Categoria: Approfondimenti

Alternanza scuola-lavoro, gli esperti rispondono alle proteste: «Ragazzi, non siete sfruttati»

Gli studenti italiani non sono soddisfatti dei percorsi di alternanza scuola-lavoro. È sfruttamento, dicono, e per protesta la settimana scorsa sono scesi nelle piazze di 70 città italiane, rivendicando di essere, appunto, «studenti, non merce nelle mani delle aziende». Ma c’è davvero una strumentalizzazione in atto? L’editoriale di Eleonora Voltolina sulla Repubblica degli Stagisti, qualche giorno fa, aveva voluto fare il punto sulla questione: un paio di settimane di esperienza in un qualsiasi contesto lavorativo non possono sostituire l’impiego di un lavoratore, e comunque iniziare ad avere avere un’idea di come il mondo del lavoro funzioni di certo non può far male. Non significa né mettere la firma per un certo tipo di mestiere, né che quel mestiere debba necessariamente piacere, né, tantomeno, essere sfruttati.Ma allora che legittimità hanno le rivendicazioni degli studenti? La Repubblica degli Stagisti l’ha chiesto ad una serie di esperti in occasione del convegno sull'alternanza scuola-lavoro “Imparare e progettarsi facendo” all'università Cattolica.«Su alcune tematiche della scuola gli studenti hanno ragione a portare avanti le loro rivendicazioni, ma su altre sbagliano completamente obiettivo. L’idea che il lavoro sia condanna e schiavitù è impressionante» dichiara Roberto Proietto, dirigente dell’ufficio Ordinamenti scolastici e politiche per gli studenti dell’Ufficio scolastico regionale lombardo. «Mi consola il fatto che sia una reazione ampiamente minoritaria, seppur largamente enfatizzata dagli organi di informazione. Stiamo lavorando su alcuni degli elementi che hanno sollevato, come la questione dei diritti e doveri degli studenti in alternanza, e presto presenteremo loro una soluzione. Siamo assolutamente aperti al confronto». Insieme ad Assolombarda, l’ufficio scolastico regionale in Lombardia è al lavoro sulla costruzione di un manuale di condotta per i percorsi di alternanza. Rimangono però aperte altre questioni, come ad esempio quali attività si possano effettivamente etichettare come alternanza. «Lo è l’esperienza in vela a Caprera? E la visita guidata in azienda?» chiede Proietto. Resta da chiarire anche quale debba essere il ruolo del tutor (interno, a scuola, ed esterno, in azienda) e quello del consiglio di classe, oltre alla questione dell’accertamento delle competenze. Ma resta un dato di fatto: l’alternanza scuola-lavoro presenta un potenziale enorme, anche se «occorrerà molto tempo per vederne gli effetti, poiché non c’è alternanza se non c’è anche una trasformazione dell’assetto didattico» sottolinea il dirigente. Al di là degli ostacoli specifici, l’alternanza scuola-lavoro rimane uno strumento valido per dare agli studenti un “assaggio” di mondo del lavoro. Per questo, secondo gli esperti, non è giusto criticare la misura nel complesso, e gli studenti dovrebbero piuttosto rivolgere le proprie rivendicazioni alle singole scuole, responsabili dell'implementazione dell'alternanza.  «Sul fatto che le esperienze di scuola-lavoro avrebbero potuto essere progettate meglio mi sembra giusto che gli studenti manifestino il proprio disagio» dice Diego Boerchi, ricercatore e psicologo del Centro di Ricerche sull'Orientamento e lo Sviluppo Socio-professionale (CROSS) dell’università Cattolica: «Anche se, piuttosto che nelle piazze, dovrebbero reclamare ai propri docenti e dirigenti il diritto a esprimere una preferenza e ad un maggiore coinvolgimento nell’organizzazione dell’alternanza, così da generare percorsi che siano per loro veramente utili».Secondo Livia Cadei, docente di Pedagogia della Cattolica, il vero problema è che i ragazzi non hanno capito il valore dell’alternanza scuola-lavoro, ed è compito dei docenti, delle scuole e delle aziende aiutarli a farlo: «Gli studenti manifestano un disagio perché avvertono che questa esperienza non è sfruttata bene, ma non sono stati aiutati a comprendere che, più che un lavoro non retribuito, questa esperienza può essere utile per crescere e acquisire competenze diverse e trasversali al sapere, al saper fare e al saper essere. Gli attori del mondo adulto dovrebbero allearsi per spiegare meglio agli studenti cosa ci si attende da loro e come siano tutti in gioco».Ma l'alternanza non è utile soltanto dal punto di vista delle competenze, bensì anche da quello delle conoscenze: gli studenti, infatti, spesso non solo non hanno ben chiaro quale strada vogliano intraprendere, ma ignorano anche in che cosa consistano i mestieri che si prefigurano. Comprendere con anticipo che cos'è il mercato del lavoro, invece, li aiuterebbe non solo ad inserirsi più facilmente, ma anche a capire dove candidarsi per trovare le migliori opportunità. «È un attimo che uno studente che ha studiato informatica e installazioni di rete esca dalla scuola pensando di installare grandi impianti e invece si ritrovi a tirare cavi e basta. Con l’alternanza scuola-lavoro ha l’opportunità di conoscere questo contesto, di capire che chi esce dalla sua scuola può fare lavori per lui molto interessanti ma anche molto banali, e quindi anche di capire meglio come muoversi per tempo per cercare le opportunità che per lui siano più interessanti. Non può rimandarlo a quando avrà il pezzo di carta in mano».Non è detto però che le esperienze di alternanza siano in linea con il proprio percorso di studi. Non sarebbe meglio se uno studente del classico facesse alternanza in una libreria, piuttosto che in una società di consulenza informatica? E che uno dello scientifico andasse in un’azienda automobilistica, invece che in un negozio di abbigliamento?«E' interessante che l’alternanza possa svolgersi in contesti lavorativi che consentano di sviluppare le competenze di profilo» dice Proietto, «però ricordo che è un po’ più difficile identificare queste competenze per esempio per gli studenti liceali. Quello che manca ai nostri studenti è ciò che oggi la nuova realtà del mondo del lavoro richiede, cioè le competenze non legate ad un particolare settore, ma alla mentalità che si sviluppa nel mondo del lavoro. Quando lo studente dice che gli hanno fatto fare qualcosa che non c’entra nulla con il suo percorso, dice una cosa che può essere vera, ma che non può essere portata a fondamento dell’alternanza scuola-lavoro, che forse vuole raggiungere altri obiettivi».«Bisogna stare attenti a non lasciar intendere che allora tutte le esperienze, dal fare il caffè al fare le fotocopie, siano utili solo per acquisire competenze pratiche», incalza la Cadei. «Occorre qualcuno alle spalle degli studenti che li aiuti a rileggere la situazione, a capire quali sono gli elementi culturali e di sfida. Di fatto non bisogna lasciare soli gli studenti, e anche tutto il sistema deve essere aiutato a comprendere il valore formativo dell'alternanza. Forse allora capiranno che queste esperienze non costituiscono delle scorciatoie».Evidentemente sull’alternanza scuola-lavoro ci sono ancora parecchie cose da digerire, in primis da parte degli studenti. Ma sul fatto che questa sia un’opportunità preziosa, sia per consentire ai ragazzi per inserirsi più efficacemente nel mondo del lavoro, sia per iniziare a svecchiare il sistema scolastico italiano, rimangono pochi dubbi. Non ammetterlo sarebbe come puntare il dito contro lo scienziato Thomson, colui che nel 1904 inventò il modello atomico “a panettone”. Chi l'ha studiato sa che quel modello si rivelò impreciso. Ma forse ricorderà anche che pose anche le basi per tutti i successivi studi sulla struttura dell’atomo. Davvero è il caso di abbattere un pezzo così fondamentale dello sviluppo della scienza (e della formazione) moderne?Irene Dominioni

