Categoria: Approfondimenti

Le regioni che non consentono più il tirocinio a distanza: sono quasi tutte al centro-sud

La Repubblica degli Stagisti ha messo in fila in un recente articolo tutte le Regioni che permettono a oggi il tirocinio da casa, introdotto durante la pandemia da Coronavirus e diventato una prassi piuttosto comune. Qui, invece, prendiamo in esame tutte quelle che hanno deciso di tornare alla sola possibilità dello stage in azienda. Non consentono (o non consentono più) lo smart internshipping: Piemonte, Provincia autonoma di Trento, Friuli-Venezia Giulia, Toscana, Marche, Umbria, Molise, Campania, Basilicata, Puglia, Sicilia. Il Piemonte aveva già previsto nella determinazione del dicembre 2020 che le misure straordinarie adottate, come la modalità agile per i tirocini, sarebbero cessate dopo 90 giorni dal termine dello stato di emergenza. A maggio di due anni fa la Regione ha emanato una nuova determinazione, ribadisce senza appello che tutti i tirocini extracurriculari devono essere attivati esclusivamente in presenza: non è più consentita l’attivazione di nuovi tirocini in modalità agile. Nella provincia autonoma di Trento i tirocini erano stati sospesi a marzo 2020 e dopo poco era stata concessa la possibilità di tornare in presenza. Giampaolo Pedrotti, dall’ufficio stampa della Provincia, conferma alla Repubblica degli Stagisti che «non è mai stata messa in campo la possibilità dello smart internshipping perché si ritiene tale modalità di difficile realizzazione e poco proficua». Tutt’ora non è consentita.  Il Friuli Venezia-Giulia aveva sospeso nel marzo 2020 tutte le attività di stage e tirocinio in presenza, consentendo lo svolgimento a distanza solo per alcune specifiche attività. A ottobre dello stesso anno aveva poi permesso, qualora realizzabile, il parziale svolgimento delle attività in modalità a distanza per i tirocini extracurriculari. Specificando, però, come se ne dovesse fare ricorso solo in via eccezionale. Due anni dopo, nel 2022, la Regione pubblica vari provvedimenti, il primo a febbraio, in cui conferma la possibilità della modalità a distanza, per un parziale svolgimento, e dopo, nel decreto 2070 di marzo, precisa che dal primo aprile 2022 i tirocini devono essere svolti in modalità ordinaria, quindi in presenza, tranne per le attività che erano già cominciate totalmente o parzialmente in smart internshipping. Nel documento si consente anche il parziale svolgimento delle attività in modalità a distanza. Ma  il decreto del maggio 2022 ha precisato che gli stage e i tirocini si devono svolgere obbligatoriamente in presenza. In Toscana l’ultimo provvedimento, ancora in vigore, è la delibera 362 del marzo 2022 in cui si prevedeva un ripristino graduale del regime ordinario consentendo lo smart internshipping solo per ulteriori sei mesi, fino al primo ottobre 2022. Da quel momento in poi, non è più stato consentito lo stage da casa. Nella regione Marche in tutto il periodo Covid, 2020 – 2021, è stata possibile l’attivazione e prosecuzione dello stage in modalità a distanza. Con la circolare 9 del settembre 2022 è stata limitata ai tirocini attivati entro il 30 settembre 2022. Ad oggi quindi non è consentito.   Anche l’Umbria ha messo da parte lo smart internshipping, lasciando aperta questa possibilità solo fino al 30 settembre 2023. Nel marzo 2022 la Regione ha approvato le nuove linee guida per l’erogazione dei corsi di formazione a distanza consentendo il tirocinio da casa per un massimo di 12 mesi ai percorsi avviati entro il 30 settembre 2022. Ad oggi, quindi, questa modalità non è permessa.  In Molise al momento non è possibile svolgere tirocini a distanza, pur avendoli questa Regione consentiti durante il periodo della pandemia Covid. Antonio Di Cesare, responsabile dell’ufficio apprendistato, formazione continua, tirocini formativi, spiega alla Repubblica degli Stagisti che «questa modalità è stata consentita fino al perdurare dello stato di emergenza (ndr. terminato a marzo 2022). Oggi non è più consentito». La Regione ha però cominciato a lavorare sulla revisione della disciplina regionale, quindi anche di questo aspetto, ed «è in itinere il riordino di tutta la materia dei tirocini». In Campania i provvedimenti relativi ai tirocini extracurriculari sono stati emessi solo nella prima fase della pandemia, nel 2020, quando un’ordinanza di maggio aveva indicato come la modalità preferita per lo svolgimento degli stage è quella a distanza o, se non fosse stata praticabile, quella in presenza. A fine mese dello stesso anno una nuova ordinanza valida fino al 31 luglio 2020 aveva confermato la ripresa dei tirocini extracurriculari in presenza e, dove non possibile la modalità a distanza. Da allora la Regione non ha più emesso nuovi provvedimenti, quindi ad oggi è possibile solo il tirocinio in presenza. In Basilicata con lo scoppio della pandemia nel 2020 i tirocini extracurriculari erano stati tutti sospesi, salvo poi consentirne la prosecuzione a distanza. A partire dal giugno di quell’anno è ripresa l’attivazione in presenza degli stage e qualora non fosse stato possibile garantire le misure di sicurezza, la prosecuzione in modalità agile fino al perdurare dell’emergenza sanitaria. Oggi che lo stato d’emergenza è archiviato, non essendo intervenuti altri provvedimenti, è possibile solo il tirocinio in presenza in azienda.La Puglia al momento non consente lo smart internshipping perché «non è stata ancora approvata la specifica regolamentazione dei tirocini in modalità a distanza o mista e di conseguenza tali modalità non sono disponibili per i tirocini attivati sul territorio regionale», spiega alla Repubblica degli Stagisti Pierpaolo Miglietta della Sezione politiche del mercato del lavoro della Regione. La nuova legge in materia di tirocini extracurriculari approvata a novembre 2023 ha, infatti, previsto la possibilità dello smart internshipping ma ha subordinato la sua applicazione all'approvazione di una specifica regolamentazione da parte della Giunta regionale che non è ancora arrivata. Durante la pandemia, la Regione aveva deciso di sospendere tutti i tirocini extracurriculari senza autorizzare lo smart internshipping, salvo dopo tre mesi riprendere gli stage in presenza e a novembre dello stesso anno autorizzare lo svolgimento in fad per la parte teorica durante la fase emergenziale. Nella regolamentazione in fase di approvazione saranno indicate le specifiche condizioni e modalità di svolgimento a distanza e inserite le «procedure operative per consentire un’adeguata attività di tutoraggio e controllo dell’attività formativa di tirocinio da parte dei tutor e sarà implementato il format di monitoraggio mensile già in uso» con l'inserimento di un ulteriore colonna per indicare se l'attività si svolge a distanza o in modalità mista. In Calabria allo scadere dello stato di emergenza la delibera di giunta 133 del marzo 2022 aveva prorogato la formazione a distanza al cento per cento per i sei mesi successivi, quindi fino al 30 settembre. In seguito, con la delibera 456, la Regione ha deciso di estendere la possibilità di smart internshipping non solo ai tirocini già autorizzati a marzo e svolti nei sei mesi seguenti, ma anche a quelli autorizzati nei sei mesi successivi allo scadere dello stato di emergenza (il 31 marzo 2022). Ad oggi, passati ormai da tempo i sei mesi dallo stato di emergenza, non è più possibile il tirocinio in modalità agile. In Sicilia con lo scoppio della pandemia erano stati sospesi tutti i tirocini attivi salvo poi consentire con l’ordinanza del maggio 2020 lo svolgimento dei tirocini in presenza, con adeguati mezzi di protezione individuale. Lo smart internshipping non è mai stato consentito, se non per quelli in Garanzia giovani nel corso del 2021, «mediante forme alternative alla presenza in azienda assimilabili allo smart working». Tale modalità in ogni caso si poteva attuare solo in via emergenziale. Ad oggi non è previsto lo smart internshipping. Marianna LeporeFoto di apertura: di European Union 2024, da Wikimedia in modalità Creative Commons

Stage a distanza, adesso che la pandemia è passata alcune Regioni lo consentono e altre no

