Categoria: Approfondimenti

Cambiano gli spazi di lavoro: l'ufficio diventa luogo di incontro

Già da anni si sentiva parlare di smartworking, la possibilità per gli impiegati di lavorare con più libertà sui tempi e modi di produzione. L’accelerazione in tal senso è arrivata proprio grazie alla pandemia di Coronavirus che, almeno per alcuni mesi, ha obbligato nel 2020 tutti a fare i conti con la necessità di portare avanti il lavoro da casa. Per questo motivo le aziende, grandi o piccole che fossero, hanno dovuto accettare il cambiamento della gestione e dell’uso degli spazi di lavoro.C’erano aziende, però, che già da tempo avevano iniziato questo percorso: come Bip, società di consulenza fondata nel 2003 in Italia, oggi presente in tredici Paesi nel mondo, e Banca PSA, che si occupa delle attività di finanziamento e di leasing sulle vetture Peugeot, Citroen, DS e ora anche del gruppo FCA. Entrambe fanno parte del network delle aziende virtuose della Repubblica degli Stagisti.Proprio nell’ottica della rivoluzione degli spazi lavoro, Bip ha inaugurato a fine 2021 una nuova sede in Piazza Liberty a Milano, a due passi dal Duomo, che ben rappresenta la trasformazione in atto con un lavoro più dinamico. Da tempo la società di consulenza dava flessibilità ai suoi lavoratori rispetto a dove lavorare, se da casa o in ufficio: una possibilità diventata ancora più centrale post pandemia, con il risultato che oggi tutte le persone della multinazionale possono attivare se vogliono lo smart working anche al 100 per cento. Se l’ufficio si svuota dei suoi dipendenti, questo non significa che smetta di avere una sua utilità: cambia però il suo ruolo, e talvolta è addirittura più vissuto di prima. Le persone arrivano in ufficio per incontrarsi – con i clienti o con il proprio team – non più per lavorare davanti al computer.Questo cambiamento in Bip Group non ha portato a cali di produzione. «La produttività delle nostre persone con lo smart working è aumentata, ma è necessario che le aziende guardino ad altri fattori: benessere, livello di interazione, soddisfazione delle persone» esordisce Rosario Sica, Ceo di OpenKnowledge: «In questo momento dovremmo prendere più in considerazione il lavoro in presenza e accogliere la modalità ibrida, valutando il modo migliore per mantenere viva l’appartenenza e il legame con l’organizzazione mediante incontro e collaborazione».L’ufficio quindi resta come entità, come riferimento dell’attività lavorativa: «Come luogo di incontro. Proprio a seguito del Covid abbiamo scoperto che ci sono un sacco di altri luoghi in cui possiamo svolgere i nostri compiti» spiega alla Repubblica degli Stagisti Chiara Tagliaro, assegnista di ricerca presso il Real Estate Center del Politecnico di Milano da tempo interessata ai temi della gestione e uso degli spazi di lavoro, e autrice di Progetto Ufficio. Strategia e processi per l’evoluzione degli spazi aziendali, pubblicato dalla casa editrice Franco Angeli: «Mentre per le attività di gruppo o per sviluppare la creatività, l’innovazione, questo si può fare solo quando si è insieme fisicamente. E le possibilità di interscambio sono molteplici, non solo quelle legate alla riunione formalizzata»Anche Banca PSA ha sperimentato e sta sperimentando una modifica della funzione dell’ufficio. A breve, entro marzo 2023, cambierà la sede: «Siamo in una fase di riorganizzazione aziendale all’interno del gruppo Stellantis e quindi stiamo concentrando la sede legale della nostra azienda di Mirafiori, a Torino» spiega Stefano Mattuglia, Hr Director di Banca PSA. La sede, però, non è l’ufficio quotidiano perché i dipendenti hanno cominciato da tempo a poter lavorare in smart working: «La presenza in ufficio va da due a otto giorni al mese: quindi sostanzialmente siamo un’azienda con 500 e più sedi di lavoro, perché ogni casa diventa un ufficio. Il progetto di smart working per noi non è nuovo, è cominciato a inizio 2019, però il  Covid ci ha fatto accelerare su alcuni progetti: la funzione Hr per esempio ora è totalmente digitale, dal recruiting alla parte training, dalle relazioni sindacali alle riunioni».Questo significa che l’ufficio sta cambiando proprio la sua funzione: «Rispetto al passato quello che resterà è proprio il fatto che l’edificio, in quanto luogo di lavoro, è un pezzo delle nostre città» conferma Chiara Tagliaro: «Verrà integrato come nell’antichità, all’interno di un tessuto urbano: l’edificio degli Uffizi a Firenze è forse stato il primo ufficio amministrativo della città nel 1500. Era molto integrato al tessuto urbano e questo succederà anche in futuro».Evoluzione dell’ambiente di lavoro che la Liberty Tower di Bip rispecchia in pieno. «L’idea di Liberty nasce nel 2019 con l’obiettivo di creare uno spazio nuovo, “situation based” che potesse rispondere alle necessità “situazionali” rispetto ai vari profili professionali» racconta Rosario Sica di Bip: «Ad esempio con aree creative, aree di lavoro condivise, postazioni singole, zone di workshop o di formazione, divani, coffee break, intelligenza artificiale: tutto distribuito in 3mila metri quadrati». A un anno dall’inaugurazione, e con la pandemia alle spalle, ora è necessario guardare alle nuove esigenze e adattare gli uffici a una nuova mentalità: «Vorremmo continuare ad ascoltare gli utenti, migliorare e creare nuove sale riunioni e spazi di collaborazione, ampliare spazi informali e tornare ad incontrarci sempre di più». Nel frattempo il nuovo ufficio è addirittura più vissuto dai dipendenti, con maggiore attività creativa e innovativa. All’ottavo piano è presente anche un’area per lavorare nella realtà virtuale, con spazi che possono essere sviluppati con tecnologie all’avanguardia come quelle legate al metaverso e poi applicate nei vari settori lavorativi. Ambienti estremamente mobili, possibilità di modificare lo spazio con le scrivanie, aree più creative e innovative. Un luogo sempre attivo e abitato, in questo senso completamente diverso da un ufficio vecchio stile.Simile il cambiamento anche per PSA. «Con l’avvento della nuova strategia abbiamo cominciato a concepire le aree di coworking: la funzione sociale è diventato il principale motivo per cui costruire la nostra sede» riflette Stefano Mattuglia: «Abbiamo cominciato a introdurre nuovi concetti come le zone cooperative con le poltrone e i sofà dove le persone  possono incontrarsi per fare le riunioni, a concepire le famose agorà, i posti teatro per le riunioni all’aperto. Ma abbiamo cercato di dare uno sfogo anche a chi cerca concentrazione: ci sono le aree mindful dove le persone possono fare analisi dati in maniera concentrata, con arredi tipici». E le trasformazioni non si fermano qui: «L’area caffè diventa area di coworking, e si trasforma anche l’ufficio: niente più carta su pareti ma vidiwall. Poi c’è lo studio dell’acustica, del verde, e tutta la parte relativa alla salute e al benessere attraverso illuminazione, materiali e colori. Tutto questo incide sulla produttività dei nostri dipendenti: il workplace disegnato in maniera funzionale e piacevole ha un contributo positivo al senso di appartenenza, allo star bene, alla voglia anche di andare in sede. L’ufficio diventa un luogo di incontro, di network, di parte cooperativa dei team che si trovano ogni tot giorni a lavorare insieme in un ambiente di lavoro comune. La presenza fisica serve per trovarsi, bere un caffè, allinearsi e motivarsi, ma va bene farla massimo otto giorni al mese».In alcuni casi gli uffici oggi inoltre, come chiarisce Chiara Tagliaro, non sono più uno spazio per produrre il lavoro, ma addirittura diventano «uno spazio per promuovere la produttività di una città. Un ufficio che diventa luogo per eventi, spazio per ospitare persone, spazio di educazione». Un luogo dedicato al benessere delle persone. «Abbiamo sempre portato avanti attività per il benessere dei nostri dipendenti. Il cambiamento principale è dato dalla modalità. Prima le attività di questo tipo erano quasi esclusivamente fisiche, oggi molto più ibrida: fisica e digitale» conferma Fausto Fusco, Chief People&Culture Officer di Bip, che aggiunge un altro cambiamento: «Il passaggio da worklife balance inteso come “benefit” per il professionista a un worklife balance inteso come responsabilità, verso i clienti, il team e l’azienda, a fronte della disponibilità di tempo e spazio». Proprio per questo la società di consulenza ha attivato delle partnership per accedere a servizi di supporto psicologico, una piattaforma per seguire attività sportive, vari servizi dedicati alla genitorialità. E poi ha dotato i propri dipendenti di tutte le strumentazioni proprio per lavorare anche da casa in maniera adeguata. Con effetti sulla produttività positivi, visto che ognuno può organizzare il tempo di lavoro in modo migliore. Se dal lato organizzativo lo smart working aiuta, quello che manca è la possibilità di avere nuove relazioni e idee: per questo l’ufficio aperto condiviso come luogo di incontro facilita questo momento.L'ufficio quindi d'ora in poi andrà inteso come luogo in divenire, spazio di condivisione, innovazione, incontro e idee. «Se dopo aver fatto un viaggio per arrivare in sede facessi le stesse cose che potrei fare a casa sarebbe frustrante, per questo l’azienda deve pensare che in quella giornata ci siano dei contenuti differenti» aggiunge Mattuglia di Banca PSA:  «Quel che rende ingaggiante l’ufficio è riuscire a fare lì qualcosa che non riesco a fare a casa mia». Come per esempio «vedere più colleghi, avere una percezione dell’azienda, avere informazioni che a casa non ho». Tutti aspetti in linea con quello che dicono molte ricerche sul tema degli spazi di lavoro e comfort della situazione lavorativa come uno dei tre fattori chiave nella decisione di accettare o meno un lavoro. «E lo sarà sempre di più in futuro!» conclude Chiara Tagliaro. Perciò conviene già oggi creare spazi sostenibili, aperti, dove si crea, ci si incontra e si condivide, come hanno fatto Bip e Banca PSA. Spazi che possano essere i luoghi ideali del mondo del lavoro del prossimo futuro.Marianna Lepore

