Categoria: Approfondimenti

Apprendistato questo sconosciuto – Tiraboschi: «No allo stage come "contratto di inserimento": per quello ci sono oggi altri strumenti»

Lo stage deve svolgere esclusivamente una funzione di formazione e orientamento per i giovani: utilizzarlo in altro modo, come equivalente di un rapporto di lavoro a basso costo, è sbagliato. Ne è convinto Michele Tiraboschi [foto], giuslavorista e direttore scientifico di ADAPT - Centro Studi Marco Biagi: «Nel 1997, quando venne per la prima volta introdotto, lo stage rappresentava uno dei pochi canali di inserimento dei giovani nel mercato del lavoro. Oggi, dopo le leggi Treu e Biagi, esistono moltissimi altri strumenti che la normativa prevede per agevolare l'ingresso dei giovani nel mondo del lavoro».Per esempio? «Innanzitutto, quello che si chiama appunto il “contratto di inserimento”, dedicato in primis ai giovani sotto i trent’anni». Dura dai 9 ai 18 mesi, non è rinnovabile e prevede, come spiega il decreto legislativo 276/2003 (la fonte normativa di riferimento per l’attuazione dei principi contenuti nella legge Biagi), che i lavoratori siano inquadrati due livelli sotto la categoria spettante e non siano compresi nel «computo dei limiti numerici previsti da leggi e contratti collettivi per l'applicazione di particolari normative e istituti» (articolo 18, per intenderci). Una clausola interessante è quella che prescrive che, per utilizzarlo continuativamente, un’impresa debba assumere almeno il 60% dei lavoratori «il cui contratto di inserimento sia venuto a scadere nei diciotto mesi precedenti». Questo contratto esige l’esistenza di un «progetto individuale di inserimento, finalizzato a garantire l'adeguamento delle competenze professionali del lavoratore stesso al contesto lavorativo» e di un libretto formativo dove segnalare la «formazione eventualmente effettuata».Una cosa un po’ diversa, ma che può sempre tornare utile ai ragazzi per raggranellare qualche soldo extra, è poi il sistema dei «buoni lavoro»: «prestazioni di lavoro occasionale e accessorio» riservate  a giovani studenti, con meno di 25 anni, durante il fine settimana e le vacanze. Lo strumento può essere usato in tutti i settori produttivi per compensi non superiori ai 5mila euro annui. «Ci sono poi oggi i contratti a chiamata, un part-time più flessibile, il lavoro ripartito, il lavoro a progetto che consentono un impiego di lavoro flessibile con prestazioni retributive e contributive standard» ricorda Tiraboschi. E infine c’è l’apprendistato, che in effetti andrebbe considerato l’unico vero contratto di “formazione - lavoro” corretto, almeno secondo la circolare 40/2004 firmata da Roberto Maroni che all’epoca era ministro del Lavoro: «Con il decreto legislativo n. 276 del 2003 l'apprendistato diventa l'unico contratto di lavoro a contenuto formativo presente nel nostro ordinamento, fatto salvo l'utilizzo del contratto di formazione e lavoro nelle pubbliche amministrazioni. Nel settore privato, per contro, il contratto di formazione e lavoro continuerà infatti a trovare applicazione in via transitoria e meramente residuale». Nemmeno il contratto di inserimento, a voler essere pignoli, potrebbe essere annoverato tra i contratti di formazione - lavoro, perché «la formazione del lavoratore è solo eventuale e non integra un elemento caratterizzante del relativo tipo contrattuale». Insomma, l’unica via giusta da seguire per formare un giovane dovrebbe essere quella del contratto di apprendistato, indicato nella circolare come lo «strumento idoneo a costruire un reale percorso di alternanza tra formazione e lavoro, primo tassello di una strategia di formazione e apprendimento continuo lungo tutto l'arco della vita».L’apprendistato, profondamente riformato dalla legge Biagi, oggi si divide in tre tipi: il primo dedicato ai giovanissimi (per il diritto-dovere di istruzione e formazione, con una durata massima di tre anni), il secondo detto «professionalizzante» (per il conseguimento di una qualificazione attraverso una formazione sul lavoro e un apprendimento tecnico-professionale, con una durata variabile da due a sei anni), e il terzo per «percorsi di alta formazione» (specificamente pensato per chi sta facendo l’università o altre forme di alta specializzazione). Quest’ultimo tipo di apprendistato, però, è  sottoutilizzato: «Negli ultimi tre anni ne sono stati attivati poco più di mille in tutta Italia: davvero troppo pochi» si rammarica Tiraboschi. Eppure l’apprendistato ha innegabili vantaggi per l’azienda: il limite numerico degli apprendisti è 1 a 1, cioè se ne possono avere tanti quanti sono i propri dipendenti (nel caso dello stage per esempio il rapporto è invece 1 a 10), la quota contributiva è bassa. Ma sconta il fatto di essere poco conosciuto: «La priorità oggi è incentivare al massimo questo strumento, che potrebbe in molti casi sostituire lo stage e permettere ai ragazzi di guadagnare mentre imparano – ma, a differenza dei rimborsi spesa, in maniera trasparente e coerente con la normativa» rincara il professore, aggiungendo che alla luce di questo quadro normativo «lo stage non può più essere utilizzato come contratto di inserimento, con mini retribuzioni, per un numero significativo di mesi, senza alcuna finalità formativa e di orientamento, ma al solo fine di abbassare il costo del lavoro». Con la flessibilizzazione del mercato del lavoro, insomma, secondo Tiraboschi lo stage dovrebbe «tornare a essere uno strumento di raccordo tra scuola, formazione e mercato del lavoro e non una forma strutturata di mini-lavori», e abbandonare quindi la funzione di inserimento lavorativo.In concreto, però, dei 300mila stagisti che ogni anno invadono le imprese private e gli enti pubblici, si può calcolare a spanne che almeno un terzo cerchi attraverso lo stage proprio una porta d’ingresso nel mondo del lavoro. Prova ne sia che gli stage vengono svolti non solo durante i percorsi formativi, ma anche dopo; che la funzione di inserimento lavorativo viene ribadita anche in programmi pubblici o semipubblici (ad esempio il Progetto Fixo, che prevedeva un premio in denaro per quelle aziende che avessero assunto uno stagista); e che gli stage sono ampiamente utilizzati anche dai centri per l’impiego, dove la gente va per trovare – appunto – un impiego. Professor Tiraboschi, questo si può ignorare? «Non si deve ignorare, ma correggere. Usare lo stage come inserimento lavorativo è una forzatura. Le aziende non dovrebbero utilizzare lo stage come periodo di prova allungato: dovrebbero invece cominciare a utilizzare gli altri strumenti che la normativa mette a loro disposizione a questo scopo».E allora, è giusto che anche i media e il web si impegnino per far conoscere l’apprendistato. La Repubblica degli Stagisti certamente farà la sua parte per promuoverne l’utilizzo: del resto, già nella Carta dei diritti dello stagista avevamo messo nero su bianco che lo stage non avrebbe dovuto essere considerato l’unico strumento per realizzare una formazione, e che sarebbe stato giusto incentivare proprio l’utilizzo dei contratti di apprendistato.Eleonora Voltolina

