Categoria: Approfondimenti

«Non è un paese per giovani», fotografia di una generazione (e appello all'audacia)

È uscito da pochi mesi in libreria un libriccino che ogni trentenne dovrebbe leggere e tenere in tasca. Si intitola Non è un paese per giovani (Marsilio, collana I Grilli), sottotitolo «L'anomalia italiana: una generazione senza voce». Gli autori sono Alessandro Rosina, 40 anni, docente di Demografia all'università Cattolica di Milano e collaboratore del sito Lavoce.info (qui un elenco dei suoi articoli e qui una bella intervista rilasciata di recente a Fabrizio Buratto per Job24) e la giornalista trentaquattrenne Elisabetta Ambrosi. Il libro si basa sui risultati di una ricerca realizzata da Rosina ed è una sorta di impietosa, lucida, acuta fotografia della generazione dei trentenni di oggi, che vivono compressi da una sorta di «tappo» che impedisce loro di emergere, prendere il volo e raggiungere posizioni di comando e autonomia.Primo elemento del «tappo»: i (troppi) vecchi al potere, che malgrado i raggiunti limiti di età non vogliono lasciare le loro posizioni. Scrivono Ambrosi e Rosina: «Solo da noi un over 30 è considerato un sub-adulto. "Sei ancora giovane" è il leit-motiv più frequente per chi aspira a competere con le sole armi del merito a qualche ruolo di rilievo sociale e professionale. "C’è ancora tempo, aspetta il tuo turno". Ecco allora che il prolungamento della giovinezza diventa funzionale al blocco generazionale». Insomma: se i vecchi professori, politici, giornalisti, avvocati, medici non si levano fisicamente di mezzo, e se le nuove leve continuano ad accettare di attendere pazientemente il loro turno – anche se in altri Paesi nessuno si sognerebbe di definire un trentenne "giovane"! – come potrà avvenire il necessario ricambio generazionale?Secondo elemento del «tappo»: le famiglie d'origine, accanto alle quali i giovani vivono in un’«inverosimile pace sociale». Il conflitto generazionale, la ribellione ai padri, le fughe da casa non esistono più: i trentenni resistono grazie al cordone ombelicale con i genitori, non per bamboccionismo ma nella maggior parte dei casi per pura necessità. Mamma e papà sono gli unici ammortizzatori sociali su cui  si può contare per arrivare alla fine del mese, per sopravvivere prima nel tunnel degli stage e poi tra un contratto precario e l’altro.Terzo elemento del «tappo»: la sfiducia nel futuro, la rassegnazione di fronte alla difficoltà di trovare un buon lavoro e un buon stipendio. «Gli attuali trentenni» sintetizzano gli autori «hanno assistito al drammatico deterioramento di garanzie e prerogative rispetto alle generazioni precedenti e ai coetanei europei», e sono stati «costretti a rivedere progressivamente al ribasso le proprie aspettative nel loro percorso di transizione alla vita adulta». Il che è chiaramente deprimente: «Una depressione giovanile specificamente italiana. Una condizione che crea un più o meno sottile disagio, scetticismo, inquietudine»; il riferimento non è alla patologia psichiatrica, bensì a «una modalità di essere, una paradossale forma di espressione e di protesta insieme» che però purtroppo non porta a nulla, non permette di superare il problema. Questa speciale depressione è insomma «l’esito di un soffocamento delle più intime motivazioni. È l’impossibilità di esprimere il proprio desiderio; è insomma, una speranza abortita, è il divieto di futuro».Un divieto di futuro – e qui si arriva al quarto e più importante elemento del «tappo» – che ogni trentenne vive però in solitudine. «Il drastico cambiamento di valori, dal pubblico al privato, dal collettivo all’individuale, è sicuramente uno dei motivi per i quali i giovani – e non solo in Italia – non aprono contestazioni pubbliche, non scendono più in piazza, non inventano forme di mobilitazione contro l’esistente, anche laddove l’esistente è cattivo e dannoso come spesso accade», si legge nel libro: «Lo sguardo è rivolto, al contrario, verso il privato». In questo «privato», al sicuro nella propria casa, con gli amici, gli amori, i familiari, gli oggetti, i giovani cercano rassicurazioni. Come una tana, un posto dove rifugiarsi per proteggersi dalle delusioni e dalle frustrazioni del mondo esterno. Il problema è che nella tana si è soli. Non ci sono coetanei e colleghi con cui condividere gli stati d'animo ed elaborare idee, strategie di riscossa, rivoluzioni. Ognuno, insomma, è solo e isolato con le sue frustrazioni, solo a combattere per ottenere un pezzetto di visibilità, di riconoscimento, di indipendenza economica, un contratto decente, una prospettiva magari non a lungo ma almeno a medio termine. In più, oltre che soli si è anche contrapposti, tutti contro tutti, mors tua vita mea, della serie "arraffo questo contratto da niente, accetto questo stage gratuito, perchè altrimenti qualcuno potrebbe prenderlo al posto mio, e magari cavarci qualcosa di buono". Ma da soli non si arriva a nulla: e allora i venti-trentenni italiani farebbero bene a uscire dalla tana e ritrovare, come i loro padri e zii sessantottini, «l'arrogante audacia di lottare senza timori reverenziali, il creativo coraggio di riattivare un conflitto generatore di cambiamento, la lucida determinazione di rompere una volta per tutte la lunga tregua generazionale che blocca in un abbraccio soffocante le energie più vigorose del nostro paese». Un libro da leggere. E poi rileggere. E poi agire, ognuno a modo suo, per cambiare il corso delle cose.Eleonora VoltolinaPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Trentenni italiani, la sottile linea rossa tra umili e umiliati nel libro «Giovani e belli»- Stagista a quarant'anni: un libro per riflettere sul mercato del lavoro- Crisi e mercato del lavoro, Tito Boeri: è il momento che i giovani si facciano sentire e lancino delle proposte- Giovani, lavoro e stipendi troppo bassi: quando al mutuo ci pensa papà (indebitandosi). Parola di Luigi Furini- Stage gratuiti o malpagati, ciascuno può fare la rivoluzione: con un semplice «no»