Ha rivoluzionato il mondo dei tirocini durante la pandemia: lo stage a distanza, o smart internshipping come la Repubblica degli Stagisti l’ha soprannominato, è stato la grande novità degli stage tra il 2020 e il 2021. Poi, con il ritorno alla normalità, i tirocini sono tornati in presenza. Alcune regioni, però, continuano a consentire l’uso di questa modalità, diventata comune come lo smart working.  L’Italia è divisa, dal punto di vista dello stage da casa, quasi a metà. Consentono la prosecuzione dello smart internshipping otto Regioni e una provincia autonoma: Lombardia, Valle d’Aosta, Provincia autonoma di Bolzano, Veneto, Liguria, Emilia-Romagna, Abruzzo, Lazio, Sardegna.  Dieci Regioni e una provincia autonoma invece non lo consentono più del tutto: Piemonte, Provincia autonoma di Trento, Friuli-Venezia Giulia, Toscana, Marche, Umbria, Molise, Campania, Basilicata, Calabria, Sicilia. Più la Puglia, che al momento non consente la possibilità ma potrebbe presto farlo con una nuova normativa attualmente in gestazione.Vediamo caso per caso la situazione lì dove il tirocinio da remoto è possibile.La Lombardia, “capitale degli stagisti” con oltre 66mila extracurricolari e circa 50mila curricolari attivati l'anno scorso sul suo territorio, era stata tra le prime regioni a confermare nel 2022 la possibilità di svolgere tirocini extracurriculari da remoto e a permettere la possibilità di svolgere tirocini in smart internshipping anche con l’avvio della fase ordinaria, dal settembre 2022, «nei casi in cui tale modalità di lavoro sia prevista dall’organizzazione del lavoro del soggetto ospitante». In seguito Regione Lombardia ha aggiornato le faq relative ai tirocini e pubblicato una nota per precisare che non è possibile «attivare tirocini extracurriculari che prevedano lo svolgimento delle attività esclusivamente in modalità agile», ma che è consentita una modalità mista garantendo una presenza minima del tirocinante nei locali aziendali, il monitoraggio dello stagista e la presenza di adeguati strumenti tecnologici idonei per raggiungere gli obiettivi formativi del tirocinio.    La Valle d’Aosta ha cambiato totalmente passo, introducendo la possibilità dello smart internshipping che prima non aveva consentito: anzi era stata nel 2020 tra le prime regioni a ripartire con i tirocini extracurriculari in presenza. Ora, con la nuova legge regionale numero 839 approvata nel luglio 2022, permette anche quelli a distanza, fermo restando che questo non pregiudichi il raggiungimento degli obiettivi formativi. «Sarà cura del soggetto ospitante dotare il tirocinante di supporti tecnologici adeguati per svolgere le attività, che dovranno essere ricomprese nei limiti di durata dell'orario giornaliero e settimanale stabiliti nel progetto formativo», spiega Sabina Thoux, segretaria particolare dell'assessorato al Lavoro e formazione. I tutor sono chiamati ad «adottare idonee modalità di monitoraggio dell'attuazione del progetto formativo e garantire supporto al tirocinante attraverso strumentazioni ict».Nella provincia autonoma di Bolzano i tirocini sono stati a inizio pandemia sospesi e solo in un secondo momento è stato permesso di farli proseguire in smart internshipping. In realtà, però, in questa Provincia si attivano pochissimi extracurriculari: «Le ragazze e i ragazzi di norma iniziano direttamente con contratti di lavoro, non di stage», precisa alla Repubblica degli Stagisti Georg Ambach, direttore dell’ufficio Mercato del lavoro della Provincia, «e fino ad ora non abbiamo avuto richieste per svolgerli da remoto». Diversa la situazione per la Libera Università di Bolzano, che consente lo svolgimento dei tirocini in modalità mista, ma non totalmente a distanza. Per attivarli è necessario compilare una specifica dichiarazione da caricare nel Career hub prima dell’attivazione dello stage.   Il Veneto era stato tra le prime regioni, insieme alla Lombardia, a pronunciarsi sull’uso dello stage da remoto al termine dello stato di emergenza, nel 2022. Due anni fa però aveva deciso di non permettere più i tirocini in smart, perché, scriveva la Regione, «la modalità di svolgimento del tirocinio a distanza non trova alcun fondamento giuridico nella disciplina vigente». A maggio 2023, con la delibera della giunta regionale 634, il cambio di passo: «è stata prevista la possibilità di svolgere il tirocinio parzialmente in smart traineeship, fino al 40 per cento dell’orario settimanale», spiega Luca Candido, responsabile comunicazione di Veneto Lavoro. I tirocini in modalità agile devono obbligatoriamente svolgersi in sede «per almeno il 60 per cento dell’orario settimanale previsto e per non meno di tre giorni a settimana». Le aziende che prevedono lo smart traineeship devono prevederlo nel progetto formativo e questo deve essere inserito nel sistema delle comunicazioni obbligatorie. «Attualmente in base ai progetti formativi presentati risultano 158 tirocini che utilizzano la modalità agile».     In Liguria già due anni fa si era deciso di continuare con i tirocini extracurriculari in modalità agile, perché lo smart internshipping si era rivelato una valida risorsa nel periodo emergenziale e attraverso la deliberazione della giunta regionale 238 del marzo 2022 è stata consentita l’attivazione di tirocini in modalità smart internshipping, totale o mista, oltre alla trasformazione di quelli in presenza in stage da casa. La delibera, conferma Lorenza Pareo dalla Direzione generale Formazione, istruzione e lavoro della Regione, «è ancora vigente» quindi oggi è possibile svolgere tirocini extracurriculari in modalità agile totale o mista. Per farlo è necessario indicare nel campo note del piano formativo individuale la data di inizio dello svolgimento in smart working e la dicitura “SW totale” o “SW misto” a seconda della tipologia concordata. Al momento non sono disponibili i dati che sono, però, recuperabili attraverso il database.     In Emilia-Romagna è stato confermato nelle faq predisposte dalla Regione nel 2022 al termine dell’emergenza sanitaria da Covid 19 la possibilità di svolgere i tirocini a distanza, «con modalità da concordare tra soggetto promotore, ospitante e tirocinante, purché sussistano le condizioni logistiche, organizzative e che tali modalità consentano lo svolgimento delle attività previste nel progetto formativo». Per farlo, però, precisa alla Repubblica degli Stagisti Katia Pedretti dall’Agenzia regionale per il lavoro, «il soggetto promotore dovrà acquisire e tenere agli atti la documentazione che attesti la disponibilità del tirocinante e del soggetto ospitante a svolgere il tirocinio a distanza, verificare che questa modalità permetta lo svolgimento delle attività previste dal progetto formativo e il raggiungimento degli obiettivi formativi e accertare la presenza delle condizioni sia organizzative, per esempio il tutoraggio da parte del soggetto ospitante, sia tecniche, come la strumentazione informatica». Ad oggi, però, non sono raccolti dati in merito al numero di tirocinio attivati in smart internshipping. Anche in Abruzzo già nel 2022 la delibera della Giunta regionale aveva confermato «in via transitoria fino all’approvazione delle nuove linee guida nazionali sui tirocini» la possibilità dei tirocini in smart training o in modalità mista. Le disposizioni avevano valore fino all’approvazione delle nuove linee guida nazionali per gli stage extracurriculari: non essendo, però, state approvate, la Regione ha pubblicato a fine dicembre 2022 una nuova determina direttoriale in cui conferma quanto disposto a inizio anno, ovvero la possibilità di svolgere gli stage in smart training. Al momento non sono disponibili dati relativi al numero di stage attivati in smart training, perché «non essendo ancora disponibile una piattaforma informatica regionale dedicata alla gestione dei tirocini extracurriculari, resta la disposizione secondo cui la documentazione va inviata esclusivamente agli indirizzi di posta elettronica certificata delle competenti sedi territoriali dell’Ispettorato del lavoro», spiegano dall’Ufficio apprendistato e tirocini della Regione.  In Lazio non è intervenuto alcun nuovo provvedimento dopo la circolare dell’aprile 2022 in cui si precisava che «la modalità ordinaria di svolgimento delle attività di tirocinio rimane quella in presenza», ma che era possibile lo svolgimento «parziale delle attività formative da remoto». Come del resto previsto nella delibera della giunta regionale del gennaio 2022: «L’utilizzo delle modalità formative FAD e/o E-learning è consentito nel limite del 50 per cento del monte ore teorico», rispettando, però, alcune requisiti come l’obbligo di svolgimento dell’attività in modalità sincrona, quindi con il tutor presente. Per quanto riguarda le modalità, «all’interno del progetto formativo individuale, che gli enti caricano sul portale Lazio Lavoro, deve essere indicata la modalità di svolgimento del tirocinio, sezione orari e durata indicano se è in modalità fad», spiegano dall’assessorato Lavoro, università, scuola, formazione, ricerca e merito.   In Sardegna durante tutta la prima fase della pandemia, nel 2020, i tirocini extracurriculari sono potuti proseguire in modalità smart. Ad oggi la modalità ordinaria di svolgimento del tirocinio è quella in presenza, ma si riconosce la possibilità che si svolga a distanza o in modalità mista. A febbraio dello scorso anno la Regione ha adottato le linee guida relative alle modalità di erogazione della formazione a distanza per percorsi di formazione non regolamentata previsti dall’accordo tra le Regioni e le province autonome, con la possibilità di Fad – e-learning fino al 100 per cento.Marianna LeporeFoto di apertura di Bruce Mars da Freerange StockFoto in alto a destra di Matt_Moloney da Freerange Stock  

