Categoria: Approfondimenti

Legge di Bilancio, ecco le misure per i giovani: ma in realtà “non sono idonee” ad aiutarli nel mercato del lavoro

La prima legge di Bilancio del Governo Meloni è realtà. Dopo le promesse elettorali è arrivato il momento di capire quanto è stato messo concretamente sul piatto a favore dei giovani e dell’occupazione. La Repubblica degli Stagisti ha analizzato le indicazioni contenute nella Finanziaria che riguardano più da vicino il mondo del lavoro giovanile commentandole con Aurora Notarianni, avvocata giuslavorista e direttrice dell'ufficio Direzione e Amministrazione dell'associazione forense AGI (Avvocati Giuslavoristi Italiani)Proroga dell'esonero contributivo per le assunzioni di under 36 Per tutto il 2023 passa da 6mila a 8mila euro annui per ciascun lavoratore l’esonero contributivo per le assunzioni di giovani under 36, donne e beneficiari del reddito di cittadinanza. Requisiti fondamentali sono non aver compiuto il 36esimo anno di età e l’assenza di un precedente rapporto di lavoro a tempo indeterminato con lo stesso datore. L’impiego può essere sia part time che full time, mentre lo sgravio non vale per l’esecuzione di prestazioni occasionali e per il lavoro intermittente o a chiamata. «Il legislatore riconosce l’esonero nella misura del 100% per un periodo massimo di 36 mesi, nonché di 48, in caso di assunzioni o trasformazioni nelle regioni Abruzzo, Molise, Campania, Basilicata, Sicilia, Puglia, Calabria e Sardegna» specifica Notarianni: «L’agevolazione è riconosciuta al datore di lavoro che, nei sei mesi precedenti o nei nove mesi successivi all’assunzione o alla trasformazione, non abbia proceduto a licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo o a licenziamenti collettivi nei confronti di lavoratori inquadrati con la medesima qualifica nella stessa unità produttiva».Sempre rispetto a questo tema, «con l’obiettivo di incentivare l’accesso dei giovani al mercato del lavoro, sono state confermate le misure già previste per i coltivatori diretti e gli imprenditori agricoli con età inferiore a quarant’anni, prevedendo, per i nuovi iscritti alla previdenza agricola sino al 31 dicembre 2023, l’esonero dal versamento del 100% dell’accredito contributivo presso l’assicurazione generale obbligatoria per invalidità, vecchiaia e i superstiti, per un periodo massimo di ventiquattro mesi».Voucher Una delle misure più discusse riguarda i cosiddetti “voucher”. I buoni lavoro erano stati cancellati nel 2017 dal Governo Gentiloni e successivamente tornati nella veste di “Libretto famiglia” , utilizzato per pagare baby sitter, colf e badanti e piccoli lavori domestici. Con la nuova legge di Bilancio ricompaiono nuovamente, utilizzabili per pagare prestazioni di lavoro occasionali in alcuni ambiti, come quello dell’agricoltura o dei lavori domestici. Nel dettaglio, il limite massimo di compensi erogabili arriva a 10mila euro annui rispetto ai 5mila previsti per il Libretto famiglia. Inoltre possono fare ricorso ai voucher anche le aziende fino a 10 dipendenti. Il tema come sempre ha scatenato un ampio dibattito tra chi li vede come un buono strumento di contrasto al lavoro nero e che ne teme gli abusi per mascherare altre tipologie di rapporto di lavoro. Agevolazioni acquisto prima casa Sono state prorogate al 31 dicembre 2023 tutte le disposizioni relative al bonus per l’acquisto della prima casa, destinato ai giovani che non hanno compiuto il 36esimo anno d’età e che presentano un’ISEE inferiore a 40mila euro.Agevolazioni per l’assunzione di percettori del Reddito di Cittadinanza Previsto l'esonero totale (nel limite di 8mila euro) per le assunzioni a tempo indeterminato e le trasformazioni dei contratti a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato, tra il 1° gennaio e il 31 dicembre 2023, di beneficiari del Reddito di Cittadinanza. La misura, fortemente voluta e sostenuta dal Movimento 5 Stelle, è