Un anno di Soul, il servizio di placement pubblico delle università del Lazio

Più di tredicimila curriculum registrati, oltre 22mila iscritti al portale, seimila contatti tra aziende e studenti per oltre cinquemila candidature accettate, tra stage e opportunità di lavoro. Sono i numeri di Soul, il Sistema Orientamento Università Lavoro [nell'immagine, l'homepage del sito], che quest'estate ha festeggiato il suo primo anno di vita. Nato dalla collaborazione fra gli atenei romani (La Sapienza, Tor Vergata, Roma Tre e Foro Italico), ai quali si sono unite dapprima l'Accademia di Belle Arti di Roma  e in questi giorni anche le università di Cassino e di Viterbo, Soul si propone come «ponte fra le università e il mondo del lavoro, fornendo ad imprese e studenti un servizio pubblico e gratuito di placement». Con buoni risultati, a giudicare da quel 44% di neo “dottori in” che dopo il tirocinio post laurea ha trovato una vera occupazione. Funziona così: lo studente o il laureato, non per forza di un ateneo coinvolto, inserisce il suo curriculum sul portale, che rende visibili solo i dati relativi agli studi svolti. Se l'azienda è interessata contatta lo studente. Viceversa può essere l'impresa ad offrire un posto di lavoro o uno stage, in quel caso a proporsi è ovviamente il candidato. Nel caso durante lo stage si dovessero verificare abusi da parte dell'impresa, su denuncia dello stesso stagista partono i controlli di Soul, che verifica le irregolarità, inserisce l'azienda in una black list (attualmente sarebbero quattro quelle che ne fanno parte) e la espelle dal sistema. Mentre per tutte le situazioni di tirocinio o di rapporto di lavoro poco chiaro o semplicemente per ricevere informazioni sui diritti dei lavoratori, presso gli sportelli Soul delle università è stata aperta una Ztl, zona tutela lavoratori: un servizio di consulenza gratuita offerto da Cgil, Cisl e Uil regionali. Soul è nato il tre luglio del 2008 con un budget di circa 2,6 milioni di euro, di cui trecentomila finanziati a metà dalla Camera di Commercio di Roma e dalla Sapienza, mentre i due milioni arrivano dai fondi sociali europei gestiti dalla Regione Lazio. Ora l'obiettivo è crescere velocemente. La nuova sede, in via De Lollis a Roma, appena fuori dalla città universitaria della Sapienza, ospiterà anche un centro per l'impiego della Provincia. I punti informazione disseminati nelle varie università continueranno ad accogliere gli studenti interessati, mentre si cercherà di coinvolgere nel progetto gli atenei di altre regioni, ai quali verrà offerto gratuitamente il sistema informatico messo a punto per Soul. Un programma che, a regime, consentirà di informatizzare tutte le procedure necessarie per l'attivazione e la gestione dei tirocini. «Tutte le informazioni» spiegano gli addetti alla Repubblica degli Stagisti «verranno integrate nella banca dati per la comunicazione obbligatoria della Regione  – ogni regione ne deve avere una – così da valutare gli esiti occupazionali dei percorsi formativi». Finora tra gli atenei che hanno mostrato interesse ci sono quelli pugliesi e quelli liguri. Ma bisogna allargare ancora la rete, «perché cooperare è meglio che competere» afferma il padrino di Soul, Pietro Lucisano, preside del corso di laurea in Scienze della Formazione e delegato all'Orientamento della Sapienza: «Noi ne siamo una testimonianza». E anche all'estero sembrano non disdegnare l'idea di un network, perfino con la Russia sono stati avviati i primi contatti. Tanto che per Lucisano il futuro si chiama «europlacement. Il nostro modello - conclude il professore di Pedagogia sperimentale - è quello del buffet: le aziende conoscono poco il mondo universitario, che invece offre una vasta gamma di profili accademici e percorsi di studio. Vogliamo aiutarle a scegliere di cosa e di chi hanno bisogno». Giuseppe Vespo Per saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Dalla parte dei laureati - lo stage serve per trovare lavoro?- Centro per l'impiego di Frosinone: il posto «magico» dove uno stagista su due trova lavoro

Aiutati che il web t'aiuta: Offline, le notizie «inaltreparole» raccontate da sei ex stagisti giornalisti intraprendenti

Ex stagisti giornalisti alla riscossa. Sono in sei: Letizia Cavallaro, Francesco Defferari, Marianna Lepore, Enza Civale, Valeria Calicchio e Andrea D’Orazio [nella foto a destra, tutti tranne l'ultimo sulle scale del duomo di Perugia, in occasione del Festival del Giornalismo 2008: da sinistra a destra Francesco, Letizia, Marianna, Enza e Valeria]. Sono tutti laureati e giornalisti professionisti, ex allievi della scuola di giornalismo di Salerno. Hanno alle spalle master e stage, nella maggior parte dei casi non retribuiti. Lavorano da anni, come freelance, per giornali e televisioni.  E oggi che finalmente hanno il tesserino in mano si ritrovano a fare i conti con un mercato editoriale che definire in crisi è un eufemismo: non passa giorno senza che qualche testata annunci di voler tagliare l’organico (vedere per credere qui, qui, qui e qui: e sono solo i più recenti). Sempre più difficile ottenere contratti e stipendi decenti, ma i sei non si sono persi d’animo e hanno deciso di aprire un giornale in proprio: online, ovviamente. O meglio «Offline – Le notizie in altre parole», come hanno voluto intitolarlo per sottolineare  da subito la volontà di «raccontare le cose in maniera diversa dai media "ufficiali" che in Italia rispondono sempre e comunque a qualche potere politico o economico. Perché raccontare la verità non ha a che fare con la destra e la sinistra, ma con ciò che è giusto e ciò che è sbagliato» spiega deciso Francesco, trentaquattrenne genovese, che insieme alla ventottenne Marianna, salernitana, ci lavora fulltime – mentre  gli altri collaborano saltuariamente.Il sito, attivo da aprile, è organizzato in dieci sezioni: Che combinano i politici, Vittime di cronaca, Così va il mondo, Dentro la rete, Resistenza civile, Pianeta terra, Libertà di stampa, Il fascino della scienza, Questioni di denaro e Sfide sportive. Molti degli articoli sono disponibili anche in inglese. Dice Francesco: «Se riusciremo mai a mangiarci è difficile dirlo, la pubblicità per adesso è un guadagno minimo, i contatti sono buoni. Ma onestamente non so dire se si può vivere con un sito web giornalistico». Marianna a dir la verità ci spererebbe: «Dal futuro mi aspetto un lavoro che riesca a ripagarmi della fatica, dello studio e dei soldi spesi per istruirmi».  Ma i tempi sono grami, tanto che capita che a giornalisti ultratrentenni e già professionisti venga prospettata la possibilità di fare l'ennesimo stage. Fra i fondatori del sito c’è anche Enza, 32 anni, che dopo la laurea in Scienze della Comunicazione indirizzo giornalismo ha collezionato sei stage: «Raramente da queste esperienze sono nate concrete prospettive lavorative». Dopo la scuola di giornalismo è finalmente diventata professionista, ma «ancora oggi» racconta «c’è chi risponde alle mie richieste di lavoro con una proposta di stage». Il che non la rende, comprensibilmente, troppo fiduciosa sul suo futuro: «Dal giornalismo “classico” non mi aspetto molto: quello che ieri sembrava il naturale approdo dei miei studi, oggi mi appare come una meta irraggiungibile». Una sfiducia condivisa da Letizia, salernitana trapiantata a Torino: «La logica delle grandi redazioni mi ha deluso: la realtà che ho visto durante gli stage è molto lontana dal giornalismo che sognavo. Per questo ho accettato subito la proposta dei miei amici di mettere su un sito tutto nostro. Offline, grazie alle possibilità offerte dal web, ci permette di esprimerci in maniera aperta e indipendente e sviluppare un tipo di giornalismo libero, che dà conto solo ai nostri lettori. A nessun altro».Il sito per questi giovani giornalisti è diventato il modo per fare il giornalismo che piace a loro, per farsi conoscere  al pubblico e provare a non sottostare alle logiche spesso stritolanti del mercato dei media: «La nostra idea è quella di sviluppare una realtà editoriale, sul modello di un service, autonoma e indipendente rispetto alle fonti del giornalismo ufficiale» spiega la ventottenne Valeria, che nel curriculum ha anche un’esperienza come guida ambientale del Parco nazionale del Cilento: «Magari le entrate all'inizio saranno poche, se non nulle: ma quantomeno possiamo essere liberi di dire tutto quello che vogliamo».Nei prossimi mesi il sito verrà registrato come testata giornalistica online, e chissà che attraverso i banner e il passaparola non riesca a diventare remunerativo per questi sei ex stagisti intraprendenti: «Quello che mi attira è la possibilità di respirare in uno spazio informativo non contaminato, creato da persone che conosco bene, dove non ci sono capi, gerarchie, notizie da privilegiare. Dove puoi parlare e pensare inaltreparole, per l’appunto» chiude Andrea, siciliano 34enne laureato in filosofia, l’unico dei sei che finora sia riuscito ad agguantare un vero contratto giornalistico presso una grande testata: «L’unico problema è che molteplicità e libertà, il più delle volte, nel mondo reale non pagano. In senso letterale: non ti danno uno stipendio. Magari la redazione del nostro sito farà la rivoluzione. Siamo testardi!».Eleonora VoltolinaLeggi anche:- «Aiutati che il web t'aiuta: Lavoratorio, annunci di lavoro e non solo»- «Aiutati che il web t'aiuta: Dillinger, un sito per i giovani che hanno voglia di cambiamento»