Non di solo profitto vive l'impresa: il senso di essere società benefit

La società in cui viviamo, dal punto di vista dell’utilizzo e della distribuzione delle risorse, dei prodotti e dei servizi, è… “giusta”? È sostenibile? Le aziende offrono prodotti e servizi utili e/o di qualità, oppure si preoccupano solo di fare profitto? I cittadini sono tutelati quando vestono i panni dei clienti? E i lavoratori, vengono rispettati dai datori di lavoro? Anche se “capitale”, “proletariato”, “classe dirigente” sono ormai termini desueti, la riflessione su questi temi è più viva che mai. Da anni ormai è in corso una revisione critica del modello capitalistico, e uno dei risultati più concreti di questa linea di pensiero è l’idea delle “società benefit”, e/o “B-corporation”. Si tratta di «un’evoluzione del concetto stesso di azienda» si legge su Societabenefit.net, sito di informazione su questo movimento (curato da Nativa, che a sua volta è una società benefit attiva in Italia): le aziende che aderiscono a questa filosofia «integrano nel proprio oggetto sociale, oltre agli obiettivi di profitto, lo scopo di avere un impatto positivo sulla società e sulla biosfera».«Le società benefit possono essere considerate parte di un capitalismo “consapevole”, o “sociale”» conferma alla Repubblica degli Stagisti Elena Crotti, responsabile Relazioni esterne, ESG e impatto di Bene Assicurazioni: «Un modello di business che riflette una crescente consapevolezza delle imprese e degli investitori riguardo all'importanza di considerare non solo gli interessi finanziari, ma anche quelli sociali e ambientali».Le aziende sono parte di un ecosistema; non possono (continuare a) comportarsi come se quello che fanno, e sopratutto come lo fanno, non avesse un impatto sul mondo circostante – sull’ambiente, sulle persone, sulla società. «Questo nuovo approccio affronta la questione della responsabilità sociale delle imprese in modo più diretto e integrato nel modello di business stesso. Le società benefit infatti vanno oltre il semplice perseguimento del profitto e includono nel loro scopo sociale anche l’obiettivo di avere un impatto positivo sulla società e sull’ambiente, integrando quindi principi di sostenibilità e responsabilità sociale nel loro operato» riflette ancora Crotti: «Ciò significa che, oltre a generare profitti per gli azionisti, le società benefit si impegnano attivamente per affrontare sfide sociali e ambientali e per contribuire al benessere delle comunità in cui operano coinvolgendo tutti gli stakeholder».Nello specifico, Bene Assicurazioni “nasce” già come società benefit in pectore. «In Bene abbiamo scelto di diventarlo prima ancora di avviare la compagnia» racconta Elena Crotti. Correva l’anno 2016 ed erano in corso gli incontri con l’Organo di Vigilanza IVASS «per discutere le modalità con cui presentare un piano industriale per la nascita della compagnia assicurativa che avevamo intenzione di creare». E proprio in quel periodo il fondatore e attuale amministratore delegato, Andrea Sabìa, aveva letto un articolo sul dorso “Norme&Tributi” del Sole 24 Ore sull’introduzione in Italia di un nuovo statuto societario sancito dalla nuova legge di stabilità: «Quel giorno abbiamo deciso che Bene e le società controllate, che sarebbero diventate poi Fit srl SB e bService scarl SB, avrebbero recepito tutte la denominazione di società benefit». In concreto, questo vuol dire che la qualifica “SB” è stata inserita da subito negli statuti e nelle ragioni sociali di Fit e bService, ed è stata approvata nell’assemblea dei soci di Bene Assicurazioni qualche anno più tardi, nel 2022: questo perché «in quanto compagnia di assicurazioni, Bene è una realtà vincolata ad assolvere maggiori adempimenti normativi delle altre due società» spiega Crotti: «Abbiamo però lavorato fin da subito ispirandoci ai valori e all’intento che soggiace a questa denominazione, dando priorità all’assolvimento degli obblighi di legge».Bene impiega in Italia oltre 150 dipendenti, distribuiti appunto sulle sue tre società. Il gruppo fa parte del network di aziende virtuose della Repubblica degli Stagisti, offre una generosa indennità mensile a tutti i tirocinanti e, oltre ad assumerne ogni anno oltre tre quarti, ha anche una consistente quota di assunzioni dirette di giovani senza il passaggio intermedio del tirocinio; nel 2023 ha anche vinto l'AwaRdS speciale per il miglior utilizzo del contratto di apprendistato. L’impegno per offrire occupazione di qualità è parte integrante della piattaforma valoriale che Bene persegue, e quindi del suo impegno come società benefit.Il fenomeno però resta di nicchia: le società benefit italiane sono ad oggi solo 3mila. «Si tratta di un tema ancora poco conosciuto» si rammarica Elena Crotti, ragionando sul fatto che ci sono aziende che ancora non hanno chiare «le peculiarità e gli obblighi di una società benefit». Tra loro, ve ne potrebbero essere alcune che magari stanno valutando la possibilità di divenire società benefit, ma che non hanno «ancora preso una decisione definitiva in merito: diventarlo significa intraprendere un percorso che invita l’azienda a porsi domande e obiettivi sul proprio ruolo e sulla consapevolezza dell’inscindibile legame tra il proprio sviluppo e quello della società, fondando su di esso le proprie strategie».Tecnicamente, come spiega di nuovo Societabenefit.net, possono diventare società benefit sia le nuove imprese, sia quelle già costituite modificando il proprio statuto. «La modifica dello statuto richiede di norma un voto a maggioranza qualificata di tutti gli azionisti» specifica il sito: «La procedura è identica a quello adottata per qualsiasi altra analoga operazione aziendale con l’aggiunta di una dichiarazione all’oggetto sociale che la società è una società benefit e altre modifiche specificate dalla legge».Per esempio, nel 2022 Bene Assicurazioni spa ha proceduto a modificare il suo statuto appunto per sancire il passaggio a SB, arricchendolo di una nuova sezione che racchiude le finalità di beneficio comune, suddivise in tre macro aree. «La prima riguarda il nostro core business: il servizio assicurativo» spiega Elena Crotti: «Ci impegniamo a realizzare ottimi prodotti e servizi, completi ma semplici da comprendere, e a sensibilizzare tutti i nostri stakeholder in merito alla cultura assicurativa e al senso etico del fare assicurazione». La seconda macro area raccoglie gli impegni verso i collaboratori, che in Bene sono chiamati “Benefitter”: «In particolare alla cura che intendiamo avere ogni giorno, a 360 gradi, verso ogni persona e verso gli ambienti lavorativi, dalla formazione alla crescita professionale, alla disponibilità di strumenti e uffici che favoriscano la valorizzazione personale e l’inclusione» specifica la manager. Infine la terza macroarea descrive l’interazione di Bene con la “comunità” a partire dalla gestione del Fondo filantropico FarBene «che sostiene progetti di micro-imprenditorialità e formazione in Africa».Passando dalle dichiarazioni programmatiche alle azioni, questi impegni si trasformano in attività concrete. Per esempio quest’anno, nell'ambito della macro area relativa al servizio assicurativo, Bene ha allargato la sua offerta di prodotti («per assolvere a richieste di protezione specifiche dei nostri clienti») con una polizza viaggi e una polizza animali, e ha avviato sui social un’attività di comunicazione per rendere più chiara verso i clienti finali la terminologia assicurativa, «con l’obiettivo di aumentare la trasparenza dei nostri servizi». Nella seconda macro area trovano posto diversi programmi di formazione dedicati ai dipendenti ma anche iniziative culturali all’interno degli uffici, come il progetto “Arte in Bene” «che promuove ogni anno, ormai da sette anni, l’esposizione temporanea delle opere di artisti contemporanei ed emergenti». Infine con il Fondo FarBene l’azienda supporta iniziative di emancipazione giovanile in Africa: «Quest’anno abbiamo in cantiere l’avvio un nuovo progetto, che va a sommarsi ai nove già in corso» avviati dal 2017 a oggi.Ma a dire il vero Bene è una delle pochissime società benefit del mondo assicurativo italiano: dalla lista (seppur non integrale) mancano completamente tutti i grandi player. Perché? Probabilmente perché non sono molte in questo campo «le strutture organizzative “snelle”, che permettono rapide approvazioni di nuove disposizioni» risponde Elena Crotti: «difficoltà e lungaggini burocratiche» sono all’ordine del giorno quando le organizzazioni contano molte centinaia o magari migliaia di dipendenti. «Sia l’analisi preliminare alla procedura di modifica dello statuto sia il rispetto e il raggiungimento degli obiettivi definiti per assolvere alle finalità di beneficio comune possono risultare molto onerosi in termini di tempo e di organizzazione della macchina operativa», continua Crotti, «poiché coinvolgono tutte le funzioni aziendali e necessitano di un coordinamento ad hoc che parte dall’individuazione di un responsabile della redazione della relazione di impatto e richiede un allineamento costante con l’alta direzione e le funzioni di comunicazione».Fresca di approvazione della sua ultima relazione di impatto, Bene è sempre più convinta della scelta fatta: «Siamo ben consapevoli dell’effort che comporta tale impegno, ma siamo altresì convinti e certi della capitale importanza di questo lavoro» chiude Elena Crotti: «È parte della nostra stessa concezione di far impresa».

Avvocati, professione in crisi: «C'è un problema economico: non si riesce a mettere insieme il pranzo con la cena»

Una carriera da avvocato? No, grazie. Professione ambita una volta, mentre oggi le aspirazioni dei giovani sembrano rivolgersi altrove. Uno dei dati lampanti è il numero di cancellazioni dall'albo. Ad abbandonare la professione nel 2022 sono stati in 8.696, contro 8.257 nuove iscrizioni, producendo un saldo negativo di 441 avvocati, fa sapere il report sull’avvocatura 2023 del Censis. Anche le iscrizioni a Giurisprudenza hanno subito un calo: dal 2013 a oggi sono scese da 154mila a 104mila. «Il dato è fisiologico in relazione alla crisi demografica» ragiona con la Repubblica degli Stagisti Oliviero Diliberto [nella foto a destra], già politico e ministro della Giustizia all'epoca dei governi D'Alema, oggi ordinario di diritto romano e preside di Giurisprudenza alla Sapienza di Roma. Anche se, segnala Diliberto, la facoltà di Giurisprudenza a ciclo unico dell'ateneo è andata un po' in controtendenza: «Gli iscritti sono passati dai 4.936 del 2021 a 5.185 del 2023».Al di là di questo, «resta patologico il numero di cancellazioni: segno di come non si sia in grado di reggere i costi della professione, che porta a guadagni molto modesti». Non tanto «un calo di appeal, quanto un problema economico per cui non si riesce a mettere insieme il pranzo con la cena» prosegue Diliberto. «C'è chi accetta perfino di lavorare come segretario negli studi in cui ha fatto il praticantato, pur di avere uno stipendio sicuro». Un altro segnale inequivocabile sta nelle iscrizioni all’esame di abilitazione: 9mila nel 2023, contro le 19mila del 2019. «Si sono dimezzate» conferma alla Repubblica degli Stagisti Carlo Foglieni, 44enne presidente dell’associazione dei giovani avvocati Aiga. E dire che con gli anni l’esame di abilitazione si è perfino ammorbidito. Adesso la prova prevede «un solo atto giudiziario scritto, più un orale [introdotto con la pandemia, ndr] articolato in tre parti». Le percentuali di promozione alla prima prova «sono state all’ultima sessione del 55 per cento, in miglioramento rispetto al passato».Ma per un giovane che si affaccia al praticantato il percorso è accidentato. A cominciare dai costi da sostenere, in un Paese impoverito come l’Italia. Innanzitutto una fase di preparazione lunga 18 mesi, «anche se c'è la possibilità di anticipare la pratica di un semestre, mentre si è ancora all’università». I praticantati «però non prevedono obbligatoriamente un rimborso spese, né tantomeno un minimo da corrispondere». La media, quando un'indennità c'è, «è sui 4-500 euro mensili»  quantifica Foglieni. Poi, lo scoglio dell’esame. «Tra scuole di  preparazione, acquisto di codici, certificati di compiuta pratica si può arrivare anche 2mila euro in un anno». A cui aggiungere le tasse d’esame e infine l’iscrizione all’albo: anche così «se ne vanno alcune centinaia di euro». Una volta cominciata la professione, non è che arrivino i redditi auspicati. «I compensi medi per un giovane avvocato su due sotto i quarant'anni si aggirano sui 20mila euro annui» dice Foglieni. Fino a 39 anni, segnala il report sull’avvocatura 2023 del Censis, si guadagna in media 25mila euro all’anno. Vanno conteggiate anche le quote da versare alla Cassa forense una volta che ci si è abilitati, con un'aliquota del 15 per cento. «Per le colleghe donne le cose vanno ancora peggio»: i guadagni delle avvocate «sono in media la metà, un gender pay gap che porta a abbandonare la professione: solo nell’ultimo anno quasi 6mila avvocate si sono cancellate dall’albo».  Giurisprudenza ha sempre avuto la fama «di laurea che apre tante strade: succedeva negli anni Settanta, quando io ho iniziato» ricorda Diliberto, e oggi è ancora così, «ma va declinato in modo diverso» evidenzia. Anche perché gli avvocati in Italia sono in tutto 248mila, 24mila solo sull'ordine di Roma. «Un numero spropositato rispetto agli altri Paesi». Per andare incontro al mercato del lavoro odierno, la Sapienza ha diversificato i corsi di laurea. Alla triennale sono nati per esempio i corsi in «diritto della proprietà immobiliare, per le professioni di amministratore di condominio o agente immobiliare». Alla magistrale ci sono «corsi in inglese come studi europei o quello di giurista d'impresa». E ancora, fa sapere il preside, «uno appena attivato in giurista dei beni culturali». Ma soprattutto c'è una triennale «in amministrazione pubblica, apposta per chi vuole accedere alla Pa». Tanti giovani optano per il concorso pubblico, visti i numerosi bandi  in uscita. «Un posto sicuro, a 1700 euro netti al mese, con tutte le tutele del caso» ragiona Foglieni. Non si «devono rincorrere clienti, che faticano a pagare la parcella in un Paese con un potere d’acquisto eroso». E non ci si espone neppure a «quel rischio di burnout a cui anche gli avvocati vanno incontro diventando il punto di riferimento di vicende che possono procurare molto stress, tra detenuti o storie nell'ambito del diritto di famiglia». Non bisogna però scoraggiarsi, perché la figura dell'avvocato può «anche rivolgersi verso strade nuove come l’attività stragiudiziale, di consulenza e di assistenza legale». O «verso settori non ancora battuti come quello del digitale, gli influencer ad esempio». Infine, sottolinea Foglieni, c'è bisogno di sostegni per mettersi in proprio. «Si devono stanziare incentivi per startup di studi legali, così come per altre iniziative di imprenditoria giovanile». Ilaria Mariotti   