Aiutati che il web t'aiuta: Lavoratorio, annunci di lavoro e non solo

Con questo articolo la Repubblica degli Stagisti inaugura la rubrica Aiutati che il web t'aiuta, con l'obiettivo di presentare ogni settimana ai suoi lettori altri siti utili per trovare buona informazione e notizie sul mondo della formazione e del lavoro. Contravveniamo così alla regola n. 1 di Internet, non scritta ma ben conosciuta dagli operatori del settore: quella di non cedere mai lettori indirizzandoli altrove - insomma, di non aiutare la "concorrenza". Lo facciamo perchè pensiamo che la Rete debba essere una vera rete, fitta di interconnessioni, e non una finta rete in cui le collaborazioni fra siti si limitino allo scambio di link. Se oggi è normale sfogliare giornali espressamente dedicati agli annunci di lavoro, e avere su Internet l’imbarazzo della scelta con decine di siti di questo tipo, vent’anni fa le cose non stavano proprio così. «In effetti io mi definisco un po’ un pioniere» esordisce Roberto Marabini, 46 anni, giornalista professionista (nella foto), che dagli anni Novanta lavora in questo settore: «Cominciai facendo progettazione editoriale di giornali di annunci, che dalle testate “serie” venivano considerati di serie B».Oggi Marabini dirige Lavoratorio, quotidiano online dedicato alle offerte di lavoro, visitato ogni giorno da 15-20mila utenti. La redazione è sparsa per l’Italia: due giornalisti, Gioia Maria Tozzi a Roma e Roberto Grande a Lecce, due grafici (uno a Firenze e uno a Napoli) e infine due tecnici informatici che fanno base a Varese.Nel passato di Marabini ci sono due iniziative editoriali molto conosciute: «Anni fa fondai un giornale che si chiamava “Lavoro e Carriere”, concentrato inizialmente sulla zona del milanese. In quel caso mi “autoinventai” editore: poi, quando l'attività prese il via con 3-4mila copie a settimana, magicamente si risvegliò l’attenzione di un editore vero. Vendevamo 50-60mila copie dell’edizione a pagamento, che aveva articoli e approfondimenti oltre alle classiche inserzioni, e in più 200mila copie della versione free press, che invece conteneva soltanto le inserzioni. Intorno al 2000 tentammo poi il grande salto verso Internet lanciando Catapulta.it, versione online di “Lavoro e Carriere”, che fece un boom arrivando a un milione di visitatori al mese». Nel 2007 però, con il cambio di editore, Marabini sceglie di allontanarsi e cercare altre strade. E mette a punto un nuovo progetto: «Nel settembre 2008 è nato Lavoratorio.it. L’intenzione era creare un sito che potesse offrire agli utenti non solo annunci, ma anche uno spazio di confronto e approfondimento». Secondo Marabini, infatti, il problema più grande del nostro mercato del lavoro è che aziende e lavoratori non sono capaci di comunicare. «Guardiamo per esempio le inserzioni» spiega: «In genere sono fatte talmente male che nel sito, nella sezione “Tutto di più forse”, ho pubblicato un testo dal titolo "L’inserzione imperfetta"». Una sorta di manualetto per imparare a leggere gli annunci, anche i meno comprensibili: «Spesso non contengono nemmeno le informazioni fondamentali! Qui entra in campo anche mia vocazione giornalistica: io considero fondamentale l’aspetto della chiarezza». Marabini bacchetta le aziende ma non risparmia certo i giovani: «L’errore più frequente è inviare la propria candidatura a tappeto: bisognerebbe invece leggere bene l’inserzione e valutare, ragionare sull’opportunità di ciascuna candidatura, chiedersi "a chi sto mandando il mio cv? Sono adatto a questa mansione?" Invece spesso i ragazzi fanno affidamento sui grandi numeri, mandano centinaia di cv senza cavarne nulla. Ma io dico: se al ventesimo cv nessuno ti ha risposto, fermati. Vuol dire che stai sbagliando qualcosa». E poi il curriculum andrebbe ogni volta modificato: «Per mettere in evidenza le competenze più interessanti per quel particolare posto per il quale mi sto candidando» riassume il giornalista: «Anch’io una volta feci un errore di questo tipo: mandai il cv a un grande editore di libri dimenticando di mettere in evidenza l’esperienza che avevo fatto in ambito editoriale. E puntualmente al colloquio questa mancanza mi venne fatta notare».Insomma, c’è ruggine nel sistema di incontro tra domanda e offerta di lavoro. Lavoratorio vuole funzionare da antiruggine, e in questi mesi ha sperimentato una formula innovativa: articoli che riportano notizie sulle aziende e sulle opportunità di carriera. I redattori setacciano Internet alla ricerca di informazioni utili, e poi fanno verifiche incrociate; in più, ricevono comunicati dalle grandi aziende e dalle agenzie per il lavoro più importanti. «A settembre arriveranno alcune novità: torneranno le inserzioni vere e proprie, e avvieremo anche produzioni televisive interne. Contiamo di passare dagli attuali 2 milioni di pagine viste al mese a 5-6 milioni. Del resto il futuro di Internet si gioca su contenuti, credibilità e indicizzazione: e i siti di annunci non fanno eccezione». Eleonora Voltolina