Tirocini ben pagati, ecco come si investe davvero sui giovani

“Offresi tirocinio per fare esperienza. Non è previsto rimborso spese”: era la prassi – percepita perfino come normale – fino a una decina di anni fa, quando non esisteva alcun obbligo in materia di indennità per i tirocinanti, e le aziende che decidevano di dare un rimborso spese ai propri stagisti erano una rarità.Tutto ha cominciato a cambiare, a livello di diritti, nel 2012, con l'approvazione da parte della Regione Toscana della primissima normativa che introduceva l’obbligo di indennità per i tirocinanti extracurricolari. L'anno dopo la Conferenza Stato Regioni ha emanato le prime Linee guida in materia di tirocini extracurricolari, includendo anche l'indennità. In base a queste nuove regole tutte le Regioni hanno promulgato, tra il 2013 e il 2014, le proprie normative. Oggi offrire un tirocinio extracurricolare senza compenso è illegale. E le indennità minime, fissate da ciascuna Regione nelle proprie normative, variano dai 300 euro della Sicilia agli 800 del Lazio.A chi credeva che obbligare a pagare un tirocinante sarebbe stato un deterrente per le aziende, i dati mostrano il contrario. I numeri ufficiali del ministero del Lavoro mostrano come si sia passati dai 185mila stage extracurricolari attivati nel 2012 ai quasi 330mila del 2021. Certo, le battaglie in questo settore non sono terminate, visto che a tutt’oggi non c’è nessuna legge che obblighi le aziende ad offrire un rimborso spese per quanto riguarda, invece, i tirocini curricolari, quelli all’interno dei percorsi di studio. La normativa dei curricolari risale a un vecchio decreto, il 142 del 1998, che non solo ormai ha appunto un quarto di secolo, ma ha anche una validità “monca” visto che all’epoca regolava tutti i tirocini – anche gli extracurricolari, che poi dal 2013 sono invece rientrati sotto le normative regionali. Per questo nel corso dell’ultima legislatura era cominciato il dibattito alla Camera sulla proposta di legge Ungaro che normava i tirocini curricolari e introduceva un obbligo di rimborso spese.Ci sono però anche aziende che, invece, hanno deciso di intraprendere da anni un’altra strada e pagare non solo i tirocinanti extracurricolari ma anche quelli curricolari, con indennità di tutto rispetto. E quando la Repubblica degli Stagisti ha avviato la sua attività, nel 2009, ha esplicitato nella sua Carta dei diritti degli Stagisti proprio la battaglia contro gli stage gratuiti, e deciso di ospitare sulle sue pagine solo aziende che si impegnassero a pagare i loro stagisti (e all'epoca non era obbligatorio nemmeno per gli extracurricolari!).Dunque nessuna azienda presente su RdS offre stage gratuiti, in nessun caso: tutte prevedono una indennità di almeno 500 euro al mese (o più alta, in caso la Regione dove hanno sede preveda un minimo più alto) per gli stagisti extracurricolari, e almeno 250 per gli stagisti curricolari. E non finisce qui: da qualche anno RdS ha anche istituito un premio a quelle aziende che svettano per l'ammontare dell'indennità offerta: la multinazionale dolciaria Ferrero e Cefriel, spin-off del Politecnico di Milano attivo del campo dell'Information Technology, lo hanno vinto pochi mesi fa per il fatto di offrire super-rimborsi agli stagisti: in particolare Ferrero offre a tutti – indipendentemente dalla tipologia di stage – mille euro al mese. Cefriel, invece, tra gli 800 e i 1.100 euro al mese.  Durante il suo evento annuale “Best Stage” la Repubblica degli Stagisti assegna infatti i suoi “AwaRdS” alle aziende più virtuose, e una delle categorie è proprio “miglior rimborso spese”.«È un riconoscimento al valore che i giovani portano in azienda» spiega Roberta Letorio, responsabile Human Capital di Cefriel: «I ragazzi sono inseriti su attività progettuali e contribuiscono portando una competenza: è giusto riconoscerla. In più è importante aiutare e supportare i giovani a creare una propria autonomia dalle famiglie. Negli altri Paesi europei l’età con cui si inizia a essere indipendenti dal punto di vista economico è più bassa rispetto al nostro contesto. Quindi è bello che la persona inizi a ragionare in un’ottica di autonomia e indipendenza anche economica. Ricordiamoci che sono dei ragazzi che stanno affrontando delle spese ed è importante che non gravino sulle famiglie».«Da sempre Ferrero adotta una politica che mette le persone al centro», dice Deborah Zago, Italy Business HRBP Ferrero: «Gli stage rappresentano un’occasione di incontro, collaborazione ed arricchimento biunivoco: tanto la nostra azienda investe sui giovani, tanto loro investono tempo ed energie in Ferrero. L’indennità è commisurata all’importanza che attribuiamo all’investire nella crescita, nella formazione e nel futuro professionale, anche dei più giovani». Un investimento che la multinazionale piemontese fa ormai da tempo per tutti i tipi di stage: «Riteniamo sia importante riconoscere un’indennità a tutti, indipendentemente che siano tirocini curriculari o extracurriculari. Per questo abbiamo uniformato gli importi, pari a mille euro netti al mese, oltre al rimborso spese per il primo mese di residence, alla mensa gratuita e altre facilitazioni». La scelta è quella di facilitare l’inizio dello stage concedendo ai giovani la tranquillità e il tempo per trovare una sistemazione adeguata. Elementi che possono essere considerati come una leva che agisce sull’attrattività, anche se, puntualizza Zago, «crediamo che la leva motivazionale che dovrebbe portare a scegliere uno stage in Ferrero sia da ricercare nella profondità delle attività, nel coinvolgimento aziendale e nell’opportunità individuale garantita dall’esperienza nella nostra azienda».«Se organizzati in maniera consapevole e programmata i tirocini possono davvero, così come l’alto apprendistato e l’alternanza scuola lavoro, dare una possibilità ai giovani di anticipare un’immagine rispetto al proprio futuro» aggiunge Roberta Letorio: «Spesso i giovani che incontriamo non sono ancora sicuri rispetto a quello che sarà il loro futuro lavorativo e allora confrontarsi con una realtà aziendale in cui ci sono tanti percorsi diversi può aiutare anche nell’orientamento». La manager sottolinea come sia importante per l’azienda stessa prevedere un sostegno economico anche per gli stagisti curricolari, «perché crea un impegno da parte dei giovani. È uno scambio per cui tu fai una prestazione e io ti riconosco una formazione all’interno del tuo percorso di studi» a cui si somma, appunto, il rimborso spese.L’obiettivo è sempre quello di un prosieguo della collaborazione e logicamente il fatto che un giovane si laurei dopo lo stage curricolare all’interno dell’azienda porta valore aggiunto. C’è poi un altro motivo per cui alcune aziende decidono di sostenere i propri tirocinanti curricolari, proprio come investimento sul loro futuro: il costo eccessivo degli affitti in città come Milano, per esempio, dove altrimenti solo un giovane con genitori abbienti potrebbe accettare di svolgere un tirocinio da fuorisede senza rimborso. Pagare i tirocinanti, che siano curricolari o extracurriculari, è un elemento decisivo per i giovani che si affacciano al mondo del lavoro, soprattutto in tempi di crisi come quelli attuali dove per le famiglie diventa sempre più difficile mantenere un figlio fuorisede.Questo atteggiamento verso la giusta remunerazione per la prestazione svolta può incidere nella costruzione di un mercato del lavoro più sano. «L’esperienza di stage è in primis un’opportunità formativa, e bisogna tener conto della sua sostenibilità economica» conclude Deborah Zago: «Il rimborso deve essere commisurato alle attività e agli impegni: è un passaggio propedeutico alla costruzione della propria carriera professionale, quindi un’esperienza ibrida di formazione che allo stesso tempo deve contribuire a costruire il mindset dello stagista nei confronti del mondo del lavoro. Impegnarsi per favorire opportunità professionali per i giovani è una responsabilità condivisa in cui Ferrero vuole dare il proprio contributo».Un ingresso nel mondo del lavoro con il giusto riconoscimento per i compiti svolti è, dunque, possibile ed è anche l’inizio di un cammino virtuoso in cui non si sarà tentati dall’accettare in seguito stipendi da fame.Marianna LeporeL'immagine di apertura è tratta dall'account 14995841 su Pixabay in modalità CreativeCommons

Gli stipendi troppo bassi dei giovani e la polpetta avvelenata dell'aiuto dalla famiglia