Studiare giornalismo all'estero, il modello della Columbia Journalism School

La concorrenza spietata del giornalismo di oggi conduce a ricercare competenze sempre più avanzate e specialistiche. E le scuole di giornalismo all’estero sono un’ottima fonte a cui attingere per acquisire ulteriori skills e per entrare nel mercato internazionale.Gli Stati Uniti, in particolare, rappresentano un’eccellenza per la formazione giornalistica a livello mondiale, la cui la punta di diamante è senza dubbio la Columbia Journalism School. Quest’ultima si trova a New York e precisamente nel quartiere di Broadway, in un'ottima posizione, tra Upper West Side e Harlem, poco lontano da Central Park, e perfettamente servita dalla metropolitana (la più vicina è a due minuti). La scuola propone in particolare due percorsi, Master of Science (M.S.) e Master of Arts (M.A.), a cui si può accedere dopo aver conseguito una laurea di primo livello.Il Master of Science è pensato per chi ha poca o nessuna esperienza sul campo e intende imparare il mestiere. Il programma prevede insegnamenti quali tecniche giornalistiche, etica, storia e diritto, ma soprattutto molta pratica. Il corpo docenti è composto da figure esperte, che provengono sia dal mondo accademico che da quello giornalistico. Il master si può svolgere in modalità full-time (10 mesi) o part-time (2 anni). Si aggiungono due percorsi più specifici, l’M.S. in Data Journalism (12 mesi) e l’M.S. Journalism and Computer Science (2 anni). Per l’M.S. full-time si stima un costo totale di 101mila dollari, comprensivo di tasse di insegnamento (61mila), altre tasse, quali la tassa del servizio sanitario e l’assicurazione medica (tra i 7mila e gli 8mila dollari) e spese di alloggio medie (33mila). Per il part-time il costo stimato è di 78mila dollari per il primo anno, mentre per gli altri due programmi è rispettivamente di 148mila e 104mila dollari. La tassa per partecipare alla selezione è di 100 dollari. Le iscrizioni per il 2018 saranno aperte fino al 15 dicembre 2017. I risultati saranno comunicati a metà marzo e gli ammessi cominceranno a maggio il programma part-time e ad agosto quello full-time. Il Master of Arts è invece rivolto a quei giornalisti che hanno già maturato due o più anni di esperienza, e propone diversi indirizzi: politica, scienze, business e arte. Il percorso, della durata di nove mesi, è più teorico che pratico, con seminari e corsi esterni da scegliere nei vari dipartimenti della Columbia (es. Economia, Scienze Politiche, Religione…), e si conclude con una tesi finale. Il costo totale stimato è di 94mila dollari, di cui 56mila di tasse di insegnamento, 7mila di altre tasse e 30-31mila di spese di alloggio. Le domande di iscrizione al prossimo programma, che partirà a settembre 2018, dovranno pervenire entro il 9 gennaio 2018 e a metà marzo saranno comunicati i nomi degli ammessi. Sono previste borse di studio a copertura parziale. «Circa l’80 per cento dei nostri student riceve assistenza finanziaria dalla Scuola» assicura alla Repubblica degli Stagisti Ernest Sotomayor, Dean of Student Affairs and Communication, anche se non specifica a quanto ammonti questa “assistenza finanziaria”, quante siano per esempio le borse di studio a copertura totale, insomma fino a che punto gli aspiranti studenti meritevoli ma meno abbienti possano accedere a questa opportunità.Non si sa nemmeno quante posizioni siano disponibili ogni anno all'interno della scuola. «Entrambi i Master non hanno un numero fisso di posti» specifica Sotomayor: «Per l’anno accademico 2017/2018 gli iscritti al Master of Science sono 220 e quelli al Master of Arts 45. L’anno precedente erano rispettivamente 290 e 48. L’età media è in genere di 26-27 anni. Di solito il 40 per cento degli studenti è straniero». Ma quanti italiani ogni anno facciano richiesta di entrare, e quanti vengano ammessi, purtroppo non è dato sapere. La Repubblica degli Stagisti lo ha chiesto, ma Sotomayor e il suo staff non hanno risposto. Si sa solo che per l’ammissione si tiene conto del percorso di istruzione e formazione precedente e gli studenti stranieri sono tenuti a superare una prova di inglese, a meno che non abbiano completato tutti i loro studi presso un’università inglese.Qual è il ritorno di questi percorsi formativi in termini di occupazione? «Il 70 per cento degli studenti M.A. e M.S. dell’ultimo anno accademico» risponde Sotomayor «hanno avviato uno stage retribuito, a tempo pieno e a tempo parziale, hanno continuato con un altro programma accademico, o hanno intrapreso un’attività entro tre settimane dalla laurea. Le statistiche sono rimaste stabili negli ultimi anni». Anche qui sorprende il grado di superficialità e approssimazione della risposta, davvero sorprendente da parte di un dean di una scuola di giornalismo. Non distinguere nella percentuale di placement chi ha trovato lavoro (con un vero contratto e una vera retribuzione) dopo aver frequentato la scuola da chi si è dovuto accontentare di uno stage (per quanto pagato...), o si è dovuto/voluto in proprio, è a dir poco... grossolano.In ogni caso. Tra le opportunità post Master offerte dalla Columbia Journalism School c’è quella di lavorare per un anno presso la sua testata ufficiale, la Columbia Journalism Review, o di ottenere un assegno di ricerca annuale presso la scuola. Inoltre esiste un ufficio Career Service, che propone workshop e assistenza nella compilazione di cv e cover letter, e in primavera organizza la Career Fair, a cui partecipano centinaia di editor di alcune delle principali testate americane, con cui gli allievi possono fissare dei colloqui anche per futuri contatti da freelance.A monitorare le carriere è poi l’ufficio Alumni, che interagisce con i 10mila ex allievi: «Inviamo una newsletter mensile; forniamo loro una piattaforma» aggiunge Sotomayor «per contattarsi a vicenda; organizziamo eventi in tutto il mondo per gli ex allievi e per quelli futuri». Un altro utile strumento attraverso il quale gli ex allievi restano connessi tra loro, e allo stesso tempo forniscono supporto ai nuovi arrivati, è il gruppo Facebook Columbia Journalism School. La Columbia Journalism School rappresenta oggi una delle destinazioni più ambite per chi sogna un futuro nei media. In Italia l'hanno scelta noti giornalisti come Gianni Riotta e Anna Masera. Eppure, nonostante il prestigio della Columbia sia riconosciuto a livello mondiale, essa - come tutte le scuole di giornalismo estere - non ha lo stesso valore di quelle italiane (dodici attualmente), le quali sono riconosciute dal Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti ed equiparate al praticantato giornalistico, e danno pertanto diritto all’accesso all’esame di abilitazione professionale. «Bisogna modificare la legge n.69/1963 anche in questo senso, cominciare ad aprirsi a queste realtà. In 54 anni» dice alla Repubblica degli Stagisti il presidente dell’Ordine dei giornalisti Nicola Marini «il mondo è cambiato: e il compito dell’Ordine è proprio quello di attrezzarsi per governare le nuove frontiere del giornalismo in un mondo globalizzato».Non è da escludere che il riconoscimento dei percorsi di formazione all’estero possa essere tra le novità della futura riforma dell’Ordine dei giornalisti. Un passaggio che accrescerebbe ulteriormente la spendibilità e quindi l’appetibilità della formazione giornalistica internazionale.Rossella Nocca 

AAA stagista vegano cercasi: quanto è legale chiedere dettagli personali ai colloqui?

Si può selezionare un dipendente o uno stagista in base a caratteristiche che, almeno apparentemente, hanno poco a che fare con il ruolo da coprire in azienda? Se lo sono chiesti in tanti leggendo le polemiche che un annuncio di ricerca per uno stagista per sei mesi all’interno della Lega Anti Vivisezione italiana ha suscitato. Tra i requisiti: titolo preferenziale la scelta vegana. Un elemento discriminatorio? Il presidente della Lav, Gianluca Felicetti, in un’intervista si è difeso dicendo «l’annuncio rispetta in pieno la nostra filosofia del rispetto globale dei diritti degli animali», e aggiungendo che essere vegani è indispensabile per rappresentare l’associazione.Eppure non è usuale ficcare il naso nelle abitudini alimentari di un candidato. La Repubblica degli Stagisti ha voluto fare chiarezza, e capire con certezza se una richiesta del genere da parte di un datore di lavoro sia legale oppure no. La risposta, lo anticipiamo, è: “probabilmente sì”.«A livello normativo vige un principio ben chiaro di non discriminazione e di attuazione di una direttiva comunitaria per cui è vietata la discriminazione diretta e indiretta per varie questioni, tra cui le convinzioni personali. E io ritengo che la scelta vegana possa chiaramente rientrare tra le convinzioni personali» spiega alla Repubblica degli Stagisti Chiara Vannoni, avvocata presso lo studio legale Rosiello di Milano.La normativa prevede delle deroghe, ma queste vanno calate nell’attività da svolgere. «Se ho un locale notturno e tra i requisiti chiedo la conoscenza di una determinata tecnica di difesa allora non è una discriminazione, perché è in relazione all’attività che dovrò far svolgere» continua Vannoni: «La Lav chiede che la scelta vegana sia condivisa, ma è ovvio che bisogna capire che tipo di attività svolgerà il dipendente. Ad esempio, se starà dietro una scrivania, il fatto che non sia vegano ma solo vegetariano non vedo come possa influire nelle mansioni che andrà a svolgere».È d'accordo anche Francesco Bacchini, docente di diritto del lavoro presso l’università Bicocca di Milano: «Sarebbe stato diverso se avessero fatto lo stage per trovare un addetto al centro di elaborazione dati. Lì non dovrebbe interessare a nessuno se sei vegano: dovresti poter mangiare... anche la marmotta!», scherza. Bacchini richiama alcuni riferimenti importanti per capire di cosa si stia parlando: l’articolo 20 della Carta dei diritti fondamentali dell’unione europea, l’articolo 3 della Costituzione italiana, l’articolo 15 dello Statuto dei lavoratori e il decreto legislativo 216 del 2003, «che è quello relativo all’attuazione della direttiva europea sulla parità di trattamento in materia di disoccupazione e delle condizioni di lavoro». Nell’ordinamento italiano ed europeo «vige il principio del divieto di discriminazione su una serie di elementi fondamentali a tutela della persona tra cui il sesso, il genere, l’età, l’appartenenza politica e le convinzioni personali. Sulle prime dunque la richiesta della scelta vegana sembrerebbe discriminatoria». Anche se i riferimenti normativi citati si applicano a un rapporto di lavoro, mentre lo stage non lo è, rientra comunque nelle condizioni di assunzione e selezione. «Quando viene proposto uno stage, essendo questa proposta finalizzata a selezionare e quindi avere più chance di assunzione, essa rientra nel campo di applicazione del decreto 216 del 2003. E quindi deve rispettare le regole sancite per un accesso al mondo dell’occupazione in modo non discriminatorio. Quindi le proposte devono rispettare la parità di trattamento indipendentemente da sesso, religione, età e convinzioni personali. E la scelta vegana è chiaramente una convinzione personale».C’è poi da analizzare la risposta data dal presidente Lav, secondo cui chi vuole lavorare per loro deve condividere appieno le loro convinzioni. È ammissibile? «Il decreto 216 esclude la discriminatorietà di determinati elementi quando questi sono imprescindibili per la natura dell’attività lavorativa o per il contesto in cui è esplicata. Però la norma al comma 3 dell’articolo 3 ribadisce che devono essere rispettati i principi di proporzionalità e ragionevolezza». Quindi? «Il dubbio che il requisito della Lav non sia ragionevole e proporzionale in relazione al fatto che le attività svolte da Lav possono essere legittimamente perseguite anche da chi vuole bene agli animali ma non è vegano, c’è. Ma la scelta di dire che costituisce titolo preferenziale ma non sostanziale mi fa propendere per una previsione che tutto sommato, al di là dei dubbi proprio sul principio di proporzionalità e ragionevolezza, non ci sia una chiara e sicura discriminazione».Molto più “light” sarebbe stata la questione se l’annuncio avesse esplicitato solo il divieto di consumare alimenti non vegani nella sede di lavoro. «Sarebbe stata una questione riguardante le regole interne dell’ufficio» commenta l’avvocato Vannoni, «e lì non vedo grandi ostacoli».E a proposito del requisito del veganesimo Bacchini sottolinea come oggi «la discriminazione nella selezione è uno dei punti più delicati dell’intera disciplina discriminatoria collegata al lavoro, proprio perché si pone in un momento in cui si viene scelti o respinti nella ricerca di un lavoro. Un soggetto assunto non è obbligato ad essere socio e può non aderire alla filosofia della onlus. Però, ricordiamo che il legislatore proprio nel decreto 216 del 2003 ha indicato che ci possono essere secondi principi di ragionevolezza delle situazioni nelle quali la prestazione del lavoro necessita dell’adesione alla filosofia dell’organizzazione. Direi anche in questo caso senza il bisogno di diventare soci della onlus. Secondo me ci può stare, è chiaro che si può aver a cuore la protezione e il rispetto degli animali senza essere necessariamente vegani».Stesso discorso, secondo l’avvocata Vannoni e il professor Bacchini, se il caso avesse per esempio riguardato un’associazione religiosa che avesse messo come titolo preferenziale l’appartenere a quella religione, o un’associazione lgbt che avesse esplicitato una preferenza per candidati omosessuali. Vannoni però precisa un punto: «Il datore di lavoro si basa su quello che io dichiaro, e quindi queste richieste lasciano il tempo che trovano. Come posso dimostrare di essere vegano? Lo dico ma magari non è così. È ovvio che il rapporto di buona fede e correttezza è alla base, ma sono principi talmente evanescenti che la prova diventa intangibile».Bacchini fa notare, peraltro, come la Lav abbia intelligentemente inserito il veganesimo tra i titoli preferenziali ma non esclusivi , così da mettersi «al riparo da una evidente violazione delle regole antidiscriminatorie dell’accesso al posto di lavoro».Ma se un datore di lavoro può inserire in un annuncio la richiesta di requisiti così personali, come si garantisce il rispetto dell’articolo 8 dello statuto dei lavoratori? «A rapporto di lavoro già stipulato le tutele sono decisamente più forti. Pensiamo ai primi clamorosi casi di licenziamento nelle scuole cattoliche confessionali o ai casi dei docenti dell’università cattolica del Sacro Cuore che diventati protestanti sono stati costretti ad andarsene». Ancora una volta torna lo stesso concetto: «Il problema si pone in relazione a che tipo di mansioni svolgi. Se per quelle mansioni è necessario che tu aderisca e trasmetta l’ideologia, allora la discriminazione è legittima. Altrimenti non lo è».La sottile linea che stabilisce la differenza qual è? «La deroga, non solo nostra ma europea, intende trovare un equilibrio difficile tra il divieto di discriminare e le caratteristiche intrinseche manifestate palesemente dalle organizzazioni. Una onlus di protezione di animali non è così evidente che possa stabilire un requisito come quello del veganesimo» continua il suo ragionamento Bacchini: «Se fosse stata l’associazione nazionale vegani d’Italia non avrei avuto nessuna remora nel dire che poteva starci. Ma qui qualche dubbio ce l’ho. E anche loro ce l’hanno, perché dire “titolo preferenziale” significa evitare che qualcuno dica che è discriminatorio. Bisogna poi chiedersi se in uno stage di sei mesi un requisito preferenziale è essere vegani».Anche l’avvocata Vannoni ricorda che affianco all’articolo 8 dello Statuto dei lavoratori oggi ci sono tutta una serie di altre norme di derivazione comunitaria il cui impianto discriminatorio è particolarmente significativo. «L’Unione europea è molto attenta alla questione delle discriminazioni. E a prescindere dalla Lav, purtroppo capita ancora spesso di avere situazioni in cui il datore di lavoro faccia le famose indagini preassuntive, nella stragrande maggioranza dei casi con richieste a donne in età fertile di dichiarare di non essere incinta al momento dell’assunzione».Un datore di lavoro fino a che punto può indagare sulle abitudini personali di un potenziale dipendente? «Può farlo se le mie abitudini e inclinazioni di vita hanno una qualche forma di ripercussione nel mondo del lavoro e allora può verificare se c’è una interferenza. Altrimenti no» spiega Vannoni. Ma il grado di libertà nella scelta di un dipendente è ancora abbastanza ampio. «Gli annunci di lavoro devono essere rivolti a entrambi i sessi, ma per il resto la valutazione è sempre discrezionale. A parità di candidati, perché venga scelto un uomo e non una donna... è sempre discrezionale».Anche l’età, ad esempio, non andrebbe chiesta. «Posso indicarla se è congrua al tipo di conttratto che ti propongo, per esempio l’apprendistato fino a 29 anni. Ma se devo assumere con contratto di lavoro subordinato normale, allora già quella richiesta diventa discriminatoria. La lettura dei limiti è estremamente significativa», spiega Bacchini.Le abitudini e le caratteristiche personali, secondo Vannoni, semplicemente non si chiedono. «Non si inseriscono tra i requisiti perché la persona deve portare la sua esperienza, competenza e capacità. La ricerca del personale dovrebbe operare nelle scelte di merito rispetto alle capacità della persona. E anche chiedere esperienze mirabolanti per degli stage è un segno parossistico. Lo stage dovrebbe essere rivolto alla formazione di una persona».Marianna Lepore