Giovani, lavoro e stipendi troppo bassi: quando al mutuo ci pensa papà (indebitandosi). Parola di Luigi Furini

Leggere Luigi Furini (nella foto qui a fianco) è sempre uno spasso. Dopo Volevo solo vendere la pizza, racconto autobiografico e tragicomico del suo tentativo - ovviamente fallito - di avviare un'attività di pizza al taglio, e Volevo solo lavorare, in cui toccava la spinosa questione del mobbing sul posto di lavoro, il giornalista stavolta affronta il problema dei salari e dell'indebitamento. Il libro ha un titolo eloquente, L'Italia in bolletta (Garzanti), seguito da un sottotitolo ancor più esplicito: «Risparmi in fumo, debiti alle stelle: come si estingue il ceto medio». Prestiti, mutui, carte di credito revolving: ce n'è per tutti i gusti. A dispetto della copertina seriosa (nell'immagine sotto), come nei precedenti libri Furini scrive in prima persona, in maniera scanzonata, tratteggiando ritratti espressivi delle persone che incrocia sulla sua strada. Si parte con Roberto, guardia giurata strozzata dalle rate per i viaggi e per la casa; poi con lo scorrere delle pagine si incontrano Maria, pensionata che va a rifarsi i denti in Croazia col pulmino della Cigl, Massimo che ha perso la casa ed è in cassaintegrazione, il giornalista Marino che non osa confessarlo ma ha visto i suoi risparmi andare in fumo in Borsa...Giovani a dir la verità ce n'è pochi. Forse perchè per potersi indebitare almeno un contratto e uno stipendio bisogna averli? «Esatto» conferma Furini alla Repubblica degli Stagisti: «I ragazzi purtroppo molto spesso hanno redditi troppo bassi per mantenersi da soli. E allora capita che siano i genitori ad accollarsi il mutuo per la casa, o il finanziamento per la macchina». Insomma, i figli gravano sul bilancio di mamma e papà ben oltre il tollerabile: «Dopo i venti, venticinque anni dovrebbero diventare adulti a tutti gli effetti, poter disporre di un reddito proprio e vivere una vita autonoma. Ma non ce la fanno, perché raramente hanno una busta paga decente: e allora per loro garantiscono i genitori». Nel libro l'unico under 30 è Luigi, ventiseienne che prima spende e spande - per la macchina, la moto, la bella vita con la fidanzata - e poi non sa come spiegare alla madre che rischiano il pignoramento della casa. Guadagna 1200 euro al mese, e 1137 gli partono per le rate dei prestiti che ha chiesto: ma certo non può vivere con 63 euro... Una storia-limite, è chiaro. «Però bisogna ammetterlo: nei ragazzi di oggi, specialmente quelli con bassa scolarità, c'è una certa superficialità rispetto allo spendere. Sono molto condizionati dalla tv, assorbono i messaggi pubblicitari come spugne» riflette Furini: «Quello che era una voglia è diventato un bisogno, e quello che era un bisogno è diventato una necessità. Nessuno vuol mettere in dubbio che la macchina o il telefonino siano beni ormai indispensabili: ma c'è il cellulare da 100 euro e quello da 500, c'è l'auto da 10mila euro e quella da 30mila. Il problema è che se giri con una Punto sei un nessuno, e allora c'è bisogno del Suv: anche a costo di indebitarsi per anni. Ed è così con tutto. Perfino le ciabatte, che non sono altro che un pezzettino di gomma, devono essere griffate: e quindi invece che un euro ne costano 30».La crisi forse può contribuire a un'inversione di tendenza? «In effetti sto registrando negli ultimi mesi un movimento inverso, una timida riscoperta del valore di una riduzione dei consumi. Ma se la gente smette di consumare l'ingranaggio si ferma: e invece deve continuare a funzionare, altrimenti i pubblicitari e le aziende si disperano». Così gli italiani continuano a spendere più di quel che guadagnano, e finiscono in bolletta.Eleonora Voltolina

