del personale è perché ne ha necessità e sarebbe alquanto inverosimile che se ne liberi all’improvviso».Pur evidenziando le restrizioni di questi provvedimenti, Falasca valuta positivamente queste novità: «nonostante le critiche, credo che il sistema degli incentivi all’occupazione abbia funzionato». Rispetto alla forte crescita dei contratti a termine, di cui si è molto parlato negli ultimi mesi, spiega che «il contratto a termine ha tutti i vantaggi di quello a tempo indeterminato ed è una forma contrattuale dignitosissima. Il problema sono gli abusi nel suo utilizzo, ma la legge parla chiaro: non è possibile fare più di cinque rinnovi per più di tre anni. Si tratta di una normativa del 2014 poi transitata nel Jobs Act con alcuni ritocchi. Secondo me è una normativa equilibrata e non più permissiva: semplicemente eliminando le causali, cioè le motivazioni che inducono il datore di lavoro a utilizzare questa forma contrattuale, è venuto meno il rischio di contenzioso. Ed è stato introdotto un tetto quantitativo - il numero di contratti a tempo determinato non può eccedere il 20% del numero di lavoratori a tempo indeterminato - che prima non c'era e che preclude ogni possibile deriva». Al momento delineare gli scenari futuri non è semplice sia per la vicinanza delle elezioni, che potrebbero portare nei mesi successivi a un ripensamento dell’attuale normativa, sia perché è interessante aspettare la fine dei tre anni di incentivi, prevista per quest’anno, per capire su quali scelte si orienteranno le aziende.Chiara Del Priore

Medicina, quale specializzazione scegliere dopo la laurea?

Se nella vasta gamma di corsi di laurea a disposizione dei giovani si trovano fin da sempre facoltà più direttamente spendibili nel mondo del lavoro, medicina rientra senza dubbio tra queste, essendosi piazzata anche nel 2016, secondo i dati dell’ultimo rapporto Almalaurea, al primo posto per il tasso di occupazione a cinque anni dal titolo, che viaggia oltre il 94%. Anche lo stipendio a cinque anni dalla laurea non delude: la retribuzione netta si aggira in media intorno ai 1.850 euro al mese. A ben guardare, però, oltre l’80% dei neo-medici non può ancora considerarsi fuori dal percorso formativo, perché c'è da frequentare la specializzazione, tappa pressoché obbligata per poter poi lavorare all’interno del sistema sanitario nazionale. Senza di essa, infatti, sembra che gli aspiranti medici possano fare ben poco: sostituzioni di medicina generale e guardie mediche, essenzialmente. Data però la lunghezza della specializzazione – che va in media dai 4 ai 6 anni – e la mole di studio richiesta al superamento del concorso, per titoli ed esami, attraverso cui le borse di specializzazione vengono annualmente assegnate, può essere utile, prima di scegliere la strada da prendere, mettere a confronto le varie opportunità dando un’occhiata anche alle chances occupazionali offerte da ciascuna specialità. «Le specializzazioni più favorevoli sono sicuramente pediatria, anestesiologia, medicina interna e medicina di base che, stando agli ultimi dati, avrà in futuro una grande carenza» spiega a Repubblica degli Stagisti Pierino Di Silverio [nella foto qui sotto], consigliere dell’Ordine dei medici di Napoli e membro del direttivo nazionale Anaao giovani. Stando ai numeri [nella figura a sinistra], infatti, sono queste le specialità che si preparano a registrare, nel periodo 2014-2023, il maggior numero di pensionamenti: 6mila per pediatria, quasi 5.500 per anestesiologia, oltre 4mila per medicina interna. Poche invece sono le notizie dal mondo del privato, per il quale è difficile stabilire quali siano le specializzazioni più fruttuose in termini di retribuzione: i contributi versati dai medici che esercitano privatamente, spiega la la cassa previdenziale dei medici Enpam, non sono distinti sulla base della specializzazione che hanno conseguito ma confluiscono in un fondo unico, quello dedicato appunto alla libera professione. Attenzione però ai dati apparentemente incoraggianti che arrivano dal sistema sanitario nazionale: il gran numero di pensionamenti non significa che per ogni medico anziano che andrà in pensione si aprirà automaticamente un posto di lavoro per un giovane medico. Il numero dei contratti di formazione Miur, ossia delle borse di studio per specializzandi per ciascuna area, risulta infatti nello stesso lasso di tempo nettamente inferiore; si parla infatti di 2.900 borse per pediatria, 5.140 per anestesiologia e 2.280 per medicina interna. Ciò significa che, salvo cambiamenti nella programmazione, mancheranno presto circa oltre 3mila pediatri, quasi 2mila medici interni e più di 300 anestesisti, ma anche, stando ai dati, quasi 1000 chirurghi, oltre 800 psichiatri, e l'elenco potrebbe continuare.Il problema evidente in tali discrepanze sembra però stare a monte, ossia nella forte differenza che si registra ormai da anni tra il grande numero di laureati in medicina e il ristretto numero di borse di specializzazione messe a bando ogni anno dallo Stato e, in minima parte, dalle Regioni: «Gli immatricolati alla facoltà di medicina sono circa 10mila all’anno, con un tasso di laurea in sei anni del 93%. Se si