Stage in fabbrica raccontati in un libro al vetriolo: «Mi sento già molto inserito» di Mauro Orletti

C'è chi nello stage vede un modo per arricchire il curriculum. Altri lo fanno con la speranza di entrare nel mondo del lavoro. Precari e disoccupati lo considerano una manovra di avvicinamento verso l'agognato contratto. Mauro Orletti, trentenne abruzzese, ha usato il suo come ispirazione per scrivere un romanzo. Autobiografico, ovviamente: Mi sento già molto inserito, sottotitolo «Cronache dalla fabbrica (dis)integrata», pubblicato dalla casa editrice Zandegù all'inizio di quest'anno. La grande azienda metalmeccanica di Torino presso cui il protagonista, laureato in giurisprudenza, va a fare due colloqui e infine prende servizio  – l'immaginaria Società Anonima Veicoli Industriali  – ricorda (volutamente?) la Fiat. Significativa  la pagina che racconta la telefonata in cui l'incaricata del recruitment chiama per proporre lo stage: «La psicologa dice che non rientra nella politica aziendale assumere con contratti a tempo indeterminato dice che preferiscono proporre uno steig di sei mesi al termine del quale si deciderà sul da farsi, dice che è il modo migliore per tutelare l'azienda e sopratutto lo stagista. Il neolaureato infatti non sa bene cosa lo aspetta, quale tipologia di lavoro dovrà svolgere, in che ambiente si troverà ad operare. Lo steig è la soluzione ideale per maturare un'esperienza di lavoro, mettere alla prova le proprie capacità, instaurare rapporti di tipo professionale con esperti del settore e, sulla base di tutto questo, decidere del proprio futuro. Dice la psicologa». Una versione subito confutata  dalla replica del protagonista: «Senta, le dico, voi assumetemi a tempo indeterminato e vedrete che, se mi fa schifo lavorare in Sav-I, mi dimetto senza preavviso dopo una settimana. Lo steig, dal mio punto di vista, è una soluzione pessima». Così per convincere il recalcitrante candidato la psicologa rinnega in due minuti l'essenza stessa dello stage, faticosamente costruita e ribadita nel corso di oltre dieci anni da legislatori, professori e imprenditori: «Con una vocetta un po' offesa un po' imbarazzata mi dice Ma guardi, deve comunque considerarlo un lavoro vero e proprio. Riceverà 800 euro al mese e avrà un orario di lavoro prestabilito, otto ore al giorno, dovrà timbrare il suo tesserino magnetico come ogni altro dipendente e... insomma, come un vero lavoro».Ma il rimborso spese è tentatore, il prestigio dell'azienda grande, e quindi Orletti-De Filippis accetta. Dall'osservatorio privilegiato del settore Risorse umane comincia ad osservare i processi di assunzione, licenziamento e trasferimento di operai e dirigenti, le logiche spesso slegate dal merito e incatenate invece ad oscuri meccanismi di cooptazione e lobbying sindacale, l'organizzazione del lavoro pensata non per ottimizzare i risultati ma per ribadire le gerarchie. Lo stagista-narratore è un fiume in piena, usa neologismi e irride gli inglesismi  – specialmente quelli del mondo imprenditoriale, perchè «la manfrina linguistica non agevola» e «il colletto bianco usa l'inglese per segnare il confine fra lavoratore pensante e maestranza» – scrivendo iuman risorsis al posto di human resources, oppure menegment anzichè management. E, appunto, steig al posto di stage: «Lo steig, parliamoci chiaro, non è mai un vero steig. In Italia siamo messi così che per lavorare ci tocca pagare il pizzo alle università, agli organizzatori dei master, ci tocca lavorare gratis per la cosca industriale e siccome lo sappiamo bene che funziona così, stiamo zitti e ringraziamo il padreterno o la madreterna o quello che è per quello che dà». Con chiosa rivoluzionaria: «Però perdio se chiedo due ore di permesso, considerato che arrivo al lavoro alle 8 del mattino e non esco prima delle 7 di sera, perdiosantissimo non rompetemi i coglioni sennò a uno, per dire, gli viene in mente di essere sfruttato e allora si sa come vanno queste cose ti nasce una specie di coscienza di classe e allora poi son cazzi perchè vivalarivoluzioneproletaria». La rivoluzione degli steigisti?Eleonora VoltolinaPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- «Non è un paese per giovani», fotografia di una generazione (e appello all'audacia)- «Stagista a quarant'anni: un libro per riflettere sul mercato del lavoro»- «Giovani, lavoro e stipendi troppo bassi: quando al mutuo ci pensa papà (indebitandosi). Parola di Luigi Furini»- «Per chi sogna di fare il designer, in un libro croci e delizie della professione (e qualche consiglio ai giovani)»