Per chi sogna di fare il designer, in un libro croci e delizie della professione (e qualche consiglio ai giovani)

Il fascino del design non tramonta, e ogni anno migliaia di ragazzi si iscrivono a scuole di architettura, disegno industriale, arti visive e chi più ne ha più ne metta con il sogno del cassetto di diventare i nuovi Philip Starck.E' appena uscito un libro in cui una cinquantina di grandi designer - quasi tutti italiani - si raccontano: «Pane e progetto», sottotitolo «Il mestiere di designer» [qui a sinistra, la copertina] scritto dall'architetto Stefano Follesa e pubblicato da FrancoAngeli. Sebbene dei protagonisti del volume i più giovani siano nati a cavallo tra la fine degli anni Sessanta e l'inizio degli anni Settanta, attraverso questi racconti di vita vissuta anche i ragazzi di oggi possono riflettere, imparare, scorgere nuove prospettive.Molto spesso il libro riporta storie eccezionali, difficilmente ripetibili: come quella di Antonio Citterio, che racconta con nonchalance che fondò il suo primo studio a diciott'anni e che ancor prima di laurearsi aveva già la sua indipendenza economica («Erano chiaramente degli anni straordinari - ammette però - era tutto molto più semplice»). Oppure quella di Simone Micheli, che a venticinque anni, fresco di laurea, si ritrovò a dirigere un importante studio rimasto in panne per la morte prematura del proprietario: «La mia esperienza era pressochè nulla - ricorda - Fui subito catapultato in un vortice di lavoro iperbolico». Vortice da cui scelse di allontanarsi dopo pochi mesi, rifiutando una strepitosa proposta economica pur di «seguire il cuore». O quella di Matteo Ragni, che solo ventiduenne (correva l'anno 1995) aveva già il suo primo pezzo in produzione: tra l'altro Ragni è l'unico dei designer intervistati a raccontare di aver fatto un'esperienza da stagista, o meglio - nel gergo del settore - da "tiralinee". Tutti i pomeriggi, dopo le lezioni al Politecnico di Milano, andava ad aiutare un grande vecchio dell'architettura a selezionare il materiale da inserire in un libro sulla sua carriera. Stage atipico, però, perchè da tiralinee il «giovane apprendista, sprovveduto aspirante architetto» si trasformò quasi subito in "nipote acquisito", rimase a bazzicare in quello studio per tre anni, e ancora ricorda il vecchio maestro, ormai scomparso, come un nonno.La storia più bizzarra è forse quella di Gianfranco Gualtierotti, che da piccolo voleva fare il meccanico alla Ferrari - altro che designer! La sua gavetta è quindi molto diversa dagli altri: prima tornitore presso un'officina che produceva macchine e telai per tessuti, poi operaio meccanico alla Permaflex, in mezzo alle macchine che sfornavano i materassi a molle, per poi finire a progettare sedili, divani e poltrone. Certo, con le nuove leve questi designer non ci vanno col guanto di velluto: «La preparazione è molto teorica, conoscono poco l'evoluzione del design italiano, sanno ben poco di storia dell'arte - affonda Gualtierotti - per non parlare poi dei prodotti storici del design anni '60 - '80. Tecnologicamente poi sono completamente acerbi». Stefano Giovannoni consiglia di «non limitare il proprio orizzonte ad ambiti troppo specifici», Piero Lissoni mette in guardia dalle "superstar mediatiche", «piccoli mostri che dopo pochissimo, due anni o due progetti, spariscono nel nulla» e invita i giovani a cogliere le tante occasioni di lavoro del mondo di oggi facendo uno sforzo di «qualità quotidiana di continuità del lavoro».Una voce fuori dal coro è però quella di Giulio Iacchetti, uno dei più giovani designer intervistati nel libro (è nato nel 1966): «Si incontrano nella professione persone capaci che hanno avuto dei cattivi maestri e altrettante persone non brave che hanno avuto invece ottimi maestri. Arriva comunque il momento in cui l'allievo deve farcela da solo». Insomma, tutto sta nel talento e nella determinazione individuale: «Non mi piace sentir parlare di scuole di serie A e di serie B; se uno non ha la stoffa per fare il designer, non lo farà neanche se frequenta la Central St. Martins di Londra». Iacchetti poi suggerisce ai giovani di non puntare solo sulle grandi aziende di design: «Cercare un percorso standardizzato, del tipo diploma, laurea e poi tentare di lavorare per Cappellini, significa esporsi a un'alta probabilità di fallimento». E allora come muoversi per trovare la propria strada professionale? «Iniziare a guardare quello che succede sotto casa propria». Se da una parte quindi Iacchetti incoraggia i giovani a costruirsi il proprio percorso stando alla larga dagli schemi prestabiliti, dall'altra fustiga le scuole che crescono come funghi per succhiare soldi agli aspiranti creativi: «Si sta sviluppando un business intorno alla formazione nel campo del design: informarsi sugli effettivi benefits che ogni istituto vanta è un buon antidoto anti-fregatura» spiega, e conclude un po' indignato: «C'è una scuola di Milano che chiama i suoi studenti "clienti"!». Ma a fare i designer, poi, si riesce a mettere insieme uno stipendio decente? A rispondere senza peli sulla lingua, pragmaticamente, è infine una donna, la bolognese Miriam Mirri: «Non si guadagna poi così tanto. Oppure si guadagna, ma dura poco. Dipende anche dal tipo di contratto, io lavoro quasi sempre con contratti a royalties, diritti d'autore, quindi guadagno in base alle vendite degli oggetti che entrano in produzione e che vengono veramente venduti. Però, se su sanno gestire un po' le cose, la libertà di movimento e le esperienze che si possono fare sono una vera fortuna». Aspiranti designer avvisati, mezzi salvati.Eleonora Voltolina