stata una delle più centrali dapprima in campagna elettorale e poi negli ultimi mesi, alla luce della prevista abolizione del rcd a partire dal 2024.Incremento dell'assegno unico e universale per i figli a carico Dal primo gennaio 2023 è stabilito un incremento del 50% dell'assegno unico per le famiglie con figli di età inferiore a un anno, e per i figli con una età compresa da uno a tre anni per le famiglie con tre o più figli e con Isee fino a 40mila euro. Prevista anche una maggiorazione del 50% dell'assegno unico per le famiglie con 4 o più figli. Sono confermate e rese strutturali le maggiorazioni dell'assegno unico per ciascun figlio con disabilità a carico senza limiti di età.Congedo parentale Fissato un ulteriore mese di congedo parentale facoltativo retribuito all'80%, fruibile sia dalle madri sia dai padri fino al sesto anno di vita del bambino. «L’incremento del congedo parentale, così come le misure relative all’assegno unico, pur non indirizzate direttamente ai giovani, mirano senz’altro a garantire una migliore conciliazione dei tempi vita-lavoro» rileva Notarianni.Il giudizio dell’AGI Analizzando nel complesso le principali novità che riguardano più da vicino i giovani, Notarianni sottolinea un punto specifico che penalizza l'apprendistato: «Pur ritenendo di accogliere favorevolmente le misure descritte, in una prospettiva di maggior tutela delle giovani lavoratrici e dei lavoratori nutro qualche perplessità in merito a un punto in particolare. Mi riferisco alla conferma dell’impossibilità di accedere alla misura dello sgravio del 100% nei casi in cui l’assunzione a tempo indeterminato consegua alla conclusione del periodo di formazione nell’ambito del contratto di apprendistato. Incentivare con tale misura, anche in percentuale di poco inferiore, la prosecuzione del rapporto di lavoro al termine del periodo di formazione, infatti, sarebbe stato senz’altro uno strumento utile per garantire ai giovani un avanzamento nell’ambito del mercato del lavoro, coerentemente alla crescita della professionalità acquisita con il contratto di apprendistato».Su cosa si deve lavorare ancora quindi? «Osservando le misure da una prospettiva di maggior ampiezza, ritengo che rappresentino uno strumento inidoneo a produrre, nel lungo periodo, un correttivo al funzionamento del mercato del lavoro nell’ambito del quale i giovani si muovono» dice Aurora Notarianni. Bisogna dunque provare ad andare oltre, puntando a soluzioni più ampie rispetto ai singoli interventi relativi agli sgravi fiscali per chi assume: «Non credo che le misure adottate siano in grado di funzionare in assenza di un ripensamento complessivo del sistema, che deve orientarsi ben oltre la mera riduzione del costo del lavoro. Bisogna puntare a valorizzare la professionalità dei giovani, a garantire loro l’adeguatezza dell’inquadramento contrattuale alle esperienze professionali e formative pregresse, nonché a riconsegnare un’idea di lavoro che non appaia inconciliabile con le proprie personali scelte di vita».Chiara Del Priore

Trasformare i limiti in un vantaggio, la “ricetta Edge”

È possibile partire da uno svantaggio, da un proprio limite e, nonostante tutto, trasformarlo in un valore aggiunto? Sì, se si sa come farlo. Laura Huang, lo racconta dettagliatamente nel suo libro Edge, Come trasformare i limiti in punti di forza, Francoangeli editore, partendo dalla sua storia. «Il mio lavoro mi ha aiutato molto a comprendere il mio percorso: figlia di immigrati di umili origini, per anni sono stata sottovalutata, ostacolata, limitata in qualche modo. Oggi insegno ad Harvard» scrive Huang «e ho il privilegio di poter condividere tutto ciò che ho imparato su come sia possibile costruirsi un vantaggio». Per farlo l'autrice, 43enne di origine taiwanese, racconta tante storie – partendo dalla sua personale – per far capire come sia importante «raccogliere le percezioni altrui, le attribuzioni