Sì al lavoro da remoto, ma che non diventi isolamento: dopo la pandemia avanza la modalità “ibrida”

Esattamente quattro anni fa, a marzo del 2020, il Coronavirus ha fatto irruzione nelle nostre vite. Tra le conseguenze più evidenti, quella legata al lavoro: confinamento e lockdown hanno imposto a praticamente tutte le attività professionali, in tutti i settori, di reinventarsi con modalità di lavoro online. Il Covid ha insomma sdoganato e messo il turbo al lavoro da remoto, che già esisteva certo (lo “smart working”, o “lavoro agile”), ma che era largamente sottoutilizzato. E per non interrompere le esperienze di stage, ha fatto capolino una modalità mai sentita prima: quella dei tirocini da remoto. In tempi brevi o addirittura brevissimi è stato fatto il salto organizzativo (e culturale) necessario per trasportare riunioni, lavori di gruppo, progetti nello spazio virtuale; e nel caso degli stage, poter realizzare progetti formativi e costruire le relazioni tutor-stagista da remoto. Ma adesso che la pandemia è passata? 

Nel mondo del lavoro – posto che ovviamente ci sono mestieri che è impossibile fare a distanza – si registrano tre strade distinte. C'è chi ha deciso di scommettere al 100% sul lavoro agile, confermando o addirittura ampliando le policy attivate o consolidate durante la pandemia. Sono aziende private, enti pubblici, associazioni non profit che hanno assorbito pienamente (a volte addirittura anticipato) la novità e l'hanno fatta diventare una caratteristica distintiva della propria modalità di lavoro quotidiana: ciascuno lavora quando vuole, da dove vuole; l'importante è che gli obiettivi vengano raggiunti. La seconda strada è invece quella del rigetto: non poche realtà lavorative hanno richiamato i propri dipendenti (e stagisti), non appena è stato possibile farlo, chiudendo in fretta le porte che avevano aperto (il più delle volte, in questi casi, obtorto collo) e tornando agli schemi rigidi di presenza in ufficio dell'epoca pre-pandemia. C'è poi una terza strada, una sorta di via di mezzo, in cui l'apertura al lavoro agile rimane, ma temperata dalla considerazione che se troppo spinta all'eccesso questa modalità possa avere ripercussioni negative non tanto sulla produttività quanto sul clima aziendale, a causa della carenza di contatto umano e di condivisione anche "fisica" degli spazi e dei momenti di lavoro.Rispetto specificamente agli stage va poi considerato l'aspetto normativo, che può incidere sulle policy: vi sono Regioni – come il Piemonte – che hanno espressamente vietato il ricorso alla modalità da remoto ora che l'emergenza Covid è passata; e dove quindi, anche volendo, offrire l'opzione di svolgere lo stage da casa (in tutto o in parte) è impossibile.In alcuni casi la decisione passa anche attraverso una analisi del "sentiment" dei dipendenti. Per esempio Edelman, società di consulenza in comunicazione e relazioni pubbliche, dopo la pandemia ha raccolto il parere di 6mila dei suoi dipendenti, in 60 uffici sparsi per il mondo, rispetto «alla modalità di lavoro che avrebbero adottato più volentieri da quel momento in avanti» spiega Fiorella Passoni, ceo di Edelman Italia. La survey mirava a focalizzare cosa salvare della modalità virtuale, e quali aspetti del lavoro in presenza erano invece mancati maggiormente. «Da un lato è emersa l’esigenza di mantenere alcuni dei vantaggi dati dal lavoro da remoto, come la riduzione dei tempi e dei costi legati agli spostamenti e la possibilità di conciliare il lavoro con i propri impegni personali» riassume Passoni; d'altro canto, però, la rilevazione ha affermato un «desiderio di un senso di comunità e collaborazione in presenza».La fotografia rispecchia in realtà l'esperienza di molte realtà lavorative, e si potrebbe riassumere con un “sì al lavoro agile, no al lavoro che isola”. In Edelman, che da molti anni fa parte del network di aziende virtuose della Repubblica degli Stagisti, la situazione è stata gestita adottando un modello ibrido: «La maggior parte di noi trascorre circa il 60% delle proprie ore in ufficio, che in media corrispondono a tre giorni alla settimana» racconta Passoni.«La pandemia ci ha permesso di fermarci e di riflettere; di metterci in ascolto dei nostri collaboratori e delle nostre collaboratrici e di avvicinarci sempre più alle esigenze di ciascuno» le fa eco Monica Cremaschi, talent manager di T4V: «Il bilanciamento è avvenuto quasi in modo spontaneo. Stiamo adottando attualmente un approccio flessibile che tiene conto delle esigenze delle singole persone, delle esigenze dei team e dal lavoro in gruppo, delle necessità operative e del presidio sui clienti». Al centro stanno «il rispetto e la responsabilità: ciascun collaboratore e ciascuna collaboratrice può anche tornare in ufficio per svolgere il proprio lavoro».“Rispetto” è non caso una delle parole chiave che ricorrono quando si parla di questi temi, insieme a “flessibilità” e “fiducia”. Perché «lo scopo dell’ufficio si è completamente evoluto, diventando un luogo di ritrovo, dove ogni individuo è libero di portare il proprio contributo» sottolinea Fiorella Passoni: «La possibilità di incontrarsi, nel nostro settore, porta con sé numerosi vantaggi anche per quanto riguarda lo sviluppo personale, lo scambio di valutazioni e feedback, le attività di coaching e mentoring e le innumerevoli occasioni sociali più “informali”... magari davanti ad un buon caffè».Quando poi si lavora in business che affondano le radici nei settori informatici, la possibilità di svolgere il lavoro da remoto si fa ancor più concreta: «Nel nostro settore, quello della consulenza in ambito ICT, sono molte le attività che possono essere svolte in modo efficace ed efficiente da remoto» conferma Cremaschi, come per esempio «lo sviluppo, la gestione del ticketing e dell’assistenza, la progettualità, il supporto tecnico ed altre attività di tipo amministrativo». Ciò non toglie che ci possano essere alcune aree, oppure specifiche attività, in cui la presenza fisica è necessaria – o quantomeno preferibile: Cremaschi cita per esempio «i meeting strategici e di analisi, la risoluzione di problemi complessi che richiede il coinvolgimento, brainstorming e il lavoro in gruppo».Il tema delle risorse più giovani, in questo quadro, è particolarmente importante da focalizzare. «L’esperienza ci dice che non necessariamente lo smartworking è penalizzante all’inizio del percorso di carriera: alcune delle nostre risorse più giovani sono entrate in stage durante il lockdown e, adeguandosi molto bene fin dal loro primo giorno al lavoro 100% da remoto, hanno garantito un rendimento di alto livello tanto da essere confermate e assunte nei mesi successivi» riflette Passoni: «Tuttavia, siamo convinti che la possibilità di confrontarsi in presenza, in modo immediato e senza filtri, di “ascoltare” le figure più senior mentre lavorano, mentre forniscono consulenza ai clienti o interagiscono con i giornalisti, abbia per i giovani un valore inestimabile».Ma riconoscere il valore che un'esperienza di lavoro in presenza ha, specialmente per i giovani, non vuol dire dismettere o ridurre il valore della modalità a distanza. «Crediamo nel lavoro da remoto così come nei suoi benefici e vantaggi; siamo altrettanto consapevoli, però, che potrebbe comportare alcuni svantaggi legati, per esempio, all’attività di tutoring e mentoring, alla formazione e allo sviluppo delle esperienze e delle relazioni professionali», dice Cremaschi; e questo, «indipendentemente dall’età». Per questo T4V incoraggia «un approccio misto che aiuti e supporti i giovani a trarre vantaggio sia dal lavoro in remoto sia dal lavoro in presenza, per favorire una maggior collaborazione e condivisione tra tutte le persone». In particolare, gli stagisti vengono seguiti non soltanto dal tutor assegnato ufficialmente: se qualcuno di loro si trova in ufficio «senza il suo tutor in presenza, viene supportato dai colleghi presenti fisicamente in ufficio» e poi naturalmente la tecnologia viene in aiuto: «I sistemi di video conference e collaboration, permettono al tutor di connettersi e supportare l’operatività dello stagista».Peraltro, se è vero che le nuove generazioni sono sempre più attente al work-life balance e, quando possono, scelgono dove andare a lavorare anche in base alla flessibilità offerta, è anche vero che non sempre i lavori completamente da remoto sono così appetibili: «In un momento in cui alcune aziende stanno richiamando i propri dipendenti a un lavoro 100% in presenza, o 100% da remoto, la modalità ibrida è considerata un benefit a tutti gli effetti» rileva Fiorella Passoni: «Non a caso, una delle domande che ci viene rivolta durante i colloqui riguarda proprio la nostra policy in termini di lavoro ibrido o smartworking. A livello di gruppo, già dallo scorso anno fiscale le nostre persone – anche junior, purché assunte da almeno sei mesi – hanno la possibilità di chiedere il lavoro da remoto permanente o per un mese, anche non continuativo».«Molti junior vivono lo smart-working come una vera, quasi prioritaria, opportunità», aggiunge Cremaschi, «per una maggiore flessibilità e bilanciamento tra lavoro e vita personale». Per questo T4V, pur persuasa «che il tirocinio in presenza possa offrire sicuramente vantaggi aggiuntivi in termini relazioni, di interazione con il team e di apprendimento pratico», ha scelto di offrire ai suoi stagisti «un’esperienza ibrida, per soddisfare le esigenze e le necessità degli studenti».Poter gestire più liberamente il proprio tempo rende le persone più serene, e si traduce in un miglioramento della qualità della vita: la flessibilità permette, secondo Passoni, «di prendersi cura del proprio benessere personale», in una logica win-win che, se gestita con rispetto e responsabilità, giova non solo al singolo ma a tutto il gruppo di lavoro, e anche all’azienda.Foto di apertura di Austin Distel da Unsplash

“Ma questo non è un lavoro da femmina!”... O sì? Sfida agli stereotipi di genere, un racconto per parole e immagini