Donne ed economia, la sfida della parità di genere

Sei ragazze che reggono l’ombrello a sei relatori uomini durante un dibattito pubblico a Sulmona. L’immagine risale a un paio di mesi fa: è rimbalzata sui giornali estivi come ennesimo esempio di quanto il divario di genere sia ancora forte nella nostra società. Un divario che si manifesta soprattutto nelle posizioni professionali di vertice. E fra i settori in cui risulta più evidente c’è l’economia. Una materia che non rientra a pieno titolo nell'area Stem (Science, Technology, Engineering and Mathematics) - di cui la Repubblica degli Stagisti si è occupata nei precedenti approfondimenti - ma che di fatto ne discende. Nel concetto di "science" della National Science Foundation, infatti, confluiscono non solo le scienze naturali ma anche quelle sociali, come appunto l'economia, ma anche le scienze politiche o la psicologia.  E l'economia ha sicuramente in comune con le materie Stem il problema del divario di genere. Anche se qualche passo avanti comincia a intravedersi. Come ad esempio la nomina al vertice della Società italiana economisti di Annalisa Rosselli, prima donna a ricoprire questa carica. «In Sie abbiamo una commissione di genere e stiamo cercando di dare un contributo per introdurre il bilancio di genere nelle università e per dare spazio alla parità nelle cariche». È questo uno degli impegni che si è assunta la neopresidentessa, già docente ordinaria presso la facoltà di Economia dell’università Tor Vergata e componente dell’International Association for feminist economics.«A partire dagli anni Novanta noi donne abbiamo cominciato a denunciare le associazioni scientifiche solo maschili, le cosiddette “caserme”. Solo negli ultimi anni le cose hanno iniziato a migliorare», sostiene Rosselli. Basti pensare alla nomina di Christine Lagarde a capo del Fondo monetario internazionale (Fmi). «Ma la mentalità è difficile da cambiare. Lo scorso giugno sono stata invitata alle considerazioni finali del Governatore della Banca d’Italia: mi indicavano il posto visto che ero l’unica donna; il rapporto uomini/donne in platea era 1/20-30. È un mondo maschile, proprio per questo la presenza femminile potrebbe essere determinante, così come negli asili ci dovrebbero essere dei maestri maschi».La commissione di genere Sie effettua periodicamente delle indagini tra i propri soci per analizzare l’evoluzione della professione in una prospettiva di genere. Secondo il Rapporto 2016 “Uno sguardo di genere”, in Italia le dottorate in Economia sono più degli uomini (51,4%), eppure il personale docente di sesso femminile ammonta solo al 36%, ovvero a 1.749 donne su un totale di 4.784 docenti in ruolo. In particolare, sono donne solo poco più di uno su cinque tra i docenti ordinari e poco più di un terzo tra gli associati – nonostante all'inizio della carriera accademica le donne siano pari al 49% dei ricercatori confermati e al 44% dei ricercatori a tempo determinato.A livello gerarchico, per le economiste si manifesta la classica struttura piramidale, con una bassa percentuale di donne al vertice della carriera accademica (17%), quindi il 38,5% nella fascia intermedia e il 44% per cento nella fascia più bassa di docenza. Tra i motivi del mancato avanzamento di carriera, c’è la difficoltà di conciliare vita privata e professionale e dedicare il tempo necessario alla ricerca: sei donne su dieci dichiarano che gli impegni familiari hanno avuto un effetto negativo sulla loro progressione di carriera.Nelle iscrizioni universitarie alle facoltà economiche il gap di genere non è così evidente. Dei 9.831 immatricolati nella classe di laurea in Scienze economiche (anno accademico 2015/2016) circa quattro su dieci erano donne. Anche perché, nonostante i tempi difficili, la laurea in Economia rappresenta ancora un buon passpartout. Oltre all'università, infatti, sono tanti i contesti che richiedono una formazione economica: banche, assicurazioni, istituti di recupero crediti, studi commercialistici, enti pubblici e privati. Molteplici i possibili ambiti di impiego: amministrazione, management, contabilità, ricerca e selezione del personale, marketing e comunicazione, turismo, finanza. Tra le nuove figure, spiccano quelle del project manager, che gestisce operativamente i progetti; del brand manager, che sviluppa progetti di marketing destinati a far crescere specifici prodotti; l'assistance manager, assistente di direzione in un'impresa; e il project risk manager, che cura la gestione dei rischi per le aziende.        «Il vantaggio di studiare l’economia è che offre una grande gamma di sbocchi professionali, dal mondo della ricerca a quello della finanza e delle istituzioni internazionali», conferma alla Repubblica degli Stagisti Veronica Guerrieri, ricercatrice e docente di Macroeconomia presso l’università di Chicago Booth School of Business, con all'attivo una laurea in Bocconi e un PhD al Mit (Massachusetts Institute of Technology). Lo scorso anno l'economista livornese ha ricevuto il prestigioso Bernacer prize for european economists, destinato al migliore economista europeo under 40 nei settori della macroeconomia e finanza, grazie alla sua ricerca sulle origini delle crisi finanziarie e, in particolare, sul funzionamento di mercati finanziari in cui alcuni investitori hanno fonti di informazione privilegiata rispetto ad altri e cercano di sfruttarle a scopo speculativo.Anche negli Stati Uniti d’America si percepisce il divario di genere. «Io insegno sia agli studenti di MBA che agli studenti PhD e in entrambi I casi, il numero di donne non supera il 30 per cento degli studenti. Tra i colleghi, il rapporto è ancora più basso. Nonostante ciò» dice l’economista « io non mi sono mai sentita discriminata. Certo ci sono delle sfide nella vita che solo le donne devono affrontare, come la maternità – io ho due bambine bellissime – e talvolta ho l’impressione che un ambiente lavorativo prevalentemente maschile non lo apprezzi a pieno». Conciliare la carriera con la vita privata, soprattutto quando ci si allontana dagli affetti e se ne perde il supporto quotidiano, non è facile, e rappresenta una delle grandi sfide che la società di oggi deve affrontare per poter superare il gap di genere.Rossella Nocca