Commercialisti, l'esame è una scommessa - Pianeta praticanti: inchiesta della Repubblica degli Stagisti / seconda puntata

Continua il viaggio della Repubblica degli Stagisti nel pianeta praticanti, per capire meglio chi sono, cosa fanno, come vivono. Dopo gli avvocati, ora è la volta dei commercialisti. La Catanzaro dei commercialisti è Milano. La calabrese città dei tre colli è stata per anni la Mecca di tanti praticanti avvocati che potevano contare su un’altissima probabilità di promozione [almeno fino alla riforma Castelli del 2003, che ha previsto la correzione delle prove in corti di appello di altre città].L’estrema disparità tra le diverse sedi nella percentuale di promossi si ha anche per l’esame di abilitazione alla professione di dottore commercialista. E a sorpresa è l’università Bicocca di Milano a risultare l’ateneo più generoso: secondo le statistiche del ministero dell’Istruzione, nel 2006, ultimo dato disponibile, il 94,6% di chi ha effettuato l’esame alla Bicocca (88 su 93 esaminati) è stato promosso. La media nazionale si era invece fermata al 45 per cento. In tutta Italia, sempre nel 2006, i praticanti commercialisti che si sono presentati all’esame di abilitazione sono stati 10.024, di cui sono stati promossi 5.432.Lotteria promozione. Non che si sia di fronte a una spaccatura Nord-Sud rovesciata: dietro Milano Bicocca, tra gli atenei più generosi, spiccano Foggia, Messina, Torino, Napoli Seconda e Napoli Parthenope. Le università più severe sono state invece Trento (solo il 16,4% di promossi), seguita da Bari, Siena, l’Aquila e Salerno [la classifica completa si trova in questo articolo del Sole 24 Ore].  La causa è da ricercarsi, piuttosto, in una differenza di severità tra singoli atenei e nel fatto che – diversamente da quanto avviene per gli avvocati – i compiti sono predisposti in autonomia dalle singole università.Esame in quattro mosse. L’esame si compone di tre scritti (uno sulle novità fiscali, uno su un approfondimento di questione teorica e una prova pratica) e di un orale. Il costo di iscrizione all’esame varia da università a università ma è di circa 150 euro. Intorno ai 150 euro all’anno è anche la quota di iscrizione ai diversi ordini locali. Non sono previste scuole come per gli avvocati, ma gli ordini organizzano di solito dei corsi concentrati nelle settimane prima o diluiti nell’anno precedente l’esame.Praticantato lungo ma anticipabile. Per presentarsi all’esame bisogna affrontare un lungo iter: il praticantato dura tre anni sia per i dottori commercialisti che per gli esperti contabili. C’è però una novità positiva: la possibilità di cominciare il tirocinio durante gli anni della laurea specialistica. Il discorso interessa chi si vuole iscrivere alla sezione A, destinata ai dottori commercialisti, per accedere alla quale è necessaria la laurea magistrale (3+2). Ora è possibile svolgere due anni di pratica durante l’università, mentre un terzo anno va svolto dopo la laurea. Per accedere alla sezione B dell’albo, dedicata agli esperti contabili, invece, è sufficiente la laurea triennale. Altre informazioni sull'accesso si trovano sul sito del Cndcec.Rimborsi a discrezione. Il rimborso spese per i praticanti varia da studio a studio e da regione a regione. Non esistono attualmente delle norme che prevedano un compenso minimo. Secondo il Codice deontologico dei dottori commercialisti, «il rapporto di praticantato - considerato come periodo di apprendimento – è per sua natura gratuito. Tuttavia, il dottore commercialista non mancherà di attribuire al praticante somme, a titolo di borsa di studio, per favorire ed incentivare l’impegno e l’assiduità dell’attività svolta». Quanto prendono, insomma, i praticanti? Un’idea ce la si può fare leggendo il sondaggio che ha lanciato il blog dei praticanti commercialisti. Le risposte sono state le più varie: delle 16 persone che hanno partecipato, 4 hanno risposto zero, tre 300 euro al mese, due 400 euro,  tre 500, due 700 e due 1.000. Per tutti, tranne per chi è rimasto a zero, l’importo è salito con il passare degli anni. «L’importante è chiarire il senso del tirocinio» commenta il presidente dell’Unione giovani dottori commercialisti, Luigi Carunchio: «in un vero praticantato si impara a diventare professionisti e ci si prepara alle responsabilità richieste dalla professione. Non deve invece essere possibile un lavoro dipendente mascherato, dove ci si limita a fare bassa manovalanza».Giovani in bolletta ma con prospettive d’oro. Che la carriera del professionista all’inizio non sia tutta faville lo dicono i dati della Cassa nazionale di previdenza e assistenza dei dottori commercialisti. Dai dati 2007 (ultimi disponibili)  si scopre che gli iscritti con meno di 30 anni hanno un reddito Irpef di 9.830 euro, cioè 812 euro lordi per 12 mensilità. Tutto cambia negli anni successivi: tra i 30 e i 39 anni il reddito balza in media a 31mila euro, tra i 40 e i 49 a 65mila, tra i 50 e i 59 addirittura a 105mila. Più piana la dinamica degli esperti contabili. Secondo la Cassa Ragionieri, nel 2008 il reddito medio degli iscritti di 30 o meno anni è stato di 29.833 euro, contro una media di tutti gli iscritti di 49.532 euro.Un ordine affollato. Anche se le due casse previdenziali rimangono separate, i due ordini dei dottori commercialisti e dei ragionieri si sono da poco fusi in uno solo (Cndcec). Sono però rimaste due sezioni distinte, la A per i dottori commercialisti e la B per gli esperti contabili, cioè gli ex ragionieri. In totale il numero degli iscritti all’albo unico nel gennaio 2008 era di ben 107.499 iscritti, di cui il 61% commercialisti e il 39% provenienti dall’albo dei ragionieri. Il confronto con gli altri Paesi è sempre stridente, se si considera che in tutta la Francia i commercialisti sono solo 18mila. Secondo il rapporto 2008 dell’Istituto di ricerca dei dottori commercialisti e degli esperti contabili, le donne sono solo 28%, ma la quota è in crescita da un decennio. Non a caso le donne sono decisamente più giovani: se complessivamente il 54% degli iscritti ha meno di 45 anni, in questa fascia rientra il 70% delle donne. Il 40,6% degli iscritti si trova al Nord, dove è anche più alto di iscritti per abitante, il 21,5% al Centro e il 37,9% al Sud. Dominus solo rodati. Per iniziare la pratica un neolaureato si può rivolgere a qualsiasi studio purché il “dominus” sia professionista da almeno cinque anni (art. 42 comma 1 del D.Lgs. 28 giugno 2005 n.139). Ed è proprio questa norma a non andare giù all’Unione dei giovani dottori commercialisti, che sottolinea come il 25% dei dottori commercialisti è professionista da meno di cinque anni. «Noi crediamo – dice il presidente Carunchio – che non sia l’anzianità professionale ad offrire una migliore preparazione, professionale e deontologica, al praticante. Anzi, i colleghi più giovani spesso riescono a dedicare maggiore attenzione ai futuri colleghi». Fabrizio PattiVedi anche «Da grande voglio fare l'avvocato - Pianeta praticanti: inchiesta della Repubblica degli Stagisti / prima puntata»

