Categoria: Approfondimenti

La polizza assicurativa obbligatoria non piace ai giovani avvocati: costa troppo in proporzione ai guadagni

Il 2017 ha portato una novità non di poco conto per i legali in tutta Italia: l’obbligo di dotarsi di una polizza professionale. Gli oltre 243mila iscritti all’albo, secondo le statistiche del Consiglio Nazionale Forense, stando a quanto stabilito dalla legge 247/2012 (art. 12) devono stipulare una polizza assicurativa a copertura della responsabilità civile derivante dall’esercizio della professione e dalla custodia di documenti, denaro, titoli ricevuti in deposito dai clienti. E devono anche avere una polizza a copertura degli infortuni derivanti ai propri collaboratori in conseguenza dell’attività svolta. Quanto stabilito dalla legge del 2012 è stato inserito nel decreto ministeriale del settembre 2016 che si occupa proprio delle “Condizioni essenziali e massimali minimi delle polizze assicurative” per la responsabilità civile di chi esercita la professione di avvocato. La polizza deve prevedere una retroattività illimitata, anche a favore degli iscritti, e una clausola di ultrattività almeno decennale.In realtà erano cinque anni che una legge già parlava dell’obbligatorietà di dotarsi di una polizza, ma l'obbligo non era mai stato reso operativo. Di recente era stata fissata la data limite dell’11 ottobre 2017. Ma proprio quel giorno in Gazzetta ufficiale è comparsa la proroga di un mese, facendo slittare l’obbligatorietà al 10 novembre. Un obbligo imprescindibile e che rientra tra i sei requisiti che devono ricorrere congiuntamente per rimanere iscritti all’albo, tra questi anche quello di essere titolari di una partita Iva attiva e di aver trattato almeno cinque affari per ciascun anno: pena la cancellazione.Il provvedimento della polizza ha agitato le acque tra i professionisti, soprattutto tra i più giovani e tra quelli che non hanno una grandissima mole di lavoro. Partiamo dai dati: secondo i numeri dell’avvocatura 2016 analizzati dalla Cassa Forense, più della metà degli avvocati ha un reddito annuale sotto i 20mila euro con quasi tre su dieci con poco più di 5mila. Ed è soprattutto la fascia più giovane della categoria a rientrare nei guadagni medio bassi. Al di sotto dei 29 anni, infatti, il reddito irpef medio è di poco più di 10mila euro, e migliora di scarsi 4mila euro tra i 30 e i 34 anni.Ed è quindi su queste categorie di avvocati ancora alle prime armi che questa misura creerà qualche difficoltà. Perché la polizza deve essere adottata da tutti, indipendentemente dal guadagno annuale.Certo, non è proprio intuitivo capire che cosa debba coprire una polizza assicurativa per un avvocato, al contrario, ad esempio, di come possa essere lampante quella adottata da un chirurgo. Bisogna quindi andare a leggere bene il decreto entrato in vigore quest’anno per capire di che si tratta. La polizza assicurativa deve garantire «la copertura della responsabilità del professionista per qualsiasi tipo di danno arrecato al cliente: patrimoniale, non patrimoniale, indiretto, permanente, temporaneo e futuro. Ed è inclusa anche la copertura per responsabilità da colpa grave e per pregiudizi causati a terzi». In pratica l’avvocato si deve assicurare per due profili di rischio: quello legato all’esercizio della professione in sé e verso la clientela – responsabilità per danni involontariamente provocati nello svolgimento della professione legale, compresa la custodia di documenti, somme di denaro, titoli ricevuti in deposito dai clienti – e quello legato alle vicende dell’attività organizzata in azienda – quindi infortuni di dipendenti e collaboratori. Categoria in cui rientrano anche gli infortuni ai praticanti. Ma quanto costa questa polizza? Gli avvocati possono provare a chiedere un preventivo alle varie agenzie di assicurazioni che si sono mobilitate per prevedere delle offerte di questo tipo, ma bisogna stare in guardia e verificare che le offerte personali prevedano di default anche l’opzione per l’ultrattività decennale.Per non dover negoziare personalmente i costi si può approfittare delle convenzioni sottoscritte dagli organismi di categoria, primo fra tutti l’ente previdenziale – la Cassa forense. Al momento quelle disponibili sono nove, e riguardano gruppi assicurativi sia italiani sia stranieri. Logicamente il costo della polizza varia a seconda del fatturato dichiarato dal professionista, ma anche dalle garanzie accessorie scelte. Ad esempio, Generali prevede per gli avvocati under 35 uno sconto del 50% sul premio annuo della polizza, fissato a 300 euro l’anno, per chi non supera i 30mila euro di fatturato. In cambio si otterrà un massimale sinistro annuale di 350mila euro.La convenzione con Compagnia Amissima prevede per gli avvocati iscritti alla Cassa da non più di sei anni, quindi senza limite di età, un premio minimo di 250 euro, sempre con un massimale di 350mila, per chi ha un introito massimo di 30mila euro l’anno. Premio lordo annuo che a partire dal settimo anno di iscrizione sale a 400 euro.Diverse le tariffe con la Unipol Sai, che per chi guadagna entro i 15mila euro annui con un massimale di copertura di 350mila euro, chiede un premio di 260 euro a cui si applica uno sconto in base al numero di anni di iscrizione all’albo portando la cifra a scendere, per il primo anno, a 183 euro.Anche la società Brokeritaly è tra quelle che hanno sottoscritto una convenzione con la Cassa Forense creando un pacchetto che parte da un premio minimo di 135 euro per quanti hanno un fatturato inferiore ai 15mila euro annui.Ci sono anche altre convenzioni e poi esiste come già scritto la contrattazione personale con le agenzie. Ma proviamo a fare un po’ di calcoli per vedere se ai giovani avvocati questa spesa, apparentemente non altissima, incida o meno sul reddito.Secondo i dati della Cassa Forense, i giovani avvocati al di sotto dei 30 anni superano di pochissimo i 10mila euro annui di reddito. Se a questi si tolgono i 1.846 euro di contributi da versare alla Cassa – e si tratta già della riduzione riservata agli under 35 per i primi sei anni di iscrizione; la somma piena è 3.609 euro –, si sottrae poi la quota annuale da versare agli Ordini di appartenenza (che varia a seconda delle regioni con una media sui 200 euro), e si elimina anche la cifra per la polizza professionale sui 250 euro, l’avvocato under 35 chiude l’anno con un ottimistico reddito lordo di 7.700 euro, scarsi 640 al mese. A cui vanno sottratte anche le spese per l’utilizzo di determinati software e soprattutto il fitto almeno di una stanza all’interno di uno studio per esercitare la professione.È su queste cifre reali, quindi, che è scoppiato il malcontento degli avvocati. Che alla fine, comunque, si sono dovuti rassegnare a sottoscrivere le polizze. Tutto finito? Non proprio. Perché dopo le proteste del Consiglio nazionale forense che ha chiesto al ministro della giustizia di valutare l’opportunità di modificare la legge «nel senso di prevedere come facoltativa» la copertura assicurativa in materia di infortuni, in una prima stesura obbligatoria anche per quelli derivanti a sé, alla fine è arrivata la risposta del guardasigilli Orlando. Che, d’accordo «sull’opportunità di rimettere all’autonoma decisione del singolo avvocato la stipulazione di una polizza a copertura degli infortuni a sé derivanti in conseguenza dell’attività svolta nell’esercizio della professione», aveva comunicato di aver trasmesso all’Ufficio legislativo la proposta di modifica dell’articolo 12 comma 2 della legge 247.E infatti anche il Parlamento si è occupato della questione. Tanto che nel decreto collegato alla legge di bilancio 2018, approvato in via definitiva al Senato il 30 novembre, è stato dedicato l’articolo 19-novies alla questione, cancellando dalla legge del 2012 le parole “a sé”. In pratica l’avvocato non ha più l’obbligo di stipulare una polizza per la copertura degli infortuni derivanti a sé stesso, ma resta l’obbligo per la copertura assicurativa di eventuali collaboratori, dipendenti e praticanti. Nonostante proprio il Ministero avesse chiesto al suo ufficio legislativo di valutare anche l'ipotesi della modifica relativa all'esenzione dell'avvocato dall'obbligo assicurativo per gli infortuni derivanti ai collaboratori già provvisti di relativa copertura data dall'iscrizione all'Inail.Resta quindi da chiedersi come mai ci sia stata un'abrogazione a metà, non comprendendo i collaboratori, e se vi sia spazio in futuro per un'eventuale abrogazione dell'assicurazione infortuni anche per questi soggetti. Quello che è probabile è che a questo punto anche i costi ora disponibili vengano rimodulati e diminuiti. Con buona pace dei tanti professionisti under 30 alle prime armi e con redditi bassi che, preoccupati dal poter essere cancellati dall’albo, la polizza l'hanno già sottoscritta entro i termini previsti.  Marianna Lepore

Laurea in ingegneria e lavoro quasi assicurato, ma attenzione alla scelta dell'indirizzo