Diritto al lavoro, il progetto che dice agli studenti: “Seguite le vostre attitudini e avrete successo”

«Che cosa vuoi fare da grande?» si chiede sempre ai bambini. Le risposte sono quelle note: chi da piccolo non fantasticava di diventare calciatore o ballerina, veterinario, pilota o vigile del fuoco? Sia che questi sogni si avverino oppure no, sapere sul serio che cosa si vuol fare da grandi è comunque una consapevolezza a cui «si arriva davvero solo quando si inizia a lavorare» afferma Roberto Vaccani, docente alla Sda Bocconi, consulente organizzativo e coordinatore del progetto “Diritto al lavoro - percorso attitudini” della Fondazione Roberto Franceschi onlus. Il programma, attualmente all’avvio della sua undicesima edizione, coinvolge i ragazzi delle scuole superiori in un percorso alla scoperta delle proprie inclinazioni, offrendo un servizio di orientamento preliminare verso un mondo del lavoro che, oggi più di ieri, richiede flessibilità, intraprendenza e creatività.Da molti anni la Fondazione Franceschi, nata in memoria del giovane Roberto,  ucciso durante una manifestazione studentesca nel 1973, si dedica ad attività di sostegno ai giovani, offrendo finanziamenti di ricerca e borse di studio e organizzando convegni e attività per contrastare l’emarginazione sociale.Il percorso attitudini si rivolge a studenti di terza e quarta superiore nell’area di Milano ed è volto, oltre a fornire loro strumenti di autoanalisi per scoprire i propri punti di forza e le proprie debolezze, anche ad accrescere in loro questa consapevolezza: «oggi è possibile cambiare mestiere molto più che una volta, e in futuro le persone faranno mestieri che ancora non esistono» dichiara Vaccani. «L’ingresso nel mondo del lavoro sta diventando sempre più difficile: non è lui a cercarvi, siete voi a doverlo cercare. Il mercato è più ricco e disordinato, ma questo disordine è vitale», dice ai ragazzi. Se prima la carriera si muoveva su binari ben precisi, quindi, oggi questa linearità non può più essere data per scontata e, se da un lato conduce alla frammentarietà delle esperienze lavorative, dall’altro può - e deve - essere presa come un’occasione di sperimentazione e di acquisizione di competenze trasversali. «La scoperta delle proprie attitudini diventa un aspetto fondamentale della conoscenza di sé e delle proprie potenzialità per non sentirsi esclusi ed emarginati», specifica il testo programmatico del progetto, che inoltre ha l’obiettivo di studiare quali strumenti possano contribuire a contrastare l’abbandono e la dispersione scolastica. Il percorso si sviluppa in moduli laboratoriali di 30 ore (più una sessione formativa di 20 ore destinata agli insegnanti e la possibilità di accedere a sessioni multimediali di auto-formazione) e prevede la realizzazione, da parte degli stessi studenti insieme ai propri compagni e professori, di interviste video (disponibili sul canale YouTube della Fondazione) sul tema delle attitudini. «Perché hai scelto questa scuola? Quali sono i tuoi hobby? Preferisci ragionare con calma o decidere rapidamente? Sei più ordinato o disordinato?», si chiedono l’un l’altro i ragazzi, a cui viene data così la possibilità di acquisire anche nuove competenze tecniche (l’uso delle videocamere e il montaggio delle interviste è realizzato attraverso un approccio di peer education in collaborazione con l’istituto Itsos Albe Steiner di Milano). Ciascuno risponde a modo proprio in tono scherzoso e senza imbarazzo. Hanno tutti ancora uno o due anni di scuola di fronte a sé, ma pensano già in avanti. Molti sono indecisi se, una volta finite le superiori, andare all’università oppure iniziare subito a lavorare. Coscienti delle difficoltà del mondo del lavoro attuale, praticamente tutti condividono però la stessa aspirazione: trovare un lavoro che consenta loro di ottenere la stabilità economica.Alla domanda «quale lavoro vorresti fare?», le risposte sono tra le più diverse. C’è chi desidera fare l’avvocato e chi sogna di aprire un locale underground, chi intende lavorare nel turismo e chi nel marketing, fino a quello che, davanti alla videocamera in completo bianco e papillon, dichiara convinto: «mi sono sempre immaginato a lavorare in un bar al 42esimo piano di un grattacielo a New York». Pensano in grande e dalle interviste emerge come, nell’immaginare il proprio futuro, la questione della piacevolezza del lavoro rimanga per loro preponderante rispetto ad altri aspetti. Un concetto che anche Vaccani tiene a sottolineare: «le attitudini sono la polpa del lavoro, sono inerenti a ciò che piace e sono ciò che dà qualità. Le competenze, invece, sono la buccia, quello su cui è incentrata l’istruzione, che però è variabile e non finisce a scuola». E’ questa consapevolezza a consentire il «deragliamento intelligente», come lo definisce Vaccani, del proprio percorso dalle competenze che non sono attitudinali verso ciò che lo è. Perché, in fondo, «lavoro e vita sono la stessa cosa» e quindi imparare a conoscere se stessi, in modo da individuare le proprie aspirazioni consapevolmente e abbracciarle il prima possibile, è fondamentale.Ai più meritevoli e svantaggiati tra gli studenti partecipanti, la Fondazione riserva la possibilità di accedere ad una borsa di studio del valore di 18mila euro, erogata in collaborazione con la Fondazione Isacchi Samaja onlus e Ubs, in vista dell’iscrizione all’università. Finora sono state assegnate sei borse ad altrettante ragazze che hanno scelto corsi di laurea in Lingue, Ingegneria informatica, Mediazione ed interpretariato, Economia e gestione aziendale, Economia e legislazione d’impresa e Progettazione dell’architettura. «Tutte le borsiste sono seguite e supportate assiduamente dal nostro tutor nel loro percorso universitario» dichiara Cristina Franceschi, presidente della Fondazione. Per tenere traccia dell’impatto qualitativo del progetto, all’inizio del percorso e all’inizio dell’anno scolastico successivo agli studenti viene somministrato un questionario, le cui risposte vengono poi raccolte in un report conoscitivo che dà conto della percezione e delle aspettative dei giovani rispetto a se stessi e al proprio futuro. Inoltre, dichiara la Franceschi, «in tutte e dieci le precedenti edizioni il coinvolgimento degli studenti è aumentato durante lo svolgimento del percorso; il cambiamento è spesso rilevato nei soggetti più fragili, e questo è ciò ci ha spinto a portare avanti il progetto e portarlo nelle scuole dove maggiore è il disagio sociale». Per l’edizione di quest’anno è già confermata la presenza degli istituti Gentileschi, Marconi e Itsos Albe Steiner di Milano, e la Fondazione si sta attivando, in collaborazione con Afol Metropolitana e Randstad, per riuscire a portarlo anche in altre città o regioni. «Il lavoro è il primo diritto sociale alla base di tutti gli altri diritti, alla base della nostra vita, della nostra dignità, del nostro contributo alla società, della nostra realizzazione. Questo spiega perché continuiamo ad andare nelle scuole a parlare di lavoro» conclude la Franceschi. «Niente come il lavoro è una finestra che ci svela chi ci sta vicino. Non è raro che pensavamo di conoscere un amico, un genitore, o anche un figlio finché un giorno ci capita di vederlo lavorare e improvvisamente scopriamo che ci era rimasta nascosta una dimensione essenziale della sua persona». I ragazzi hanno ancora molto da scoprire su di sé, ma sarà soprattutto nel contesto lavorativo che vedranno emergere la propria vera natura. Saper individuare i propri talenti è un compito difficile, ma non c’è da aver paura, rassicura Vaccani: «non è mai tardi per compiere un deragliamento intelligente». Irene Dominioni