Stage all'estero, Mae-Crui ma non solo: attenzione all'assicurazione sanitaria

Romina porta ancora sul volto i segni del suo stage: una cicatrice provocata da un virus, curato come un semplice herpes in una clinica di Chicago. Vincitrice di un bando Mae-Crui – il programma di tirocini del ministero degli Esteri in collaborazione con le università – da febbraio a maggio del 2009 è andata in stage all'Istituto di cultura italiano della terza metropoli statunitense. Lì ha contratto l'herpes zoster, meglio conosciuto come fuoco di Sant'Antonio: un virus, lo stesso della varicella, che attacca le cellule del sistema nervoso. Faccia piena di bolle, mal di testa martellante, occhi gonfi come palle: «Attenta perché può provocare la cecità», l'ha avvertita qualcuno su un forum italiano di medicina dove aveva cercato informazioni su quello che le stava accadendo. «Nessuno mi aveva detto che il mio periodo all'Istituto di cultura non prevedeva un'assicurazione sanitaria. E nel bando di partecipazione allo stage non c'era scritto. Così quando mi sono sentita male» racconta la ventiseienne «ho telefonato al direttore dell'istituto, che però non conosceva medici italiani che mi potessero visitare privatamente. Per fortuna una famiglia italiana conosciuta al consolato mi ha portato dopo qualche giorno in una clinica privata». Dove paga il conto (fortunatamente non troppo salato, considerando il sistema sanitario USA) di tasca sua.Romina è una dei 10.210 stagisti partiti tra il 2001 e il 2008 per un'esperienza formativa all'estero attraverso i tirocini Mae-Crui: sessantasei atenei coinvolti in uno dei programmi di stage più richiesti tra i 15 gestiti dalla Fondazione Crui (Conferenza dei rettori delle università italiane) in collaborazione con enti e pubbliche amministrazioni. In questo caso, con il ministero degli Affari esteri (Mae, appunto): qui i tirocini (da tre a sei mesi) vanno dalla Farnesina, sede centrale del ministero, a ambasciate, consolati e istituti di cultura in giro per il mondo. Molti di questi stage avvengono fuori dall'Unione europea, ma per chi vince il bando non è prevista nessuna copertura sanitaria. E se tutti i cittadini dell’Ue hanno diritto all’assistenza in qualsiasi Stato membro si trovino e nei Paesi che fanno parte dello spazio economico europeo (See - Islanda, Liechtenstein e Norvegia), non è così quando si esce da quest’area. Secondo la Fondazione Crui, che ci sia o meno l’assicurazione sanitaria dipende dalle singole università che propongono agli studenti lo stage e non dall’ente ospitante, ad esempio l’ambasciata, il consolato o per loro il ministero degli Affari esteri. E non ci sarebbe nessuna legge che obblighi chi propone uno stage ad offrire una copertura sanitaria ai partecipanti – mentre è prevista l’apertura di una posizione Inail per eventuali infortuni sul lavoro. Così, a sorpresa, nemmeno alcune università private come la Bocconi assicurano gli stagisti che mandano fuori dall’Europa. Un problema di costi? Probabilmente. Racconta Luigi Somenzari della Fondazione CRT, Cassa di risparmio di Torino, che ogni anno spedisce circa settanta stagisti (con assicurazione) in giro per il mondo attraverso il progetto Master dei Talenti, che la spesa che loro sostengono per garantire l’assistenza sanitaria si aggira intorno agli undicimila euro all’anno: circa 160 euro a stagista. Troppi, probabilmente, per la maggior parte delle università (anche se è ragionevole credere che, su numeri dieci o venti volte superiori, il conto diminuirebbe). Gli atenei quindi scaricano anche questi costi sulle famiglie dei ragazzi, già gravate dalle spese di vitto e alloggio. Basta andare a dare un'occhiata alla sezione «Interviste ai tirocinanti» sul sito Mae-Crui e leggere i primi commenti per capire che le spese sono elevate: Veronica, 24 anni, laureata in Lettere e filosofia, in stage all'Istituto di cultura de La Valletta, a Malta, dice: «Lo consiglierei dal punto di vista professionale, anche se richiede un impegno economico notevole», e Aldo, stessa età, laureato in Economia ed ex stagista presso la Camera di commercio di Barcellona, specifica: «Consiglierei a tutti di farla nel caso in cui si abbia alle spalle una università o una istituzione che finanzia questa esperienza perché vivere in una capitale (specialmente in un paese sviluppato) e lavorare full time senza essere pagati presuppone una notevole quantità di denaro».«Chi viene da un certo tipo di studi» racconta Ilaria, di Foggia, che nel 2006 a 23 anni è andata ad Istanbul anche lei all'Istituto di cultura «tiene molto a fare un'esperienza di questo genere, a qualsiasi condizione». E aggiunge: «In Turchia per fortuna il costo della vita non era più alto che a Perugia, dove ho studiato: spendevo 700 euro al mese. In effetti, però, ora che ci penso quello dell'assistenza sanitaria non è un problema che mi ero posta ai tempi: fortunatamente non ebbi problemi di salute! Trovo comunque ancor più scandaloso che non sia previsto nessun rimborso spese». Che poi lo stage sia utile o meno probabilmente deriva dal luogo e dall’ufficio in cui si va, oltre che dal periodo. «Dipende molto da come è organizzato il lavoro, se si arriva in un momento di "stanca" può anche capitare di trovarsi a non aver nulla da fare per giorni» conclude Ilaria: «In generale, comunque, gli stagisti sono spesso sfruttati. E lo stage può trasformarsi, così, in una perdita di tempo e di denaro».Giuseppe VespoPer saperne di più su questo argomento, leggi anche l'articolo «Stage all'estero senza assicurazione sanitaria: le storie di chi ci è passato»