Dalla parte dei laureati - lo stage serve per trovare lavoro?

La notizia è di pochi giorni fa: secondo Eurostat l’Italia è agli ultimi posti nell'Unione Europea per numero di laureati. Dalle rilevazioni del 2007 risulta che tra gli italiani di età compresa tra i 25 e i 34 anni, solo uno su cinque ha finito l’università: per la precisione il 19%. A parimerito (o demerito) dell’Italia c’è l’Austria: sotto di loro solo Slovacchia (18%), Romania (17%) e Repubblica Ceca (16%). Ben lontani dalle capolista Cipro (47%), Irlanda (44%) e Francia (42%).L’aspetto controcorrente della penuria di laureati italiani è che al numero esiguo non corrisponde nemmeno, come invece sarebbe logico, una proporzionale crescita delle opportunità di lavoro e dei livelli salariali, come già notava Massimo Livi Bacci – docente di Demografia e senatore PD – nel libro «Avanti giovani alla riscossa – come uscire dalla crisi giovanile in Italia» (edito dalla casa editrice Il Mulino - qui a sinistra la copertina). Tanto è vero che sulle pagine del Salvagente, quotidiano online dei consumatori, sono in questi giorni convogliate le voci sfiduciate di molti «laureati pentiti».La funzione di «ascensore sociale» che una volta aveva l’istruzione universitaria è poi un lontano ricordo per gli italiani, almeno secondo la rilevazione di Eurostat: oltre la metà dei laureati proviene da una famiglia «colta», e solo uno striminzito 7,7% ha genitori con un basso livello di formazione. Eppure gli studenti italiani sono veloci e brillanti: il profilo dei laureati 2008 elaborato da Cesop, agenzia che da anni si occupa di comunicazione aziendale per il recruitment di neolaureati e di employer branding, indica che in media diventano «dottori» a 25 anni e con un onorevole 105. E sempre più spesso arrivano alla laurea già con esperienze di stage alle spalle, come rileva Almalaurea – una sorta di consorzio delle università italiane a cui aderisce circa il 70% degli atenei – nel suo Rapporto annuale "Condizione occupazionale dei laureati": il 50,8% degli studenti universitari laureati nel 2007 (cioè circa 94mila persone su un totale di poco meno di 185mila) ne ha fatto almeno uno durante gli studi. In quattro anni questo numero è quasi raddoppiato: nel 2004 erano solo 47mila. Infatti la ricerca Recent Graduate Survey, che Cesop commissiona ogni anno a un istituto di ricerca indipendente, conferma che il 93,3% dei laureati ritiene ormai assolutamente indispensabile un periodo formativo all'interno dell'azienda.Ma poi lo stage serve davvero a trovare lavoro ai laureati? Stando ai risultati dell’indagine CAWI “La qualità dei tirocini formativi previsti dai corsi di laurea” (condotta sempre da Almalaurea nell’aprile 2008 sui laureati che avevano concluso gli studi nel 2006 e avevano svolto un tirocinio formativo riconosciuto dal corso di studi), il 12,8% di chi fa un tirocinio rimane a lavorare nella stessa azienda. La percentuale sale al 21,3% se si prendono in considerazione solo i laureati quinquiennali, chiaramente più interessati all’inserimento lavorativo al termine dello stage. I dati Cesop aggiungono poi a questo quadro un particolare rilevante: quasi due laureati su tre (per la precisione il 59,4%) sarebbero disponibili a fare uno stage di sei mesi addirittura gratis, pur di avere l’opportunità di farsi conoscere da un’azienda e arricchire il proprio curriculum. Peccato che poi in realtà Almalaurea sveli che aver fatto uno stage durante o dopo l’università incrementerebbe soltanto del 6% la possibilità di trovare lavoro. La questione resta sul tavolo, per i laureati come per tutti gli altri: come scegliere lo stage davvero utile?Eleonora VoltolinaPer saperne di più su questo argomento, vedi anche:- Trovare lavoro dopo la laurea o il master, attenzione alle percentuali di placement: a volte possono riservare sorprese- Ingegneria ma non solo: quali sono le lauree più utili per trovare lavoro?