Giovani alle prese con la scelta dell'università, tra dubbi e opportunità

Per tanti giovani neodiplomati, dopo le fatiche estive della maturità, è arrivato il momento di confrontarsi con il futuro, chiamati a decidere sulla prosecuzione o meno degli studi e, in caso di risposta positiva, sulle università e facoltà ritenute più idonee alle proprie aspirazioni. Una scelta di certo non facile, se si tiene conto del fatto che, stando ai dati Almalaurea per il 2016, quasi un ragazzo su otto arriva alla vigilia del diploma ancora disorientato, ossia incerto su cosa fare del proprio futuro formativo e professionale: una percentuale che risulta particolarmente elevata negli istituti tecnici (21%), seguiti dai professionali (19%) e infine dai licei, in cui si riscontra solamente un 7% di “disorientati”. A tale disorientamento sembra doversi attribuire una scelta “errata” e/o poco consapevole dell’università, come testimonia il fatto che, già dopo il primo anno di corsi, il 14% degli studenti si dice pentito della scelta fatta. Una cifra destinata a peggiorare con l’avanzare del percorso universitario; a distanza di tre anni, l'insoddisfazione rispetto alla scelta compiuta riguarda quasi un quarto degli studenti universitari. Così l’8% di loro, a tre anni dal diploma, abbandona gli studi, mentre il 15% prosegue cambiando però ateneo o corso di laurea.Di fronte a tanti ripensamenti sembra allora necessario interrogarsi su come i ragazzi compiano la sceltadell’università, quali siano i fattori che entrano maggiormente in gioco nel momento in cui prendono una decisione così importante e quali possano altresì essere gli “strumenti utili” a compiere una scelta più consapevole. Ad influire particolarmente sulla scelta dell’università e della facoltà, dicono i dati Almalaurea, è il contesto socio-economico e culturale della famiglia: l’iscrizione all’università è infatti nettamente superiore tra i diplomati provenienti da contesti più favoriti (l’83% nel 2015) e quasi un terzo dei laureati ha almeno un genitore in possesso di un titolo universitario. Il contesto familiare non influisce tuttavia solo sul proseguimento degli studi, ma anche sulla scelta del corso di laurea: gli studenti di famiglie con livelli culturali più alti scelgono infatti con più frequenza corsi di laurea a ciclo unico rispetto al cosiddetto 3+2. Si può dunque a buon diritto sostenere che la famiglia sia al primo posto tra i fattori che più influenzano i futuri universitari, affiancata però dalla considerazione degli sbocchi occupazionali che, soprattutto in un momento complicato dal punto di vista lavorativo, non smettono di tormentare i ragazzi. A confermarlo sono i dati secondo cui molti giovani scelgono percorsi universitari differenti da quelli attinenti alle materie di studio preferite. E questo pur di avere qualche opportunità in più per il post-laurea. A riscuotere maggior successo tra le aree scelte seppure non in linea con il settore di studi preferito è in primis l’insegnamento (62%), seguito dall’area politico-sociale (58%), da quella relativa all’educazione fisica (37%) e infine dal settore ingegneristico (36%).Scelte controverse dunque. Ma soprattutto scelte che testimoniano la necessità, per tanti giovani diplomati, di avere qualche “indicatore” a cui affidarsi oltre la passione. Dove reperire queste informazioni utili? L’indagine Almalaurea 2016 può fornire qualche spunto: le lauree che sembrano offrire più opportunità a cinque anni dalla conclusione sono quelle nel settore scientifico, che vede al primo posto medicina, con una percentuale di occupati pari al 95,4%, immediatamente seguita, con il 93,8%, da ingegneria e, al 90,4%, da economia-statistica. Buone ma nettamente inferiori le possibilità per i tanti laureati in lingue, che guadagnano il nono posto con l’80,2% di occupati, seguiti da psicologi e insegnanti, che si fermano al 78-79%. In coda alla classifica i giuristi, con il 72,3% di occupati a cinque anni dal titolo. La classifica varia leggermente se, invece di prendere in considerazione la percentuale di occupati, si guarda alle retribuzioni a cinque anni dalla laurea. A conquistare il primo gradino del podio sono gli ingegneri, con uno stipendio mensile netto pari a 1.705 euro, seguiti dagli occupati in ambito scientifico, che guadagnano circa 1.614 euro mensili. Medicina scende qui in quarta posizione, con un netto di 1.552 euro, mentre migliora di il posizionamento dei giuristi, che salgono alla decima posizione con un guadagno di 1.209 euro. Ultimo posto per gli occupati in psicologia, il cui stipendio netto mensile non sembra raggiungere le quattro cifre, fermandosi a 980 euro.Le indicazioni confermano dunque in gran parte le aspettative: il settore scientifico resta in testa rispetto a quello umanistico sia per sbocchi occupazionali che per retribuzioni, nonostante le cifre di queste ultime restino mediamente basse anche per i primi classificati. Basse ma sempre superiori, mostra l’indagine, a quelle dei non laureati. Se infatti qualche giovane diplomato si stesse domandando, visto la situazione del mercato del lavoro, se vale ancora la pena laurearsi, la risposta che emerge dai dati è «sì»: i laureati continuano infatti ad avere più possibilità di occupazione rispetto ai diplomati e una retribuzione che supera in media del 50% quella di coloro che non possiedono un titolo universitario. Ad aumentare poi ulteriormente le chance di trovare lavoro, se affiancati ad una laurea, sono stage e tirocini (chi ne ha svolto almeno uno ha il 60% in più di possibilità rispetto a chi non l’ha fatto) ed esperienze di studio all’estero, che incrementano le opportunità occupazionali del 31%.Una volta scelta la facoltà tenendo d’occhio i dati occupazionali e le esperienze “collaterali” che possono aumentarne la spendibilità, bisogna però orientarsi anche nella scelta dell’università. Uno degli strumenti più noti sono le classifiche degli atenei che premiano ogni anno le università migliori e peggiori inserendole in una graduatoria generale determinata dai punteggi raggiunti nei vari parametri valutati. Sull’attendibilità di tali classifiche Repubblica degli Stagisti ha interrogato Alfonso Fuggetta, docente di informatica presso il Politecnico di Milano: «Le classifiche universitarie danno indicazioni di massima e devono essere considerate con grande prudenza, esaminando specialmente i criteri sulla base dei quali vengono costruite» ammonisce l'esperto: «Le tendenze che indicano sono ragionevoli ma devono, per l’appunto, essere considerate con attenzione». In generale «i ranking internazionali, come QS, sono più solidi e testati mentre, per quanto riguarda quelli fatti in Italia, anche io rimango a volte sorpreso dai risultati che si vedono». Se le classifiche si configurano quindi come uno strumento da utilizzare con attenzione e intelligenza, unulteriore aiuto nella valutazione dell’ateneo da scegliere può arrivare, secondo Fuggetta, dalle università stesse, la maggior parte delle quali «offre oggi servizi di supporto alla scelta del percorso di studi, sia con uffici dedicati che con strumenti web». Essenziale è dunque cercare di informarsi il più possibile e non lasciarsi influenzare nella scelta da fattori come la distanza, perché «l’università si frequenta, tendenzialmente, una sola volta nella vita e sceglierne una perché vicina è profondamente sbagliato. Se non ci sono vincoli familiari o di altra natura va scelto l’ateneo che garantisce il miglior corso di studi, e relativo sbocco professionale, per l’indirizzo che si desidera seguire». Scegliere l’ateneo migliore, in effetti, sembra sempre ripagare. E, a guardare il report 2015 di Jobpricing (l’osservatorio sulle retribuzioni presieduto da Mario Vavassori), i migliori risultano quelli delle grandi città, dal nome conosciuto e con una tradizione consolidata. Questi infatti, esercitando un buon appeal sul mercato del lavoro, permettono un più rapido inserimento professionale, consentendo così ai giovani di recuperare l’investimento fatto nella formazione universitaria in minor tempo rispetto a quanto accada con le piccole università. Stando ai dati del report, in cima alla classifica degli atenei che garantiscono “maggiori ritorni” si trovano quelli milanesi, con Politecnico, Bocconi e Cattolica che sbaragliano la concorrenza. Bene anche le università di Roma capitanate dalla Luiss, seguita da Tor Vergata e Sapienza, mentre a chiudere la classifica sono le Università di Messina, Cagliari, l’Università della Calabria e quella di Napoli Parthenope.Se, prima di iscriversi, si vuole infine “sondare il terreno” per avere un parere su facoltà e corsi da chi li ha sperimentati in prima persona, è possibile trovare online anche dei veri e propri “tripadvisor” dell’università, come Unishare e Your academic insight, dove studenti ed ex-studenti condividono la loro esperienza ed esprimono un loro personale giudizio su atenei e singoli corsi frequentati. Uno strumento che riduce la distanza tra “interni” ed “esterni” favorendo il contatto con giovani che, essendosi probabilmente posti le medesime domande qualche anno prima, sapranno forse analizzare proprio quei punti interrogativi, come la qualità della didattica, la tipologia di professori e così via, che affollano disordinatamente la mente dei futuri universitari.Giada Scotto

La Fao abolirà il rimborso spese per gli stage? Le organizzazioni a difesa degli stagisti lanciano l'allarme