Per abbattere i muri degli stereotipi di genere sul lavoro, che ancora troppo spesso confinano e limitano le donne, non serve esagerare e voler tutte fare le astronauti (benché per chi lo volesse fare l'esempio, come si sa, c'è ed è incarnato in maniera potente da Samantha Cristoforetti). Ci sono tantissimi mestieri più comuni dove ancora nell'immaginario comune resiste il pregiudizio che possano essere svolti solo da maschi. E invece no: perché ci sono anche camioniste (come Marzia, nell'immagine di apertura qui sopra), pilote, vigili del fuoco (come Antonella, qui accanto). Falegname, maestre d'ascia, minatore, speleologhe. Ingegnere meccaniche. Direttrici d'orchestra. Chef, guide alpine, elicotteriste. Elettriciste. Guardie giurate (come Roberta, nella forto più sotto, mentre si esercita con la pistola al poligono).Per celebrare l'8 marzo, la Festa della Donna, oggi raccontiamo un libro: “Donna Faber”, sottotitolo «Lavori maschili, sex-sismo e forme di r-esistenza», scritto dalla sociologa Emanuela Abbatecola e pubblicato pochi mesi fa dalla Fondazione Giangiacomo Feltrinelli. Un omaggio e rinforzo anche alla nostra rubrica Girl Power, in cui da anni ormai qui sulla Repubblica degli Stagisti raccontiamo la bellezza delle donne che non si fanno incastrare negli stereotipi di genere, e osano mestieri insoliti per il loro genere, spesso a partire dallo studio di materie tecniche o Stem – legate quindi alla matematica, alla tecnologia, all'ingegneria o alla matematica. Donna Faber parte come ricerca socio-fotografica (poi diventata anche mostra e in ultimo, appunto, saggio) condotta in due fasi – tra il 2010 e il 2023 – da Abbatecola con il suo laboratorio di Sociologia visuale dell’università di Genova in collaborazione con l’associazione culturale 36° fotogramma – Circolo fotografico. Protagoniste, donne “fuori posto” secondo gli stereotipi, perchè impegnate in lavori “da uomini”. Lavori virili, di fatica o di comando, lavori a volte rischiosi. Lavori non adatti alle donne. Lavori raccontati attraverso il binomio inedito delle fotografie insieme alle interviste in profondità tipiche della ricerca sociale qualitativa: le foto sono potenti, colorate, e ritraggono queste donne nei loro abiti da lavoro e nei loro ambienti di lavoro. Le interviste fanno emergere «biografie lavorative appassionanti ma non facili», in cui trovano spazio «le frustrazioni, il sessismo, le violenze più o meno esplicite, così come l'orgoglio e la passione».In poco meno di duecento pagine il libro (qui accanto, la copertina con la bellissima foto della fabbra Erica) fa una panoramica di respiro molto ampio, prendendo in considerazione aspetti presenti nel dibattito pubblico e altri meno evidenti: dalle radici molto precoci delle diseguaglianze di genere (quei «rinforzi, più o meno velati o espliciti, a costruire invisibili confini nei diversi ambiti del vivere sociale tesi a definire aspettative, pertinenze, opportunità e violazioni: dai colori (il rosa e l’azzurro) ai giochi, dall’abbigliamento all’aspetto fisico, al modo di muoversi, parlare, scherzare e attraversare lo spazio pubblico e i luoghi di potere, alle attività del tempo libero, agli sport, dalla divisione del lavoro domestico e di cura ai tipi di mestiere “auspicati”») agli atteggiamenti sessisti che molte donne subiscono da capi e superiori sul luogo di lavoro, alla decisione di nascondere talvolta la propria femminilità per dare meno nell'occhio e quindi scegliendo vestiti sportivi, a volte informi, e posture dimesse.Da femminista, l'autrice pone molta attenzione alla questione linguistica; e oltre alla sua scelta di declinare i mestieri tutti al femminile (com'è non solo giusto, ma anche indicato come corretto dall'Accademia della Crusca!), discute di questo tema anche con alcune delle donne intervistate. Significativo uno stralcio di conversazione: «Io preferisco essere chiamata “maestro d’ascia”, perché mi include di più nella categoria» dice una delle partecipanti «perché il fatto di sentirmi dire “maestra d’ascia” mi fa vedere quasi come un’anomalia». «Si privilegia il maschile per sentirsi parte», spiega Abbatecola, «si privilegia il maschile perché, in quanto dominante, conferisce autorevolezza. Viceversa, il femminile è percepito come sminuente». Perfino da quelle donne che quei mestieri li fanno quotidianamente, e sono dunque la prova provata che essi possano essere declinati al maschile.Nel libro viene indagato anche l'altro “sconfinamento”, quello degli uomini che si dedicano ad attività lavorative considerate femminili: «Esiste una segregazione che discrimina gli uomini impedendo loro l’ingresso in alcuni lavori considerati da donne» – qualche esempio: educatrice nei servizi educativi per l’infanzia, maestra di scuola, assistente sociale, ostetrica, estetista – «occupazioni non coerenti con una rappresentazione tradizionale della maschilità». Questo perché «il femminile, nel nostro immaginario, è ancora profondamente legato all’idea di cura – dell’infanzia, in primo luogo, ma anche del corpo, della mente e dell’aspetto – cura che può includere gli uomini, senza comprometterne la maschilità, solo se altamente specializzata». Ed ecco dunque che il bambino, il ragazzo, il giovane uomo verrà incoraggiato a fare il medico, lo psicologo, lo psichiatra. Non sia mai che possa fare l'infermiere, o l'ostetrico.(Peraltro, aggiungo io: ostetrica in francese si dice “sage-femme”, che vuol dire “donna che possiede la conoscenza”, la scienza del parto. Una bella sfida linguistica e culturale, cristallizzata di recente in un film dal titolo “Sage-homme”: perché oggi ci sono ovviamente uomini che svolgono questo mestiere, e però in francese risulta quasi ridicolo chiamarli “sage-femmes”. Anche in inglese c'è un elemento della parola "midwife" che richiama il femminile – “wife”, moglie, nel senso di donna. Ma in realtà etimologicamente l'intera parola significa "con-moglie": indica cioè la persona che sta con la donna al momento del parto. A differenza del termine francese, quindi, quello inglese non è “gender-specific”, perché si riferisce a una persona che, indipendentemente dal suo genere, ha le competenze per assistere una “wife” durante un parto. Dunque gli ostetrici in UK possono essere chiamati midwife senza grandi patemi).«Quando un uomo svolge un lavoro considerato femminile, che sia per caso, scelta o necessità, la società si attiva per incentivarlo a fare carriera al fine di ripristinare l’ordine e le gerarchie di genere» sottolinea Abbatecola: «Come dire “se proprio devi lavorare in mezzo alle donne, almeno distinguiti mettendoti nelle condizioni di comandare”». In sociologia viene chiamato «ascensore di cristallo, metafora efficacemente usata in contrapposizione a quella del più noto soffitto di cristallo» che invece le donne subiscono quando le loro carriere vengono rallentate o bloccate proprio nei pressi delle posizioni di vertice.Le donne che fanno lavori da uomo sono «elemento perturbatore» di quell'ordine e di quelle gerarchie, perché rigettano – o quantomeno ignorano – i confini rigidi del mercato del lavoro. Spesso per neutralizzarle colleghi e superiori, e in generale quelli che si trovano a interagire con loro mentre lavorano, rivolgono loro frasi impregnate di «sessismo benevolo»: del resto, «come può una donna ribellarsi a una comunicazione verbale formalmente affettuosa senza passare per fanatica o irriconoscente?» sottolinea l'autrice, riportando racconti di uomini che insistono per portare lo zaino della guida alpina (!), o per prendere le misure al posto della geometra (!!) che era lì in cantiere per quello. Nella maggior parte dei casi, le donne fanno spallucce e si fanno scivolare addosso le parole inappropriate. Ma a volte ci vuole molta forza per non restarne ferite; o addirittura per non dubitare delle proprie capacità, e perdere autostima.Questo libro offre nuovi spunti per focalizzare e ripensare l'impatto della variabile “genere” nel mercato del lavoro, e per contrastare gli stereotipi. Perché, per dirla con Abbatecola, «Mai sottovalutare il patriarcato... si modifica, si trasforma per adattarsi al cambiamento, si mimetizza... ma non ha ancora nessuna intenzione di farsi da parte». E allora, sta a tuttə noi accompagnarlo gentilmente alla porta.Eleonora Voltolina

Expat, il governo vuole ridurre gli sgravi fiscali Controesodo: in tredici anni agevolati 21mila rientri