Se prendersi una laurea significa fare un investimento, investire tempo, impegno e denaro con la speranza di aprirsi una buona strada per il futuro, i diplomati che decidono di intraprendere un percorso di studi in ingegneria sembrano proprio aver fatto centro. La laurea in ingegneria risulta infatti una garanzia anche in tempi di crisi, con un tasso di occupazione, a un anno dal conseguimento del titolo, pari all’84,9%. Una percentuale destinata a crescere a cinque anni dalla laurea, con ben il 93,4% di ingegneri occupati, superati solamente dai medici, il cui tasso di occupazione sfiora il 94%. Ma non è tutto: secondo i dati dell’ultimo rapporto AlmaLaurea la maggior parte degli ingegneri ha un contratto a tempo indeterminato (il 75,5% dei casi) e una retribuzione da far invidia agli altri colleghi laureati, con poco meno di 1700 euro mensili. I giovani che hanno deciso di puntare sulla "facoltà vincente" sono stati nell'ultimo anno accademico quasi 42mila (il 40,5% degli immatricolati dell'intera area scientifica), ma le ragazze non arrivano a 10mila. La maggior parte di queste risultano iscritte al Politecnico di Milano, che si conferma l'ateneo più "women-friendly". Ma se i numeri continuano ad attrarre tanti neodiplomati, prospettando un percorso tutto rose e fiori, a rovinare o, perlomeno, complicare i piani degli aspiranti ingegneri è la sostanziale differenza in termini di garanzia d’occupazione - e di retribuzione - tra gli indirizzi di studio a disposizione. Nonostante il 2016 abbia registrato la più elevata domanda di laureati in ingegneria degli ultimi sedici anni (26.540 secondo i dati raccolti dal centro studi del Consiglio nazionale degli ingegneri), infatti, i valori si mostrano tutt’altro che omogenei: ad essere particolarmente richiesti sono gli ingegneri meccanici ed energetici (con una retribuzione media netta mensile a cinque anni dal titolo di 1.790 euro), nonché quelli del settore informatico (1.703 euro), elettronico (1.744 euro) e delle telecomunicazioni (1.652 euro), con un aumento della domanda di oltre il 20% rispetto al 2015. Soffrono invece i laureati degli indirizzi civile e ambientale (le cui retribuzioni medie si fermano a 1.490 euro), che hanno visto ridursi il numero di opportunità lavorative del 5,5% rispetto al 2015: «È vero che la parte più consistente dei laureati in questi ambiti svolge la propria attività lavorativa in qualità di liberi professionisti» si legge nel rapporto del Consiglio nazionale «ma è pur vero che il dato negativo è l’indicatore di un contesto generale in cui il settore delle costruzioni e delle opere pubbliche, dopo anni di profonda crisi e di tagli di spesa consistenti, sta evidenziando solo ora limitati segnali di ripresa». E il maggior calo nelle assunzioni di questi due profili si riscontra al Sud: quasi un quarto in meno. Un dato che riflette una più generale disparità tra Nord e Sud nella domanda di lavoratori con competenze ingegneristiche, con circa due terzi delle assunzioni localizzate nelle regioni settentrionali: basta pensare che Lombardia e Piemonte coprono da sole il 40% del totale di assunzioni in Italia, con oltre 10mila opportunità lavorative rivolte per lo più a ingegneri dell’area elettronica e dell’informazione, ma anche a ingegneri gestionali, industriali e dell’area mista. Cresce invece la richiesta di profili informatici ed elettronici nel Centro Italia e in particolar modo nel Lazio dove, delle 4mila assunzioni totali, più della metà è riservata a questi due profili. Un divario netto, dunque, che non colpisce soltanto il mondo delle imprese ma anche quello dell’università. Al momento di scegliere l’ateneo a cui scriversi, infatti, le future matricole si trovano davanti un panorama ben chiaro: secondo la classifica delle facoltà di ingegneria italiane selezionate dalla guida Censis-Repubblica per il 2017 ad occupare le prime quattordici posizioni sono università del Centro-Nord, con in testa l’università di Modena e Reggio Emilia, seguita dal Politecnico di Torino e da quello di Milano. I primi due atenei del Sud si trovano al 15esimo e 16esimo posto, e sono rispettivamente l’università di Catanzaro e quella di Cagliari. «La classifica della didattica Censis si basa su due indicatori in relazione ai quali i corsi di laurea triennali di ingegneria di Cagliari risultano a volte più, a volte meno competitivi» ha spiegato a Repubblica degli Stagisti Corrado Zoppi, presidente della facoltà di Ingegneria dell’ateneo cagliaritano: «per quanto riguarda l’internazionalizzazione, infatti, Cagliari è seconda, avendo il nostro ateneo e, in particolare i corsi di ingegneria, una tradizione al riguardo consolidata e in espansione; ma è 31esima per ciò che riguarda la progressione di carriera dello studente, una problematica abbastanza radicata nei corsi di ingegneria di Cagliari, dove il tempo medio della laurea triennale è stato, nel 2015, di poco inferiore ai sei anni, mentre quello dei corsi di ingegneria di diverse università del Centro-Nord è inferiore di circa un anno e mezzo». Per questo motivo «già dall'anno scorso il coordinamento didattico della facoltà ha  cercato di indirizzare la questione, e l'offerta formativa di  quest'anno ha riorganizzato i corsi di matematica e fisica del primo anno cercando di rendere meno gravoso il carico didattico delle matricole». Questo perché «la lentezza della progressione della carriera ha effetti molto negativi sia sul numero di studenti iscritti in corso che sul numero di laureati magistrali e, in cascata, fa sì che gli stessi corsi di laurea magistrale risentano di un numero minori di iscritti» spiega Zoppi «proprio perché i laureati triennali sono molti meno di quelli che potrebbero e dovrebbero essere. Su questo aspetto gli atenei del Centro-Nord hanno iniziato a lavorare molto prima di noi e ciò ha portato a questa classifica piuttosto deludente sui corsi di Ingegneria degli atenei del Sud».E il passaggio da uno step all’altro risulta in effetti un problema serio se si considera che meno della metà dei laureati triennali (il 47,6%) intende proseguire con la laurea magistrale, secondo i dati AlmaLaurea.Eppure la specialistica sembra dare decisamente più chances di una “semplice” triennale: «I nostri laureati magistrali hanno un’aspettativa di lavorare in maniera stabile, a cinque anni dal titolo, di circa l’80%. Questa aspettativa è invece decisamente più bassa per quanto riguarda i laureati triennali» conferma Zoppi.A rendere più ghiotto il proprio curriculum agli occhi delle aziende è poi, accanto al titolo magistrale, una precedente esperienza lavorativa (specifica per la mansione o almeno nello stesso settore), necessaria in oltre due terzi delle assunzioni e considerata decisamente più rilevante rispetto a un ulteriore titolo di studio quale dottorato o master, richiesto in meno del 20% dei casi. Un fronte su cui gli studenti di ingegneria sembrano però dover migliorare, fermandosi a poco più del 56% la percentuale di laureati che hanno avuto esperienze lavorative durante gli studi. Laureati che non si fanno invece cogliere impreparati sulle altre due competenze più richieste dal mondo delle imprese, quella informatica e quella linguistica. Secondo i dati AlmaLaurea, infatti, la maggior parte dei neo-ingegneri ha una buona conoscenza della rete e dei programmi del pacchetto Office, nonché una conoscenza “almeno buona” dell’inglese (80 laureati su 100), considerato ormai un must in molte tipologie di lavoro, anche se i numeri scendono notevolmente se si guarda alla conoscenza di altre lingue, tedesco in primis.  Ma quali sono, in fin dei conti, i settori a cui questi laureati possono puntare una volta terminati gli studi e fatto bagaglio di tutte le “plus-competenze” necessarie? Al primo posto si trovano il settore dei servizi e quello dell’industria: «Lo sbocco privilegiato per gli ingegneri dipendenti resta l’impresa di grandi dimensioni, ossia con più di cinquanta dipendenti» fanno infatti sapere dal centro studi del Consiglio nazionale di categoria. Molto più ristretta risulta invece la quantità di assunti negli studi professionali e nel settore delle costruzioni, dove però è molto elevata la quantità di liberi professionisti e consulenti e prevale, quindi, la domanda di lavoro autonomo rispetto a quello dipendente.Giada Scotto