e gli stereotipi, che puntano a relegare a una condizione di inferiorità, e trasformarli in uno strumento da impiegare a proprio favore». Il libro, però, ci tiene a precisare, «non parla di come “fregare il sistema”, né propone metodi furbetti per aggirare l’ostacolo. Piuttosto mostra come sfruttare la vostra personalità e i vostri punti di forza, persino le vostre debolezze, per costruirvi un vantaggio unico».Per farlo bisogna partire dalle basi e ricordarsi che «il duro lavoro è fondamentale, ma ci sono anche molti altri fattori», spiega alla Repubblica degli Stagisti Laura Huang. «È importante per i giovani avere un mentore o uno sponsor che li sostenga davvero. E ricordarsi che sono due cose diverse. Il mentore è qualcuno che ti dà dei consigli, ti aiuta rispondendo alle domande, lo sponsor è, invece, chi ti promuove, chi fa il tuo nome tra i suoi contatti, qualcuno che parla dei progetti su cui hai lavorato. Ci sono un sacco di cose che ognuno può fare per ottenere un vantaggio ed essere sicuri che il duro lavoro che sta facendo funzioni realmente. Nel mio libro descrivo varie strategie, suggerimenti e know-how pratico per far capire come comportarsi».Il fulcro è, infatti, mostrare come è possibile creare valore (enrich), incantare (delight) e guidare (guide) gli altri nel proprio percorso, basato sull’impegno (effort). Quattro concetti chiave che costituiscono l’essenza del libro e che, tramite le iniziali di ognuna, danno anche il titolo al volume. «Per creare valore intendo come ognuno capisce i propri punti di forza e di debolezza e sottostima alcuni punti di forza. Correggere la concezione dei propri meriti. Capire la percezione che gli altri hanno sul proprio conto, il proprio merito. Per incantare intendo come si fa, appunto, a entusiasmare qualcuno, che sia un cliente, un fornitore o un capo: due persone diverse possono avere entrambe lo stesso merito, allora perché una è percepita come più forte o migliore?» chiede Huang. E la risposta è appunto: per la sua capacità di incantare.E poi c’è il concetto di guida: «Come è possibile guidare gli altri verso quelle percezioni che possono avere un valore», e infine lo sforzo, inteso come duro lavoro. «Ricordiamoci, però, che a volte questo non basta», sottolinea Huang alla Repubblica degli Stagisti.Il libro è diviso, appunto, in quattro parti: nella prima si dimostra come la base per costruirsi un vantaggio sia la capacità di creare valore per chi ci circonda, nella seconda l'autrice parte dall'aneddoto del suo incontro con Elon Musk per spiegare come per mostrare il proprio valore sia necessario che gli altri “aprano la porta”, ma si debba poi agire autonomamente per catturare l’attenzione del proprio interlocutore e mostrare il proprio potenziale. La terza parte del volume si focalizza su come acquisire la facoltà di guidare i contesti in cui ci troviamo, perché «quando riusciamo a interpretare come ci vedono gli altri, abbiamo la capacità di guidare e reindirizzare questa percezione, andando a influenzare il modo in cui gli altri colgono il valore che possiamo creare». Mentre l’ultima parte è dedicata all’impegno, che può rafforzare il vantaggio costruito, ricordandosi che è fondamentale imparare a individuare le percezioni degli altri e capire come operano.Ma in sostanza cosa dovrebbero fare i giovani per riuscire a partire con il piede giusto nel mercato del lavoro? «Nella mia esperienza da docente penso che per i giovani sia veramente importante sentire che possono intraprendere la strada scelta». risponde Huang: «Quello che veramente li ostacola e impedisce loro di avere successo è sapere di voler andare dal punto a al punto b, ma non conoscere come fare per iniziare. Molto spesso la sfida più grande è proprio quella – iniziare – e per loro è difficile avere speranza quando vedono un obiettivo così distante. Quindi bisogna aiutarli e indicare loro i primi due passi da fare. A quel punto