Con la prossima manovra finanziaria potrebbe essere abrogata Controesodo, la legge pensata tredici anni fa per far rientrare in Italia i cosiddetti cervelli in fuga. Dal 2010, anno della sua entrata in vigore, ha portato al rimpatrio di circa 21mila lavoratori. «Per ora c'è solo una bozza che sta circolando» spiega alla Repubblica degli Stagisti Michele Valentini [nella foto], fondatore insieme a Francesco Rossi del gruppo Controesodo, la community di expat destinatari della legge. Ma se il documento entrasse nella legge di Bilancio così com'è stato redatto significherebbe che il bonus Irpef si ridurrebbe di venti punti, passando dal 70 per cento previsto dal regime attuale al 50%. Il punto centrale però è un altro, e cioè «la sostanziale eliminazione delle norme sul radicamento» riassume Valentini; quelle per cui «lo sconto fiscale si estendeva fino a un decennio e oltre qualora una volta rientrati in Italia si acquistasse una casa e si avessero figli minori». A saltare, si dicono certi da Controesodo, sarò proprio questo punto. Dal Governo, prosegue Valentini, si difendono «affermando che lo sconto fiscale a favore degli espatriati proseguirà al 50 per cento, e per cinque anni». Ma le norme attualmente in vigore, contenute nel dl Crescita del 2019, «puntavano a un orizzonte di lungo periodo, per favorire il radicamento permanente di chi rientra, con una logica premiale e non con la minaccia delle sanzioni» obiettano da Controesodo in un post su Facebook. Con l’impianto ipotizzato adesso invece sono previste sanzioni e interessi, «e nessuno se la sentirà di aderire sapendo che se per esempio al quarto anno si decide di andarsene di nuovo si dovrà restituire tutta la parte di tasse non pagate più le penali» commenta Valentini. Sono un mucchio di soldi: «si rischia di andare in default». Oltretutto con regimi fiscali che possono cambiare un’altra volta all’improvviso, come adesso, gettando nel panico migliaia di persone che già avevano organizzato il rientro. «Pochi giorni dopo l’annuncio del cambiamento della normativa» racconta Valentini, «mi sono ritrovato 590 mail di persone disperate che avevano firmato un contratto facendo affidamento sulle (ormai) vecchie regole». Anche nel gruppo Controesodo di Facebook i post di denuncia sono decine. «Stavo pensando di rientrare prima che apprendessi di questo obbrobrio» dice ad esempio Massimo Caiazzo, expat da dodici anni e a Londra dal 2020: «Grazie alle condizioni in cui versava l’Italia ai tempi, mi sono ritrovato costretto a cercare opportunità altrove». Adesso ha quattro figli e «vista la media nascite in Italia rientrare sarebbe il primo vantaggio per il Paese». In più, «i soldi dello sgravio fiscale mi servirebbero per pagare una scuola internazionale italiana». Non sempre, continua, «le agevolazioni fiscali servono per comprarsi una macchina o una casa di lusso». Già nel 2015 c’era stato un primo tentativo di abrogazione di Controesodo, la cui validità era stata prorogata fino al 2017. A quel punto i beneficiari si coalizzano e creano un gruppo di pressione, chiamato semplicemente "Controesodo", per far sentire la loro voce e protestare per l'improvvisa cancellazione del bonus Irpef. La legge alla fine resta in piedi e confluisce nel decreto Crescita del 2019 in una nuova formulazione. Il requisito della laurea viene eliminato, diventando destinatari della legge tutti i lavoratori residenti all’estero da almeno due anni. L’esenzione Irpef torna poi al 70 per cento.Subito dopo scoppia un’altra polemica, perché a beneficiare dello sconto fiscale sono anche le società calcistiche, acquistando in regime di favore giocatori che vivono all’estero. E forse le maglie di accesso al bonus Irpef si allargano troppo. Ma oggi come allora, nel 2015, riassume Controesodo in un post su Facebook, si assiste a «un attacco ideologico dietro la scusa di razionalizzare». Se ci sono «abusi, basta introdurre correttivi mirati come per esempio predisporre il requisito della laurea» ragiona Valentini. «O potenziare i controlli delle Agenzie delle Entrate». Invece si va di fatto verso l’eliminazione di una legge «a costo zero che porta un contribuente in più nel territorio: paga meno tasse, ma meglio poche che nessuna». Secondo i calcoli di Controesodo «in caso di rientro, sommando i contributi Inps e Inail a carico del dipendente e quelli accantonati dalle aziende, nel bilancio di questi due enti arriva oltre un miliardo di euro all’anno». Dietro quello che giudicano un "accanimento" dell'esecutivo ci deve essere «una sorta di gelosia per i potenziali beneficiari di queste norme». I tassi di crescita dei flussi in ingresso sono stati del 30 per cento annuale, ribadisce Controesodo: «Nel 2021 la legge ha attratto oltre 1.500 soggetti nel solo Mezzogiorno, in crescita del 213 per cento rispetto all’anno precedente». Ma non è bastato. Adesso in ballo c’è «un decreto legislativo che rientra nella riforma fiscale e che non è emendabile» aggiunge Valentini, ormai convinto che la nuova norma entrerà in vigore. «Siamo in contatto costante con il ministro Giorgetti e il suo vice Leo, ma non è un dialogo costruttivo». E poi «partono da una posizione così estrema che sarà difficile incontrarci a metà strada». Da un governo, scrivono ancora nel post su Facebook, «che a parole ha fatto di natalità e Italianità le sue bandiere, non ce lo aspettavamo».Ilaria Mariotti

Perché pagare quando si può avere un praticante gratis? Apprendistato negli studi professionali, i dati inediti: è un'opportunità fantasma

Poteva essere la vera rivoluzione per il praticantato: il decreto 81 del 2015 ha aperto il contratto di apprendistato anche al periodo di accesso alle professioni ordinistiche. Eppure otto anni dopo questa fattispecie è ancora praticamente inesistente. La Repubblica degli Stagisti è riuscita ad avere dei dati inediti dall’Osservatorio di Confprofessioni, principale associazione di rappresentanza dei liberi professionisti in Italia, scoprendo che gli "alti apprendistati" per l'accesso alle professioni regolamentate sono poche decine ogni anno negli studi professionali italiani.Su richiesta della RdS l’Osservatorio ha scorportato alcuni dati dell'ultimo Rapporto sulle libere professioni in Italia del 2022 riguardo al solo apprendistato di alta formazione e ricerca. «Dalla nostra analisi risultano solo 118 apprendisti che nel 2021 hanno iniziato un apprendistato di terzo livello negli studi professionali» spiega Ludovica Zichichi, ricercatrice dell’Osservatorio che precisa, però, come il numero sia comprensivo anche di apprendistati non necessariamente per l’accesso alle professioni ordinistiche. Questo significa che nel 2021 gli apprendisti “praticanti” potrebbero essere addirittura meno di cento. Quando nello stesso anno, secondo i dati Istat, il numero di libero professionisti è cresciuto di 50mila unità, passando da 1.352.000 nel 2020 a 1.402.000. Numeri, quelli dell’Osservatorio, assolutamente inediti, da prendere con cautela ma dato che non esistono rilevazioni sistematiche sul tema, aiutano almeno a capire qual è l'ampiezza del fenomeno. E a questo punto lo si può dire con certezza: il praticantato in apprendistato negli studi professionali è inesistente.Eppure l’obiettivo del decreto 81 era quello di dare la possibilità agli aspiranti avvocati, commercialisti, consulenti del lavoro e tutti gli altri giovani interessati alle professioni regolamentate, di svolgere il periodo di praticantato con un apprendistato di terzo livello - che si rivolge a chi sta svolgendo o ha già concluso un percorso universitario - con il vantaggio di avere oltre a un contratto di lavoro, un vero stipendio e dei contributi versati. Ma la triste verità è che nessuno nemmeno si sogna di fare un contratto quando può avere i praticanti gratis. Anzi, la Repubblica degli Stagisti lancia un appello agli studi professionali che utilizzano o hanno utilizzato l’alto apprendistato, e anche direttamente ai professionisti che hanno svolto il loro praticantato in apprendistato: vorremmo riuscire a raccontare almeno qualcuna di queste storie. Anche se sappiamo bene che si tratta di esperienze rarissime.I primi numeri da cui la Repubblica degli Stagisti è partita sono quelli del XX Rapporto di monitoraggio sull’apprendistato Inapp Inps, in cui già l’intera categoria dell’alto apprendistato è quella con il minor  numero di adesioni. Su circa 531mila rapporti di lavoro in apprendistato in corso nel 2020, solo 1.277 erano di terzo livello: una tipologia quasi inesistente. Ma se si va a scorporare il dato, la stragrande maggioranza era di giovani iscritti a master universitari: già questo, quindi, dimostrava che è quasi nulla la fattispecie del contratto di apprendistato per l’ammissione all’esame di Stato e l’abilitazione all’esercizio di una professione ordinistica.Ma perché? Il rapporto sottolinea le «difficoltà di raccordo con i regolamenti previsti dagli ordini professionali sul tema». Eppure a favore dell’utilizzo dell’apprendistato per l’accesso alla professione si è pronunciata anche Confprofessioni, a cui aderiscono una ventina di associazioni di categoria, con il presidente Gaetano Stella che già un anno fa aveva rimarcato l’importanza di questo istituto, rivendicando anzi il fatto di essere «stati tra i promotori dell’istituzione dell’apprendistato per il praticantato finalizzato all’accesso alla professione» e sottolineando come però fosse necessario «snellire le procedure burocratiche per renderlo davvero efficace».Visti i commenti del presidente Stella, la Repubblica degli Stagisti ha inizialmente cercato di capire meglio la questione numeri, contattando l’Ufficio studi di Confprofessioni e la risposta non è stata in questo senso confortante. Andrea Zoppo, dell’area Lavoro, ha, infatti, confermato alla RdS che «non esiste un monitoraggio effettivo per l’apprendistato usato per l’accesso alle professioni ordinistiche al posto del praticantato. Come Confprofessioni non abbiamo questo dato anche perché non c’è obbligo di comunicazione da parte del datore di lavoro dello studio professionale sull’attivazione di un contratto del genere». A questo punto è tornato utile il VII Rapporto sulle libere professioni in Italia del 2022 a cura dell’Osservatorio delle libere professioni, che utilizza i dati del Ministero del lavoro concentrandosi principalmente sulla stabilizzazione dei contratti dei dipendenti degli studi professionali, quindi non  necessariamente solo i praticanti, ma anche gli altri apprendisti. E grazie all’analisi richiesta dalla Repubblica degli Stagisti, l’Osservatorio ha trovato il dato riguardante il solo apprendistato di alta formazione e ricerca all’interno degli studi professionali: 118, come si scriveva all’inizio.C’è poi la questione avvocati. Per legge, infatti, gli avvocati non possono essere assunti con contratto subordinato, ma la caratteristica tipica dell’apprendistato è proprio questa: si tratta di un contratto di tipologia subordinata. Inoltre, se al termine della fase formativa le parti non recedono il rapporto, questo prosegue in automatico come un tempo indeterminato. Come si risolve, quindi, la questione dell’incompatibilità degli avvocati? «Questo discorso è vero dal momento in cui una persona è abilitata, quindi nella prima fase, quella della pratica, è possibile per un aspirante avvocato avere un contratto di apprendistato», spiega Zoppo. Ma allora questo come si coniuga con il fatto che l’apprendistato è un contratto a tempo indeterminato ab origine e, quindi, la trasformazione da apprendista a impiegato non comporta interruzione del rapporto di lavoro in azienda, ma semplicemente il cambio di qualifica? «Tendenzialmente il giorno in cui viene raggiunta l’abilitazione il contratto cessa di esistere perché ci sono le varie incompatibilità con la disciplina ordinistica con l’ordine forense. Non c’è però nulla di scritto in questo senso» puntualizza Zoppo, «né accordi specifici fatti da Confprofessioni». In pratica è una prassi ma non ci sono regolamentazioni in tal senso. Confprofessioni, che già nel 2016 si era pronunciata a favore dell’uso dell’apprendistato all’interno degli studi professionali,  l’anno scorso durante un’audizione alla Commissione lavoro del Senato ha chiesto di rimuovere gli ostacoli per l’utilizzo di questo contratto. «L’apprendistato di terzo livello ha grandi potenzialità, ma devono essere rimosse le difficoltà operative che ne ostacolano l’utilizzo», aveva dichiarato in quella occasione il presidente Stella, «perché attualmente la regolamentazione e il processo attuativo dipendono da una pluralità di competenze istituzionali che lo rendono poco appetibile per imprese e professionisti. Occorre semplificare le regole, diffondere  le best practices e spingere le istituzioni formative ad adoperarlo. Per Confprofessioni è questa la leva strategica per la formazione dei futuri professionisti».Secondo il presidente Stella è necessario, quindi, snellire le procedure burocratiche per renderlo efficace e istituire degli sportelli dedicati al lavoro autonomo presso i centri per l’impiego.L’apprendistato per l’accesso alle professioni ordinistiche può essere attivato in favore di giovani tra i 18 e i 29 anni in possesso della laurea necessaria per l’accesso allo specifico percorso  professionale ordinistico. Il contratto può essere attivato da un professionista titolare di uno studio professionale che sottoscrive insieme all’apprendista il piano formativo individuale. La durata va da un minimo di sei mesi fino al periodo necessario per il conseguimento dell’abilitazione professionale.Già nel 2017 il Ccnl degli studi professionali ha introdotto tra le nuove forme di assunzione quella in apprendistato negli studi professionali. La prima regione a dar seguito alla legge del 2015 è stata la Regione Marche che ha sottoscritto un accordo con la Confprofessioni locale per la disciplina di questo tipo di apprendistato. Nella fase sperimentale i primi a partire in quella regione con l’apprendistato di alta formazione e ricerca in sostituzione del tirocinio professionale sono stati commercialisti e consulenti del lavoro. L'opzione non ha, però, preso piede e nel 2019 il presidente Stella, durante un’audizione al Senato, è tornato sulla necessità «di semplificare gli adempimenti del datore di lavoro e gli obblighi formativi» in tema di apprendistato per l’accesso alla professione ordinistica.Sono passati anni, ma il ricorso a questo tipo di contratto non prende il volo. Tanto che quest’anno Confprofessioni ha invitato a un maggior ricorso del suo uso per offrire ai giovani praticanti una formazione teorico pratica di qualità e corrispondere loro un adeguato riconoscimento economico  e un inserimento di tutto rispetto nel mondo del lavoro.Resta il triste fatto che, per ora, non sono che poche decine i praticantati avviati ogni anno con contratto di apprendistato di terzo livello in tutta Italia. Marianna LeporeImmagine di apertura di nensuria da Freepik