Fisco e rimborso spese, ancora qualche chiarimento con il Commercialista telematico

Approfondiamo la questione dell’aspetto fiscale degli stage tornando a chiedere lumi a Maurizio Falcioni del Commercialista Telematico.Quale documento fiscale deve rilasciare l’azienda allo stagista?Il rapporto che si instaura tra il soggetto ospitante e soggetto ospitato nell'ambito di uno stage non costituisce rapporto di lavoro subordinato: quindi non esiste neanche un obbligo di emettere un «cedolino paga» per le somme corrisposte a titolo di «premio» o «rimborso spese». Il soggetto ospitante, al momento del pagamento delle somme allo stagista - mensilmente, trimestralmente o annualmente - provvederà alla compilazione di un qualsiasi prospetto a propria discrezione. L’importante è che presenti gli elementi fiscalmente obbligatori: i dati del soggetto ospitante, quelli dello stagista, le somme lorde, l’imposta, le detrazioni e le somme nette corrisposte. Entro la fine di febbraio dell’anno successivo il soggetto ospitante è obbligato a rilasciare allo stagista la certificazione delle ritenute effettuate.Questo documento obbliga lo stagista a fare una dichiarazione dei redditi?Le somme percepite a titolo di premi, sussidi o borse di studio vanno a determinare il reddito complessivo dello stagista. Devono essere sommate  agli altri redditi posseduti e dichiarati nel mod. Unico o per il tramite del mod. 730. Nel caso - piuttosto usuale - in cui lo stagista percepisca, nell’arco di un anno, un compenso da un solo soggetto ospitante e non abbia altri redditi, non è obbligato alla presentazione della dichiarazione dei redditi. Ciò deriva dal fatto che avendo percepito  unicamente somme dal soggetto ospitante - che per legge è un sostituto di imposta obbligato ad effettuare la ritenuta d’acconto - in sede di dichiarazione redditi l’imposta lorda, diminuita delle detrazioni per lavoro e delle ritenute subite, dovrebbe essere, salvo errori, pari a zero. Per legge, chi non è obbligato a tenere scritture contabili e ha una imposta netta che non supera 10,33 euro è esonerato dalla dichiarazione dei redditi.Anche gli stagisti più fortunati, quelli che percepiscono magari un rimborso spese di mille euro al mese, non dovranno pagare le tasse?Se ricevono un rimborso spese di mille euro netti, vuol dire che su quella somma l’azienda ospitante ha già trattenuto il 23% di Irpef. Facciamo l’esempio in maniera analitica. Uno stagista che prende mille euro netti al mese percepisce per uno stage di un anno, in tutto, 13.730 euro lordi. Su quella cifra grava una quota Irpef pari al 23%, quindi 3.157,90 euro. L’azienda, in qualità di sostituto d’imposta, bilancia questa quota con le detrazioni spettanti ai sensi dell’art. 13 del TUIR, che ammontano a 1.428,36: questa cifra va sottratta alla quota Irpef, e la fa diminuire a 1.729,54 euro. Ecco quindi che viene fuori il valore netto del rimborso spese percepito dallo stagista: 13.730,00 meno 1729,54 fa esattamente 12.000,46. A questo importo poi andranno dedotte le addizionali regionali (fino ad un max del 1,4%) e comunali, che variano, nella percentuale, da regione a regione oltre che da comune a comune di residenza. Su questa cifra percepita lo stagista non dovrà pagare più nulla, perché tutti i suoi oneri fiscali saranno già stati assolti dall’ospitante.Intervista di Eleonora VoltolinaPer saperne di più su questo argomento, vedi anche l'articolo «Rimborso spese per lo stage: bisogna pagarci le tasse? Risponde un commercialista "telematico"»