I lavori sottopagati – così come gli stage sottopagati, o addirittura gratuiti – sono ingiusti. Specialmente quando si tratta di mestieri prestigiosi, ambiti, e dunque i datori di lavoro giocano sulla “attrattività” di quei settori, di quelle professioni, per poter avere persone entusiaste e capaci senza pagarle il giusto.Nel caso degli stage la situazione è ancor più complicata perché c’è sempre di mezzo il discorso-trappola della formazione come “vantaggio principale” messo a disposizione dello stagista – uno scivolo per chi vuole comportarsi in maniera truffaldina e ottenere manodopera o cervellodopera a costo basso o nullo. “Eh ma ti sto insegnando!” è la scusa classica che si sentono indirizzare gli stagisti quando il tirocinio proposto prevede come indennità una somma irrisoria... o addirittura niente.La questione della dignità del lavoro, del diritto ad essere pagati per la propria prestazione (anche quando si è in formazione), è centrale anche perché, come è facile intuire, se ci sono mestieri prestigiosi ma cronicamente sottopagati o gratuiti, questi mestieri saranno aperti e contendibili solo da chi ha risorse proprie, e insomma, non ha – troppo – bisogno di guadagnare per vivere. Ciò di solito coincide con chi ha una famiglia abbiente alle spalle, disponibile a integrare i magri guadagni o, nel caso degli stage gratuiti, ad assumersi in toto il mantenimento dei figli per il tempo di svolgimento del periodo di formazione/lavoro senza compenso.Dunque una prima, grande ingiustizia, la più grande, è che se non si riesce a imporre che l’attività lavorativa – in qualsiasi forma che non sia volontariato – debba essere pagata equamente, avremo sempre nicchie più o meno grandi di lavoro (solitamente glamour) presidiate dai cosiddetti “figli di papà”.Eppure c’è un’altra ingiustizia. Più piccola, meno visibile, meno facile da riconoscere. Ma non per questo meno vera. E molto, molto diffusa. A potersi permettere questi periodi – anche lunghi – di scarso guadagno non sono necessariamente, in realtà, solo i “figli di papà”. Ci sono anche tantissimi giovani della classe media, e perfino medio-bassa, che ricevono un aiuto sistematico dalle proprie famiglie – anche se queste famiglie non nuotano nell’oro.Che sia il contributo per l’affitto o la messa a disposizione di una casa per vivere, regali importanti come la macchina o le vacanze, oppure semplicemente l’abitudine di riempire il frigo o pagare le multe, o l’attività di babysitting per gli eventuali (pochi) figli, mille sono gli aiuti che i giovani, specialmente in Italia, ricevono dalle loro famiglie d’origine. Le famiglie lo fanno, il più delle volte, in maniera generosa, altruista, amorevole – per permettere a questi figli di rincorrere i loro sogni professionali, di poter realizzare i loro obiettivi senza l’ansia di non riuscire ad arrivare alla fine del mese.Ma chi riceve aiuti dalla sua famiglia anche quando ha superato i venticinque, i trent’anni, è davvero fortunato?C’è un aspetto che troppo spesso viene tralasciato quando si ragiona di questi argomenti, e che si può efficacemente rappresentare con la frase “Pago, pretendo!” di un famoso personaggio dei “cinepanettoni” degli anni Ottanta, il “commendator Zampetti”.Pago, pretendo. I soldi sono un laccio, un guinzaglio. E nel caso dei giovani, un formidabile strumento di controllo in mano ai genitori su figli ormai grandi e vaccinati.Una «anticamera di una ‘libertà vigilata’ sociale ed economica» per i giovani adulti: così la descrive Giuseppe Annibale Micheli, che ha dedicato decenni allo studio delle dinamiche demografiche, intergenerazionali, e dei rapporti all’interno delle famiglie, scrivendo libri appassionanti e illuminanti sul tema. In Sempregiovani & Maivecchi, pubblicato da FrancoAngeli nel 2009, Micheli parte per esempio chiarendo come le cinque «tessere del mosaico» della transizione all’età adulta – «la fine degli studi, l’acquisizione di un lavoro stabile, l’uscita di casa, la formazione di un’unione stabile, la nascita di un figlio» – siano ormai scombussolate. E spesso non per scelta dei diretti interessati bensì per caso, per sorte avversa, perché molti meccanismi sociali ed economici sembrano essersi inceppati e impediscono ai giovani di andare avanti. I ventenni-trentenni trovano lavoro più tardi, vengono inquadrati con contratti precari (che spesso anziché «entry ports» si rivelano «job traps»), ricevono retribuzioni troppo basse per potersi permettere da soli una casa. Una vita.E allora intervengono le famiglie. Aiutano. Ma questo aiuto non è gratuito. C’è uno scotto da pagare: accettare che il proprio distacco da casa venga «pilotato». Non poter tagliare il «cordone ombelicale con la famiglia di origine» – anzi, essere chiamati a mantenerlo «robusto». Restare vicini, fisicamente o anche solo mentalmente, alla casa paterna. Restare dipendenti. Una casa diversa viene messa a disposizione, certo, e questo è un «vantaggio materiale» per i figli squattrinati. Ma sono i genitori a – contribuire a – sceglierla. Sono i genitori a suggerire dove, come, quando comprarla o affittarla. E magari si tengono pure le chiavi, in concreto o in astratto, e con esse «il diritto di entrare nello spazio privato dei figli».Uno spazio privato che include ogni scelta di vita: cosa studiare, che stile di vita adottare, con quali amici e partner, che mestiere fare, dove e come passare il proprio tempo, come spendere i propri soldi. Se e quando fare figli, con chi farne, come educarli. «I genitori italiani sono tradizionalmente disposti ad aiutare generosamente i figli che si conformano alle loro aspettative» scrive Micheli «ma la loro disponibilità cala in modo rilevante se i figli operano scelte non condivise». E quindi, inevitabilmente, «l’importanza strategica del sostegno economico dei genitori rende» (per i figli adulti “aiutati”) «particolarmente rischioso mettere in atto scelte che disattendano le loro aspettative». Costringendoli a sacrificare un pezzo – piccolo, grande, a volte addirittura enorme – della loro libertà.Per questi figli che si avvicinano ai trent’anni e che a volte anche li superano eppure ancora guadagnano drammaticamente troppo poco – a volte nemmeno mille euro al mese – i genitori sono un’assicurazione sulla vita (e sulle comodità). Permettono loro di farsi strada nel mondo anche senza doversi “guadagnare da vivere” in senso stretto. Ma così facendo si auto-condannano al ruolo perenne di subordinati, di “sempre(troppo)giovani”, e mettono nelle mani di mamma e papà uno strumento di pressione formidabile: «Finiti i tempi dei padri padroni, l’arma più convincente» è proprio «la minaccia di ritirare il proprio supporto economico per l’acquisto della casa, e il supporto in manodopera per l’accudimento dei nipotini». Nel suo libro più recente, Preferirei di no, uscito nel 2021 per Mimesis edizioni e focalizzato più specificamente sul crollo delle nascite, Micheli dice anche che il «definitivo arresto dell’ascensore sociale» (definitivo… ma non per sempre, si spera) sta portando «al graduale prosciugarsi dei salvadanai familiari» che però sono «per la verità ancora oggi sorprendentemente inesausti». Dunque le famiglie italiane hanno ancora dei “tesoretti” da distribuire ai figli per rimediare alla situazione economica e di welfare disastrata. Ma il dono, ricorda Micheli di nuovo in Sempregiovani & Maivecchi, qualunque esso sia, implica un obbligo implicito a contraccambiare, che «scatta come una tagliola», «intrappolando il figlio inconsapevole». Quel figlio si renderà conto magari solo molto più avanti – quando per esempio la prospettiva di accettare una proposta di lavoro in un luogo lontano, o la scelta di fare un bambino al di fuori del matrimonio, o di separarsi dal partner di lunga data e avviare una nuova relazione, troveranno la disapprovazione e la pressione negativa da parte dei genitori “che ti hanno sempre tanto aiutato, non vorrai mica essere un figlio ingrato?” – di quanto questa tagliola possa far male. Un “Pago, pretendo” implicito, nella maggior parte addirittura inconsapevole, o comunque strenuamente negato.Gli aiuti economici dei genitori sono spesso salvifici per i giovani italiani, è innegabile. Ma non sono indolori. E costringono il più delle volte a una vita “a responsabilità limitata”.

Perché si va via dall'Italia, perché non si torna: l'affresco dei giovani all'estero della creatrice di Spaghettipolitics