saranno in grado di avere molti approcci diversi rispetto a quello che stanno per fare».Metodi e strade “diverse” per fare le cose, tanto più evidenti quando si parla di donne e uomini soprattutto nelle materie Stem. «La prima cosa da fare è capire se si ha una passione per questo tema o no. Dopo di che ci sono molti modi diversi di essere interessati a una cosa e di affrontarla, e va benissimo così. Quello che le ragazze e le donne possono fare per non farsi intimidire è trovare un modo per esaltare qualcosa che è veramente interessante». Huang, a sua volta madre, per la figlia ha creato qualche anno fa una serie di libri illustrati dal titolo “The Princess Heroes Books”, che raccontano la storia di una principessa che di volta in volta è paleontologa, chimica, astronoma, ingegnera, veterinaria, imprenditrice: proprio nell'ottica di lanciare alle bambine il messaggio di non farsi intimidire dai mestieri “da maschi”, e di non sentirsi obbligate, di converso, a perdere la propria “principessitudine” per poterli fare. «L’origine di alcuni degli stereotipi che vediamo nelle materie Stem» aggiunge la docente «sta nel fatto che ci si aspetta che tutti siano esperti allo stesso modo, che studino le stesse materie con lo stesso metodo: quando ci sono invece molti approcci diversi per esaminare qualsiasi materia, comprese quelle Stem».Che le donne siano spesso sottovalutate proprio in quanto donne e che questo avvenga spesso da parte di persone over 60 e uomini è un dato di fatto, ma anche qui Huang è convinta che «sia importante capovolgere queste avversità a proprio favore». Il primo passo da fare è capire quali sono «quelle due tre cose che rendono uniche, concentrarsi su questo e sui propri punti di forza». Nel libro è citato uno studio di Tara Sophia Mohr dal titolo “Why women don’t apply for jobs unless they’re 100% qualified” (che in italiano sarebbe: “Perché le donne non si candidano per un lavoro a meno che non siano qualificate al 100 per cento”) in cui si osserva come molte persone, nella stragrande maggioranza donne, che cercano un impiego sono convinte di non essere abbastanza qualificate per la posizione offerta e finiscono per non candidarsi anche quando quella posizione potrebbe essere giusta per loro. «Quello scritto nell’articolo è vero e l’ho verificato nella mia ricerca» conferma Huang: «Se per un’offerta di lavoro sono richieste dieci qualifiche, gli uomini si candideranno pur avendone solo due o tre, diranno “Certo ho esperienza nelle vendite” anche se questa esperienza non è propriamente qualificata. Le donne, invece, penseranno “anche se ho otto o nove  requisiti c’è ancora qualcosa che non ho” e non si candideranno». Insomma ruota tutto intorno alla percezione delle proprie competenze, che poi è quello che consente alle persone di avere successo nel lavoro: «È importante essere in grado di pensare alle proprie qualifiche e parlarne in modo tale da far capire di essere adatti a quel tipo di lavoro. Il motivo è semplice: molte volte chi scrive la descrizione di un’offerta di lavoro lo fa senza sapere esattamente cosa vuole. Non sanno quale tipo di persona vogliono assumere. Per questo motivo, se si hanno anche solo un paio di requisiti è importante imparare a valorizzarli in funzione di quel lavoro». A una donna che di merito ha scritto e parlato tanto (per esempio negli articoli “We Ask Men to Win & Women Not to Lose: Closing the Gender Gap in Startup Funding” - “Chiediamo agli uomini di vincere e alle donne di non perdere: colmare il divario di genere nel finanziamento delle startup”  del 2017, o “Mitigating Malicious Envy: Why Successful Individuals Should Reveal Their Failures” - “Mitigare l’invidia maligna: perché le persone di successo dovrebbero rivelare i loro fallimenti” del 2019) non si può non chiedere cosa ne pensi dell’aggiunta di questa parola al nuovo ministero dell’istruzione italiano, appena ribattezzato “dell'istruzione