Il libretto formativo del cittadino, questo sconosciuto

Cos'è il libretto formativo del cittadino? Questo strumento in effetti è noto a pochi: si tratta di un libretto personale in cui sono registrate le competenze formali acquisite durante la formazione in contratto di inserimento, la formazione specialistica e la formazione continua, nonché le competenze non formali e informali. Lo strumento raccoglie e documenta informazioni, dati e attestazioni riguardo esperienze maturate in vari ambiti – educativo/formativo, lavorativo, sociale, ricreativo, familiare – al fine di migliorare la leggibilità e spendibilità delle competenze e l’occupabilità delle persone.E in realtà attualmente questo servizio è attivo solamente in quattro Regioni: Toscana, Puglia, Lazio e Marche.Eppure la nascita del libretto, corrispettivo italiano dell’Europass, risale a un decreto ministeriale del 2005, emanato in conseguenza degli accordi relativi alla Strategia di Lisbona, un insieme di linee guida europee finalizzate alla standardizzazione dei processi lavorativi, alla trasparenza delle competenze e alla mobilità delle persone. Oltre a questi obiettivi, si intendeva aiutare i cittadini ad acquisire consapevolezza del proprio bagaglio culturale e professionale nonché a dare valore ad esso attraverso il riconoscimento da parte delle istituzioni.Ancor meno numerosi probabilmente sono quelli che sanno che il libretto è stato integrato nel fascicolo elettronico del lavoratore (articoli 14 e 15 del decreto legislativo n.150/2015), una versione moderna e digitale del libretto formativo del cittadino, che ne raccoglie le medesime informazioni, integrate dalla possibile fruizione di provvidenze pubbliche e versamenti contributivi. In alcune regioni – almeno per il momento – verrà ancora identificato con il libretto formativo del cittadino. Per entrambi l’apertura avviene su volontaria richiesta del cittadino, salvo casi specifici, come quello del Servizio civile nazionale nell’ambito di Garanzia Giovani, che ne ha previsto la compilazione per tutti i volontari.La procedura di compilazione del fascicolo elettronico dovrebbe però essere molto più semplice e rapida. La gestione della precedente versione del libretto era demandata alle Regioni, che a loro volta individuavano dei soggetti, di solito i centri per l’impiego, responsabili delle pratiche di compilazione e di rilascio dello strumento. Il fascicolo elettronico del lavoratore, invece, non richiederà necessariamente l’autocompilazione assistita, ma potrà essere compilato e scaricato anche da casa attraverso lo Spid (Sistema pubblico di identità digitale) sul portale dell’Anpal (Agenzia nazionale politiche attive lavoro), che è il soggetto individuato per la gestione del fascicolo. «Le informazioni personali e lavorative saranno recuperate mediante le comunicazioni obbligatorie» spiega Andrea Simoncini, responsabile struttura di ricerca “Monitoraggio e valutazione formazione professionale e Fse” presso l'Anpal «e attraverso il sistema della formazione professionale universitaria, nonché dalla banca dati dell’Inps». Per quanto riguarda invece la validazione di certificazioni e competenze, Simoncini aggiunge che «ora le Regioni sono concentrate sulla standardizzazione delle qualificazioni». Un passaggio importante affinché ci possa essere un riconoscimento oggettivo delle potenzialità di ciascun lavoratore. Secondo il ricercatore Anpal «occorre valorizzare la parte non fisica della certificazione e limitare le certificazioni a quando sono strettamente necessarie, ad esempio per essere ammessi a un bando».Fa riflettere tuttavia che, a dodici anni dalla nascita del libretto formativo del cittadino, ci si trovi ancora in una fase di “start up”. Dal 2007 al 2010 il libretto è stato sperimentato in tredici enti fra regioni e province, coinvolgendo diverse fasce di popolazione: lavoratori in crisi occupazionale, apprendisti, lavoratori immigrati, militari volontari in congedo. La sperimentazione è avvenuta con il supporto dell’Isfol, l’attuale Inapp (Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche). Un iter non semplice. «In realtà il libretto esiste sì dal 2005, ma la normativa sul sistema validazione e certificazione che ha reso il servizio agibile risale al 2013 e la normativa sulle regioni al 2015» ammette Elisabetta Perulli, ricercatrice Inapp: «Le riforme per la valorizzazione delle competenze sono state molto faticose e frutto di un lavoro di negoziazione con i vari soggetti coinvolti: università, scuola, Regioni che rilasciano qualifiche professionali, ordini professionali e professioni regolamentate». Tra gli scogli più duri c’è stato il mondo universitario: «La principale difficoltà è stata quella di rendere esercitabili i crediti di esperienza lavorativa nel settore per dare sconti su quote parti di esami».L’Inapp oggi fornisce assistenza tecnica alle istituzioni e cura studi e indagini sul tema. Dalla sua attività di ricerca è nato l’Atlante del Lavoro e delle Qualificazioni, che rientra nel disegno di inserire in una stessa cornice qualificazioni rilasciate in diversi ambiti quali scuola, università, istruzione e formazione professionale di primo livello e superiore, qualificazioni regionali, qualificazioni acquisite mediante un contratto di apprendistato e professioni normate a vari livelli e in diversi contesti. Questo risultato è stato istituzionalizzato con il decreto interministeriale del 30 giugno 2015 (intitolato “Definizione di un quadro operativo per il riconoscimento a livello nazionale delle qualificazioni regionali e delle relative competenze, nell'ambito del Repertorio nazionale dei titoli di istruzione e formazione e delle qualificazioni professionali”). Parallelamente l’Inapp ha messo a disposizione un portale interamente dedicato al libretto, che si chiama Va.Li.Co. (Validazione Libretto Competenze) ed è rivolto agli amministratori e agli operatori italiani che vogliano condividere informazioni e risorse per progettare e realizzare pratiche coerenti con la cornice europea e nazionale.Ma come funziona il fascicolo elettronico? Una volta creato il form, si avvia la procedura di validazione delle competenze. «La pesatura delle esperienze è fatta prima attraverso un’indagine narrativa»,spiega Perulli, «poi attraverso la richiesta alla persona di produrre una documentazione tipo portfolio con contributi multimediali, documenti cartacei e altri prodotti realizzati durante l’esperienza. A questo punto il dossier viene chiuso e passato a un valutatore». In questa procedura possono intervenire tre figure: un tutor che aiuta a compilare il dossier, che può essere un libero professionista o un dipendente del soggetto deputato; un esperto valutatore che valuta il dossier e che - se non ha abbastanza strumenti per farlo – può allestire una prova (es. un colloquio con l’interessato) o chiamare in causa un esperto di settore; e appunto l’esperto di settore.Le regole per la compilazione variano di regione in regione. Recentemente nel forum della Repubblica degli Stagisti un giovane tirocinante ha chiesto delucidazioni sulla registrazione della sua esperienza formativa nel libretto: «non esiste un monte ore minimo universalmente valido per la registrazione dell’esperienza formativa sul libretto» rispondeElisabetta Perulli «ma la soglia è definita all’interno delle singole regioni e di solito coincide con le regole dei contratti, ad esempio per i tirocini Garanzia Giovani ammonta al 75% del totale».Ma come mai il possibile utilizzo dello strumento resta ancora sconosciuto ai più? Sicuramente perché non è stato comunicato a livello istituzionale, come conferma Perulli: «Non ci sono state ancora campagne di comunicazione in quanto ci sono regioni che non sono ancora in grado di offrire il servizio, anche se gli impianti normativi sono già in piedi. Prima di diffondere l’informazione stiamo cercando di assistere le regioni che stanno ancora indietro, ad esempio con la formazione degli operatori. Le Regioni in cui ad oggi è possibile richiedere lo strumento sono: Toscana, Puglia, Lazio e Marche».Alla situazione attuale, non è ancora possibile fare una stima dei possessori del libretto e/o del fascicolo. «A breve avvieremo un programma di monitoraggio, ma siamo sicuri che i numeri non sono ancora elevatissimi. La conoscenza da parte dei datori di lavoro è ancora molto scarsa e – laddove è conosciuto – lo è come adempimento reso noto dal consulente del lavoro», spiega la ricercatrice: «Quello che conta è che cresca nei cittadini una consapevolezza del diritto al riconoscimento di tutti gli apprendimenti e le competenze ovunque maturate, e che loro stessi siano soggetti attivi di pressione verso le istituzioni affinché questi diritti siano esercitabili ed esigibili».Chi volesse saperne di più sullo stato di implementazione e di agibilità del libretto formativo del cittadino nel proprio territorio deve rivolgersi alla Regione di appartenenza o al centro per l’impiego di riferimento.Rossella Nocca

Nuova normativa sui tirocini nel Lazio, come va la transizione?

Il 1° ottobre 2017 è entrata in vigore la “Nuova disciplina sui tirocini extracurriculari nella Regione Lazio”, contenuta nella Deliberazione della Giunta regionale n.533 del 9 agosto 2017. Ciò vuol dire che tutti i tirocini extracurriculari avviati a partire da ottobre presso aziende del Lazio devono rispettare le nuove regole. Regole – come il rimborso spese minimo di 800 euro (e non più di 400 euro come nelle linee guida del 2013) e il periodo massimo di durata di 6 mesi (invece di 12) – che hanno rappresentato una vera e propria "rivoluzione", se si pensa che nelle “Linee guida in materia di tirocini formativi e di orientamento” contenute nell’accordo adottato dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano il 25 maggio scorso, il rimborso spese minimo era stato fissato a 300 euro. A un mese e mezzo dall’entrata in vigore delle nuova normativa, sulla scia del dibattito nato nel forum, la Repubblica degli Stagisti ha chiesto ad alcuni dei principali enti promotori di tirocini extracurriculari come sta procedendo la transizione. «Qualche settimana prima dell’entrata in vigore abbiamo ricevuto la comunicazione della Regione» spiega Francesca Gelosia, responsabile dell’Ufficio placement dell’università di Roma “Tor Vergata” «e abbiamo avvisato le aziende che ci sarebbe potuto essere qualche ritardo nelle convenzioni al fine dell’adeguamento. Tuttavia ci siamo adeguati sin da subito alla normativa, anche grazie al costante confronto con un referente della Regione Lazio».L’ateneo di Tor Vergata ha una piattaforma di placement su cui sono pubblicati gli annunci di stage delle aziende, da qui l’importanza di metterle al corrente del cambiamento in atto. Anche perché – ricordiamo – le aziende che non rispettano le nuove regole rischiano di incorrere nell’interdizione fino a 24 mesi dall’ospitare tirocinanti. «Abbiamo mandato loro un’informativa e quasi tutte hanno recepito le novità. Certo capita ancora che ci inviino proposte di tirocinio da 400 euro al mese, in questi casi le contattiamo per invitarle ad adeguare il rimborso», chiarisce Francesca Gelosia. Che conclude: «Dal 2 ottobre al 3 novembre sono già state stipulate 16 nuove convenzioni di tirocinio». Le vecchie convenzioni cessano di avere valore nel momento in cui terminano i tirocini iniziati prima dell’entrata in vigore della nuova normativa, infatti, e non possono essere rinnovate o prorogate.La transizione procede regolarmente anche all’università “Roma Tre”. «Abbiamo inviato dei quesiti a cui la Regione ha risposto» precisa Marina Mariantoni, responsabile dell’Ufficio Stage e tirocini «in parte direttamente con le faq pubblicate ed in parte ricevendoci per un incontro esplicativo con una rappresentante dell’assessorato. Ovviamente, come in tutti momenti di cambiamento, abbiamo dovuto sospendere per un breve periodo le attivazioni al fine di adeguarci, e questo può aver causato qualche disguido, ma non abbiamo avuto lamentele al riguardo».Le passate regole restano valide per i tirocini antecedenti il 1° ottobre. «Abbiamo attivato un tirocinio con la vecchia normativa a seguito di un avviso pubblico precedente all’entrata in vigore della nuova normativa, così come previsto dall’art. 18 comma 3 della dgr 533/17», conferma Mariantoni. Infatti nella deliberazione si legge: “I progetti formativi individuali (PFI) che recano come giorno di avvio del tirocinio una data precedente al 1° ottobre 2017 continuano ad essere disciplinati dalla dgr 199/2013 sino alla scadenza fissata nel PFI stesso, comprese le eventuali proroghe. L’istituto della proroga, per definizione infatti, non interviene sul contenuto formativo del tirocinio e sulle modalità del suo sviluppo, ma si limita ad aggiornare, prolungandola, la data del termine del PFI”. Una formulazione che non lascia spazio a dubbi. Una voce fuori dal coro rispetto alla percezione positiva dell’adeguamento è quella dell’università di Roma “La Sapienza”. L’ufficio stampa inizialmente risponde che «la Sapienza sta adeguando le  procedure  per l'attivazione dei  tirocini  extracurriculari in base a quanto  previsto dalla  deliberazione della Giunta regionale del Lazio n.533/2017». Poi, alla richiesta di maggiori dettagli, afferma che l’ateneo è «in attesa delle regole di attuazione».La Repubblica degli Stagisti ha chiesto anche un primo commento all’assessorato al lavoro della Giunta regionale del Lazio, che tuttavia per il momento preferisce non “sbilanciarsi”. Senza dubbio l’esperienza del Lazio merita di essere monitorata, anche perché potrebbe fungere da modello per le altre regioni, le quali – teoricamente entro il 25 novembre, ma con tutta probabilità tra la fine di quest'anno e i primi mesi del prossimo – saranno chiamate ad adeguarsi alle Linee guida nazionali. Rossella Nocca