Lavoro part-time, l'Italia è in ritardo: all'estero più facile e flessibile

In una fase in cui termini come work-life balance, grandi dimissioni, flessibilità sono sempre più dibattuti, in modo più o meno approfondito, il lavoro a tempo parziale, meglio noto come part time, torna a essere sotto la lente di ingrandimento, specie se confrontato con quanto accade oltre i nostri confini.La situazione in ItaliaSecondo una ricerca del 2022 dell’Inapp, l'Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche, nel 2021 il 37% dei lavoratori italiani è stato assunto con contratto di lavoro a tempo parziale, percentuale che sale al 44% se si considerano le assunzioni con incentivi statali. In ottica di genere, nell’ambito delle assunzioni che sfruttano gli incentivi statali, il 60% di lavoratori è donna, a fronte del 33% di uomini. Relativamente alle assunzioni non agevolate, le donne assunte con un contratto part time sono il 48%, mentre la percentuale degli uomini assunti con tale tipologia contrattuale è pari 26%.Attualmente nel nostro Paese esistono diverse tipologie di part time: orizzontale, quando cioè il lavoratore presta la sua attività per un tempo ridotto rispetto all’orario normale giornaliero;  verticale, quando è pattuito un orario normale, ma con una prestazione collocata in periodi predeterminati della settimana, del mese e dell’anno; misto, quando sono combinate le due precedenti tipologie.Un part time più «obbligato» che scelto «Questi dati, come tutti, vanno interpretati» dice alla Repubblica degli Stagisti Giorgia Casiello, componente dell’ufficio studi dell’Agi (Avvocati Giuslavoristi Italiani). «I numeri citati si riferiscono infatti alla tipologia contrattuale utilizzata come strumento per garantire al lavoratore l’ingresso nel mercato del lavoro, con finalità legate più alle politiche in materia di occupazione e al soddisfacimento delle esigenze organizzative del datore di lavoro che al work life balance. I risultati andrebbero dunque integrati e confrontati con quelli relativi al numero dei contratti trasformati da full-time a part-time». Queste trasformazioni infatti, prosegue Casiello, «salvo eccezioni connesse alla salvaguardia dell’occupazione, conseguono alle richieste del lavoratore di soddisfare un proprio interesse: un effettivo strumento cioè di work life balance. Tale operazione permetterebbe di valutare se la funzione concretamente svolta del part time in Italia è coerente con i principi enunciati nella DIR. 97/81/CE sul lavoro a tempo parziale che impone agli Stati membri di contribuire all’organizzazione flessibile del lavoro, tenendo conto dei bisogni degli imprenditori e dei lavoratori». E fin qui, verrebbe da pensare, niente di nuovo, se si pensa all’espressione part time involontario e all’associazione frequente con le lavoratrici.Cosa succede all'esteroSecondo i dati Eurostat del 2022, i paesi con la percentuale di alta di lavoratori part time sono Svizzera (38,7% del totale dei lavoratori di età compresa tra 20 e 64 anni) e Olanda (38,4%). Negli anni, inoltre, il tasso di occupazione a tempo parziale in Svizzera è aumentato, passando da un quarto degli occupati a inizi anni ’90 alla percentuale attuale. Anche lì si registra però una prevalenza del part time tra le donne, con grande prevalenza della fascia 30-49 anni e tra le donne con figli piccoli.In SvizzeraSecondo l’UST (ufficio federale di statistica), in Svizzera si definisce a tempo parziale un impiego in cui la durata del lavoro è inferiore al 90% del normale orario di lavoro aziendale. L’UST distingue tra tempo pieno (90-100%), tempo parziale quasi pieno tra il 50% e l’89% e tempo parziale basso fino al 50%. Insomma, sono presenti due macro categorie di tempo parziale che tengono conto delle ore di impiego in termini percentuali sul resto della giornata, che possono essere anche flessibili e non riferite a percentuali pre definite come nel nostro Paese, dove la tipologia prevalente è quella del part time al 50% su base giornaliera, settimanale o mensile in base alle casistiche.Già fin dagli annunci di lavoro in Svizzera i datori di lavoro specificano la porzione di tempo dell’impiego che stanno offrendo, che può essere un qualunque multiplo di 5 a partire dal 10% e fino ad arrivare al tempo pieno al 100%. Allo stesso modo, possono essere i candidati in sede di colloquio a esplicitare la loro disponibilità, spiegando di non essere disponibili a lavorare per meno –  o più –  di tot percentuale. Inoltre, la percentuale può cambiare nel corso del tempo, semplicemente con un accordo con il datore di lavoro. È molto frequente lavorare all’80%, per poter avere un intero giorno – o due mezze giornate – alla settimana libere. In caso si abbiano figli piccoli, non è inusuale che uno dei genitori – nella maggior parte dei casi, la madre – scelga di ridurre al 40 o al 60%, lavorando quindi solo due o tre giorni a settimana. Il part-time così “modulabile” non è prerogativa solo del lavoro nel privato: anche negli enti pubblici si può lavorare concordando con gli uffici risorse umane la percentuale settimanale di lavoro, e cambiando questa percentuale nel corso degli anni, a seconda delle proprie esigenze. «Ora che ho una figlia lavoro al 60%» racconta una manager di un’azienda di Losanna «Ma nel lavoro precedente avevo concordato addirittura un 95%: quel 5% equivaleva a un pomeriggio libero ogni due settimane, che mi serviva per andare a trovare i miei genitori in Ticino».Ma perché in Italia questa modalità di lavoro a tempo parziale non è diffusa? «Secondo l’art. 5 del d.lgs. 81/2015, il contratto di lavoro a tempo parziale deve prevedere la puntuale indicazione della durata della prestazione lavorativa e la collocazione temporale dell’orario, con riferimento al giorno, alla settimana, al mese» spiega l’avvocata Casiello: «Tale indicazione soddisfa l’interesse del lavoratore a conoscere con esattezza la misura della prestazione che è tenuto ad eseguire e la collocazione della stessa nel giorno, nella settimana, nel mese o nell’anno. Si scongiura così il rischio che il lavoratore possa trovarsi in balia delle esigenze organizzative del datore di lavoro, spesso mutevoli, ed impossibilitato, conseguentemente, ad organizzare il tempo da dedicare ai propri bisogni extra lavorativi. Tali obiettivi sarebbero difficilmente raggiungibili se il contratto si limitasse ad indicare la percentuale della prestazione da eseguire rispetto al contratto a tempo pieno». Secondo Marco Bentivogli, ex sindacalista e coordinatore di Base Italia, «nel nostro Paese i tentativi di ampliare le posizioni lavorative a tempo parziale volontarie sono stati spesso avversati per problemi di costo e per incapacità di riorganizzare il lavoro. Figuriamoci che nei contratti del settore industriale si è fatta fatica ad avere percentuali del lavoro part-time superiori al 5% e comunque condizionati a casistiche specifiche, come ad esempio esigenze di cura. Allo stesso tempo e in contraddizione con tutto ciò, crescono troppo i part-time involontari. In generale nel nostro paese, il basso livello dei salari è una delle cause della scarsa popolarità del part-time».In alcuni settori, come quello del commercio, il part time è particolarmente diffuso, come ad esempio per chi lavora nei supermercati. Si tratta quasi sempre di un part time involontario. Per Bentivogli «il part-time obbligatorio è un problema. Soprattutto nella grande distribuzione, ma anche nel turismo e nella ristorazione si è diffusa l’idea che frazionare l’orario corrisponda a orari più brevi ma più intensi, con minori pause, formali o informali, e pertanto una maggiore produttività del lavoro. E’ chiaro che i salari per orari tra inferiori alle 24 ore sono comunque spesso la metà di un salario basso. Accettabili per un periodo in cui si hanno altri impegni, come lo studio, e altre coperture economiche ma non sostenibili nel medio lungo periodo. Il mix tra orario ridotto e la richiesta di straordinari è spesso dovuto a incapacità nell’organizzazione del lavoro ma anche all’elevato turn-over dei lavoratori viste le condizioni, estremamente precarie».Il futuroLo scenario descritto mostra un quadro del part time in Italia abbastanza rigido sia del punto di vista delle tipologie e quindi delle possibilità di scelta da parte del lavoratore, sia rispetto alle categorie di lavoratori maggiormente coinvolte, su tutte le donne, con una forte presenza dei part time involontari.Per invertire la rotta, una soluzione potrebbe essere incentivare proprio l’aspetto della volontarietà: «Credo che il legislatore italiano, in conformità ai principi europei, debba incentivare lo sviluppo del lavoro a tempo parziale su base volontaria, ampliando le ipotesi in cui la scelta di tale tipologia contrattuale non sia la conseguenza di una decisione presa dal lavoratore per mancanza di alternative a tempo pieno o di una decisione unilaterale del datore di lavoro», dice Giorgia Casiello: «Ritengo che oggi la legge italiana non sostenga adeguatamente la scelta unilaterale del part time del lavoratore».Negli ultimi anni qualcosa si è mosso, ma «nonostante l’ampliamento, anche grazie all’attuazione nel 2022 di una direttiva europea del 2019 relativa all’equilibrio tra attività professionale e vita familiare per genitori e i prestatori di assistenza, delle esigenze qualificate che fanno sorgere il diritto alla trasformazione del contratto da full-time a part-time, le stesse rimangono ancora limitate», conclude Casiello: «Solo un significativo ampliamento delle ipotesi in cui è riconosciuto il diritto al tempo parziale, includendovi soprattutto quelle in cui il lavoratore dimostra di avere determinate esigenze familiari, di cura o studio, garantirebbe la corretta attuazione del principio di volontarietà, facilitando il passaggio a tempo parziale del lavoratore che matura il bisogno di più tempo libero».Necessario, quindi, intervenire sulle disposizioni attuali, rendendole in linea con i tempi e le esigenze che cambiano, guardando anche, ancora una volta, oltre i nostri confini.Chiara Del Priore