Stagista a quarant'anni: un libro per riflettere sul mercato del lavoro

Quante sorprese riserva la vita: uno a vent’anni suonava in una band, a trenta i suoi videoclip giravano su MTV lasciando presagire un futuro luminoso da rockstar, e a quaranta si ritrova in un centro per l’impiego a sentirsi proporre uno stage. Accade davvero: a raccontarlo è Andrea Bove, già leader del gruppo Dottor Livingstone che attraversò il panorama musicale italiano intorno alla metà degli anni Novanta – e però poi si sciolse. Così lui, che di mestiere sapeva fare solo il musicista, si trovò di fronte a un problema non da poco: trovarsi un lavoro normale per portare a casa uno straccio di stipendio. Il risultato delle sue peripezie è un racconto autobiografico davvero ben scritto, Stagista a 40 anni, pubblicato l’anno scorso dalla piccola casa editrice piemontese Riccadonna. Qui Bove racconta la sua vita fin da quando, bambino, studiava per ore il pianoforte («è lo stillicidio del tempo trascorso quotidianamente con lo strumento a rendere, infine, musicisti»), passando per il rapporto con i membri della band («manipolo di pazzoidi»), il matrimonio, la nascita del pargolo, la fine dell’avventura musicale. E l’inaspettato contatto con la realtà del centro per l’impiego, che per costruirgli una professionalità non trova di meglio che mandarlo in stage, come un pivellino.Il libro potrebbe essere un atto d'accusa, ma non lo è. Anzi, assomiglia più a un malinconico e amaro mea culpa: «Una delle caratteristiche dello stagista di quarant’anni è il senso di colpa. Perché in qualche modo dev’essere per colpa sua. Da qualche parte deve aver sbagliato, a un certo punto della propria vita, per essere costretto a elemosinare impieghi precari in un’età cui solitamente si associa la piena maturazione delle competenze e dell’efficacia lavorativa».Vien voglia di dargli una pacca bella forte sulla spalla e dirgli che può capitare a tutti di dover ricominciare daccapo, che anche lui può ancora andare «a caccia di futuro», e che se per trovare un impiego a un uomo adulto non c'è niente di meglio che un corso formativo con annesso stage gratuito forse qualche problemino ce l’ha non solo quell’uomo, ma anche il mercato del lavoro. Perché poi ovviamente nell'esperienza di Andrea Bove c'è un’altra fastidiosa problematica, la scarsissima disponibilità economica: «Può essere sorprendente scoprire quante cose non si possono fare, con il salvadanaio di uno stagista di quarant’anni». Specie se con quel salvadanaio non ci si devono comprare solo le sigarette e il biglietto del cinema, ma si deve mandare avanti una famiglia, pagando l'affitto e la rata dell'asilo.Grazie ai buoni uffici del centro per l'impiego, Bove fa due stage: il primo in un’associazione che sviluppa progetti editoriali e multimediali dove lo usano come tuttofare, correttore di bozze, runner su un set, addirittura autista. Il secondo, più breve, in un museo, «con incarichi più da bidello che da esperto d’arte». Sempre rigorosamente senza farsi illusioni sulle reali possibilità che lo stage possa essere il preludio di un’assunzione: «Nessuno stagista dovrebbe» consiglia, perché «nel novanta per cento dei casi non andrà così. Qualche possibilità in più per uno stagista è che gli venga proposto un contratto a progetto» –  iperbole non molto lontana dal vero, se si considera che il dato rilevato da Unioncamere Excelsior è di tredici assunzioni su cento al termine di uno stage – «Ma ancor più probabile è che dopo il periodo di stage ci si saluti per sempre e basta: è stato bello ma adesso non abbiamo la possibilità di assumerla. E sotto con un altro stagista al posto nostro».Resta da scoprire: ora Bove un lavoro l’avrà trovato?Eleonora VoltolinaPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- «Non è un paese per giovani», fotografia di una generazione (e appello all'audacia)- Giovani, lavoro e stipendi troppo bassi: quando al mutuo ci pensa papà (indebitandosi). Parola di Luigi Furini- Stage gratuiti o malpagati, ciascuno può fare la rivoluzione: con un semplice «no»- Stage in fabbrica raccontati in un libro al vetriolo: «Mi sento già molto inserito» di Mauro Orletti

Aiutati che il web t'aiuta: Dillinger, un sito per i giovani che hanno voglia di cambiamento