Uscire. Andare. Mettersi alle spalle l’Italia per qualche mese, qualche anno. Imparare. Lasciarsi sorprendere. Aprire la mente. Questo è il messaggio più forte contenuto nel libro Il futuro non può aspettare di Michela Grasso, una 23enne appassionata di scienze politiche che – con un profilo Instagram chiamato Spaghettipolitics con 240mila followers e oltre trecento contenuti all’attivo – è riuscita a sdoganare il tema complesso della politica italiana con un punto di vista dall’estero, sopratutto per il pubblico straniero dei più giovani.Il sottotitolo del libro che ha scritto, uscito a fine 2021 per De Agostini, è «Perché la mia generazione è costretta a partire», e quel verbo passivo, “costretta”, è interessante perché contemporaneamente rappresenta e non rappresenta quello che Michela Grasso vuole comunicare. Da una parte è vero che lei, da ventenne italiana con già tanta esperienza all’estero – a cominciare dal quarto anno di scuola superiore passato in Oregon, negli Stati Uniti, passando per l’università in Olanda e arrivando poi alla scelta di fare un anno di volontariato in Francia con il corpo europeo di solidarietà – non risparmia critiche anche dure all’Italia: «Andare via, molto spesso, è più semplice che tornare, soprattutto quando la tua nazione non fa nulla per garantirti un futuro adeguato». E poi più avanti: «La fuga dei cervelli è anche questa: ragazzi e ragazze che se ne vanno perché non si sentono benvenuti in Italia, portando le loro competenze all’estero».Eppure Grasso è ben consapevole che sia meglio partire non perché ci si sente “costretti”, ma per una libera scelta, un desiderio genuino di scoperta. Vivere in Paesi diversi dal proprio serve soprattutto in un’ottica di crescita personale, piuttosto che di fuga o di sfogo della rabbia: «Riuscire a viaggiare conoscere altri Paesi europei aiuta formare un’identità europea, e non solo» scrive infatti: «Facilita anche la crescita di aspirazioni e capacità molto preziose per la vita dell’Unione Europea. Viaggiare libera dai pregiudizi e dona nuove prospettive, che aiuteranno nella formazione professionale, creando cui cittadini più consapevoli, attenti e uniti».Ma ci sono anche molti che partono per scelta e poi non tornano perché si sentono in qualche modo “costretti” a restare lontani: perché l'Italia non offre abbastanza. A volte nemmeno il minimo indispensabile. «Quello che mi manca, in Italia, è la possibilità di sognare, e di crescere» scrive infatti Grasso nelle prime pagine: «Il lavoro è poco e retribuito male, c'è persino carenza di stage non pagati e i giovani sono l'ultima ruota del carro». Se questa situazione non cambia, i giovani continueranno ad andarsene e a tenersi ben lontani dall'Italia, rientrando solo per le vacanze e le feste comandate, ripensando magari con nostalgia alla loro infanzia e giovinezza in Italia ma costruendo sempre più saldamente la propria vita adulta altrove: «Questo libro vuol essere una richiesta di aiuto, da parte mia e di tante centinaia di migliaia di giovani italiani, per poter scegliere un giorno di tornare a casa ed essere sicuri di poter condurre la vita che meritiamo. Una vita dove essere trattati, pagati e considerati per quello che siamo, per quello che valiamo». Nel volume, una raccolta di testimonianze di giovani – perlopiù di coetanei dell’autrice, classe 1999, quindi ragazzi a cavallo tra l'adolescenza e l'età adulta, impegnati in studi universitari o appena entrati nel mondo del lavoro – si trovano esperienze di emigrazione positive e negative, expat che rimpiangono l’Italia ed expat che non ci tornerebbero mai. Un affresco pieno di diversità che vuole rappresentare anche le persone solitamente meno raccontate, le cosiddette minoranze – chi ha un colore di pelle diverso dal bianco, un orientamento sessuale diverso dall’eterosessualità, un corpo con una disabilità. Alcuni degli intervistati sono a loro volta, proprio come Grasso, persone attive online e sui social network, che portano avanti progetti multimediali con l’obiettivo di raccontare un pezzo di mondo dal loro punto di vista.Del resto il numero di persone con cittadinanza italiana all’estero è impressionante: in aggiunta ai 60 milioni di italiani in Italia, ce ne sono oltre cinque milioni e mezzo – di cui più di due e mezzo tra i 18 e i 49 anni – iscritti all’Aire, l’anagrafe dei residenti all’estero. Molti di questi – oltre 2,2 milioni – hanno il passaporto italiano grazie a qualche padre, nonna, bisnonno, in virtù dello ius sanguinis. Ma c’è anche l’emigrazione nuova, “ripartita” più o meno vent’anni fa e in costante aumento: quella raccontata appunto da Michela Grasso. Nel solo 2020, per esempio, secondo i dati pazientemente e preziosamente raccolti ogni anno nel Rapporto Italiani nel Mondo, quasi 110mila italiani hanno spostato la propria residenza in un altro Paese: una mobilità soprattutto giovane, dato che quasi il 43% dei neo expat del 2020 aveva tra i 18 e i 34 anni. E tra questi ci sono alcuni dei protagonisti delle 240 pagine del libro. Che sono partiti per le ragioni più svariate: «C’è chi fugge, lottando per la propria sopravvivenza. C’è chi lascia tutto per amore, che sia per un partner o per un figlio. E c’è chi migra con la consapevolezza che ci sia ben poco per cui valga la pena di restare. Le ragioni per andarsene sono innumerevoli e ognuno le vive in maniera diversa».Dice per esempio Michela Grasso in un passaggio: «Se noi giovani ce ne andiamo è anche per riprenderci parte della libertà che in Italia sentiamo di non avere, in un paese governato da uomini che sono tutti uguali identici – bianchi, cisgender, eterosessuali, di un’età almeno superiore a quarant’anni (ma meglio sessanta) – e non hanno il coraggio di lasciare spazio alle nuove generazioni».Il libro è pieno di dritte, di “tips” per tutti coloro che accarezzano l'idea di partire per studiare o lavorare all'estero, ma non hanno ancora fatto il grande passo. E poi è divertente. La giovane autrice racconta per esempio del mitico “pacco da giù”, la riserva di viveri che diventa «pezzo di cuore che gli italiani di ogni età si fanno mandare dai genitori o dai nonni, il modo di nascosto in cui un padre e una madre possono dire “ti voglio bene“ senza esporre troppo le proprie vulnerabilità». Ma a volte ci sono pagine che affrontano temi anche molto spinosi, come le case da incubo in cui ci si ritrova a vivere quando ci si trasferisce in città sconosciute, lo spaesamento nel non parlare perfettamente la lingua e non cogliere i riferimenti politici e culturali delle conversazioni con i nativi, o le brutte esperienze in cui alcuni expat si trovano invischiati quando cercano lavoro e finiscono per essere sotto inquadrati, sottopagati, a volte addirittura sfruttati. Perché andare all’estero non è sempre certo una passeggiata, e non è detto che si trovi subito una buona sistemazione!Le due categorie in cui l’autrice suddivide chi sceglie di andarsene sono quella di chi «odia il paese dove vive e ama l’Italia, ha difficoltà a interagire con gli stranieri e preferisce il comfort degli italiani» e poi quella di chi «odia l’Italia e ama l’estero, non fa che parlare di quanto l’Italia sia terribile e sottolineare le meraviglie straniere». Ovviamente è la via di mezzo la situazione più consueta: «io per esempio vado a momenti» scherza lei.Michela Grasso è ben consapevole che «viaggiare e vivere all’estero sono dei privilegi che derivano direttamente dalla famiglia in cui si cresce, che può darti non solo il sostegno economico ma anche gli strumenti necessari e l’educazione necessari per approcciarsi al mondo con mente aperta e occhi diversi». Non è quindi solo una questione economica: chi è capace ad adattarsi può anche viaggiare con budget ridotti, e poi c’è sempre l’opzione di lavorare prima di partire o mentre si è in viaggio. E’ sopratutto una questione culturale. Ed ecco che torna il messaggio principale dell’autrice ai suoi coetanei, e a tutti quelli più giovani di lei: fare la valigia e partire, per dare una scossa di terremoto alle proprie certezze e alla propria comfort zone, e imparare in posti lontani da casa propria. Per poi magari, chissà, un giorno tornare e costruire un’Italia finalmente più a misura di giovani.

Il congedo di paternità non è più sperimentale: anche in Italia diventa strutturale

Dieci anni fa – era il 2012 – veniva introdotto in Italia con la legge Fornero il primo congedo di paternità obbligatorio e retribuito, vale a dire la possibilità per i padri di astenersi dal lavoro per un – brevissimo – periodo conservando il diritto allo stipendio in concomitanza con l'arrivo di un figlio. Un solo giorno, cresciuto poi negli anni fino a arrivare, con la legge di Bilancio del 2020, a dieci giorni. Quest'anno, con la nuova Finanziaria, è stato fatto un passo più: il congedo è finalmente diventato strutturale, vale a dire che è entrato «a far parte del nostro ordinamento in modo permanente» spiega alla Repubblica degli Stagisti Simone Cagliano, consulente del Lavoro della Fondazione studi consulenti del lavoro [nella foto a destra]. Il risultato è che «i congedi non sono più sperimentali», e d'ora in poi «i padri lavoratori dipendenti potranno fruirne in caso di nascita, adozione, affidamento o collocamento temporaneo di minori» senza timore che l'ennesima legge del caso intervenga con qualche modifica. C'è poi un'importante novità: un decreto legislativo appena entrato in vigore – lo scorso 13 agosto – ha finalmente allargato la platea dei beneficiari del congedo di paternità anche ai dipendenti statali, finora incredibilmente esclusi dal diritto –che era riservato ai soli lavoratori del comparto privato. Spetteranno dunque d'ora in poi a tutti i neopapà lavoratori dipendenti «dieci giorni di assenza dal lavoro, che possono essere goduti anche in via non continuativa» precisa Cagliano, «e per i quali viene corrisposta un'indennità giornaliera a carico dell'Inps pari al cento per cento della retribuzione». Il decreto introduce un nuovo trattamento anche per i congedi parentali, sia per gli autonomi che per i dipendenti. Per gli autonomi non era mai stato istituito un congedo parentale, e sulle modalità di fruizione occorrerà attendere la relativa regolamentazione. Per ora si sa ciò che ha precisato l'Inps con il messaggio 2066 del 4 agosto 2022 spiegando i contenuti del decreto, e cioè che i neo-genitori «avranno diritto a tre mesi di congedo parentale per ciascuno, da fruire entro l’anno di vita del minore». Ma non si conoscono ancora i dettagli. Rispetto alla "classica" tipologia di congedo, ovvero il congedo parentale già esistente retribuito al 30 per cento destinato a tutti i lavoratori dipendenti, anche per questa tipologia il decreto 105 del 30 giugno 2022 introduce alcune novità. Tra queste la possibilità per entrambi i genitori di astenersi dal lavoro «per un periodo massimo complessivo di nove mesi (e non più sei)», si legge sempre nel messaggio Inps, fino al compimento del dodicesimo anno del bambino. I genitori potranno così chiedere tre mensilità ciascuno, più ulteriori tre mesi in alternativa tra loro. Tornando invece al congedo di paternità va specificato che, pur indicato con il termine "obbligatorio", di fatto resta una decisione del lavoratore: «Non sono previste sanzioni per il caso in cui non se ne usufruisca» commenta Cagliano. Di conseguenza il papà potrà scegliere se restare a casa a accudire il nuovo arrivato oppure continuare a lavorare. I dati sembrano confermare la scarsa propensione al coinvolgimento dei papà nella nascita dei figli al pari di quello materno. Secondo l'Inps le richieste di congedo obbligatorio sono passate infatti solo da 135 a 155mila dal 2019 al 2020 (poco più della metà dei neopadri). La strada è insomma ancora lunga. Il confronto con l'Europa posiziona l'Italia come fanalino di coda. In Spagna, dal 2021, il congedo obbligatorio per i neopapà è diventato di quattro mesi, dopo la tappa delle otto settimane del 2019 e delle dodici del 2020. In Francia i giorni usufruibili sono 25, in Svezia 480 ma cumulativi e usufruibili fino al compimento dei nove anni del bambino (e di questi 90 sono riservati al padre e altrettanti alla madre). «L’Italia incoraggia poco la fruizione dei permessi da parte dei padri» ragiona Cagliano: «Aver reso strutturale il congedo di paternità obbligatorio rappresenta una prima misura che dovrà essere accompagnata da altre previsioni normative nei prossimi anni». L’obiettivo «è quello di implementare la tutela della genitorialità e il work-life balance dei lavoratori dipendenti e autonomi, al fine di equilibrare i carichi lavorativi e le opportunità lavorative tra uomini e donne». A chiederlo è del resto l'Europa per cui si dovrà arrivare, riferisce il consulente, «a stabilire un periodo minimo, non inferiore a due mesi, di congedo parentale non cedibile all'altro genitore e per ciascun figlio», magari «prevedendo forme di premialità nel caso in cui tali congedi siano distribuiti equamente fra entrambi i genitori». L'Italia si sta muovendo in corrispondenza ai dettami europei ma «le tempistiche per arrivare alle misure concrete sono lunghe». Il congedo obbligatorio non è infine da confondere con il congedo facoltativo di un giorno, sempre retribuito al 100 per cento. Quello obbligatorio «si configura come un diritto autonomo e pertanto aggiuntivo a quello della madre, e spetta comunque indipendentemente dal diritto della madre al proprio congedo di maternità». Il papà che dopo la nascita del bebé resta a casa per accudire il bambino non sottrae infatti i giorni che spettano alla mamma, a differenza del congedo facoltativo. Quest'ultimo «è invece condizionato dalla scelta della madre lavoratrice di non fruire di un giorno di congedo di maternità. Il giorno del padre anticipa quindi il termine finale del congedo di maternità della madre» prosegue Cagliano. Per entrambe le categorie però il termine ultimo per poterne usufruire sono i cinque mesi del bambino, dalla nascita o dall'entrata in famiglia in caso di adozione. Ilaria Mariotti 