Aspiranti avvocati, praticantato più breve ma guadagni bassi sopratutto per giovani e donne

Tecnicamente si chiama “tirocinio per l'accesso alle professioni regolamentate”, anche se tutti l'hanno sempre chiamata pratica professionale. In particolare, il periodo di formazione post-laurea per diventare avvocato, oggi chiamato anche tirocinio forense, ha subìto nel tempo delle modifiche, le ultime previste nel decreto ministeriale 70/2016 che sono entrate in vigore a partire dal 1 gennaio 2017.Cosa è cambiato, quindi, per chi oggi vuole diventare avvocato? Innanzitutto, per chi ha cominciato la pratica a partire dal 6 giugno 2016, è cambiata la durata: se una volta erano necessari 24 mesi presso uno studio legale, adesso ne bastano 18, con almeno 20 ore settimanali (ne riparleremo più avanti).Poi, superato l’esame e iscritti all’ordine professionale, comincia la vera battaglia sul campo per un reddito. Perché nonostante la professioni eserciti ancora una certo fascino, negli anni la mole di lavoro è diminuita molto, grazie a varie riforme che hanno portato fuori dai tribunali alcuni procedimenti una volta appannaggio solo degli avvocati, come le separazioni e i divorzi. E complice la necessità di spese per l’uso di software e del processo telematico, oltre all’eliminazione delle tariffe minime, la concorrenza in molti casi è diventata una gara al ribasso.Basta leggere i numeri: secondo le ultime statistiche pubblicate dal Consiglio Nazionale Forense relative al 2016, il totale nazionale degli iscritti all’albo è di 243.680 soggetti, con il picco di avvocati a Roma, oltre 25mila, seguita da Milano, quasi 19mila, e Napoli, quasi 14mila. Città che possono tranquillamente definirsi “capitali” degli avvocati, visto che al quarto posto c’è Bari, con scarsi 7mila iscritti: la metà della terza in classifica. Ma la professione conviene ancora? La Cassa Forense, cassa nazionale di previdenza e assistenza degli avvocati, ha provato a dare una risposta con un’analisi molto dettagliata dei numeri dell’avvocatura 2016, che in parte sono positivi: segnano una ripresa, dopo un lungo periodo di contrazione dei redditi. Ma evidenziano gravi disparità: per età, sesso e regioni. Oltre il 54% degli avvocati ha un reddito annuale sotto i 20mila euro, con quasi tre su dieci con poco più di 5mila, e circa l’80% al di sotto della media che è di 38mila euro l’anno. Discriminazione che avviene per età e sesso: se fino a 40 anni il reddito medio è sui 20mila euro annui, con gli uomini oltre i 27mila e le donne ferme sui 15mila, un avvocato uomo tra i 65 e i 69 anni in media guadagna oltre 80mila euro l’anno mentre una collega coetanea poco più di 40mila.E poi ci sono i ritardi nei pagamenti: principale problema riscontrato dagli avvocati under 40, secondo il rapporto Censis del marzo 2016, seguito dal peso crescente dei costi e adempimenti burocratici. Problemi che riguardano tutte le fasce di età, ma incidono in maniera netta sui redditi dei più giovani.Per gli avvocati alle prime armi diventa quindi più complicato riuscire ad avere un reddito dignitoso alla fine del mese. Problemi che si aggiungono a quello dell’affollato mercato del lavoro per i legali italiani. Basti pensare che dal 1985, quando gli avvocati erano 48mila, ad oggi, il numero si è quintuplicato, portando l’Italia ad essere il terzo Paese a livello europeo per concentrazione di avvocati con una media di quattro ogni mille abitanti, dopo il Liechtenstein e la Spagna (rispettivamente a sei e cinque). In numeri assoluti il Bel Paese è secondo solo alla Spagna, che ha più di 250mila avvocati.Una categoria di dimensioni abnormi dunque rispetto agli altri Paesi, con un reddito medio sceso negli ultimi anni: elementi che hanno influito sul numero di iscritti alla facoltà di Giurisprudenza. Tanto che secondo i dati fotografati dall’ufficio anagrafe del Miur e dalla redazione del Sole24Ore nell’anno accademico 2015/16 c’è stato un calo del 35% di iscritti rispetto a quattro anni prima.Per quelli, però, che non rinunciano a studiare da avvocati, il 2017 ha portato come accennato meno mesi di pratica per l'attuazione di quanto già previsto dal dpr 137/2012 in tema di riforma degli ordinamenti professionali e, più nello specifico, dalla legge 247/2012 in cui è dedicata una sezione a parte, il capo I del titolo IV, al tirocinio professionale.Dei diciotto mesi di pratica la legge attuale prevede, peraltro, che sei possano essere svolti durante gli studi universitari, quindi ancora prima di aver preso la laurea. Per farlo il primo requisito necessario è quello di essere in regola con gli esami, in particolare con alcuni come diritto civile e penale. Lo studente praticante avvocato dovrà frequentare uno studio professionale per almeno 12 ore settimanali, ma nel frattempo non è esonerato dalla frequenza dei corsi obbligatori universitari. E in più è obbligato anche a seguire i corsi di formazione continua tenuti da ordine e associazioni forensi, al pari di qualsiasi altro avvocato. Punti esplicitati anche nella convenzione quadro firmata tra Consiglio nazionale forense e Conferenza nazionale dei direttori di giurisprudenza e scienze giuridiche nel febbraio 2017. In pratica, quindi, lo studente avvocato tirocinante avrà molto lavoro da fare e molti impegni da dover incastrare nelle 24 ore giornaliere.Non c'è solo la possibilità di fare una parte della pratica professionale pre laurea. Il decreto ministeriale, infatti, stabilisce anche che sei mesi possano essere fatti all’estero, in un Paese dell’Unione europea presso lo studio di professionisti avente titolo equivalente a quello di avvocato abilitato. Il praticante deve, però, comunicare al Consiglio dell’ordine i contatti del professionista e la sua equivalenza a titolo di avvocato.Gli aspiranti avvocato possono anche svolgere 12 mesi presso l’Avvocatura dello Stato o fare un periodo formativo presso gli uffici giudiziari e fare gli ultimi sei mesi di pratica presso uno studio. E nel caso del tirocinio presso gli uffici giudiziari la buona notizia è la presenza di un rimborso di 400 euro al mese. Somma che fa gola a molti, tanto che negli ultimi anni il numero di richieste per questo tipo di tirocini è cresciuto. Con la conseguenza che nel 2016 ben 1300 dei 4mila laureati che avevano scelto questa opzione si sono ritrovati senza alcun rimborso.Non sono solo i numeri sulla professione futura a scoraggiare i giovani a intraprendere questa strada, si aggiungono anche le opinioni di chi oggi l’avvocato lo fa e non sembra avere un giudizio particolarmente positivo sulla fase attraversata dall’avvocatura: secondo l’indagine Censis 2015 quasi l’80% degli intervistati era convinto che si stesse attraversando una forte crisi professionale ed economica con la necessità di ripensare il proprio ruolo. Una situazione ancora lontana dal risolversi: secondo il rapporto annuale sull’avvocatura 2017, infatti, oltre il 78% degli avvocati l’anno scorso ha avuto difficoltà a risparmiare e uno su due ha subito un ridimensionamento delle entrate.Non servono poi studi statistici per sapere che nonostante l’alto numero di legali, le cause non si risolvono prima, anzi. I tribunali si intasano a causa del numero di procedimenti e all’aumento smisurato della burocrazia che, complici i tre gradi di giudizio, fa sì che solo per avere una sentenza di primo grado i tempi medi di definizione siano 992 giorni.Sullo sfondo per molti resta, però, la figura dell’avvocato come colui che sa ascoltare, ragionare e mediare seguendo un’etica. Poi nella pratica, complice la rincorsa al guadagno, e l’alta concorrenza, spesso si finisce con ampliare i lati negativi della professione. Che per molti giovani, però, ha ancora un certo fascino.Marianna LeporeFoto quadrata in alto a destra: di Morganforuall da Pixabay in modalità Creative Commons  