Allarme per i giovani che vorrebbero fare uno stage alla Fao: tra le pochissime agenzie dell'Onu a prevedere finora un congruo rimborso spese – 700 euro al mese – per i propri tirocinanti. A partire dal prossimo anno l'Organizzazione che si occupa di fame nel mondo potrebbe eliminare questo rimborso, se non sopprimere interamente l'internship program. All'inizio del 2017 una mail dall’ufficio OPC ha, infatti, raggiunto vari uffici dell’organizzazione tra cui quello dedicato ai programmi di tirocinio e volontariato.La notizia è che all'Onu non va più bene che le varie agenzie abbiano ognuna una sua policy per quanto riguarda i programmi di stage e di volontariato, e vuole uniformarli. A partire, pare, dal 2018. Il punto è che l'Onu è un caso da manuale di come NON si rispettano gli stagisti: da anni la Repubblica degli Stagisti in Italia, e molte altre organizzazioni in difesa dei tirocinanti nel mondo, denunciano gli stage gratuiti e chiedono all'Onu di introdurre un rimborso spese – finora purtroppo senza risultati. Insomma, il rischio concreto è che uniformare le policy voglia dire cancellare quelle finora positive, come la Fao, e fare un'omogeneizzazione al ribasso.La Fair Internship initiative, coalizione di numerose organizzazioni (tra cui la Geneva Interns Association, la Graduate Institute Students Association e la Conference Universitaire des Associations d’Etudiantes) convinte che i tirocini senza rimborso spese rappresentino una pratica discriminatoria, ha subito alzato le antenne. La Repubblica degli Stagisti dal canto suo (il quartier generale della Fao è proprio a Roma) ha immediatamente fatto partire una verifica, per capire se questa notizia abbia o no fondamento, contattando l'ufficio stampa della Fao e chiedendo una intervista al direttore generale.Ad oggi chi cerca informazioni sui tirocini all’interno della Fao facendo una ricerca sul suo sito si trova davanti a questa pagina dove si apprende che «le informazioni sul nuovo programma saranno a breve disponibili».L’ufficio stampa dice di non avere informazioni più specifiche. La RdS ha dunque provato a contattare altri canali all’interno della Fao, prima scrivendo direttamente alla mail dell’”Internship Programme” e poi al Direttore generale della Fao, José Graziano da Silva.I responsabili dell'Internship program non si sono sbilanciati: hanno eluso la nostra domanda, che riguardava l'annunciata riorganizzazione della policy sui tirocini – e dunque il futuro – fornendo invece una (abbastanza inutile) conferma delle condizioni attuali degli stagisti – parlando cioè del presente. «Non ci sono cambiamenti sul pagamento degli stipendi agli stagisti Fao. E gli stagisti assegnati alla Fao ricevono mensilmente il loro stipendio». Eppure nuovi tirocini non partiranno a breve ed è evidente che i vecchi, partiti con le vecchie regole, prevedano ancora la vecchia policy e dunque i 700 euro al mese di indennità: nessuno aveva dubbi su questo.Nessuna risposta specifica da Nadim Demachlie, che è a capo proprio del team sul programma di volontariato e tirocinio. Per quanto riguarda il direttore generale José Graziano da Silva, il suo staff ha rigettato la richiesta di intervista della Repubblica degli Stagisti «a causa di un fitto calendario di appuntamenti di lavoro e viaggi». Anche l’ufficio stampa del direttore generale ci ha tenuto a precisare che «i nostri tirocinanti ricevono attualmente uno stipendio», riferendosi al presente. Ma almeno ha aggiunto qualche chiarimento sul futuro: «La risposta sulla pagina delle Faq in cui si scrive che la misura è in fase di revisione si riferisce a una revisione di tutto il grande sistema delle Nazioni Unite, che coinvolge 28 agenzie, per valutare come le agenzie gestiscono il compenso per i tirocini». Questa revisione, sottolinea nella sua risposta l’ufficio stampa, «sarà conclusa il prossimo anno e darà dei consigli su come le condizioni di lavoro del tirocinio potrebbero essere standardizzate in tutto il sistema delle Nazioni Unite. Questo potrebbe avere implicazioni su come le agenzie Onu pagheranno i tirocinanti».Dunque la Fao con la frase sulle eventuali implicazioni su come le agenzie delle Nazioni Unite pagheranno i propri stagisti, ammette che un cambiamento ci sarà. E che visto il comportamento crescente delle altre agenzie fa pensare più a una probabile cancellazione dei pagamenti ai tirocinanti nelle poche agenzie Onu che li prevedono, piuttosto che a una loro introduzione nelle molte agenzie che ad oggi offrono solo tirocini gratuiti.L'eventuale cancellazione dell’indennità per gli stagisti andrebbe palesemente contro la mobilitazione internazionale per convincere l’Onu a prevedere un rimborso per i suoi tirocinanti che da anni affiancano dipendenti e funzionari e lo fanno in maniera totalmente gratuita. A febbraio di quest’anno proprio a Bruxelles si è svolta la Global Intern Strike, la manifestazione dei giovani arrivati da ogni parte d’Europa per svolgere tirocini totalmente gratis all’interno delle istituzioni europee. Un problema, quello degli stagisti delle organizzazioni internazionali non pagati, non solo dell'Onu, e affrontato decine di volte dalla nostra testata.Una mobilitazione per convincere a mettere un rimborso per gli stagisti da sempre portata avanti anche da Fair Internship Initiative, ma che ad oggi purtroppo non ha portato frutti positivi. Quello che è più grave ancora è che proprio una delle poche organizzazioni che fino ad oggi era virtuosa e permetteva ai giovani di fare un’esperienza formativa ed entusiasmante in un ambiente internazionale senza dover necessariamente chiedere alla propria famiglia di origine di essere mantenuto all’estero con spese aggiuntive, adesso decida di allinearsi. E prenda come riferimento chi fino ad oggi ha reso difficilissima la vita degli stagisti.Ma cosa prevede questa revisione? In mancanza di risposte ufficiali dalla Fao, alla Repubblica degli Stagisti prova a spiegarlo da Ginevra Matteo De Simone della Fair internship initiative, raccontando che «in realtà l’unica cosa prevista è l’abolizione della borsa di 700 dollari per gli stagisti, lasciando così solo il programma di volontariato che verrebbe a rimpiazzare quello di tirocini con un semplice cambio di nome». Un vero brutto colpo per gli stagisti che ambiscono a partecipare ai tirocini delle organizzazioni delle Nazioni Unite che ormai, per la gran parte, sono gratuiti. «Il fatto che invece di andare avanti ci sia un’organizzazione che va indietro rappresenta una grande sconfitta per il movimento contro i tirocini senza compenso. Un pericoloso precedente che rischierebbe di generare un devastante effetto domino».Per questo motivo Repubblica degli Stagisti e FII scendono in campo puntando a una campagna che coinvolga quante più organizzazioni possibili. Innanzitutto con una lettera da inviare al direttore generale Da Silva, il cui testo la Repubblica degli Stagisti ha potuto leggere in anteprima, per esprimere il proprio rammarico e preoccupazione per questa decisione e per la mancanza di trasparenza e consultazione che ha accompagnato questa scelta. Ma il punto sottolineato da FII è anche un altro: «Come dimostrato dalla Joint Inspection Unit delle Nazioni Unite e da altre indagini, la maggior barriera che limita l’accesso agli stage è il costo associato alle spese di soggiorno. Limitando l’accessibilità solo ai pochi che possono permettersi di lavorare gratuitamente aumentando le disparità sia all’interno sia tra i vari paesi. Un problema confermato dal Report Mondiale della gioventù 2016 delle Nazioni Unite, secondo cui “la mancanza di un pagamento rende de facto esclusivi i tirocini non retribuiti istituzionalizzando efficacemente disparità socioeconomiche”».Per questo l'appello al direttore Da Silva di non deludere i giovani, di non deludere i meno privilegiati e di fermare immediatamente i piani per la riduzione delle indennità degli stagisti ma anzi, lavorare con la comunità degli stagisti per assicurare un adeguato stipendio in linea con il costo della vita a tutti gli stagisti della Fao - e magari un giorno anche di tutte le altre agenzie dell'Onu.La protesta è partita. Ora dovrà essere la Fao, con i suoi rappresentanti, a decidere se accoglierla o lasciare le proprie porte aperte a pochi fortunati.  Marianna Lepore

Letture per l'estate: quattro romanzi che parlano di giovani e lavoro selezionati per voi dalla Repubblica degli Stagisti

Che vi stiate ancora godendo il relax delle vacanze, che siate già tornati al lavoro o che ancora dobbiate partire per mete lontane, l’estate rimane l’occasione perfetta per immergersi tra le pagine di un buon libro. Magari che parli anche dei temi che più si sentono vicini, come i giovani e il lavoro. Non potevano allora che arrivare dalla Repubblica degli Stagisti i consigli di lettura su questi argomenti. Abbiamo scelto quattro romanzi, storie spesso personali, scritte da autori che sono essi stessi giovani e che inquadrano, ciascuno a suo modo, la condizione di un’intera generazione. Lavorativa, ma soprattutto esistenziale: tra lavori precari, i tanti compromessi a cui bisogna scendere per trovare stabilità e un senso di disillusione e di insoddisfazione verso il futuro, i giovani di oggi si trovano spesso in un vicolo cieco. Può esserci però una via di fuga, letteraria e non solo: l’aspetto comune e più interessante a tutti è la comicità nell'affrontare queste tematiche; pur ritraendo il panorama sconfortante che si prospetta ai giovani, questi titoli riflettono con spirito sulle difficoltà che i ragazzi di oggi devono affrontare, offrendo un’importante chiave di lettura della realtà e un appiglio per intraprendere con più spensieratezza le sfide che si prospettano a ciascuno.Cronache dalla ditta, di Andrea Cisi (2008), ed. MondadoriLa classica storia di precariato del protagonista delle Cronache dalla ditta di Andrea Cisi inizia sullo sfondo della industriale pianura Padana, dove un giovane nemmeno trentenne e con diploma di ragioniere è alla ricerca di lavoro. Dopo aver saltellato di tre mesi in tre mesi da un contratto all’altro, finalmente trova l’agognato posto fisso come operaio non specializzato in una piccola ditta familiare. Un impiego umile, ma anche l’unico che gli consenta di affittare un piccolo appartamento e di iniziare finalmente una vita autonoma insieme alla fidanzata e al gatto, cercando di sottrarsi con tutte le forze alla miserabile etichetta di “bamboccione”. Tra gesti ripetitivi, compiuti fino all’esaurimento all’interno dello stesso stanzone, il protagonista dialoga con coloro che condividono la sua realtà per buona parte della giornata, personaggi stravaganti con cui cerca di evadere dalla monotonia del lavoro. Ne emerge una riflessione un po’ amara, ma anche estremamente comica, sui compromessi cui il lavoro costringe oggigiorno. La questione più che altro, di Ginevra Lamberti (2015), ed. NottetempoGaia si annoia, segregata nella valle dove vive. Questa, più che altro, è la questione. Tra familiari strambi e un po’ scomodi - mamma divorziata e padre tabagista all’estremo, nonno meridionale star di un programma tv pomeridiano e nonna del Nord devota a santa Rita, Gaia aspetta nell’ordine Natale, Capodanno e l’ultimo esame. Si annoia e vorrebbe fare il giro del mondo in orizzontale, tagliandolo in due, nella speranza di trovarci dentro ciò che le manca, ma le sue tasche sono troppo vuote. Può solo trasferirsi nella laguna più bella del mondo, quella veneziana, ma anche lì fatica a trovare quel che sta cercando. Il lavoro è sempre e solo un “lavoretto”, Venezia non è più di un fondale di cartone per i selfie dei turisti, e intanto la sua famiglia invecchia e si ammala. Romanzo d’esordio di Ginevra Lamberti, La questione più che altro ritrae con stile brillante una generazione alla ricerca di un futuro che sia il più possibile lontano dal presente, finendo per inquadrarlo come il premio di una caccia al tesoro.Perciò veniamo bene nelle fotografie, di Francesco Targhetta (2012), ed. IsbnÈ attraverso la forma poetica che questo romanzo, sapientemente costruito da Francesco Targhetta, giovane dottorando, arriva a svelare l’essenza di un’intera generazione. Se veniamo bene nelle fotografie è perché nessuno si muove: questa è l’immagine con cui l’autore ritrae i suoi personaggi e disarma il lettore. Non si muove il protagonista, un dottorando in storia quasi trentenne (personaggio semi-autobiografico), né i suoi coinquilini - universitari, operatori di call center e neo manager di multinazionali, nell’appartamento della Padova popolare che condividono. La vita pare scorrere solo per ammazzare il tempo, aspettando la resa. E il tempo è l’elemento centrale, il filo rosso che collega l’esistenza di ciascuno: talmente confuso che sembra quasi di rivivere sempre lo stesso momento. “Ma poi si aggiusteranno, no?, le cose,/e girerà la ruota”. Nel frattempo, il protagonista riflette sulle questioni esistenziali più profonde di fronte ad una bottiglia di prosecco di sottomarca. Tutto sembra fatalmente immobile, ma pian piano emerge una verità: l’importanza di guardarsi con tenerezza, imparando anche a ridere di sé. Il mondo deve sapere, di Michela Murgia (2010), ed. IsbnNon è molto diversa la realtà di oggi rispetto a quella del 2006, anno in cui l’autrice e protagonista del libro viene assunta nel call center della Kirby, multinazionale produttrice del “mostro”, un aspirapolvere da tremila euro “brevettato dalla NASA” intorno al quale girano le vite di un centinaio di persone, tra telefoniste e venditori. Per Michela questo è il primo contatto con l’assurdo mondo del telemarketing e dei suoi subdoli metodi di persuasione, un mondo ancora più assurdo se si lavora alla Kirby, dove il modello lavorativo prevede metodi motivazionali poco credibili, ricatti psicologici e castighi aziendali di ogni sorta. Michela scrive tutto quel che succede in trenta interminabili giorni in un blog, raccontando il mondo del precariato e dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo con un tono ironico ed una punta di sarcasmo. Un racconto che a tratti lascia increduli e fa arrabbiare, ma anche tanto ridere. Il libro, il primo dell’autrice sarda, ha ispirato il film di Paolo Virzì Tutta la vita davanti. Irene Dominioni

Specchio specchio delle mie brame, qual è l'ateneo migliore di tutto il reame?