Chi sono i data scientists? Boom di offerte di lavoro, ma rimane il gender gap

«La maggiore risorsa economica non è più il petrolio. Sono i dati». Niccolò Golinelli era uno studente di appena 22 anni quando fu colpito da questa frase mentre leggeva un articolo dell’Economist, giornale finanziario inglese. È bastato questo semplice concetto per mettere in ordine le idee e capire che il percorso nella data science era quello giusto da seguire. Golinelli si è laureato prima in economia all’università Cattolica di Milano nel 2017 e poi ha conseguito una laurea magistrale, nello stesso ateneo, in data analitics for business nel 2019. Ora ha 26 anni e da due lavora a Milano, nel settore della cyber security, per  nota una azienda di consulenza internazionale. Ogni giorno ha a che fare con un’enorme quantità di dati. Cifre e algoritmi che negli ultimi dieci anni sono diventati i veri protagonisti del mercato. Ma esattamente chi è e che cosa fa un data scientist? Si tratta di un professionista con competenze che vanno dall’informatica alla statistica alla matematica. L’obiettivo principale è l’organizzazione, l’analisi e l’interpretazione di una grande quantità di dati, il tutto supportato dall’utilizzo di software progettati ad hoc. Più comunemente vengono usati i notebook open source, applicazioni web che servono per scrivere ed eseguire codici, visualizzare i dati e vederne i risultati. La pura analisi dei big data ad oggi è fondamentale per le aziende di qualsiasi settore che vogliono migliorare le proprie performance ed essere sempre più competitive sul mercato.«Quando ho iniziato a conoscere questo mondo i corsi di laurea in data science stavano nascendo. Quello della Cattolica, infatti, è uno dei primi in Italia e il mio anno è stato quello di inaugurazione», racconta Golinelli che durante i suoi studi ha deciso di prendere parte anche a due progetti ambiziosi: una startup e un’associazione per studenti e professionisti immersi nell’universo dei big data. «Il mio primo ingresso nel mondo del lavoro è stato nella startup “Soccerment”, di cui sono diventato socio, che si occupa di analizzare i dati nel mondo dello sport e in particolare nel calcio. Lo scopo è di sviluppare dei dati capaci di leggere le prestazioni degli atleti ed è un servizio rivolto ai singoli giocatori ma anche ai club, dagli amatoriali ai professionisti», racconta. Nel 2019 ha fondato anche l’associazione “Data Network” di cui è presidente. «L’abbiamo creata con lo scopo di promuovere la data science e creare un alto tasso di alfabetizzazione dei dati, la cosiddetta data literacy rivolta agli addetti ai lavori e non. Ad oggi siamo una trentina di soci attivi. Il Covid ha bloccato le iniziative ma contiamo di ripartire al più presto», prosegue Golinelli: «”Data Network” è anche un luogo in cui potersi creare dei contatti, trovare opportunità di lavoro e partecipare a incontri tra studenti ed esperti del settore».La data science in Italia sta vivendo una fase di grande fermento. Il settore ha avuto il suo boom negli Stati Uniti tra il 2006 e il 2010 e le aziende che lo hanno trainato sono quelle che da sempre hanno avuto a che fare con una grande mole di dati come Facebook, Apple, Google e Amazon. «Capimmo subito che questo movimento di big data sarebbe diventato importante, per questo decidemmo di mobilitarci», racconta alla Repubblica degli Stagisti Leonardo Camiciotti, executive director di TOP-IX (TOrino Piemonte Internet eXchange), consorzio nato nel 2002 e specializzato nell’innovazione tecnologica: «Andavamo costantemente negli Stati Uniti e ci siamo resi conto che in Italia mancava la gestione dei dati, le competenze e soprattutto la formazione accademica. Così abbiamo iniziato a fare dei corsi per professionisti, matematici e informatici di alto livello, ma anche aziende che per necessità dovevano interfacciarsi con i big data». Assieme al proprio consorzio, tra il 2011 e il 2012 Camiciotti ha creato il primo portale di rilascio di open data in Italia: «Dieci anni fa i data scientist possedevano un mosaico di competenze molto vasto, dall’ingegneria informatica alla statistica e allora come oggi lavorano all’interno di un team».Con il passare degli anni, però, anche le strutture accademiche si sono messe al passo coi tempi. Dal 2019 ad oggi sono una ventina in Italia le università che hanno deciso di investire in corsi di laurea e master specializzati in data science come Luiss, Bocconi e Cattolica (a numero chiuso) ma anche Statale di Milano e Bicocca (a numero aperto). In quest’ultima la crescita delle iscrizioni è stata rilevante, passando da 100 immatricolati nel 2018 a quasi 200 nel 2021. I percorsi offerti al loro interno presentano esami di statistica, matematica, econometria, computer science, machine learning e altri ancora. Tutti capaci di trasferire competenze trasversali, adattabili a qualsiasi area, dalla moda alla salute, dal marketing alle banche.La crescita del settore dei big data è stata confermata anche dalla Harvard Business Review che ha definito il data scientist come la professione più “sexy” del 2021. Anche la classifica di Glassdoor sui “50 best jobs in America” ha messo il data scientist al terzo posto nel 2022 e al primo posto tra il 2016 e il 2019. Secondo il Bureau Labor Statistics degli Stati Uniti i posti di lavoro in questo settore sono destinati ad aumentare dell’11% entro il 2024. Un’ascesa inarrestabile che si rispecchia anche in Italia, sebbene con cifre inferiori.L’azienda Experis, nel suo report “Tech cities” 2022, ha definito il data scientist come il secondo profilo più richiesto in Italia (17%) dopo il Java developer (46%). Le offerte di lavoro si concentrano soprattutto nel nord Italia, in particolare a Milano con il 53%; Roma in seconda posizione con il 20,4%. Scegliere questo campo professionale serve anche ad evitare il grande problema – non solo italiano – del lavoro sottopagato. La retribuzione annua lorda media dei data scientist infatti parte (in media) da un minimo di 27mila euro fino ad arrivare a 40mila. Gli stipendi più alti in Lombardia e Piemonte dove il guadagno media annuo è rispettivamente di 40mila e 36mila euro. Più si va verso sud, invece, più la Ral diminuisce con una retribuzione media di 33mila euro in Campania e 32mila in Puglia. Un divario preoccupante, quello tra nord e sud, che si riflette anche tra uomini e donne. Il gender gap infatti persiste anche nella data science e più in generale nelle professioni stem (science, technology, engineering and mathematics). Secondo il report di Linkedin sui 25 mestieri più in crescita in Italia nel 2022, i data scientist uomini rappresentano il 64%, le donne il 36% e il divario salariale in favore dei primi ammonta all’11,5%.«Tutto il mio team è composto principalmente da uomini», conferma Beatrice Giubilo, business analist di 29 anni che lavora per segugio.it,  azienda specializzata nella comparazione online di prodotti finanziari, assicurativi e tariffe. «Il settore della data science non è ancora bilanciato ma la forbice si sta restringendo sempre di più». Ma Giubilo che guarda al futuro prossimo con solido ottimismo e al passato con una dolce nostalgia: «Ho conosciuto la data science per caso. Dopo la laurea in economia all’università di Trieste ho lavorato in una compagnia assicurativa e proprio là ho incontrato degli esperti di statistica che già utilizzavano strumenti di data science. Questo settore mi ha incuriosito e così nel 2019 ho deciso di intraprendere un master in data science for management alla Cattolica di Milano».Tra le sue passioni ci sono i videogiochi e la moda, due settori lontani dall’universo dei big data, ma solo apparentemente. «Negli ultimi anni i grandi marchi hanno deciso di investire nei videogames, creando i look dei personaggi virtuali». Un’industria di grande valore in cui i data analist svolgono un ruolo fondamentale, raccogliendo e analizzando i dati e le preferenze dei clienti. «Il mondo della data science è come un grande ombrello colorato», conclude Beatrice Giubilo: «È versatile, può coprire tante aree diverse tra loro ed è accessibile. Basta avere passione».

Quando sono i lavoratori a scegliersi l'impresa: Ichino spiega «l'intelligenza del lavoro»