Donne attratte dalla chimica, ma il gap di genere resta: «Educhiamo anche i mariti a non ostacolare le nostre carriere»

Basta entrare in uno dei tanti laboratori chimici universitari per capire che la chimica è sempre più donna. Secondo i dati dell'Anagrafe nazionale studenti (Ans), nell’anno accademico 2015/2016 le ragazze immatricolatesi ai corsi di laurea in Scienze e tecnologie chimiche sono arrivate a superare – anche se di poco – i ragazzi. E il vantaggio si è confermato nell’anno 2016/2017 (51,5% contro 48,5%). Tra le materie dell’area Stem (Science, Technology, Engineering and Mathematics), la chimica è oggi una delle più amate dal genere femminile. Ma non solo. Rispetto a tre anni fa, infatti, il suo appeal è consistentemente cresciuto, con un incremento totale delle nuove iscrizioni del 29% e con circa 4mila immatricolati.«Le studentesse sono più numerose ma si perdono per strada, oppure restano nelle posizioni di base» si rammarica con la Repubblica degli Stagisti Luisa Torsi, professoressa ordinaria di Chimica analitica presso il Dipartimento di Chimica dell’università “Aldo Moro” di Bari. Nel 2010 è stata la prima donna e la prima italiana nella storia a vincere l’Henrick Emmanuel Merck per le Scienze Analitiche, premio internazionale destinato a scienziati capaci di migliorare la qualità della vita dei cittadini, grazie all’invenzione di un sensore bio-elettronico stampabile su plastica o carta, in grado di rivoluzionare il mondo della diagnostica medica. La Torsi è stata inoltre tra gli inventori della “macchina degli odori”, in grado di realizzare dei biosensori capaci di codificare e decodificare gli odori con una precisione simile a quella del naso umano, con possibili applicazioni ad esempio nell’industria dei profumi.Nonostante la sua esperienza positiva, la professoressa non nega l’esistenza del “soffitto di cristallo”: «Quando dieci anni fa ho sentito parlare per la prima volta di sottorappresentanza delle donne nelle posizioni apicali» spiega «l’ho percepito come una forzatura. Poi però mi sono resa conto che siamo noi donne che non ci rendiamo conto di essere discriminate perché pensiamo che quello che viene è ciò che ci meritiamo». Quindi aggiunge «Da quando l’ho capito mi sono fatta parte attiva nella sfida per la parità: vado nelle scuole superiori, partecipo a conferenze divulgative sulle donne e la scienza».«Le donne crescono con l’idea che a certi posti non ci possono arrivare o che per arrivarci devono rinunciare alla famiglia. Io sono diventata a favore delle quote rose perché certi fenomeni o li obblighi o non avverranno mai. È degradante ma è così», le fa eco Costanza Rovida, Project Manager presso Mastery, società  di Como che fornisce consulenza regolatoria per l’adempimento del REACH (regolamento adottato dalla Ue per migliorare la protezione della salute dell’uomo e dell’ambiente dai rischi delle sostanze chimiche) e Scientific Officer presso il CAAT–Europe (Center for Alternatives to Animal Testing) presso l’Universität Konstanz in Germania, in collaborazione con la John Hopkins University di Baltimora, oggi impegnata in prima linea, anche attraverso un tavolo ministeriale, nella promozione di metodi alternativi alla sperimentazione animale.Mastery, la società dove oggi lavora, è un caso di “disparità al contrario”, visto che a capo c’è una donna e sono impiegati 18 donne e 5 uomini. Ma la scienziata prima di arrivarci ha avuto modo di sperimentare le differenze di genere. «Io vengo da una famiglia “tradizionale”, con l’idea che le donne devono sposarsi e fare figli. I miei erano d’accordo che studiassi all’università, ma qualcosa di soft, giusto per “sfizio”», racconta alla Repubblica degli Stagisti Rovida. Che poi aggiunge: «L’imprinting familiare mi ha condizionato molto. Il mio primo marito voleva che smettessi di lavorare, così ho rifiutato molte proposte. È stato difficile capire che anche con due figli potevo realizzarmi».Insomma, a cambiare non deve essere soltanto la mentalità degli uomini ma in primis quella delle donne. «Dobbiamo educare le persone che abbiamo accanto, a partire dai mariti, all’idea che non vogliamo rinunciare alla nostra soddisfazione, perché ognuno di noi, uomo o donna, deve realizzare il suo potenziale più alto», conferma Luisa Torsi. Che poi fa riferimento alla sua esperienza: «Ho due figli e non sempre è stato facile conciliare vita privata e lavoro a questi livelli. Tuttavia la carriera universitaria ad esempio si può modulare, quello che non si deve fare è sparire per sei mesi. Io avevo l’astensione obbligatoria due mesi prima e tre mesi dopo la gravidanza, ma ho lavorato sempre. La responsabilità di componente attivo nella società non deve mai venir meno, altrimenti alla donna verrà sempre preferito l’uomo».I profili di Luisa Torsi e Costanza Rovida sono inseriti nella banca dati 100esperte.it, progetto nato per valorizzare le figure femminili in ambito Stem e combattere le discriminazioni di genere, dai media ai comitati scientifici fino ai convegni di settore. «Da quando è partito il progetto sto tenendo una statistica sui relatori e sui partecipanti ai convegni nazionali e internazionali ai quali presenzio» spiega Rovida «Ebbene, se i partecipanti sono per metà uomini e per metà donne, fra i relatori il rapporto è di 80-20 o 70-30».Ma perché una ragazza – nonostante tutto – dovrebbe avere ogni interesse a scegliere la chimica? «Studiare chimica vuol dire capire come funzionano le cose» dice Luisa Torsi «ed entrare in possesso di strumenti culturali utili a gestire situazioni complesse. In Italia la chimica viene insegnata bene, con corsi di livello internazionale e che sono ancora piuttosto “elitari”, quindi aprono prospettive di carriera più di altri».Industria, gestione, sicurezza sul lavoro, ricerca, insegnamento: sono tanti i possibili settori di occupazione per i laureati in chimica. In particolare, «uno degli sbocchi del futuro è il mondo della sostenibilità» sostiene Costanza Rovida «perché oggi le aziende hanno bisogno di investire in sviluppo, fare test per capire se i loro prodotti potranno causare problemi alla salute e all’ambiente. Questo richiederà lo sforzo congiunto di più professionalità: chimici, biologi, statistici…». Un consiglio che vale la pena di appuntare.Rossella Nocca

Alternanza scuola-lavoro, gli esperti rispondono alle proteste: «Ragazzi, non siete sfruttati»