Siamo ormai a metà estate e, come ogni anno, sono iniziate a uscire le prime note quanto criticate classifiche che valutano gli atenei al fine di stilare una graduatoria che elegga i migliori e i peggiori per l’anno accademico appena trascorso. Uno strumento che nasce con l’intento di fornire agli studenti e alle loro famiglie un canale d’orientamento nella scelta del corso di studi più adatto e al quale viene data sempre più rilevanza, non tanto però – sembra – da parte dei giovani, quanto piuttosto dalle agenzie che se ne occupano e dalle università stesse.«L’utilizzo delle classifiche da parte degli studenti è limitato, se si tiene anche conto che la mobilità territoriale in Italia per motivi di studio è contenuta» conferma alla Repubblica degli Stagisti Ferruccio Biolcati Rinaldi, docente di Sociologia generale all’università di Milano, che qualche anno fa ha preso parte a uno studio proprio sui ranking universitari: «A consultare maggiormente queste classifiche sono gli studenti che provengono da famiglie di ceto sociale medio-alto, che hanno quindi probabilmente già esperienza del sistema accademico – perché qualcuno in famiglia è già laureato – e possono sfruttare l’insieme delle proprie relazioni sociali per ottenere informazioni di prima mano. Gli studenti provenienti dai ceti medio-bassi, che sono più poveri di informazioni, sono invece quelli che meno le consultano». Non si può dire certo la stessa cosa degli atenei che ottengono un buon piazzamento, i quali si affrettano a rendere noti i risultati delle classifiche pubblicandoli sulle home page dei propri siti. Ma quali sono e, soprattutto, quanto è lecito fidarsi di tali graduatorie, affidando ai loro risultati una scelta così importante come quella dell’università? Secondo Biolcati la cosa migliore è «utilizzarle con consapevolezza, cercando di capire cosa stanno classificando – università nel loro complesso, dipartimenti, facoltà ecc. – e su quali parametri si basa la classifica nell’ambito della ricerca e/o didattica, considerandone l’estensione territoriale – più è ampia più si rischia di confrontare situazioni molto diverse – e tenendone presente sia il ranking, cioè la posizione in classifica, sia il rating, il punteggio ottenuto, poiché spesso le differenti posizioni in classifica enfatizzano differenze di punteggio anche minimali».L’universo delle classifiche si mostra in effetti molto articolato. Se, per quanto riguarda l’Italia, se ne possono contare tre, all’estero il numero sale notevolmente, offrendo ai giovani un panorama di risultati ampio ma spesso così diversificato da indurre in confusione.Le classifiche italiane di riferimento sono quelle stilate da Censis, istituto di ricerca socio-economica che opera prevalentemente su incarico di enti pubblici, Il Sole24Ore, società privata che stila da vari anni una propria graduatoria, e Anvur, l’Agenzia nazionale pubblica di valutazione del sistema universitario e della ricerca la cui classifica (che prende in analisi la ricerca nelle università per cicli di 4 anni) è utilizzata dal Miur per stabilire la quota di finanziamenti da destinare a ciascun ateneo.A saltare all’occhio, non appena si prova a confrontare le graduatorie 2016 di Censis e Il Sole24Ore e la VQR 2011-2014 di Anvur, è la grande differenza nel posizionamento degli atenei, soprattutto per quanto riguarda Il Sole24Ore. Fatta eccezione, infatti, per le università di Padova e Bologna, che occupano le prime posizioni in tutte e tre le classifiche guadagnandosi un riconoscimento condiviso, le università premiate da Censis e Anvur come quelle di Firenze, Torino e Milano, si trovano in gran parte, nella graduatoria de Il Sole24Ore, oltre il 15esimo posto. A occupare la testa della classifica del quotidiano economico è invece l’università di Verona, assente nella top 5 di Censis e Anvur così come nella parte alta delle classifiche internazionali.Differenze del genere possono a prima vista sorprendere. Ma tutto appare più chiaro se si dà un’occhiata alla metodologia e ai parametri valutativi scelti da ciascuna agenzia: la classifica Censis valuta infatti gli atenei dopo averli suddivisi in base alla dimensione – mega, grandi, medi e piccoli – e allo “status” – statali, politecnici, non statali –, mentre Anvur propone una graduatoria specifica per aree di ricerca. Il Sole24Ore, infine, pubblica un’unica classifica per tutte le università, distinguendo solamente tra statali e non statali. Se già questo lascia intuire la difficoltà nel raffrontare le graduatorie, la distanza nei parametri adottati sancisce chiaramente la loro incomparabilità: si passa infatti da criteri come il «giudizio dei laureandi sui corsi di studio», preso in considerazione da Il Sole24Ore, alla «funzionalità dei siti web d’ateneo» del Censis, per terminare con la bibliometria anvuriana che valuta l’«impatto» della ricerca in base alla rilevanza della rivista di pubblicazione.Il panorama che si trova davanti uno studente alle prese con la scelta dell’università è dunque già abbastanza vario in base alle classifiche nazionali, e le cose non migliorano spostando lo sguardo su quelle internazionali: la speranza è infatti quella di chiarirsi le idee sembra destinata a rimanere delusa. Le principali classifiche a livello internazionale sono cinque: la più nota è forse l’Arwu stilata dall’università di Shanghai, seguita da QS, pubblicata dalla compagnia inglese specializzata in educazione Quacquarelli Symonds, Times Higher Education – settimanale britannico che si occupa di istruzione superiore –, Cwur che è un Centro di studi per le classifiche universitarie mondiali con sede negli Emirati Arabi Uniti, e l’ultima arrivata U-Multirank, istituita dalla Commissione Europea e finanziata dal programma Erasmus+.I risultati sono anche qui contrastanti e le poche conclusioni tratte dalle classifiche italiane vanno a scontrarsi con risultati internazionali per la maggior parte differenti. Le sole “certezze” restano l’università di Padova e l’Alma Mater di Bologna, che si piazzano tra le prime università italiane in 4 classifiche su 5. Neanche loro, però, sembrano riuscire a “metter tutti d’accordo”: nessuna delle due rientra infatti neanche nella top 10 di U-Multirank, la cui graduatoria risulta in molti casi, data la metodologia utilizzata, molto distante dalle altre: la classifica europea prevede infatti che, qualora non sia possibile per un’università valutare uno dei parametri considerati, essa venga automaticamente declassata all’interno della classifica generale. Ciò conduce a una differenza con le altre graduatorie che non può non dare da pensare, visto che questa classifica è nata proprio con l’intento di contrastare le critiche rivolte alle altre proponendo criteri – come la percentuale dei laureati, il tempo per completare il percorso di studi e l’occupazione dei laureati nella regione in cui si trova l’università – che accertino le effettive condizioni di vita e di studio degli studenti. Viene dunque da chiedersi a chi dare ragione. Le differenze proseguono infatti su tanti nomi. Ad ottenere un buon piazzamento in tutte le graduatorie internazionali tranne che in quella di U-Multirank sono sia l’università La Sapienza di Roma che la Statale di Milano; riesce invece a strappare una buona posizione in tutte le classifiche, compresa U-Multirank - dove è al terzo posto -, il Politecnico di Milano, che subisce tuttavia in quest'ultima l’inaspettato sorpasso del Politecnico di Bari, assente nella top 10 di tutte le classifiche e ultimo nella sezione “Politecnici” del Censis. A scatenare anche qui l’enigma delle incongruenze nei risultati sono i parametri adottati: emblematico il caso Arwu, che affida il 30% della valutazione degli atenei alla «qualità dell’educazione» misurata in base al numero di premi Nobel e medaglie Fields vinti da allievi ed ex-allievi anche decenni fa.  Per QS, invece, il 40% della valutazione complessiva è data dalla «reputazione accademica» ottenuta tramite l’interrogazione di specialisti. Anche Times inserisce tra i criteri la «reputazione», ma il risultato finale è diverso da quello di QS proprio in virtù dei differenti pareri venuti dagli specialisti interrogati. Su quale fare più affidamento, dunque? Se è vero che parametri come l’opinione degli specialisti sono soggettivi e parzialmente verificabili, siamo sicuri che gli oggettivi premi Nobel e medaglie Fields siano realmente i migliori criteri da prendere in considerazione per valutare un’università? Forse, per uno studente disorientato, sarebbe più importante vedere la qualità dell’insegnamento, le possibilità di occupazione e l’internazionalizzazione.Eppure queste classifiche continuano a moltiplicarsi e a suscitare interesse, sollevando così il dubbio che nascondano altri vantaggi.  «Si tratta di benefici molto diversi, impossibili da confrontare» sostiene Biolcati: «Le università che ottengono dei buoni piazzamenti possono derivarne certamente grandi vantaggi economici, anche se qui la questione è il peso che la politica dà a questi strumenti di valutazione e come decide di applicarli. Anche le imprese private coinvolte in questo tipo di operazioni cercano ovviamente di trarne un vantaggio economico, come dimostra anche il fatto che spesso le classifiche sono solo un pezzo di una più ampia offerta di servizi nel campo dell’higher education. Tuttavia si spera che anche gli studenti possano trarre vantaggio da questa offerta di informazioni. L’importante è che non si creino collusioni a danno di qualcuno degli attori coinvolti, e su questo deve vigilare prima di tutto la comunità accademica nel suo complesso». Giada Scotto