Ripensare il ruolo del sindacato, far entrare a pieno regime un’ “anagrafe della formazione” per verificare l’effettiva utilità sul mercato del lavoro delle competenze acquisite. Ma soprattutto rovesciare il paradigma attuale per cui sono solo le aziende a “scegliere” i propri lavoratori. Sono solo alcuni dei principali spunti del libro «L’intelligenza del lavoro», pubblicato dal giuslavorista Pietro Ichino nel 2020 per Rizzoli. Ichino è stato docente di diritto del lavoro, sindacalista, deputato all'inizio degli anni Ottanta e poi senatore in tempi più recenti, tra il 2008 e il 2018; con questo libro si propone di analizzare le cause e mettere in discussione il tradizionale squilibrio contrattuale tra lavoratori e imprenditori. La Repubblica degli Stagisti ha intervistato Ichino per approfondire alcuni temi chiave del libro, percapire come queste proposte potrebbero migliorare il mondo del lavoro e aiutare anche i giovani ad affrontare il proprio percorso professionale.Professor Ichino, il tema del sindacato come "intelligenza collettiva", al centro del suo libro L’intelligenza del lavoro uscito in piena pandemia, lo era già nel suo libro del 2005, A che cosa serve il sindacato. In una fase di crisi del sindacato, testimoniata dai dati delle iscrizioni di lavoratori attivi in calo, cosa si può fare per rivalutare il suo ruolo e ridare fiducia ai lavoratori? Oggi il nostro Paese ha urgente necessità di un ritorno alla crescita della produttività del lavoro, che consenta un aumento delle retribuzioni e dei consumi oltre che un rafforzamento del tessuto produttivo. Per questo sarebbe necessaria la presenza diffusa nelle imprese di un sindacato capace di negoziare forme nuove di collegamento tra aumenti di produttività e aumenti salariali. Lo Stato può incentivare la diffusione di questo tipo di contrattazione collettiva decentrata detassando gli aumenti salariali che ne derivano. Però occorrerebbe anche che nel movimento sindacale prevalesse la scelta di limitare la funzione del contratto collettivo nazionale alla determinazione di uno zoccolo minimo aggiornato periodicamente in riferimento all’inflazione, e per il resto di puntare tutto sulla contrattazione aziendale. Lo zoccolo minimo, oltretutto, andrebbe modulato secondo gli indici regionali del costo della vita e anche questa modulazione sarebbe opportuno che venisse affidata a una contrattazione decentrata.A questo disegno si obietta che la contrattazione aziendale oggi copre soltanto un terzo della forza-lavoro italiana: puntare tutto sulla contrattazione aziendale rischia di lasciar fuori due terzi del tessuto produttivo. L’obiezione coglie un problema reale. Che però si può superare, per esempio, introducendo nei contratti collettivi nazionali di settore la previsione di una forma elementare di collegamento della dinamica retributiva con l’andamento della produttività di ciascuna azienda, stabilendo che la disposizione contenuta in proposito nel CCNL, il contratto collettivo nazionale di lavoro, si applichi soltanto per default, in assenza di un accordo aziendale che disciplini diversamente la materia. Per esempio, il contratto nazionale potrebbe prevedere che almeno il 25 per cento dell’aumento del margine operativo lordo [uno degli indicatori di redditività di un'azienda, ndr] verificatosi nell’ultimo anno rispetto all’anno precedente sia distribuito ai dipendenti, salvo che venga contrattata al livello di impresa una forma diversa di collegamento del premio alla produttività o alla redditività dell’azienda. Naturalmente, questo implicherebbe che il rinnovo del contratto nazionale di settore non assorbisse ogni margine di dinamica salariale con l’aumento del minimo tabellare [il compenso minimo di un lavoratore previsto dal proprio contratto, ndr], come di fatto sta invece avvenendo in tutti i rinnovi dei CCNL. Un ruolo che lei affiderebbe ai sindacati è quello di documentare il lavoratore sul passato dell'imprenditore che gestisce l'azienda di potenziale interesse per un lavoratore. Perché non è stato fatto finora? Quali sono gli ostacoli?Questo sarebbe molto importante, innanzitutto per gli stagisti: se l’imprenditore fosse obbligato a pubblicare sul sito web dell’azienda la relazione scritta da ciascuno dei suoi passati stagisti circa il modo in cui è stato trattato e l’esito dello stage, questo costituirebbe la migliore garanzia contro l’abuso di questa forma di ingaggio del giovane in funzione formativa all’inizio della sua vita lavorativa. Ma, più in generale, ogni impresa dovrebbe essere stimolata a raccogliere e pubblicare tutti i dati rilevanti circa la soddisfazione dei propri dipendenti, almeno nel passato recente. Perché sempre di più il mercato del lavoro sta diventando un luogo nel quale sono anche i lavoratori a scegliersi l’impresa; questa dunque deve imparare a competere con le altre anche sul piano del benessere che è in grado di assicurare ai propri dipendenti.Ecco, un punto chiave del suo libro L’intelligenza del lavoro è questo del “rovesciamento del paradigma del mercato del lavoro”: oggi sono sempre di più anche i lavoratori a esercitare una scelta, quindi ad esercitare in qualche misura un potere negoziale, col risultato che la concorrenza non è più soltanto fra i lavoratori, ma anche tra le imprese che cercano le persone di cui hanno bisogno. Rientra in questo rovesciamento del paradigma anche il fenomeno recente delle "grandi dimissioni"? Negli ultimi mesi in tutti i Paesi dell’occidente sviluppato si è registrato un aumento molto marcato, rispetto agli anni precedenti, dei lavoratori che hanno abbandonato spontaneamente il proprio posto di lavoro per migrare altrove, talvolta anche per sperimentare un nuovo equilibrio esistenziale tra lavoro retribuito, lavoro di cura e leisure. In questo fenomeno vedo una conferma e una accentuazione di un fenomeno già studiato da tempo, di cui do conto nel primo capitolo del libro: un nuovo modo d’essere del mercato del lavoro. In particolare, è ormai largamente maggioritaria la frazione dei lavoratori che sono in grado di scegliere tra più alternative offerte loro dal tessuto produttivo. Questo, però, non deve far dimenticare il problema della non piccola minoranza di persone che, invece, questa capacità non l’hanno ancora: il compito di farla acquisire anche da queste dovrebbe essere assolto da una rete efficiente di servizi, di cui il mercato del lavoro dovrebbe essere innervato. Su questo terreno il nostro Paese è ancora molto indietro.Ma i giovani con percorsi formativi e universitari "standard", cioè la maggior parte, possono davvero scegliersi il datore di lavoro?Quelli che hanno conseguito con un buon voto finale le lauree più richieste – come ingegneria, medicina, biologia, farmacia, matematica, economia – trovano subito l’occupazione, avendo diverse buone opportunità tra le quali scegliere. Gli altri faticano di più; ma in molti casi le loro difficoltà nel trovare un’occupazione dipende dalla scarsissima attrattività della loro laurea, oppure da un gap che si è aperto tra le loro aspirazioni professionali e le loro capacità professionali effettive. In molti casi è proprio il fatto di aver conseguito una laurea a indurre un giovane a ritenere che essa gli dia senz’altro titolo per candidarsi a determinate funzioni, per le quali invece non è sufficientemente preparato. Per questo è importantissimo il servizio di orientamento professionale, che avrebbe il compito di rilevare – quando c’è – il gap tra aspirazioni e capacità effettive, avvertirne il giovane interessato e indicargli il modo per superare l’ostacolo, oppure orientarlo verso diversi possibili percorsi.Nel libro sono approfondite varie "crisi" aziendali, alcune di queste molto trattate anche dai media. In quale è emerso in modo più forte il potere dei lavoratori di “scegliersi” l’imprenditore e il ruolo del sindacato di “intelligenza collettiva” che guida i lavoratori in questa scelta? Il fenomeno dei lavoratori che, anche in forma collettiva, “si scelgono l’imprenditore” in occasione di una crisi aziendale è evidente in tutti i casi discussi nel terzo capitolo del libro. Il problema è che solo in alcuni casi – come quello della Nissan di Sunderland nel 1985, o quello della Fiat nel 2010 – i lavoratori, sostenuti da un sindacato che sa guidarli nella valutazione del piano aziendale e della qualità dell’imprenditore che lo presenta, compiono la scelta giusta. In altri casi invece, come quello dell’Alitalia nel 2008 e poi di nuovo nel 2017, o quello dell’Almaviva di Roma del 2016, i lavoratori compiono la scelta sbagliata, o perché non si fidano dell’indicazione del sindacato, o perché – come nel caso Alitalia nel 2008 – è il sindacato stesso a svolgere male il proprio ruolo di “intelligenza collettiva” dei propri rappresentati.Per affrontare il problema della divergenza tra la formazione impartita nel percorso formativo, scolastico o accademico, e le competenze richieste dal mercato del lavoro, lei sostiene l'idea di istituire un'"anagrafe della formazione" che consenta di verificare se il proprio percorso formativo è servito effettivamente a trovare un'occupazione. Ci sono margini per realizzarla in Italia?L’istituzione dell’anagrafe della formazione e la previsione dell’incrocio sistematico dei suoi dati con quelli delle Comunicazioni Obbligatorie delle assunzioni al ministero del Lavoro, delle iscrizioni ad albi e ordini professionali nonché alle liste di disoccupazione, sono previste da sette anni in una legge dello Stato: il decreto legislativo 150/2015, articoli da 13 a 16. Se queste norme, che prima di essere emanate erano state debitamente oggetto di un’intesa tra Stato e Regioni, sono rimaste lettera morta, è perché dopo la loro emanazione nessun ministro del Lavoro se ne è più occupato; e nessun assessore regionale competente per questa materia ha ritenuto di complicarsi la vita sottoponendo la formazione professionale finanziata col denaro pubblico alla rilevazione del tasso di coerenza con gli sbocchi occupazionali effettivi. Ma la possibilità, anzi, la necessità, di implementare queste norme ci sarebbe stata, eccome; e ci sarebbe tuttora, poiché le norme citate sono tuttora in vigore.Chiara Del Priore

Great resignation, il fenomeno delle grandi dimissioni c'è davvero anche in Italia?