Gli studenti italiani non sono soddisfatti dei percorsi di alternanza scuola-lavoro. È sfruttamento, dicono, e per protesta la settimana scorsa sono scesi nelle piazze di 70 città italiane, rivendicando di essere, appunto, «studenti, non merce nelle mani delle aziende». Ma c’è davvero una strumentalizzazione in atto? L’editoriale di Eleonora Voltolina sulla Repubblica degli Stagisti, qualche giorno fa, aveva voluto fare il punto sulla questione: un paio di settimane di esperienza in un qualsiasi contesto lavorativo non possono sostituire l’impiego di un lavoratore, e comunque iniziare ad avere avere un’idea di come il mondo del lavoro funzioni di certo non può far male. Non significa né mettere la firma per un certo tipo di mestiere, né che quel mestiere debba necessariamente piacere, né, tantomeno, essere sfruttati.Ma allora che legittimità hanno le rivendicazioni degli studenti? La Repubblica degli Stagisti l’ha chiesto ad una serie di esperti in occasione del convegno sull'alternanza scuola-lavoro “Imparare e progettarsi facendo” all'università Cattolica.«Su alcune tematiche della scuola gli studenti hanno ragione a portare avanti le loro rivendicazioni, ma su altre sbagliano completamente obiettivo. L’idea che il lavoro sia condanna e schiavitù è impressionante» dichiara Roberto Proietto, dirigente dell’ufficio Ordinamenti scolastici e politiche per gli studenti dell’Ufficio scolastico regionale lombardo. «Mi consola il fatto che sia una reazione ampiamente minoritaria, seppur largamente enfatizzata dagli organi di informazione. Stiamo lavorando su alcuni degli elementi che hanno sollevato, come la questione dei diritti e doveri degli studenti in alternanza, e presto presenteremo loro una soluzione. Siamo assolutamente aperti al confronto». Insieme ad Assolombarda, l’ufficio scolastico regionale in Lombardia è al lavoro sulla costruzione di un manuale di condotta per i percorsi di alternanza. Rimangono però aperte altre questioni, come ad esempio quali attività si possano effettivamente etichettare come alternanza. «Lo è l’esperienza in vela a Caprera? E la visita guidata in azienda?» chiede Proietto. Resta da chiarire anche quale debba essere il ruolo del tutor (interno, a scuola, ed esterno, in azienda) e quello del consiglio di classe, oltre alla questione dell’accertamento delle competenze. Ma resta un dato di fatto: l’alternanza scuola-lavoro presenta un potenziale enorme, anche se «occorrerà molto tempo per vederne gli effetti, poiché non c’è alternanza se non c’è anche una trasformazione dell’assetto didattico» sottolinea il dirigente. Al di là degli ostacoli specifici, l’alternanza scuola-lavoro rimane uno strumento valido per dare agli studenti un “assaggio” di mondo del lavoro. Per questo, secondo gli esperti, non è giusto criticare la misura nel complesso, e gli studenti dovrebbero piuttosto rivolgere le proprie rivendicazioni alle singole scuole, responsabili dell'implementazione dell'alternanza.  «Sul fatto che le esperienze di scuola-lavoro avrebbero potuto essere progettate meglio mi sembra giusto che gli studenti manifestino il proprio disagio» dice Diego Boerchi, ricercatore e psicologo del Centro di Ricerche sull'Orientamento e lo Sviluppo Socio-professionale (CROSS) dell’università Cattolica: «Anche se, piuttosto che nelle piazze, dovrebbero reclamare ai propri docenti e dirigenti il diritto a esprimere una preferenza e ad un maggiore coinvolgimento nell’organizzazione dell’alternanza, così da generare percorsi che siano per loro veramente utili».Secondo Livia Cadei, docente di Pedagogia della Cattolica, il vero problema è che i ragazzi non hanno capito il valore dell’alternanza scuola-lavoro, ed è compito dei docenti, delle scuole e delle aziende aiutarli a farlo: «Gli studenti manifestano un disagio perché avvertono che questa esperienza non è sfruttata bene, ma non sono stati aiutati a comprendere che, più che un lavoro non retribuito, questa esperienza può essere utile per crescere e acquisire competenze diverse e trasversali al sapere, al saper fare e al saper essere. Gli attori del mondo adulto dovrebbero allearsi per spiegare meglio agli studenti cosa ci si attende da loro e come siano tutti in gioco».Ma l'alternanza non è utile soltanto dal punto di vista delle competenze, bensì anche da quello delle conoscenze: gli studenti, infatti, spesso non solo non hanno ben chiaro quale strada vogliano intraprendere, ma ignorano anche in che cosa consistano i mestieri che si prefigurano. Comprendere con anticipo che cos'è il mercato del lavoro, invece, li aiuterebbe non solo ad inserirsi più facilmente, ma anche a capire dove candidarsi per trovare le migliori opportunità. «È un attimo che uno studente che ha studiato informatica e installazioni di rete esca dalla scuola pensando di installare grandi impianti e invece si ritrovi a tirare cavi e basta. Con l’alternanza scuola-lavoro ha l’opportunità di conoscere questo contesto, di capire che chi esce dalla sua scuola può fare lavori per lui molto interessanti ma anche molto banali, e quindi anche di capire meglio come muoversi per tempo per cercare le opportunità che per lui siano più interessanti. Non può rimandarlo a quando avrà il pezzo di carta in mano».Non è detto però che le esperienze di alternanza siano in linea con il proprio percorso di studi. Non sarebbe meglio se uno studente del classico facesse alternanza in una libreria, piuttosto che in una società di consulenza informatica? E che uno dello scientifico andasse in un’azienda automobilistica, invece che in un negozio di abbigliamento?«E' interessante che l’alternanza possa svolgersi in contesti lavorativi che consentano di sviluppare le competenze di profilo» dice Proietto, «però ricordo che è un po’ più difficile identificare queste competenze per esempio per gli studenti liceali. Quello che manca ai nostri studenti è ciò che oggi la nuova realtà del mondo del lavoro richiede, cioè le competenze non legate ad un particolare settore, ma alla mentalità che si sviluppa nel mondo del lavoro. Quando lo studente dice che gli hanno fatto fare qualcosa che non c’entra nulla con il suo percorso, dice una cosa che può essere vera, ma che non può essere portata a fondamento dell’alternanza scuola-lavoro, che forse vuole raggiungere altri obiettivi».«Bisogna stare attenti a non lasciar intendere che allora tutte le esperienze, dal fare il caffè al fare le fotocopie, siano utili solo per acquisire competenze pratiche», incalza la Cadei. «Occorre qualcuno alle spalle degli studenti che li aiuti a rileggere la situazione, a capire quali sono gli elementi culturali e di sfida. Di fatto non bisogna lasciare soli gli studenti, e anche tutto il sistema deve essere aiutato a comprendere il valore formativo dell'alternanza. Forse allora capiranno che queste esperienze non costituiscono delle scorciatoie».Evidentemente sull’alternanza scuola-lavoro ci sono ancora parecchie cose da digerire, in primis da parte degli studenti. Ma sul fatto che questa sia un’opportunità preziosa, sia per consentire ai ragazzi per inserirsi più efficacemente nel mondo del lavoro, sia per iniziare a svecchiare il sistema scolastico italiano, rimangono pochi dubbi. Non ammetterlo sarebbe come puntare il dito contro lo scienziato Thomson, colui che nel 1904 inventò il modello atomico “a panettone”. Chi l'ha studiato sa che quel modello si rivelò impreciso. Ma forse ricorderà anche che pose anche le basi per tutti i successivi studi sulla struttura dell’atomo. Davvero è il caso di abbattere un pezzo così fondamentale dello sviluppo della scienza (e della formazione) moderne?Irene Dominioni

Studiare giornalismo all'estero, il modello della Columbia Journalism School

La concorrenza spietata del giornalismo di oggi conduce a ricercare competenze sempre più avanzate e specialistiche. E le scuole di giornalismo all’estero sono un’ottima fonte a cui attingere per acquisire ulteriori skills e per entrare nel mercato internazionale.Gli Stati Uniti, in particolare, rappresentano un’eccellenza per la formazione giornalistica a livello mondiale, la cui la punta di diamante è senza dubbio la Columbia Journalism School. Quest’ultima si trova a New York e precisamente nel quartiere di Broadway, in un'ottima posizione, tra Upper West Side e Harlem, poco lontano da Central Park, e perfettamente servita dalla metropolitana (la più vicina è a due minuti). La scuola propone in particolare due percorsi, Master of Science (M.S.) e Master of Arts (M.A.), a cui si può accedere dopo aver conseguito una laurea di primo livello.Il Master of Science è pensato per chi ha poca o nessuna esperienza sul campo e intende imparare il mestiere. Il programma prevede insegnamenti quali tecniche giornalistiche, etica, storia e diritto, ma soprattutto molta pratica. Il corpo docenti è composto da figure esperte, che provengono sia dal mondo accademico che da quello giornalistico. Il master si può svolgere in modalità full-time (10 mesi) o part-time (2 anni). Si aggiungono due percorsi più specifici, l’M.S. in Data Journalism (12 mesi) e l’M.S. Journalism and Computer Science (2 anni). Per l’M.S. full-time si stima un costo totale di 101mila dollari, comprensivo di tasse di insegnamento (61mila), altre tasse, quali la tassa del servizio sanitario e l’assicurazione medica (tra i 7mila e gli 8mila dollari) e spese di alloggio medie (33mila). Per il part-time il costo stimato è di 78mila dollari per il primo anno, mentre per gli altri due programmi è rispettivamente di 148mila e 104mila dollari. La tassa per partecipare alla selezione è di 100 dollari. Le iscrizioni per il 2018 saranno aperte fino al 15 dicembre 2017. I risultati saranno comunicati a metà marzo e gli ammessi cominceranno a maggio il programma part-time e ad agosto quello full-time. Il Master of Arts è invece rivolto a quei giornalisti che hanno già maturato due o più anni di esperienza, e propone diversi indirizzi: politica, scienze, business e arte. Il percorso, della durata di nove mesi, è più teorico che pratico, con seminari e corsi esterni da scegliere nei vari dipartimenti della Columbia (es. Economia, Scienze Politiche, Religione…), e si conclude con una tesi finale. Il costo totale stimato è di 94mila dollari, di cui 56mila di tasse di insegnamento, 7mila di altre tasse e 30-31mila di spese di alloggio. Le domande di iscrizione al prossimo programma, che partirà a settembre 2018, dovranno pervenire entro il 9 gennaio 2018 e a metà marzo saranno comunicati i nomi degli ammessi. Sono previste borse di studio a copertura parziale. «Circa l’80 per cento dei nostri student riceve assistenza finanziaria dalla Scuola» assicura alla Repubblica degli Stagisti Ernest Sotomayor, Dean of Student Affairs and Communication, anche se non specifica a quanto ammonti questa “assistenza finanziaria”, quante siano per esempio le borse di studio a copertura totale, insomma fino a che punto gli aspiranti studenti meritevoli ma meno abbienti possano accedere a questa opportunità.Non si sa nemmeno quante posizioni siano disponibili ogni anno all'interno della scuola. «Entrambi i Master non hanno un numero fisso di posti» specifica Sotomayor: «Per l’anno accademico 2017/2018 gli iscritti al Master of Science sono 220 e quelli al Master of Arts 45. L’anno precedente erano rispettivamente 290 e 48. L’età media è in genere di 26-27 anni. Di solito il 40 per cento degli studenti è straniero». Ma quanti italiani ogni anno facciano richiesta di entrare, e quanti vengano ammessi, purtroppo non è dato sapere. La Repubblica degli Stagisti lo ha chiesto, ma Sotomayor e il suo staff non hanno risposto. Si sa solo che per l’ammissione si tiene conto del percorso di istruzione e formazione precedente e gli studenti stranieri sono tenuti a superare una prova di inglese, a meno che non abbiano completato tutti i loro studi presso un’università inglese.Qual è il ritorno di questi percorsi formativi in termini di occupazione? «Il 70 per cento degli studenti M.A. e M.S. dell’ultimo anno accademico» risponde Sotomayor «hanno avviato uno stage retribuito, a tempo pieno e a tempo parziale, hanno continuato con un altro programma accademico, o hanno intrapreso un’attività entro tre settimane dalla laurea. Le statistiche sono rimaste stabili negli ultimi anni». Anche qui sorprende il grado di superficialità e approssimazione della risposta, davvero sorprendente da parte di un dean di una scuola di giornalismo. Non distinguere nella percentuale di placement chi ha trovato lavoro (con un vero contratto e una vera retribuzione) dopo aver frequentato la scuola da chi si è dovuto accontentare di uno stage (per quanto pagato...), o si è dovuto/voluto in proprio, è a dir poco... grossolano.In ogni caso. Tra le opportunità post Master offerte dalla Columbia Journalism School c’è quella di lavorare per un anno presso la sua testata ufficiale, la Columbia Journalism Review, o di ottenere un assegno di ricerca annuale presso la scuola. Inoltre esiste un ufficio Career Service, che propone workshop e assistenza nella compilazione di cv e cover letter, e in primavera organizza la Career Fair, a cui partecipano centinaia di editor di alcune delle principali testate americane, con cui gli allievi possono fissare dei colloqui anche per futuri contatti da freelance.A monitorare le carriere è poi l’ufficio Alumni, che interagisce con i 10mila ex allievi: «Inviamo una newsletter mensile; forniamo loro una piattaforma» aggiunge Sotomayor «per contattarsi a vicenda; organizziamo eventi in tutto il mondo per gli ex allievi e per quelli futuri». Un altro utile strumento attraverso il quale gli ex allievi restano connessi tra loro, e allo stesso tempo forniscono supporto ai nuovi arrivati, è il gruppo Facebook Columbia Journalism School. La Columbia Journalism School rappresenta oggi una delle destinazioni più ambite per chi sogna un futuro nei media. In Italia l'hanno scelta noti giornalisti come Gianni Riotta e Anna Masera. Eppure, nonostante il prestigio della Columbia sia riconosciuto a livello mondiale, essa - come tutte le scuole di giornalismo estere - non ha lo stesso valore di quelle italiane (dodici attualmente), le quali sono riconosciute dal Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti ed equiparate al praticantato giornalistico, e danno pertanto diritto all’accesso all’esame di abilitazione professionale. «Bisogna modificare la legge n.69/1963 anche in questo senso, cominciare ad aprirsi a queste realtà. In 54 anni» dice alla Repubblica degli Stagisti il presidente dell’Ordine dei giornalisti Nicola Marini «il mondo è cambiato: e il compito dell’Ordine è proprio quello di attrezzarsi per governare le nuove frontiere del giornalismo in un mondo globalizzato».Non è da escludere che il riconoscimento dei percorsi di formazione all’estero possa essere tra le novità della futura riforma dell’Ordine dei giornalisti. Un passaggio che accrescerebbe ulteriormente la spendibilità e quindi l’appetibilità della formazione giornalistica internazionale.Rossella Nocca 