Rimborso spese per lo stage: bisogna pagarci le tasse? Risponde un commercialista "telematico"

Come sono inquadrati i rimborsi spese degli stage? Bisogna pagarci le tasse? Perché si parla di «netto» e di «lordo»? Per fare un po' di chiarezza su questo tema la Repubblica degli Stagisti ha chiamato in causa il Commercialista Telematico, una testata online attiva dal 1995 che dà ai lettori informazioni di carattere fiscale, societario e del lavoro, e vari servizi aggiuntivi riservati agli utenti abbonati. 600mila accessi al mese ne fanno un referente di tutto rispetto: a rispondere alle domande è uno dei numerosi autori del sito, Maurizio Falcioni, che da oltre vent’anni fa il commercialista in quel di Rimini. I rimborsi spesa sono gli «stipendi» degli stagisti. Qual è la differenza con una retribuzione vera e propria? Gli stage o tirocini formativi e di orientamento sono disciplinati dall’art. 18 della legge 196/1997 e dal DM 142/1998 per realizzare momenti di alternanza fra studio e lavoro e agevolare le scelte professionali mediante la conoscenza diretta del mondo del lavoro. Il rapporto che si instaura tra il soggetto ospitante (pubblico o privato) e il soggetto ospitato (stagista), non costituisce - detta specificatamente l’art.1 del DM 142/1998 - rapporto di lavoro subordinato. Quindi non parleremo mai di «stipendi» o di «retribuzione», ma esclusivamente di somme che vengono corrisposte al tirocinante a titolo di rimborsi spese, borsa di studio o di assegno, premio o sussidio per fini di studio o di addestramento professionale. Queste differenze lessicali implicano differenze a livello concreto? Se un'azienda decide di dare un contributo economico ai suoi stagisti, può farlo in due modi. Parliamo di «premio» o «borsa di studio» per le somme erogate «arbitrariamente». Parliamo invece di «rimborsi spese» quando le somme vengono erogate espressamente per rimborsare spese effettivamente sostenute (es. per un viaggio). Ormai però le aziende chiamano quasi sempre la somma che danno ai loro stagisti «rimborso spese», intendendo con questo termine una sorta di premio mensile forfettario. A livello fiscale, entrambe queste modalità sono redditi assimilabili a quelli di lavoro dipendente. A volte questo rimborso spese viene decurtato, e dalla cifra iniziale «lorda» si passa a quella «netta»: perchè? Quali sono le trattenute che gravano su questo tipo di remunerazione?Abbiamo detto che «rimborsi spese» e «premi» o «borse di studio» sono due cose differenti. E differente è anche il trattamento tributario che subiscono. Per quanto riguarda i premi o borse di studio, si fa riferimento all’art. 50 del DPR 917/86 (Testo Unico delle Imposte sui Redditi – TUIR) e si applicano le disposizioni tributarie dei redditi di lavoro dipendente: trattenuta Irpef lorda con aliquota del 23% per somme fino a 15mila euro, nonché detrazioni dall’imposta lorda rapportate al periodo di lavoro nell’anno. L’Irpef è un'imposta personale a carico di chiunque abbia un reddito: in questo caso, lo stagista. Facciamo un esempio per capire come si fa il conteggio.Va bene, prendiamo uno stagista che riceva una borsa di studio di 2mila euro per un anno. L’Irpef al 23% dovrebbe decurtare di 460 euro questa somma, ma grazie alle detrazioni previste dal TUIR sopra citato, la somma rimane invariata. Possiamo dire che, da un punto di vista puramente matematico, fino alla somma di 8mila euro all’anno (quindi 670 euro al mese) non vengono attuate trattenute fiscali. E per quanto riguarda invece i rimborsi spese propriamente detti?Si fa riferimento sempre al TUIR, ma agli articoli 51 e 52: dov’è previsto per esempio che le indennità corrisposte per trasferte o missioni fuori del territorio comunale non siano soggette ad alcuna tassazione fiscale fino a 46,48 euro al giorno (77,47 euro se all’estero)… Qui c’è una casistica enorme: l’importante è capire che una cosa sono i rimborsi per spese effettivamente sostenute, come appunto trasporti o alloggio, e un’altra sono i rimborsi spesa forfettari che ormai costituiscono la maggioranza per quanto riguarda gli stage, e che vanno considerati come i «premi» di cui abbiamo parlato prima. Dunque al momento di erogare il rimborso spese l'azienda ospitante trattiene già gli oneri fiscali, cioè l’Irpef ed eventualmente altre imposte locali. Esatto. Così facendo, fa il «sostituto di imposta» che tecnicamente è quel soggetto obbligato per legge a trattenere, in caso di erogazione di somme, una ritenuta - prevalentemente a titolo di acconto, ma in certi casi anche a titolo di imposta - Irpef al percettore. Si dice «sostituto» perché sostituisce l’erario: prima trattiene al percettore la somma Irpef e poi la versa, sempre nei tempi dettati dalle norme, allo Stato. Un’azienda potrebbe affermare «Non sono in grado di calcolare l'entità della cifra netta che erogo ai miei stagisti» o «Non faccio il sostituto d'imposta per i miei stagisti»? No, assolutamente: è un obbligo di legge. Sarebbe come dire «Ho dei dipendenti ma non sono in grado di elaborare una busta paga e quindi non trattengo le imposte e non le verso»: impossibile. E su quello che riceve, lo stagista deve pagarci altre tasse o no? Beh, no. Tutto quello che doveva, l’ha già pagato per suo conto l’azienda ospitante, trattenendolo in anticipo sul rimborso spese. Eleonora Voltolina