e merito”, appunto. «Bisogna ricordarsi che con questa parola si intendono molte cose diverse e che quando parliamo di meritocrazia non facciamo riferimento solo alle caratteristiche di questa parola, ma a quello che consente alle persone di capire chi le ha. E credo che in questo senso “Edge” incorpori realmente tutti gli elementi per capirlo: la capacità di creare valore, di incantare, di guidare gli altri verso i propri meriti e di impegnarsi nel fare le cose» osserva Huang: «Penso che il fatto che questo governo abbia aggiunto la parola “merito”» al nome del ministero «non sia necessariamente un problema, anzi può essere un vantaggio. Se riusciamo a capire qual è la tradizione del merito, e come muoverci pensando al merito».Marianna Lepore 

Un tablet per i sottotitoli delle lezioni all'università, Pedius aiuta gli studenti sordi

Nel mondo ci sono decine di milioni di sordi; decine di migliaia sono solo in Italia, e solo il tre per cento di loro si laurea, contro il 25 generale. Nessuno però aveva mai pensato a come migliorare le loro possibilità di studio, per esempio nel seguire una lezione universitaria. L'idea è venuta a Pedius, una ex startup e oggi oggi piccola azienda grazie a risorse che garantiscono «un orizzonte di sostenibilità più ampio», come racconta il fondatore Lorenzo Di Ciaccio. Pedius ha creato uno strumento utilizzabile dalle persone sorde mentre assistono a una lezione universitaria. Studenti che possono fare estrema fatica, avendo deficit di udito, a seguire le parole del docente.Un problema accentuato dalla pandemia e dai collegamenti da remoto che ne sono scaturiti. Così nel 2022 sono stati lanciati quindici dispositivi speciali per l'università La Sapienza di Roma: «La nostra app è inserita su tablet che sono collegati al microfono dei professori; mentre questi parlano, genera sottotitoli in tempo reale», spiega alla Repubblica degli Stagisti Di Ciaccio, ingegnere ex consulente informatico e volontario della Caritas diventato poi imprenditore sociale. Il progetto è nato grazie a un bando pubblico: «Il Servizio disabili dell'ateneo ha individuato noi come interlocutori per fornire un sostegno agli studenti sordi». È partita poi una gara pubblica «attraverso cui è stata acquistata la licenza del software da parte dell'università». In questo modo gli studenti «possono usufruire del servizio in modo gratuito». La collaborazione con La Sapienza è iniziata l'anno scorso «e il modello in futuro sarà implementato». L'obiettivo, prosegue il fondatore, «è creare una sorta di realtà aumentata che evidenzi i punti più importanti delle lezioni», semplificando dunque l'attività di prendere appunti. Un metodo «non solo per disabili» ma valido per tutti, dato che per accedervi basta l'acquisto della licenza software. Il sistema è sbarcato già anche all'estero, «all'università di Hong Kong e di Hannover in Germania». Mentre l'attività di Pedius, che conta 40mila utenti sparsi in 14 paesi del mondo, prosegue anche nel suo filone principale, quello della comunicazione telefonica per persone sorde. L'ispirazione per far telefonare le persone sorde era nata in Lorenzo Di Ciaccio nel 2012 dopo aver visto in tv «la storia di un ragazzo sordo, Gabriele, che aveva avuto un incidente automobilistico a Roma e non era riuscito a contattare l'ambulanza». Una vicenda che, racconta lui, «che mi è sembrata assurda, con tutta la tecnologia che avevamo!». Di lì l'idea un'applicazione per consentire ai sordi di chiamare via telefono, e poi la messa a punto nel 2013 di Pedius che funziona «come Whatsapp, ma invece di inviare un messaggio fa partire una chiamata». In realtà «le persone sorde con una giusta logopedia possono parlare, quindi possono decidere con Pedius di scrivere o anche di parlare al telefono, oppure di utilizzare una voce artificiale, e dall'altra parte la persona farà lo stesso, o scrivere o parlare, e quindi vedere il suo messaggio