AAA stagista vegano cercasi: quanto è legale chiedere dettagli personali ai colloqui?

Si può selezionare un dipendente o uno stagista in base a caratteristiche che, almeno apparentemente, hanno poco a che fare con il ruolo da coprire in azienda? Se lo sono chiesti in tanti leggendo le polemiche che un annuncio di ricerca per uno stagista per sei mesi all’interno della Lega Anti Vivisezione italiana ha suscitato. Tra i requisiti: titolo preferenziale la scelta vegana. Un elemento discriminatorio? Il presidente della Lav, Gianluca Felicetti, in un’intervista si è difeso dicendo «l’annuncio rispetta in pieno la nostra filosofia del rispetto globale dei diritti degli animali», e aggiungendo che essere vegani è indispensabile per rappresentare l’associazione.Eppure non è usuale ficcare il naso nelle abitudini alimentari di un candidato. La Repubblica degli Stagisti ha voluto fare chiarezza, e capire con certezza se una richiesta del genere da parte di un datore di lavoro sia legale oppure no. La risposta, lo anticipiamo, è: “probabilmente sì”.«A livello normativo vige un principio ben chiaro di non discriminazione e di attuazione di una direttiva comunitaria per cui è vietata la discriminazione diretta e indiretta per varie questioni, tra cui le convinzioni personali. E io ritengo che la scelta vegana possa chiaramente rientrare tra le convinzioni personali» spiega alla Repubblica degli Stagisti Chiara Vannoni, avvocata presso lo studio legale Rosiello di Milano.La normativa prevede delle deroghe, ma queste vanno calate nell’attività da svolgere. «Se ho un locale notturno e tra i requisiti chiedo la conoscenza di una determinata tecnica di difesa allora non è una discriminazione, perché è in relazione all’attività che dovrò far svolgere» continua Vannoni: «La Lav chiede che la scelta vegana sia condivisa, ma è ovvio che bisogna capire che tipo di attività svolgerà il dipendente. Ad esempio, se starà dietro una scrivania, il fatto che non sia vegano ma solo vegetariano non vedo come possa influire nelle mansioni che andrà a svolgere».È d'accordo anche Francesco Bacchini, docente di diritto del lavoro presso l’università Bicocca di Milano: «Sarebbe stato diverso se avessero fatto lo stage per trovare un addetto al centro di elaborazione dati. Lì non dovrebbe interessare a nessuno se sei vegano: dovresti poter mangiare... anche la marmotta!», scherza. Bacchini richiama alcuni riferimenti importanti per capire di cosa si stia parlando: l’articolo 20 della Carta dei diritti fondamentali dell’unione europea, l’articolo 3 della Costituzione italiana, l’articolo 15 dello Statuto dei lavoratori e il decreto legislativo 216 del 2003, «che è quello relativo all’attuazione della direttiva europea sulla parità di trattamento in materia di disoccupazione e delle condizioni di lavoro». Nell’ordinamento italiano ed europeo «vige il principio del divieto di discriminazione su una serie di elementi fondamentali a tutela della persona tra cui il sesso, il genere, l’età, l’appartenenza politica e le convinzioni personali. Sulle prime dunque la richiesta della scelta vegana sembrerebbe discriminatoria». Anche se i riferimenti normativi citati si applicano a un rapporto di lavoro, mentre lo stage non lo è, rientra comunque nelle condizioni di assunzione e selezione. «Quando viene proposto uno stage, essendo questa proposta finalizzata a selezionare e quindi avere più chance di assunzione, essa rientra nel campo di applicazione del decreto 216 del 2003. E quindi deve rispettare le regole sancite per un accesso al mondo dell’occupazione in modo non discriminatorio. Quindi le proposte devono rispettare la parità di trattamento indipendentemente da sesso, religione, età e convinzioni personali. E la scelta vegana è chiaramente una convinzione personale».C’è poi da analizzare la risposta data dal presidente Lav, secondo cui chi vuole lavorare per loro deve condividere appieno le loro convinzioni. È ammissibile? «Il decreto 216 esclude la discriminatorietà di determinati elementi quando questi sono imprescindibili per la natura dell’attività lavorativa o per il contesto in cui è esplicata. Però la norma al comma 3 dell’articolo 3 ribadisce che devono essere rispettati i principi di proporzionalità e ragionevolezza». Quindi? «Il dubbio che il requisito della Lav non sia ragionevole e proporzionale in relazione al fatto che le attività svolte da Lav possono essere legittimamente perseguite anche da chi vuole bene agli animali ma non è vegano, c’è. Ma la scelta di dire che costituisce titolo preferenziale ma non sostanziale mi fa propendere per una previsione che tutto sommato, al di là dei dubbi proprio sul principio di proporzionalità e ragionevolezza, non ci sia una chiara e sicura discriminazione».Molto più “light” sarebbe stata la questione se l’annuncio avesse esplicitato solo il divieto di consumare alimenti non vegani nella sede di lavoro. «Sarebbe stata una questione riguardante le regole interne dell’ufficio» commenta l’avvocato Vannoni, «e lì non vedo grandi ostacoli».E a proposito del requisito del veganesimo Bacchini sottolinea come oggi «la discriminazione nella selezione è uno dei punti più delicati dell’intera disciplina discriminatoria collegata al lavoro, proprio perché si pone in un momento in cui si viene scelti o respinti nella ricerca di un lavoro. Un soggetto assunto non è obbligato ad essere socio e può non aderire alla filosofia della onlus. Però, ricordiamo che il legislatore proprio nel decreto 216 del 2003 ha indicato che ci possono essere secondi principi di ragionevolezza delle situazioni nelle quali la prestazione del lavoro necessita dell’adesione alla filosofia dell’organizzazione. Direi anche in questo caso senza il bisogno di diventare soci della onlus. Secondo me ci può stare, è chiaro che si può aver a cuore la protezione e il rispetto degli animali senza essere necessariamente vegani».Stesso discorso, secondo l’avvocata Vannoni e il professor Bacchini, se il caso avesse per esempio riguardato un’associazione religiosa che avesse messo come titolo preferenziale l’appartenere a quella religione, o un’associazione lgbt che avesse esplicitato una preferenza per candidati omosessuali. Vannoni però precisa un punto: «Il datore di lavoro si basa su quello che io dichiaro, e quindi queste richieste lasciano il tempo che trovano. Come posso dimostrare di essere vegano? Lo dico ma magari non è così. È ovvio che il rapporto di buona fede e correttezza è alla base, ma sono principi talmente evanescenti che la prova diventa intangibile».Bacchini fa notare, peraltro, come la Lav abbia intelligentemente inserito il veganesimo tra i titoli preferenziali ma non esclusivi , così da mettersi «al riparo da una evidente violazione delle regole antidiscriminatorie dell’accesso al posto di lavoro».Ma se un datore di lavoro può inserire in un annuncio la richiesta di requisiti così personali, come si garantisce il rispetto dell’articolo 8 dello statuto dei lavoratori? «A rapporto di lavoro già stipulato le tutele sono decisamente più forti. Pensiamo ai primi clamorosi casi di licenziamento nelle scuole cattoliche confessionali o ai casi dei docenti dell’università cattolica del Sacro Cuore che diventati protestanti sono stati costretti ad andarsene». Ancora una volta torna lo stesso concetto: «Il problema si pone in relazione a che tipo di mansioni svolgi. Se per quelle mansioni è necessario che tu aderisca e trasmetta l’ideologia, allora la discriminazione è legittima. Altrimenti non lo è».La sottile linea che stabilisce la differenza qual è? «La deroga, non solo nostra ma europea, intende trovare un equilibrio difficile tra il divieto di discriminare e le caratteristiche intrinseche manifestate palesemente dalle organizzazioni. Una onlus di protezione di animali non è così evidente che possa stabilire un requisito come quello del veganesimo» continua il suo ragionamento Bacchini: «Se fosse stata l’associazione nazionale vegani d’Italia non avrei avuto nessuna remora nel dire che poteva starci. Ma qui qualche dubbio ce l’ho. E anche loro ce l’hanno, perché dire “titolo preferenziale” significa evitare che qualcuno dica che è discriminatorio. Bisogna poi chiedersi se in uno stage di sei mesi un requisito preferenziale è essere vegani».Anche l’avvocata Vannoni ricorda che affianco all’articolo 8 dello Statuto dei lavoratori oggi ci sono tutta una serie di altre norme di derivazione comunitaria il cui impianto discriminatorio è particolarmente significativo. «L’Unione europea è molto attenta alla questione delle discriminazioni. E a prescindere dalla Lav, purtroppo capita ancora spesso di avere situazioni in cui il datore di lavoro faccia le famose indagini preassuntive, nella stragrande maggioranza dei casi con richieste a donne in età fertile di dichiarare di non essere incinta al momento dell’assunzione».Un datore di lavoro fino a che punto può indagare sulle abitudini personali di un potenziale dipendente? «Può farlo se le mie abitudini e inclinazioni di vita hanno una qualche forma di ripercussione nel mondo del lavoro e allora può verificare se c’è una interferenza. Altrimenti no» spiega Vannoni. Ma il grado di libertà nella scelta di un dipendente è ancora abbastanza ampio. «Gli annunci di lavoro devono essere rivolti a entrambi i sessi, ma per il resto la valutazione è sempre discrezionale. A parità di candidati, perché venga scelto un uomo e non una donna... è sempre discrezionale».Anche l’età, ad esempio, non andrebbe chiesta. «Posso indicarla se è congrua al tipo di conttratto che ti propongo, per esempio l’apprendistato fino a 29 anni. Ma se devo assumere con contratto di lavoro subordinato normale, allora già quella richiesta diventa discriminatoria. La lettura dei limiti è estremamente significativa», spiega Bacchini.Le abitudini e le caratteristiche personali, secondo Vannoni, semplicemente non si chiedono. «Non si inseriscono tra i requisiti perché la persona deve portare la sua esperienza, competenza e capacità. La ricerca del personale dovrebbe operare nelle scelte di merito rispetto alle capacità della persona. E anche chiedere esperienze mirabolanti per degli stage è un segno parossistico. Lo stage dovrebbe essere rivolto alla formazione di una persona».Marianna Lepore