A caccia di competenze digitali nei fab lab di Milano

In un’economia in cui il successo si gioca sui temi dell’innovazione e delle nuove forme di imprenditorialità, la padronanza dei processi digitali diventa un elemento sempre più cruciale sia per le imprese che per gli individui. Eppure da uno studio del 2016 condotto da University2Business nelle università italiane emerge che la maggior parte degli studenti si affaccia al mondo del lavoro con una scarsa consapevolezza della trasformazione digitale in atto nell’economia, poca esperienza concreta nella gestione di progetti digitali e ancora meno conoscenze teoriche sull’innovazione digitale applicata al business. Secondo la ricerca quelli che hanno intuito la rilevanza del saper sviluppare un software o lanciare una startup, spendendosi nell’acquisire queste competenze anche al di fuori dei corsi universitari, sono pari a circa il 30%. Una percentuale ancora troppo bassa rispetto alle potenzialità che il mercato offre. Se si vuole colmare il cronico ritardo italiano in fatto di innovazione, la necessità di stimolare i giovani ad avvicinarsi a questi temi si fa quindi sempre più impellente.Alcune opportunità per avvicinarsi a conoscenze e processi digitali già esistono; tra queste, i percorsi formativi di Crescere in Digitale, il progetto promosso dal Ministero del Lavoro, Google e Unioncamere che promuove inoltre l’inserimento in azienda dei giovani, e Fastweb Digital Academy. A Milano, inoltre, MiGeneration Lab ha offerto nel 2016 ai giovani disoccupati o precari tra i 18 e i 35 anni corsi gratuiti sulle nuove tecnologie e l’imprenditorialità, con la collaborazione di 18 partner tra makerspace, enti del privato sociale, associazioni giovanili e università. Alcuni di questi corsi, dalla grafica allo sviluppo di app, la progettazione e la comunicazione digitale, sono proseguiti con tre fab lab milanesi, WeMake, Yatta! e OpenDotLab. La Repubblica degli Stagisti li ha sentiti per capire qual è attualmente la loro offerta formativa per i giovani.Cos’è un fab lab? Abbreviazione di fabrication laboratory e detto anche makerspace, si tratta di un’officina digitale dove è possibile sviluppare progetti innovativi e un'ampia gamma di oggetti grazie a stampanti 3D, frese a controllo numerico, laser cutter, macchine per il taglio vinilico e postazioni di lavorazione. Il fab lab è frequentato dai maker, figure a cavallo tra gli inventori e gli artigiani, concretizzate nelle professionalità più diverse, dai designer agli sviluppatori, progettisti, ingegneri e creativi di ogni genere. Ma, soprattutto, il fab lab è una comunità «caratterizzata da persone diverse e da relazioni leggere, è un luogo che si frequenta per piacere» sottolinea Cristina Martellosio, responsabile del settore educational e politiche giovanili di WeMake. I fab lab possono avere focus e offrire attività diversi, ma sono accomunati dagli stessi principi di fondo: sono spazi accessibili a tutti; la tecnologia è qualcosa che si capisce davvero solo mettendoci le mani; e la curiosità e la voglia di imparare sono aspetti centrali per chiunque si avvicini a questo tipo di realtà.WeMake è nata nel 2014 per mano di Zoe Romano e Costantino Bongiorno e si occupa principalmente di Electronic, Textile e Fabrication, oltre che di formazione e ricerca. Yatta!, che in giapponese significa “Ce l’ho fatta!”, invece, incentra la propria attività formativa intorno agli ambiti dell’elettronica, dell’informatica e del design, offrendo serate divulgative e anche uno spazio di coworking. Opendot, infine, è stato fondato nel 2014 da Dotdotdot, studio di progettazione multidisciplinare milanese, e offre una formazione di stampo progettistico, oltre a svolgere attività consulenziale.Le tipologie di corsi offerti sono diverse a seconda del fab lab. A WeMake, per esempio, si possono frequentare corsi brevi di 5 o 6 ore per imparare ad utilizzare uno specifico software o hardware, utili allo stesso tempo per capire se si è interessati o meno ad approfondire quelle tecnologie. Altri, invece, sono più lunghi, fino a 80 o 90 ore, erogati per la maggior parte gratuitamente, sulla falsariga dei corsi di MiGeneration Lab, il progetto promosso e co-finanziato dal Comune di Milano in favore dei Neet per lo sviluppo di nuove competenze e idee imprenditoriali: pur non ricadendo sui fruitori, il valore monetario dei corsi rappresenta un investimento su di loro. L’obiettivo di questo tipo di formazione è anche motivazionale: «molte persone si mettono a cercare lavoro o riprendono il corso degli studi» sottolinea la Martellosio. Per quanto riguarda i temi, WeMake sviluppa, in partnership con Fastweb Digital Academy, corsi professionalizzanti di digital fabrication, robotica, user experience & interface, wearable e digital fashion. Un’eccezione è composta dal corso “Dall’idea al progetto” che ha un carattere più orientativo ed è volto non solo a sviluppare competenze, ma soprattutto a fornire gli strumenti per costruire un proprio progetto dalle fondamenta, partendo dallo sviluppo di un piano di fattibilità e di un business plan fino alla stesura di un programma di comunicazione. Infine, WeMake è impegnata nelle scuole, dove conduce laboratori digitali puntando a realizzare percorsi di innovazione tecnologica, collaborando con gli insegnanti sul lungo periodo. «Le tecnologie non sono fini a se stesse, ma sono utili proprio per le materie di base che si imparano a scuola. Solo in questo modo si riesce a fornire agli studenti competenze che possono essere utili in ambiti differenti» aggiunge la Martellosio. Con gli studenti più grandi, infine, organizza anche attività di alternanza scuola-lavoro, con la possibilità per i ragazzi di sviluppare un progetto personale.Yatta! ha due filoni di attività: il primo comprende percorsi di educazione digitale indirizzati alle scuole e programmi di formazione più verticali di informatica, elettronica e digital fabrication, mentre il secondo è incentrato su servizi di programmazione, progettazione e stampa 3D. Sono ormai iniziati i corsi della summer school, che prevedono una formazione di base nel format “senza segreti” applicato a stampa 3D, Arduino e programmazione, in corsi serali di 3 ore. Mentre da settembre ripartono i corsi per maker, per progettare e realizzare un’idea, insieme a corsi “pro” più verticali. Yatta! offre anche serate divulgative gratuite su diversi temi come Smar3D, dedicato alla stampa 3D, TEaCH, pensato per l’insegnamento con strumenti digitali, Smart, che tocca tutte le tecnologie intelligenti di oggi, e infine Onboard, dedicato all’elettronica e in particolare all’hardware. Inoltre, sono disponibili corsi di coding di base per i giovanissimi (8-18 anni), in alcuni casi anche gratuiti.Opendot, infine, svolge formazione in diverse modalità: forte della collaborazione con le università, propone workshop e corsi brevi di un paio di giorni, i cosiddetti “user group” (gratuiti) su temi come il food design, grafica e mobilità, adottando la modalità della peer-to-peer education. Ci sono inoltre corsi più avanzati e verticali su tecnologie che non fanno parte nemmeno dei programmi universitari, come quelli sul machine learning, e corsi di progettazione volti a costruire una professionalità propria, apprendendo le tecniche del crowdfunding, la progettazione di un business model e lo sviluppo di un prodotto. Imprescindibili anche i corsi più lunghi nel format di MiGeneration Lab, e in più dall’anno prossimo inizieranno anche le attività con le scuole. Opendot, inoltre, eroga un corso particolare della durata di 6 mesi chiamato Fab Academy, che consiste in un’infarinatura generale di tutte le tecnologie utilizzate in un fab lab. I requisiti per partecipare sono «un sacco di voglia e sapere l’inglese», puntualizza Enrico Bassi, design engineer e co-fondatore di OpenDot, poiché metà delle sessioni si svolge in videoconferenza contemporaneamente in tutto il mondo. Anche qui, c’è di tutto un po’. Uno degli studenti, racconta Bassi, «era direttore della fotografia per le produzioni cinematografiche, si è appassionato allo spirito e al funzionamento delle tecnologie, e adesso gestisce un laboratorio vicino a Milano». Le selezioni per la quarta edizione inizieranno a settembre e il corso a gennaio, con incontri bisettimanali in una classe volutamente molto ristretta di 8 persone, per permettere a tutti i partecipanti di usufruire al meglio dei contenuti e delle tecnologie a disposizione. Finora la Fab Academy ha coinvolto venti partecipanti direttamente in OpenDot, più 9 seguiti in remoto. La quota di partecipazione è di 5mila euro, comprensiva di attestato finale e portfolio dei propri progetti, e sono disponibili borse di studio. In più, OpenDot è alla ricerca di aziende interessate a giovani talentuosi e preparati alla trasformazione digitale per instaurare delle partnership.Secondo quanto riportato dall’Osservatorio delle Competenze Digitali 2017, «quasi la metà dei lavori svolti attualmente da persone fisiche, nel mondo, potrà essere automatizzato quando le tecnologie si saranno diffuse su scala globale». Solo in Italia si stima che quasi 12 milioni di lavoratori saranno interessati da un processo di automatizzazione progressiva fino ad almeno il 50% dei loro compiti. Molti impieghi si trasformeranno, alcuni (quelli a bassa qualificazione) saranno rimpiazzati completamente da processi automatizzati, ma il digitale contribuirà anche alla creazione di nuovi posti di lavoro basati su nuove competenze e ad alto livello di qualificazione. Si tratterà di competenze non soltanto di natura tecnologica, ma un mix complesso comprendente soft skill e abilità sociali, come «la capacità di risolvere problemi complessi, di gestire il cambiamento, di collaborare e relazionarsi, di adattarsi con flessibilità e di comunicare». Perciò acquisire esperienza in un ambiente come quello di un fab lab, dove questi processi sono centrali, può fornire un vantaggio importante nell’accrescere tutti questi aspetti ed essere più competitivi nel mondo del lavoro. Se le tecnologie, come sostiene Neil Gershenfeld del MIT di Boston, «ci consentono di costruire praticamente qualsiasi cosa», non potranno che essere utili anche a dare forma e valore alla propria professionalità. Irene Dominioni