Giovani e con il cambiamento tra le mani. Sono loro, la generazione Z. Nati tra il 1996 e il 2010 e cresciuti nell’era digitale, sono i portavoce di un nuovo stile di vita, più dinamico e flessibile dentro ma soprattutto fuori le mura di casa. Il fenomeno della great resignation li riguarda da vicino, anzi parte proprio da loro. Il termine viene dall’inglese “grandi dimissioni” ed è stato coniato nel maggio 2021 da Anthony Klotz, professore di management all'Università del Texas.L'esodo dei giovani dal posto di lavoro è un fenomeno che ha generato nell’ultimo anno un boom di dimissioni volontarie negli Stati Uniti, cogliendo impreparate il 75% delle aziende. I millennials (così si definiscono, grossomodo, le persone nati tra il 1981 e il 1995 – inizialmente il termine stava a significare che fossero diventate maggiorenni nel 2000 o negli anni immediatamente successivi) ma soprattutto la gen Z, nati più o meno tra il 1996 e il 2010, sostenitori della filosofia “yolo” (you only live once, si vive una volta sola), sono sempre più attenti al benessere personale, alla sostenibilità e all'equilibrio tra il tempo dedicato al lavoro e alla vita privata.Ma la great resignation è arrivata anche in Italia? Secondo l'istituto di ricerca Censis la risposta è no: «In Italia non c’è la fuga dal lavoro». Però «si rimane al proprio posto scontenti e insoddisfatti. Quattro ragazzi su dieci dicono che preferiscono tenersi il proprio lavoro, convinti di non trovarne uno migliore» dice il ricercatore Daniele Ferretti. Affermazioni confermate nel 5° rapporto Censis-Eudaimon. La ricerca – condotta proprio da Ferretti a febbraio 2022 – ha individuato un campione statisticamente rappresentativo di 1000 persone, che hanno risposto al questionario digitalmente o al telefono. «Abbiamo notato  che c’è mai come prima un cambiamento rapido di opinioni, sensazioni e percezioni». Per la Repubblica degli Stagisti Ferretti ha estrapolato dal suo studio i dati riguardanti solo la fascia d’età dei più giovani, tra i 18 e i 34 anni. L’81% di loro ammette di aver avuto ansia nel pensare di ritornare alla vita normale e sette giovani su dieci 10 dichiarano di aver vissuto in condizioni di stress. Per quanto riguarda le necessità, invece, i giovani chiedono più reddito (55%, due punti percentuali in più del dato medio nazionale dei lavoratori), più servizi di welfare (42%) e più supporto su aspetti specifici del proprio lavoro (30%, qui solo un punto in più del dato medio nazionale). «Nonostante ciò, però, quel fenomeno di dimissioni di massa che sta accadendo in altri Paesi a partire dagli Usa in Italia non è ancora presente» dice Ferretti: «I giovani vivono la quotidianità con incertezza, segnati dalla pandemia e dalla svalutazione del lavoro più di altre categorie. Tra i lavoratori italiani il pragmatismo vince sulla tentazione della great resignation».Cifre e dichiarazioni che sono però non perfettamente allineate ai dati delle comunicazioni obbligatorie del ministero del Lavoro e della Banca d’Italia. Secondo questi dati ufficiali nei primi dieci mesi del 2021 sono state rilevate oltre 700mila cessazioni volontarie di rapporti di lavoro a tempo indeterminato, 40mila in più – cioè +6% – rispetto a due anni prima. Ma prendendo in considerazione solo il terzo trimestre 2021, e confrontandolo con lo stesso periodo del 2019, le dimissioni sono cresciute del 20%. Mentre nel quarto trimestre l’incremento è del 14% e risulta ancor più consistente se guardiamo alla fascia dei 15-24enni (+22%) e a quella dei 25-34enni (+16%).A mettere l’accento proprio su questi dati ci ha pensato lo studio condotto dal gruppo Bip (società di consulenza che da molti anni fa parte del network di aziende virtuose della Repubblica degli Stagisti). Per Rosario Sica, ceo di OpenKnowledge, una delle realtà del gruppo Bip, la great resignation non è un fantasma: la si può anzi toccare con mano. «Il fenomeno delle grandi dimissioni è partito dagli Usa ed è già arrivato nel nostro Paese» afferma: «La pandemia ha enfatizzato e accelerato questo processo. Da una parte le aziende stanno cercando di tornare a dove ci eravamo lasciati, prima del 2020, ma i giovani non vogliono. Loro adesso pretendono di gestire il proprio tempo».La ricerca di Bip, «qualitativa e non statisticamente rappresentativa», è stata rivolta a un campione di 300 persone tra i 20 e i 25 anni. «È un numero significativo perché in generale i giovani che lavorano nelle aziende sono davvero pochi; in Italia si entra nel mondo del lavoro a ventisette, ventotto, trent'anni, in ritardo rispetto agli altri Paesi europei» aggiunge il ceo di OpenKnowledge: «Il campione degli intervistati lavora nei gruppi Bip, Eon e Sia e ha compilato volontariamente il questionario tramite monkey survey, una piattaforma digitale specializzata». Lo studio è stato poi pubblicato con la Harvard Business Review a novembre 2021. Una survey completamente diversa da quella Censis, in quanto ha raccolto solo le risposte dei 300 zoomer dipendenti nelle aziende di riferimento, analizzando le percezioni di un settore specifico, quello della consulenza.Più o meno un 60% degli intervistati uomini e un 40% donne, sette su dieci dal nord Italia, due dal centro, uno dal sud; infine un 18% che lavora e studia contemporaneamente: il ritratto che emerge degli zeta è quello di una generazione pragmatica, che ha immaginato il percorso di studi valutandone anche gli sbocchi lavorativi. La maggioranza delle persone che hanno partecipato all’indagine, infatti, dichiara di svolgere un lavoro coerente con la formazione ricevuta e solo il 24% degli intervistati fa un lavoro poco in linea con quanto studiato, e un 3% per niente. La concretezza degli zeta si manifesta anche in relazione alle aspirazioni: nonostante la maggior parte di loro dichiari che il lavoro svolto è poco (31%) o per niente (28%) in linea con quanto sognavano di fare, sei lavoratori gen z su dieci ritengono il mondo del lavoro in linea con quanto immaginato.Per i giovani, però, una cosa è certa: il benessere rimane una priorità. Ad intaccarlo, però, c’è lo stress. Quattro intervistati su dieci si sono sentiti stressati soprattutto durante la fase di ingresso nel mondo del lavoro. Per altri quattro, invece, il percorso di inserimento è stato snello e solo due lo hanno considerato facile e immediato. Un altro aspetto fondamentale per gli zoomer è la crescita. Questa si può ottenere prendendo parte alle dinamiche di team (43%), imparando dai più grandi (37%) e prendendosi il giusto tempo per maturare (14%).L’azienda viene concepita come il luogo in cui imparare, avere dialogo, trasparenza e soprattutto flessibilità. E quello che non deve mai mancare è la fiducia tra superiori e dipendenti. Secondo Insync Surveys, infatti, le persone ingaggiate hanno una produttività del 18% più alta e realizzano un lavoro. Secondo il ceo di OpenKnowledge, dunque, «oggi le aziende devono ripensare i modelli organizzativi e lavorativi, prendendo ciò che c’era di buono nel periodo pre pandemia e portandolo nella nuova normalità».E per quanto riguarda gli aspetti retributivi? «Gli zoomer sono meno attaccati allo stipendio: piuttosto si chiedono se quello che fanno ogni giorno a lavoro è in linea con la loro integrità personale» risponde Sica: «Hanno bisogno di instaurare relazioni con i propri capi, sentire empatia ed essere in sintonia con il contesto lavorativo». Prerogative che si discostano totalmente da quelle dei nostri zii e genitori, appartenenti alla generazione dei baby boomers – nati subito o un po' dopo la seconda Guerra Mondiale, tra il 1946 e il 1965 – immersi in un contesto culturale diverso in cui il posto fisso era la regola, abituati a sacrificare la vita privata per il lavoro e a proprio agio nell’instaurare una relazione verticale con i propri capi.Stili di vita e lavoro non più concepibili dai ventenni e trentenni di oggi. «Le persone si chiedono perché lavorano mentre le vecchie generazioni non si sono mai posti questa domanda», sottolinea Rosario Sica: «La great resignation non è solo un fenomeno lavorativo ma il cambiamento di una forma mentis. È la punta dell’iceberg che oggi vediamo solo in superficie ma col tempo ci accorgeremo di tutti gli strati che ci sono sotto il livello dell’acqua».Benedetta Mura

Votare è importante: contrastare l’astensionismo con il “voto fuori sede”, il Parlamento si muove

Oltre due anni di pandemia e di distanze forzate e un referendum fallito pochi giorni fa a causa di una troppo bassa affluenza alle urne – che si è fermata al 20% – hanno riportato in primo piano il tema del poter votare “da lontano”, senza l'obbligo della presenza fisica al seggio elettorale. Nel nostro Paese sono oltre nove milioni, circa il 18% degli aventi diritto, i cittadini che per vari motivi non riescono a partecipare attivamente alla vita politica attraverso il voto. Di questi, cinque milioni sono i cosiddetti “fuorisede”, persone che studiano o lavorano in una città diversa da quella di residenza.A riportare alla luce il fenomeno è il Libro bianco contro l’astensionismo voluto dal ministro per i Rapporti con il Parlamento Federico D’Incà, che riporta i risultati di una commissione di esperti presieduta di Franco Bassanini, docente di Diritto Costituzionale ed ex ministro della Funzione Pubblica, sul cosiddetto astensionismo forzato che riguarda, oltre i fuori sede, i cosiddetti «grandi anziani», di età superiore ai 75 anni, anziani con infermità, ospiti dei presidi socio-assistenziali e socio-sanitaria.Un segmento che va distinto da quello che il Libro chiama astensionismo di protesta e astensionismo di indifferenza nei confronti della politica, legato a scelte volontarie e personali. Il documento è un’analisi organica e approfondita della situazione, in quanto finora non esistevano dati complessivi e le principali soluzioni sul tavolo erano arrivate da singole associazioni che tempo sono attive su questo fronte. È il caso di Io voto fuori sede, comitato nato nel 2008 e presieduto da Stefano La Barbera,  40 anni, di professione ingegnere, che aveva sollevato il problema con una petizione, a cui anche La Repubblica degli Stagisti aveva dato visibilità. Negli anni successivi sono state elaborate una serie di proposte di legge, che finora si sono concluse sempre con un nulla di fatto. Il comitato ha contribuito al Libro bianco fornendo i dati utilizzati nelle interlocuzioni con la commissione: «Il lavoro è stato svolto da una commissione ministeriale di altissimo profilo, avevamo sempre chiesto questo tipo di intervento perché non c’erano dati ufficiali» spiega La Barbera alla Repubblica degli Stagisti: «Negli anni sono stati presentati vari disegni di legge ma sempre abbastanza disorganici, nel frattempo abbiamo continuato a fare rete in sinergia con altre associazioni». Tra queste, ADI (Associazione dei dottorandi e dei dottori di ricerca in Italia), Collettivo Valarioti, Confederazione degli Studenti, Fuori di me, Idee Giovani UniGe, The Good Lobby Italia, UDU (Unione degli Universitari), Volt Italia, Yezers.Di recente le associazioni hanno firmato una lettera indirizzata al Presidente della prima commissione Affari Costituzionali della Camera Giuseppe Brescia con l’obiettivo di accelerare l’approvazione di una legge di contrasto al tema dell’astensionismo. Se da un lato la volontà di fare luce sul problema e le proposte di legge non sono mancati, dall’altro il lavoro parlamentare procede con grande lentezza. «In questo momento ci sono vari disegni di legge sul tavolo» – continua La Barbera –, «ma la nostra percezione è che non ci sia una concreta volontà di procedere al più presto, anche in vista della prossima tornata elettorale». «All’esame della commissione ci sono cinque diverse proposte di legge che indicano soluzioni diverse per diversi tipi di elezione» conferma alla Repubblica degli Stagisti  Giuseppe Brescia, 38 anni, presidente della prima Commissione Affari Costituzionali della Camera: «Si va dal voto in prefettura al voto postale, fino al voto per i candidati nella città in cui si vive e si toccano i diversi livelli di elezione, dalle politiche fino alle elezioni circoscrizionali. Una è a mia firma ed è stata presentata nella primavera del 2021. Ho raccolto le sollecitazioni di un gruppo di giovani calabresi, il Collettivo Valarioti, che ha scritto questa proposta grazie ai costituzionalisti Bin e Curreri. Il testo riguarda solo le regionali e comunali perché in quell’anno si sarebbero tenute solo quel tipo di elezioni. La proposta è stata calendarizzata subito in commissione e ha aperto la discussione insieme alle altre quattro proposte che sono rispettivamente a firma dei colleghi Madia del Pd, Costa di Azione, D’Ettore di Coraggio Italia, ai tempi in Fi, e Ungaro di Italia Viva».Brescia punta a una sintesi: «Come relatore delle proposte di legge, sto lavorando a un nuovo testo unificato che tenga conto anche del lavoro fatto dalla commissione promossa dal Ministro D’Incà. L’iter finora è stato rallentato da alcune resistenze del ministero dell’Interno che si è detto contrario sia al voto postale sia al voto in prefettura. Speriamo che arrivi qualche sì. C’è chi pensa che il voto sia un rito, una tradizione, non un diritto. Come hanno denunciato gli attivisti fuorisede e hanno dimostrato gli studi della commissione D’Incà, siamo l’unico Paese in Europa a non prevedere modalità che consentono di esercitare il diritto di voto a coloro che sono lontani dal luogo di residenza o hanno difficoltà a recarsi al seggio nel giorno delle elezioni».Fondamentale in questo percorso è diffondere consapevolezza rispetto a modalità di voto alternative a quella attuale: «Punteremo sulla tecnologia, sfruttando le potenzialità della tessera elettorale digitale, e sul voto anticipato presidiato in modo da dare più rassicurazioni possibili al ministero dell’Interno. Tutte le forze politiche sono consapevoli dell’importanza della questione in ballo. Riguarda milioni di cittadini. Ci sono astenuti che non votano perché non vogliono, ma anche altri che non votano perché non possono. Dico sempre che la società è cambiata, è più mobile e non si può votare come cento anni fa. Sullo sfondo resta sempre la soluzione del voto elettronico, praticata in questi giorni dai francesi all’estero. Il Movimento 5 Stelle già nella scorsa legislatura ha posto il tema del voto dei fuorisede e ha fatto approvare un testo alla Camera su referendum ed europee che però si fermò al Senato. Lo stesso è avvenuto all’inizio di questa legislatura. La volontà politica c’è, speriamo che anche il governo sia dalla nostra parte. Nel frattempo fanno bene le associazioni di cittadini ad attivarsi presso i tribunali».Le soluzioni proposte e analizzate anche nel Libro bianco sono tre: la prima riguarda la digitalizzazione della tessera e delle liste elettorali, il cosiddetto election pass o certificato elettorale digitale, che potrà essere scaricato da un’app o sito web o stampato, in sostituzione della tessera elettorale cartacea. L’election pass, facendo riferimento a un sistema centralizzato, permetterebbe la votazione presso il proprio o altri seggi e il voto anticipato presso strutture autorizzate. La seconda riguarda l’election day, cioè la concentrazione di diversi tipi di consultazione elettorale in uno stesso giorno, reso noto a inizio anno, un importante incentivo alla partecipazione, in quanto permetterebbe una migliore organizzazione da parte di chi si deve recare al seggio. La terza è relativa al voto anticipato presidiato, che consentirebbe all’elettore che prevede di avere difficoltà a recarsi al seggio nei giorni previsti per la votazione di potere esercitare il suo diritto di voto nei giorni precedenti l’election day in qualunque parte del territorio nazionale, ma con le garanzie del tradizionale procedimento elettorale, cioè espressione del voto in una cabina elettorale e impossibilità di collegare il voto al cittadino che l'ha espresso quando la scheda sarà scrutinata. Una modalità già utilizzata in altri paesi come Australia, Canada, Danimarca, Estonia, Norvegia, Portogallo, Svezia. Il voto avverrebbe in apposite cabine elettorali situate presso uffici postali privi di barriere architettoniche. Questa terza proposta ha come presupposto le prime due, a cui è quindi strettamente legata e risolve i problemi di sicurezza legati al voto per corrispondenza “puro” presente ad esempio in altri paesi.«Si tratta di una riforma a costi bassissimi che permetterebbe di recuperare una buona fetta di astensionismo» conclude La Barbera: «Negli ultimi anni abbiamo registrato un crescente interesse, auspichiamo che ben presto la situazione egregiamente rappresentata dal Libro bianco trovi un’applicazione concreta».Chiara Del Priore