Il Dillinger "originale" nacque negli Stati Uniti all'inizio del secolo scorso. Si chiamava John e di mestiere faceva il rapinatore di banche, ma con stile: divenne famoso negli anni Venti perchè si opponeva con astuzia all'autorità, riuscendo a farla - quasi - sempre franca.Un altro Dillinger degno di menzione è un film del 1969, diretto da Marco Ferreri e interpretato da Michel Piccoli: la storia dura e quasi surreale di un quarantenne che per caso trova una pistola in salotto e  altrettanto per caso decide di usarla per ammazzare la moglie nel sonno.Il nuovo Dillinger invece - fortunatamente meno truculento - è un sito fatto da giovani per i giovani. «Siamo online dal 25 aprile» precisa Alessandra Magnaghi, coordinatrice e anima della redazione: «E oggi, a poco più di due mesi dal debutto, abbiamo quasi 8mila visite a settimana: un risultato lusinghiero, che ci spinge ad andare avanti con entusiasmo».L'ideatore di Dillinger è Michel Martone [foto], docente di Diritto del lavoro che di suo ha un curriculum ben poco ordinario: è diventato ordinario (con buona pace del gioco di parole) all'università di Teramo a soli 32 anni. Qui è opportuno ricordare che i docenti nelle università italiane sono oltre 62mila ma che gli ordinari sono meno di 19mila  – e di questi quelli sotto i 36 anni sono venti: e tra questi venti panda c'è appunto Martone (per la cronaca, gli ordinari ultrasettantenni sono quasi 1800).Il punto di partenza è stato il blog Itakapress, spazio online battezzato nel novembre del 2008 proprio da Martone con queste parole: «Un catalizzatore generazionale per dare voce a tutti quegli outsider che sono alla ricerca del cambiamento. Una lavagna da colorare con le parole, le musiche, le immagini e i video di una generazione che vuole costruire il futuro».Quindi Dillinger è un Itakapress elevato a potenza: ai contenuti ci pensa una squadra di giovanissimi, per la maggior parte studenti universitari, che si auto-presentano (spesso con tanto di foto) nello spazio "Autori" del sito. «Per cinque-sei di loro» continua Alessandra «questo sta diventando quasi un impegno a tempo pieno: ci mettono le idee, le energie, l'anima. Stiamo pensando a un modo per valorizzarli: per esempio registrando Dillinger come testata giornalistica online, e permettendo quindi che il loro lavoro si trasformi tra un paio d'anni in un tesserino da giornalista pubblicista».Le notizie sul sito sono suddivise in sei sezioni: Cultura («libri, cinema, arte e teatro, per scoprire e parlare delle novità e dei grandi classici»), Eco-logic («dai macrotemi ambientali all'ecologia domestica, per il futuro della nostra terra»), Economia («news e approfondimenti sullo scenario economico italiano e del mondo»), Politica («discussioni e confronto sulle faccende politiche di tutti i giorni: l'agorà di Dillinger») e infine Società («tendenze e testimonianze da una realtà in continua evoluzione - dai gossip alla satira»).Grande attenzione al multimediale, con molti video, tra cui anche uno spot: «Il nostro obiettivo è diventare una piattaforma di visibilità e coordinamento per tutti i ragazzi che non si accontentano di starsene con le mani in mano, e vogliono agire per migliorare e cambiare la società in cui viviamo» conclude Alessandra: «Daremo spazio e sostegno a tutte quelle iniziative di politica "concreta", alle associazioni di volontariato sul territorio, ai progetti sociali e politici che coinvolgano i giovani in prima persona. Crediamo che oggi più che mai sia importante dare ai giovani strumenti e spazi da cui farsi sentire, perchè il cambiamento deve partire da loro - da noi - senza aspettare che qualcun altro lo faccia al posto nostro».E poichè gli obiettivi di Dillinger sono decisamente simili a quelli di questo sito, ecco il primo passo della collaborazione: la Repubblica degli Stagisti inizierà a ospitare la videorubrica settimanale di Michel Martone «Freccette», ovvero: pillole per il cambiamento.Eleonora Voltolina

Da grande voglio fare l'avvocato - Pianeta praticanti: inchiesta della Repubblica degli Stagisti / prima puntata

Tempo fa la Repubblica degli Stagisti aveva acceso un faro sul pianeta praticanti, denunciando come - in modo analogo a quanto avviene per gli stagisti - sia una prassi comunemente accettata quella di lavorare senza una retribuzione o per cifre irrisorie. Oggi comincia un viaggio nel pianeta praticanti, per capire meglio chi sono, cosa fanno, come vivono. Prima fermata: i praticanti avvocati.   Quanti sono. Moltissimi. Secondo il Consiglio nazionale forense nel 2008 si sono presentati all’esame di  Stato 33.028 praticanti. Altri 6mila hanno fatto domanda ma non si sono presentati all’esame. Secondo la Cassa nazionale forense, il 52% dei praticanti iscritti alla Cassa è costituito da donne. Dai dati Almalaurea risulta che il 93% di chi ha una laurea a ciclo unico, e l’82% di chi ha conseguito la specialistica in Giurisprudenza, a un anno dalla laurea svolge il praticantato. Quanti diventano avvocati. L’esame di Stato viene passato, in media, da un terzo di chi si presenta. Nel 2006, a fronte di 41.400 presenti agli scritti, gli idonei sono stati 16.358. Nel 2007 la percentuale è scesa: su 40.000 presenti, gli idonei sono stati 9.905, circa uno su quattro. Non sono ancora noti i dati complessivi sul 2008. La severità crescente deriva dalla volontà degli organi dell’avvocatura di limitare gli accessi. I 200mila avvocati iscritti all’albo in Italia, infatti, sono una fetta consistente dei circa 850mila avvocati presenti in tutta Europa (dato Ccbe del 2005). In Francia il numero totale degli avvocati è di 50mila. Quanto costa sostenere l’esame. Per i giovani aspiranti avvocati i costi da affrontare in vista dell’esame sono di circa 50 euro (in pratica i bolli da accompagnare alla domanda stessa). Se si supera l’esame, ad altri tre bolli da 14,62 euro (per l’istanza e i certificati di compiuta pratica e superati esami) si aggiungono 168 euro per concessioni governative, 103 euro per tassa di iscrizione e 207 euro come contributo annuo all’Ordine (nell’esempio si tratta di quello di Milano).  Quanto guadagnano i praticanti. Non esiste una rilevazione ufficiale. In genere si tratta di un rimborso spese che cresce nel tempo. Nel Mezzogiorno una prassi diffusa consiste semplicemente nel non pagare i praticanti avvocati. In realtà come Milano, invece, un praticante guadagna all’inizio più o meno 500 euro al mese in uno studio tradizionale. Negli studi d’affari internazionali la retribuzione può salire fino a 1.500-2.000 euro al mese, a fronte di un impegno in termini di ore di lavoro molto elevato. La Cassa nazionale forense dà delle indicazioni interessanti sul reddito professionale ad inizio carriera, una volta che l’esame è stato superato: circa 10mila euro all’anno - meno di un quinto dei 51.313 euro del reddito professionale medio degli avvocati. Retribuzione minima? In Italia attualmente non esiste una retribuzione minima per i praticanti avvocati. Per quanto nel Codice deontologico forense sia previsto l'obbligo di corrispondere, «dopo un periodo iniziale, un compenso proporzionato all’apporto professionale ricevuto», l’indicazione non è vincolante. Una proposta di riforma dell’avvocatura approvata da tutte le organizzazioni della professione (e in particolare dal Cnf) e attualmente allo studio della commissione Giustizia del Senato prevede, tra l’altro, l’obbligo di retribuire i praticanti. Non si fissa, tuttavia, una soglia minima per il salario, perché, spiegano dal Cnf, «sono troppe le variabili da considerare, dal tipo di impegno al tipo di lavoro alla zona geografica dello studio».   Forme di salario minimo per i praticanti sono previste in Germania (circa 700 euro) e nel Regno Unito (almeno l’equivalente di 1.000 euro per i pupils aspiranti “barristers”).  Cosa fanno. Ci sono alcune attività tipiche. Come emergeva in un precedente post, il praticante in studio svolge delle ricerche propedeutiche al lavoro di altri avvocati e redige atti, memorie, comparse, citazioni. In tribunale, oltre ad assistere alle udienze, deposita atti presso la cancelleria, oppure  va all’ufficio notifiche per rilasciare atti da notificare. La procedura. La pratica dura almeno 24 mesi. All’inizio il praticante riceve un libretto, che ogni sei mesi dev'essere controllato da un “tutore” dell’Ordine e firmato dal “dominus”, cioè dall’avvocato presso cui si svolge la pratica. Sul libretto si devono segnare le udienze seguite (almeno 20 a semestre),  gli atti processuali e le attività stragiudiziali a cui il praticante partecipa; infine si devono trattare almeno dieci questioni giuridiche studiate durante il semestre. Alla fine di ogni anno si devono poi scrivere dieci relazioni sulle cause seguite e sulle questioni giuridiche osservate. Dopo il primo anno è possibile fare la domanda per ottenere l’abilitazione al patrocinio, che permette di seguire in proprio alcune cause minori, come quelle di competenza del giudice di pace. Per l'intera procedura si veda, per esempio, il vademecum dell'Ordine di Firenze. La scuola di specializzazione. Secondo l’attuale disciplina, dei due anni di pratica uno può essere sostituito dal conseguimento del diploma delle Scuole di specializzazione per le professioni legali. La riforma della professione allo studio al Senato prevede, oltre alla pratica negli studi, anche la “frequenza obbligatoria e con profitto”, per almeno 24 mesi, di corsi di formazione tenuti esclusivamente da Ordini e associazioni forensi. I corsi, particolare non  trascurabile, possono essere a pagamento. Fabrizio PattiPer saperne di più su questo argomento, vedi anche gli articoli- «Videointervista a Duchesne: il libro «Studio illegale» vola sulle ali del blog, e presto diventerà un film»- «Praticanti, ora la retribuzione è obbligatoria: ma è giusto non fissare un minimo - Intervista al presidente dei giovani avvocati»