Autoimpiego, il flop di Selfiemployment: usato in pratica solo in Campania, e spesa solo la metà dei soldi a disposizione

Ha chiuso giusto giusto un mese fa, il 15 giugno, la misura della Garanzia Giovani dedicata all’autoimprenditorialità: parliamo di Selfiemployment, un finanziamento a tasso zero per giovani interessati a mettersi in proprio. E se la prima fase del programma era dedicata solo agli under 30 iscritti a GG (quindi non impegnati in un lavoro o un percorso di studio o formazione professionale), la seconda fase – denominata Nuovo Selfiemployment e operativa dal 22 febbraio 2021 – era destinata anche a donne inattive e disoccupati di lungo periodo, senza limiti anagrafici.L’incentivo è stato gestito da Invitalia sotto la supervisione dell’Agenzia nazionale Politiche attive del lavoro ed era costituito da tre sotto-misure a seconda dell’entità del prestito richiesto. Per il Microcredito esteso e i Piccoli crediti, che consentivano prestiti estesi da 25mila fino a 50mila euro, la possibilità di far domanda era scaduta già a novembre 2022, secondo le disposizioni europee. Diversamente è stato per la sotto-misura Microcredito, che elargiva prestiti dai 5mila ai 25mila euro, per la quale la scadenza è stata appunto il 15 giugno di quest'anno.Secondo i dati inediti che la Repubblica degli Stagisti ha ottenuto da Invitalia, in alcuni territori la misura non è proprio mai stata utilizzata, come per esempio in Basilicata e in Trentino Alto Adige; e c’è stato invece un utilizzo sproporzionato in Campania.Il numero totale di iniziative finanziate – comprensivo anche della precedente edizione, attiva fino al febbraio 2021 – è 1.991 su 6.407 richieste presentate, per un totale di agevolazioni concesse  pari a quasi 66 milioni di euro: vale a dire più o meno la metà delle risorse disponibili, che ammontavano a circa 132 milioni. Meno di una candidatura su tre è dunque stata accolta: solo il 31%. I beneficiari sono stati 3.532: a prima vista sembrerebbe la metà delle domande. In realtà la richiesta poteva essere fatta anche “in gruppo”, ovvero da società di persone, cooperative (composte da massimo nove soci) o associazioni professionali e società tra professionisti (costituite da non più di 12 mesi e inattive, o non ancora costituite). I numeri risultano ancor più esigui se si guarda la sola misura del Nuovo Selfiemployment: le domande presentate sono state 2.185 e di queste ammesse 446: solo il 20%.Un numero decisamente molto basso, giustificato dal fatto che «gran parte delle istanze pervenute, circa il 40%, è risultata non lavorabile per incompletezza o non conformità della documentazione presentata, per esempio domanda non trasmessa correttamente e/o non firmata digitalmente, o per mancanza dei requisiti previsti dalla normativa di riferimento» spiega alla Repubblica degli Stagisti l'ufficio stampa Invitalia. Questo significa che per quattro domande su dieci l’iter istruttorio è stato interrotto «senza poter entrare nel merito della valenza dell’iniziativa imprenditoriale proposta; e solo per il sessanta per cento delle istanze pervenute è stato possibile completare l’iter valutativo». Di queste, circa il trentacinque per cento è stato considerato ammissibile alle agevolazioni. Per un totale concesso per la misura Selfiemployment 2 di 13 milioni e 800mila euro, e 782 nuovi posti di lavoro calcolati da Invitalia.Una spiegazione al basso numero di progetti approvati prova a darla Maurizio Del Conte, professore di Diritto del lavoro all’università Bocconi di Milano, giuslavorista ed ex presidente dell'Anpal. «L’autoimprenditorialità è chiaramente una misura molto selettiva, non tutti ci sono portati. Per funzionare bene serve un tutoring molto stretto. Non basta l’investimento finanziario, ci vuole un forte accompagnamento in tutta la fase di start-up, dall’accesso al credito a come si gestisce un’impresa. Attività molto onerose che devono essere ben strutturate. La mia impressione» continua Del Conte, «è che probabilmente non si è fatto un investimento sufficiente nell’accompagnamento». Un divario tra domande e progetti finanziati giustificato anche dal fatto che spesso «molte proposte non hanno nemmeno le premesse per poter partire. È giusto selezionare all’inizio per non creare frustrazioni ex post. Dopo la selezione, però, la parte pubblica deve crederci e mettere a disposizione un forte aiuto per realizzarlo. Qui, forse, c’è il buco della misura».Un altro dato interessante riferito all’impatto della misura riguarda il genere: più di sei richiedenti su dieci erano donne e la percentuale rimane pressocché identica nelle concessioni dei prestiti.La regione dove si è concentrata la maggior parte delle domande è la Campania con quasi un quarto del totale, seguita dal Lazio e, a più di dieci punti percentuali in basso, Sicilia, Lombardia (unica regione del Nord nelle prime cinque posizioni per richieste femminili) e Calabria.Rispetto all’utilizzo delle risorse disponibili, per quanto riguarda il primo avviso pubblico del febbraio 2016 chiuso a gennaio 2021, Marche, Umbria, Toscana e Molise  hanno dovuto chiudere prima della scadenza per insufficienza di risorse – erogate quindi già tutte nei mesi precedenti – e hanno potuto riaprire gli sportelli con il nuovo avviso di febbraio 2021.Altra categoria di potenziali beneficiari del Nuovo Selfiemployment erano i disoccupati di lungo periodo, anche ultratrentenni: categoria per la quale, come le donne, non c'era bisogno di  essere iscritti al programma Garanzia Giovani. L’ampliamento della platea è stato fatto nel 2021, con il rifinanziamento del programma, con la motivazione di potenziare il sostegno all’occupazione nella fase dell’emergenza sanitaria. E sono proprio queste due sottocategorie ad aver richiesto di più la misura, visto che circa il 21 per cento  di chi ha presentato una proposta è rappresentato dai disoccupati di lungo periodo; gli over 30 sono addirittura quasi il  sessanta per cento. E meno male che Selfiemployment doveva essere una misura per giovani!«Mi sembra sempre sbagliato il non capire che le misure devono essere pensate e strutturate in funzione del target. Se ne creo una per i giovani, devo rimanere su quei destinatari! Altrimenti il rischio è dare soldi ma non gambe a questi percorsi di avviamento all’autoimprenditorialità», commenta ancora Maurizio Del Conte. «È un errore concettuale compiuto, a mio avviso, nel tentativo  di riciclare semplicemente l’esistente, mentre si sarebbe dovuto immaginare qualcosa di assolutamente mirato, in particolare per le donne». Invece, di fatto, si è andati a snaturare il programma.Se si vanno poi ad analizzare i dati dei candidati (i “proponenti”) disoccupati di lungo periodo per regione di residenza, la regione che svetta su tutte è di nuovo la Campania: quasi un quarto dei proponenti erano disoccupati di lungo periodo. Segue la Sicilia con l’undici per cento delle richieste, Calabria, Puglia e Toscana con il nove, Lazio e Lombardia con l’otto, il Veneto con il cinque,  le altre altre regioni hanno tutte un indice molto basso con Basilicata e Trentino Alto Adige addirittura ferme a zero.I finanziamenti erano certamente appetibili visto che erano senza interessi, senza garanzie e rimborsabili in sette anni con rate mensili a partire da sei mesi dalla concessione del prestito. Una caratteristica, quella dell’essere senza garanzie, difficilmente riscontrabile in altri prestiti per giovani, specie se disoccupati.Chi ha ottenuto le agevolazioni deve realizzare il programma di investimenti entro 18 mesi dal perfezionamento del provvedimento di ammissione. Invitalia, poi, ha offerto anche un servizio di tutoraggio per accrescere le competenze imprenditoriali dei giovani. I percorsi di formazione e accompagnamento all’avvio di impresa erano convenienti perché consentivano di ricevere un aiuto nella redazione del business plan e anche perché la conclusione del percorso dava diritto a nove punti aggiuntivi sul punteggio complessivo nella fase di valutazione del finanziamento.Tutti i settori della produzione di beni, fornitura di servizi e commercio, anche in forma di franchising, sono stati ammessi agli incentivi previsti. Esclusi, invece, i settori della pesca, dell’acquacoltura e della produzione primaria in agricoltura, oltre alle attività riguardanti lotterie, scommesse e case da gioco. Il finanziamento consentiva la copertura delle spese per investimenti materiali e immateriali, e per le spese di capitale circolante successive alla presentazione della domanda, ovvero locazione degli immobili, utenze, stipendi e premi assicurativi.Al momento della compilazione della domanda c’era anche la possibilità di partecipare a un colloquio conoscitivo con il personale di Invitalia in modalità remota. Questa scelta consentiva di aggiungere elementi che non erano inseribili nella domanda online e di ricevere, in base alla griglia di valutazione dei progetti, un ulteriore vantaggio nell’attribuzione dei punteggi. Ora che il programma è chiuso bisognerà vedere nelle rendicontazioni finali, che saranno effettuate entro fine anno, se le Regioni saranno state in effetti in grado di utilizzare tutte le risorse a disposizione. E capire quale programma o incentivo prenderà il posto di Selfiemployment e sosterrà la voglia e creatività dei giovani che vogliono mettersi in proprio.Marianna LeporeFoto di apertura di Mart Production in modalità Creative commons Foto di MART PRODUCTION: https://www.pexels.com/it-it/foto/persone-ufficio-uomini-donne-7550298/