Tirocini, all'audizione Forza Italia esce allo scoperto: non vuole che gli stagisti curricolari vengano pagati

La proposta di legge sui tirocini curriculari torna al centro dell’attenzione. Nonostante l’approvazione del testo unico avvenuta lo scorso maggio, sono tre i nodi che ancora non sono stati sciolti: indennità per gli stagisti, sanzioni ai soggetti ospitanti e regolamentazione dei tirocini per lauree abilitanti. A far emergere le discordanze ci ha pensato la ministra dell’Università Maria Cristina Messa durante l’audizione che ha riunito le commissioni Cultura e Lavoro lo scorso 31 maggio. Le forze politiche in campo non hanno ancora trovato un pieno accordo su diverse tematiche che, anzi, mettono ai poli opposti i rappresentanti di sinistra e destra e che non convincono la stessa ministra. I punti di discordia, però, devono essere risolti al più presto, anche perché in caso contrario c'è il rischio di bocciatura del provvedimento alle Camere.«Intervenire con una disciplina normativa specifica capace di regolare i tirocini curriculari è un aspetto molto positivo», ha detto Messa: «Finora c’è stata frammentarietà di interventi normativi e vogliamo superarla». In merito al monitoraggio trasparente di questo tipo di tirocini, e all'introduzione della comunicazione obbligatoria (così come già avviene per gli extracurricolari), la ministra si è espressa decisamente a favore: «È uno strumento orientato al raggiungimento dei migliori livelli di qualità dell'università. Il sistema accademico saprà farsene carico nonostante costituisca un certo aggravio» ha detto –  anche se in realtà la preoccupazione della ministra è priva di fondamento poiché l'onere della comunicazione obbligatoria ricade sul datore di lavoro, che nel caso degli stage è il soggetto ospitante, e non il soggetto promotore (che solo in rari casi viene delegato dal soggetto ospitante a espletare questa pratica).Parole di positività e fiducia quelle della ministra, miste a una serie di obiezioni che non sono passate inosservate. «Una parte della proposta di legge, orientata a prevenire abusi nei tirocini curriculari, non ha ragione di essere estesa agli stage svolti nelle strutture pubbliche perché in questi casi non esistono possibili distorsioni applicative». In realtà la garanzia di qualità degli stage nelle strutture pubbliche è ben lungi dall'essere un dato di fatto: basta tornare indietro con la mente ai casi eclatanti dei superstage in Calabria e non solo, negli uffici giudiziari, nelle biblioteche, nei musei con mansioni di volantinaggio... Insomma, la dichiarazione della ministra appare azzardata, o quantomeno un po' troppo ottimista. Un altro punto critico della proposta di legge è l’indennità. «Questa deve essere valutata nel sistema universitario soprattutto sotto il profilo della sua sostenibilità economica. Dato che una buona parte dei tirocini ha un’applicazione in ambito pubblico, per il riconoscimento dell’indennità dovranno essere trovate delle risorse economiche tali da sostenere i bilanci di università e istituzioni pubbliche, per un onere che è essenzialmente formativo», ha sottolineato Messa. Condividono questo pensiero anche le esponenti del centrodestra Ella Bucalo (Fratelli d’Italia) e soprattutto Valentina Aprea (Forza Italia), che nel suo intervento è stata categorica: «Siamo fermamente contrari all’indennità aggiuntiva per tutti i tirocinanti. Crediamo che sia una forzatura. Si potrebbe arrivare a un compromesso come il compenso forfettario per trasporti e vitto. Ma se verranno mantenute le indennità a 300 euro e le sanzioni contro i soggetti ospitanti allora Forza Italia non voterà questa legge». Ad essere favorevole all’indennità invece è il ministro del Lavoro Andrea Orlando, che durante una precedente audizione alla Camera, lo scorso 25 maggio, aveva affermato che i tirocini curriculari devono prevedere un compenso adeguato per competere con le offerte estere e trattenere la forza lavoro in Italia soprattutto per i milioni di ragazzi che trovano nello stage il primo contatto con il mondo del lavoro. A far ben sperare è anche il numero dei tirocini extracurriculari che dal 2012 – anno di introduzione delle prime indennità obbligatorie regionali –  al 2019 sono praticamente raddoppiati, passando da 185mila a 356mila. Un dato che parla da solo e che spiana la strada anche per i curriculari. Osservazioni a parte, Messa ha anche tracciato delle linee guida che hanno fatto riflettere i primi firmatari della proposta presenti all’audizione: Massimo Ungaro (Italia Viva), Rosa Maria Di Giorgi (Partito Democratico) e Manuel Tuzi (Movimento 5 Stelle). La ministra ha messo l’accento sulla necessità di regolamentare i tirocini per i corsi di laurea professionalizzanti (come medicina, odontoiatria, veterinaria), ovvero quelli per cui con la legge n. 163 del novembre 2021 è stato abolito l’esame di Stato per l’abilitazione, sostituito dal semplice ottenimento della laurea alla fine del percorso universitario. Nella proposta di legge, infatti, mancano ancora delle disposizioni precise ma sia Tuzi che Di Giorgi hanno assicurato che nella fase emendativa provvederanno a colmare questa lacuna. «Quando abbiamo iniziato a lavorare a questa proposta il contesto normativo era diverso e anche in termini numerici i dati di Almalaurea non consideravano l’aggiornamento delle lauree abilitanti», ha sottolineato Tuzi. «È importante conoscere i dati perché danno un quadro della situazione. Solo così si può sapere dove e come agire. Speriamo di poter conoscere questi dati dal suo dicastero il più presto possibile in modo tale da fare i corretti emendamenti». Anche Di Giorgi ha rassicurato l’aula: «Il tema delle indennità è delicato e ha creato un dibattito anche all’interno dei partiti, ma troveremo una sintesi. La quantità di lauree abilitanti che abbiamo messo in campo prevedono una serie di ore di tirocinio che dovranno essere messe a punto». Tra critiche, dubbi e osservazioni nelle commissioni Cultura e Lavoro si respira comunque un clima di cooperazione. Nonostante alcune resistenze sui temi più delicati, le forze politiche chiamate in causa rimangono aperte al dialogo e i promotori della proposta di legge sono pronti a rivedere il testo. La fase emendativa si aprirà a breve e durerà per tutta l’estate, nella speranza che verso settembre il provvedimento possa passare velocemente al Parlamento e al Senato per la votazione. L’obiettivo dev'essere «stimolare l’università a migliorare» come ribadito in aula anche dalla ministra: «Vogliamo garantire maggiore qualità agli gli studenti che in tutti questi anni hanno dimostrato che i tirocini sono veramente utili».Benedetta Mura