Stage: che succede al rimborso spese in caso di assenza per malattia o interruzione anticipata?

Quando si parla di stage, l'aspetto del rimborso spese risveglia sempre un interesse particolare nei lettori. Alla Repubblica degli Stagisti arrivano spesso quesiti su questo argomento: «Se faccio uno stage che prevede un rimborso spese forfettario mensile, e alla metà di un certo mese decido per motivi personali o altro di interrompere anticipatamente lo stage, l'azienda sarà tenuta a darmi il rimborso spese? E se sì, di quanto? Di tutto il mese o solo delle due settimane effettivamente fatte?». Oppure: «Se sto a casa una settimana per malattia, il rimborso che l'impresa mi erogherà a fine mese sarà pieno, o decurtato del 25%?». O ancora: «Se mi ammalo non in mezzo allo stage, ma alla fine, che succede?».Per approfondire il tema la Repubblica degli Stagisti ha bussato ancora una volta alla porta di Maurizio Falcioni del Commercialista Telematico, testata online specializzata in notizie di carattere fiscale, societario e del lavoro.«Lo stage, o tirocinio che dir si voglia, non  è un contratto di lavoro dipendente - subordinato - ma è solamente assimilato fiscalmente a quest'ultimo» spiega Falcioni: «Quindi un'interruzione del rapporto prima dei termini pattuiti non obbliga e non determina diritti o doveri per ambo le parti. Se era stato concordato un rimborso spese forfettario e il rapporto si interrompe in anticipo rispetto alla scadenza pattuita, lo stagista non ha alcun diritto a percepire somme per il periodo non lavorato. E se l’interruzione avviene ad esempio a metà mese, avrà naturalmente diritto a percepire l’importo per il primi 15 giorni lavorati, ma non per il restante periodo». Rispetto all'assenza per motivi di salute vale lo stesso ragionamento: «Un eventuale periodo di malattia dello stagista non determina il diritto a percepire comunque il compenso. Naturalmente, invece, se la convenzione firmata tra l'azienda e l’ente promotore dello stage regola tali periodi di assenza, il datore di lavoro deve attenersi a quanto dettato dalla scrittura sottoscritta». Insomma: l'azienda non è tenuta a corrispondere per intero il rimborso spese se lo stagista sta a casa, a meno che non lo abbia messo per iscritto nella convenzione di stage. Ciò non toglie che possa farlo: «Nulla vieta al nostro datore di lavoro» conferma il commercialista «di corrispondere comunque l'indennità nei periodi non frequentati dallo stagista per cause derivanti da assenza per malattia o in caso di interruzione anticipata». Sta insomma al buon cuore dell'impresa decidere se decurtare l'importo del rimborso spese o no.E, andando ancora a monte, se un'azienda offre uno stage a X euro al mese e poi, quando lo stage comincia, cambia le carte in tavola dicendo «ci spiace, niente più rimborso spese», è nel pieno del suo diritto? Nella fattispecie, una segnalazione di questo tipo è arrivata alla Repubblica degli Stagisti da un ragazzo che frequentava un master: all'inizio dell'anno gli era stato detto che sarebbe stato mandato a fare lo stage di fine corso in un'azienda che gli avrebbe erogato un rimborso spese di 500 euro al mese; ma al momento di cominciare lo stage l'azienda ha ritrattato, dicendo che avrebbe erogato solo un buono pasto al giorno.«Il discorso è sempre quello: per attivare uno stage l'azienda firma una convenzione con un ente promotore - che può essere di volta in volta il liceo, l'università etc» chiarisce Falcioni: «Se le carte in tavola vengono cambiate, lo stagista ha diritto di fare riferimento all'ente sottoscrittore, che provvederà a verificare con il datore di lavoro le motivazioni che hanno portato a questo inadeguato comportamento». Ma molto spesso  l'ammontare e la stessa esistenza di un rimborso spese non vengono nemmeno specificati nella convenzione di stage: e in quei casi chiaramente il ragazzo non ha modo di avanzare pretese. Come si dice... verba volant, scripta manent!Eleonora VoltolinaPer saperne di più su questo argomento, vedi anche gli articoli: «Rimborso spese per lo stage: bisogna pagarci le tasse? Risponde un commercialista "telematico"»«Fisco e rimborso spese, ancora qualche chiarimento con il Commercialista telematico»