considera che i contratti formativi erano quest’anno 6.700, a cui si aggiungono i circa mille posti per la specializzazione in medicina generale, il gap che ne deriva è enorme. In questo modo circa tra i 1500 e i duemila colleghi restano fuori ogni anno da canali formativi, poiché con la legge Bindi l’ingresso in ospedale è subordinato al titolo di specialista» chiarisce Di Silverio. Per questo Anaao Giovani chiede che venga incrementato il numero dei contratti di formazione specialistica di almeno 2mila unità, per arrivare ad un minimo di 8mila contratti l’anno, così da cercare di «allargare l’imbuto formativo creato da una fallimentare programmazione» si legge sul sito dell’associazione. «La soluzione alla carenza di specialisti che si registrerà nei prossimi anni non sta infatti nel permettere un libero accesso al corso di laurea in Medicina e chirurgia», che «condannerebbe un’intera generazione di medici alla disoccupazione», ma nel «permettere a tutti i laureati in medicina di completare il percorso formativo post-lauream per poter accedere al mondo del lavoro pubblico e privato». Ma, se la soluzione è rappresentata da una corretta programmazione in termini di numeri e di tipologia dispecializzazione, occorre però migliorare la formazione specialistica anche in termini di qualità, poiché «la rete formativa medica ha bisogno di essere integrata, così come deve essere integrata la formazione medica con gli ospedali», spiega Di Silverio. «Auspichiamo e chiediamo da tempo a Roma la creazione di teaching hospital affinché il giovane medico possa girare tra gli ospedali e “imparare facendo”»: dati alla mano, infatti, il 71% di chi ha frequentato un reparto ospedaliero ritiene che la formazione professionalizzante sia migliore rispetto all’analogo universitario. «Questo dimostra che le strutture ospedaliere sono in grado di fornire una formazione di massimo livello, spesso ben al di sopra dei reparti universitari, dando un’ulteriore conferma del fatto che la via maestra per risolvere i problemi del percorso di formazione post-lauream è quella del doppio binario formativo».Ad essere necessario è poi «un cambiamento nella tipologia contrattuale del medico specializzando, che ad oggi percepisce una normale borsa di studio con funzioni contrattuali non ben definite» aggiunge Di Silverio. L’adozione di un contratto a termine «consentirebbe invece di raggiungere i requisiti per entrare nel sistema sanitario dopo la specializzazione, così come di versare quote contributive decorose per il raggiungimento della pensione. In più permetterebbe l’acquisizione dei diritti del lavoratore, che oggi appaiono sfumati e discrezionali».Anche per Walter Mazzucco [nella foto a sinistra], presidente dell’Associazione italiana medici, il problema sta in «una programmazione fatta male», poiché incentrata su un «modello ospedalocentrico» che non tiene conto della necessità di investire invece anche sulle strutture sanitarie territoriali: «se in passato il prevalere di malattie acute rendeva gli ospedali centrali nel sistema sanitario, adesso la programmazione dovrebbe tener conto di un prevalere di malattie croniche che, salvo il riacutizzarsi, possono essere trattate più agilmente sul territorio» spiega Mazzucco. «Il medico che si laurea spesso non conosce bene le possibilità di lavoro sul territorio e ha come sola aspettativa quella di fare il medico ospedaliero»: eppure queste strutture potrebbero dare buone opportunità anche ai giovani neo-medici, a patto però di essere valorizzate. «Avendo 21 servizi sanitari regionali con richieste differenti, il quadro è variegato» sia in termini di problematiche che in termini di opportunità post-specializzazione: «Al Sud si lamenta la mancanza di concorsi a tempo indeterminato, causati dai blocchi imposti dai piani di rientro: in pratica, non ci saranno concorsi a tempo indeterminato finché non ci sarà una rimodulazione delle reti ospedaliere che crei un’adeguata rete di salute» dice Mazzucco. Molti giovani medici del meridione guardano allora al Nord Italia, dove ci sono più possibilità e, spesso, non totalmente sfruttate dato che molti medici «preferiscono, piuttosto che andare a lavorare in un’area periferica, spostarsi in qualche città all’estero». Per questo «abbiamo tanti medici che vanno fuori, soprattutto in Svizzera e Regno Unito». Se dunque la laurea in Medicina continua ad essere considerata un titolo “inossidabile”, anche per gli aspiranti medici, il percorso non sembra essere tutto rose e fiori. Lo conferma la bocciatura dell’emendamento proposto in Commissione bilancio alla Camera volto a garantire la copertura economica, nella legge di bilancio 2018, per circa mille contratti di formazione specialistica in più a partire dal prossimo anno accademico. Mille contratti che secondo l'Anaao «sarebbero stati del tutto insufficienti rispetto alle reali esigenze del fabbisogno del sistema sanitario nazionale e all’angosciante problema dell’imbuto formativo che sta stringendo in una morsa i giovani medici», ma che avrebbero fatto almeno sperare, se non altro, in un impegno e in un interesse delle istituzioni nei confronti della formazione medica specialistica. Giada Scotto