Donne ed economia, la sfida della parità di genere

Sei ragazze che reggono l’ombrello a sei relatori uomini durante un dibattito pubblico a Sulmona. L’immagine risale a un paio di mesi fa: è rimbalzata sui giornali estivi come ennesimo esempio di quanto il divario di genere sia ancora forte nella nostra società. Un divario che si manifesta soprattutto nelle posizioni professionali di vertice. E fra i settori in cui risulta più evidente c’è l’economia. Una materia che non rientra a pieno titolo nell'area Stem (Science, Technology, Engineering and Mathematics) - di cui la Repubblica degli Stagisti si è occupata nei precedenti approfondimenti - ma che di fatto ne discende. Nel concetto di "science" della National Science Foundation, infatti, confluiscono non solo le scienze naturali ma anche quelle sociali, come appunto l'economia, ma anche le scienze politiche o la psicologia.  E l'economia ha sicuramente in comune con le materie Stem il problema del divario di genere. Anche se qualche passo avanti comincia a intravedersi. Come ad esempio la nomina al vertice della Società italiana economisti di Annalisa Rosselli, prima donna a ricoprire questa carica. «In Sie abbiamo una commissione di genere e stiamo cercando di dare un contributo per introdurre il bilancio di genere nelle università e per dare spazio alla parità nelle cariche». È questo uno degli impegni che si è assunta la neopresidentessa, già docente ordinaria presso la facoltà di Economia dell’università Tor Vergata e componente dell’International Association for feminist economics.«A partire dagli anni Novanta noi donne abbiamo cominciato a denunciare le associazioni scientifiche solo maschili, le cosiddette “caserme”. Solo negli ultimi anni le cose hanno iniziato a migliorare», sostiene Rosselli. Basti pensare alla nomina di Christine Lagarde a capo del Fondo monetario internazionale (Fmi). «Ma la mentalità è difficile da cambiare. Lo scorso giugno sono stata invitata alle considerazioni finali del Governatore della Banca d’Italia: mi indicavano il posto visto che ero l’unica donna; il rapporto uomini/donne in platea era 1/20-30. È un mondo maschile, proprio per questo la presenza femminile potrebbe essere determinante, così come negli asili ci dovrebbero essere dei maestri maschi».La commissione di genere Sie effettua periodicamente delle indagini tra i propri soci per analizzare l’evoluzione della professione in una prospettiva di genere. Secondo il Rapporto 2016 “Uno sguardo di genere”, in Italia le dottorate in Economia sono più degli uomini (51,4%), eppure il personale docente di sesso femminile ammonta solo al 36%, ovvero a 1.749 donne su un totale di 4.784 docenti in ruolo. In particolare, sono donne solo poco più di uno su cinque tra i docenti ordinari e poco più di un terzo tra gli associati – nonostante all'inizio della carriera accademica le donne siano pari al 49% dei ricercatori confermati e al 44% dei ricercatori a tempo determinato.A livello gerarchico, per le economiste si manifesta la classica struttura piramidale, con una bassa percentuale di donne al vertice della carriera accademica (17%), quindi il 38,5% nella fascia intermedia e il 44% per cento nella fascia più bassa di docenza. Tra i motivi del mancato avanzamento di carriera, c’è la difficoltà di conciliare vita privata e professionale e dedicare il tempo necessario alla ricerca: sei donne su dieci dichiarano che gli impegni familiari hanno avuto un effetto negativo sulla loro progressione di carriera.Nelle iscrizioni universitarie alle facoltà economiche il gap di genere non è così evidente. Dei 9.831 immatricolati nella classe di laurea in Scienze economiche (anno accademico 2015/2016) circa quattro su dieci erano donne. Anche perché, nonostante i tempi difficili, la laurea in Economia rappresenta ancora un buon passpartout. Oltre all'università, infatti, sono tanti i contesti che richiedono una formazione economica: banche, assicurazioni, istituti di recupero crediti, studi commercialistici, enti pubblici e privati. Molteplici i possibili ambiti di impiego: amministrazione, management, contabilità, ricerca e selezione del personale, marketing e comunicazione, turismo, finanza. Tra le nuove figure, spiccano quelle del project manager, che gestisce operativamente i progetti; del brand manager, che sviluppa progetti di marketing destinati a far crescere specifici prodotti; l'assistance manager, assistente di direzione in un'impresa; e il project risk manager, che cura la gestione dei rischi per le aziende.        «Il vantaggio di studiare l’economia è che offre una grande gamma di sbocchi professionali, dal mondo della ricerca a quello della finanza e delle istituzioni internazionali», conferma alla Repubblica degli Stagisti Veronica Guerrieri, ricercatrice e docente di Macroeconomia presso l’università di Chicago Booth School of Business, con all'attivo una laurea in Bocconi e un PhD al Mit (Massachusetts Institute of Technology). Lo scorso anno l'economista livornese ha ricevuto il prestigioso Bernacer prize for european economists, destinato al migliore economista europeo under 40 nei settori della macroeconomia e finanza, grazie alla sua ricerca sulle origini delle crisi finanziarie e, in particolare, sul funzionamento di mercati finanziari in cui alcuni investitori hanno fonti di informazione privilegiata rispetto ad altri e cercano di sfruttarle a scopo speculativo.Anche negli Stati Uniti d’America si percepisce il divario di genere. «Io insegno sia agli studenti di MBA che agli studenti PhD e in entrambi I casi, il numero di donne non supera il 30 per cento degli studenti. Tra i colleghi, il rapporto è ancora più basso. Nonostante ciò» dice l’economista « io non mi sono mai sentita discriminata. Certo ci sono delle sfide nella vita che solo le donne devono affrontare, come la maternità – io ho due bambine bellissime – e talvolta ho l’impressione che un ambiente lavorativo prevalentemente maschile non lo apprezzi a pieno». Conciliare la carriera con la vita privata, soprattutto quando ci si allontana dagli affetti e se ne perde il supporto quotidiano, non è facile, e rappresenta una delle grandi sfide che la società di oggi deve affrontare per poter superare il gap di genere.Rossella Nocca