Svizzera, stage a cinque stelle per riqualificare i disoccupati

In Svizzera anche gli adulti possono fare stage. Sì, ma stage a cinque stelle! Lì esiste un ente «Assicurazione disoccupazione» che funziona in base a un unico concetto: colmare – anche attraverso uno stage – tutte le eventuali lacune che potrebbero impedire al disoccupato di ottenere di un nuovo posto di lavoro. Possono usufruire di questo servizio tutti i lavoratori dipendenti (ogni datore di lavoro deve pagare questa piccola assicurazione) e tutti i lavoratori indipendenti che decidono di pagarla volontariamente. Quindi gli uffici di collocamento gestiscono gli stage per gli adulti. Come? Secondo due tipologie di tirocinio: quello professionale (reinserimento nello stesso ambito lavorativo) e quello di formazione (passaggio ad altro ambito lavorativo). Nel primo caso, gli impiegati dell’ufficio di collocamento analizzano il curriculum di ciascun disoccupato ed eventualmente propongono uno stage per implementare un certo tipo di competenze. Questo stage può avere una durata massima di sei mesi, prorogabili fino ad altri sei solo per decisione dell’ufficio di collocamento (non dell’azienda ospitante). In ogni momento, ovviamente, lo stage può essere interrotto in favore di un contratto. Durante lo stage la persona continua a ricevere il sussidio dell’ente, pari al 70% della media degli ultimi sei mesi di stipendio (comunque mai meno di 1200 euro al mese – la somma viene anche modulata in base alla situazione personale, es. un single prenderà meno di un padre con figli a carico). Della somma erogata allo stagista-disoccupato, l’impresa versa il 25%. Lo stage formativo può durare solo tre mesi e viene svolto sia lavorando presso aziende sia frequentando corsi (lingua, informatica etc). Anche in questo caso lo stagista-disoccupato continua a percepire il sussidio. In Svizzera l’anno scorso sono stati attivati circa 2000 stage professionali (1700 in aziende private e 300 nell’amministrazione pubblica).

Quanti stagisti può prendere un'azienda? Tanti, anzi: troppi

Una domanda molto frequente da parte di chi naviga su Internet in cerca di informazioni sugli stage è questa: ci sono limiti all'utilizzo degli stagisti da parte delle imprese? La risposta è: sì.Il decreto ministeriale 142/1998, che regolamenta appunto la materia “tirocini formativi e di orientamento”, definisce il numero massimo di stagisti che ogni impresa può ospitare. Le aziende con non più di 5 dipendenti a tempo indeterminato possono prendere un solo tirocinante; le aziende con un numero di dipendenti compreso tra 6 e 19 hanno diritto a prendere uno o due tirocinanti contemporaneamente, non di più; per quanto riguarda quelle con più di 20 dipendenti, invece, gli stagisti non possono essere contemporaneamente più del 10% degli assunti (sempre calcolati su quelli a tempo indeterminato, quindi esclusi quelli a tempo determinato, i cocopro, i collaboratori etc). Una prima questione nasce spontanea: chi controlla che questi limiti vengano rispettati? A chi ci si dovrebbe rivolgere per denunciare eventuali trasgressioni di questa normativa?La seconda questione è, come spesso accade, un cavillo squisitamente lessicale. A prima vista si potrebbe pensare che i limiti siano chiari: un'azienda che abbia 10 dipendenti potrà prendere 2 stagisti, una che abbia 100 dipendenti ne potrà prendere 10. E invece no. Perchè c'è quella parolina, "contemporaneamente", che cambia tutto il senso della regola. E permette che invece l'azienda che ha 10 dipendenti possa avere, in un anno, ben 8 stagisti: basta che ne prenda due alla volta e faccia fare stage di 3 mesi, e il gioco è fatto. E otto stagisti in un anno, per una piccola impresa, sono una bella convenienza. Ugualmente, l'azienda da 100 dipendenti potrà avere in un anno 40 stagisti "trimestrali", o 20 stagisti "semestrali". Del resto, la legge lo permette: quindi si tratta di un comportamento spregiudicato, ma assolutamente lecito.Che porta ancora una volta alla stessa conclusione: è davvero necessario rivedere la normativa, in modo che le aziende meno corrette siano obbligate a smettere di usare gli stagisti come kleenex.di Eleonora VoltolinaPer saperne di più su questo argomento, vedi anche l'articolo «E se le aziende prendono troppi stagisti, cosa rischiano? Niente»