trascritto». Il problema che si poneva all'inizio era però come rendere sostenibile il progetto. L'obiettivo di Di Ciaccio era «realizzare quello che mi piaceva fare con il volontariato... ma dovevo anche portare a casa la pagnotta!». I primi due anni dopo l'avvio della startup, ammette, «siamo stati senza stipendio perché tutto quello che avevo era stato investito per lanciare l'azienda e i primi stipendi sono stati per i collaboratori». La questione era anche l'importo da chiedere ai clienti, in questo caso portatori di disabilità. «Non volevamo che il servizio fosse percepito come un'elemosina, al contrario: la decisione era di trattare gli utenti come clienti a tutti gli effetti». Il servizio prevede infatti venti minuti al mese di chiamate gratuite, per il resto si paga come se fosse un abbonamento telefonico. «Il prezzo è basato sul mercato: la nostra visione, anche se impopolare, era quella di creare vera uguaglianza, e quindi applicare prezzi di mercato». Le aziende hanno iniziato a mostrare interesse – prima Enel, poi anche Banca d'Italia e Acea. Pedius aiuta le imprese a rendere più accessibili i propri servizi di assistenza clienti, come i call center nei casi di problematiche da risolvere, e in più abilita servizi specifici per l'inclusione dei dipendenti aziendali affetti da sordità.Il momento decisivo è stato però, racconta l'imprenditore, all'inizio, «quando lavoravamo con un modello beta e una comunità di cento persone sorde. Una di loro si chiamava Monica, «aspettava un bambino, si è sentita male e grazie a quella versione iniziale di Pedius è riuscita a chiamare il suo medico». Tutto è finito bene, «lei ci ha scritto una mail bellissima, che abbiamo stampato in ufficio, per ringraziarci. Per noi è stato come ricevere il primo stipendio». Nell'ambito dell'imprenditoria sociale la tecnologia, dice Di Ciaccio, «non viene mai usata per scopi unicamente commerciali» e il traguardo primario non è il profitto bensì «massimizzare l'impatto». Non a caso Pedius, che ha la sede principale a Roma, ha appena aperto una sede operativa a Hong Kong. «Un terzo della popolazione sorda del mondo vive in Cina, eppure non ci sono tanti strumenti per i sordi come per esempio negli Stati Uniti». Investendo negli States i vantaggi sarebbero stati maggiori, ma se si va nella direzione dell'impresa sociale «si deve essere sostenibili e al contempo rifiutare compromessi in conflitto con i principi che si portano avanti». Non guardare insomma solo ai possibili guadagni, bensì al beneficio della collettività: in questo caso, quella cinese. Ilaria Mariotti  

Parlamento, le ultime elezioni hanno decimato i «paladini» degli stagisti: pochi sono stati rieletti

L’attenzione ai giovani e al lavoro è da sempre un tema ricorrente nelle campagne elettorali. In riferimento all’ultima, sono stati tanti i proclami da un po’ tutti gli schieramenti: alcuni esponenti del centrodestra, cioè della coalizione risultata poi vincente, avevano proposto di rilanciare il contratto di apprendistato e di rendere le norme sui tirocini più stringenti, per evitare abusi. Il centrosinistra si era spinto sul campo dei tirocini in modo più dettagliato, con la propostra PD di obbligo di compenso per quelli curricolari, attualmente non previsto, e di abolizione degli stage extracurricolari, tranne quelli stipulati nei 12 mesi successivi alla laurea. Anche il Movimento 5 Stelle aveva parlato nel suo programma del riconoscimento di un compenso minimo per i tirocinanti e del computo dei periodi di tirocinio a fini pensionistici.Chiuse campagna elettorale e urne, da un paio di mesi l'Italia ha un nuovo Parlamento e un nuovo Governo. Ma cosa è rimasto dell’attenzione ai giovani e in particolar modo agli stagisti? Riavvolgiamo il nastro.A maggio di quest’anno era stato elaborato un testo unico riguardante i tirocini curriculari, ossia quelli effettuati durante il periodo universitario. Il testo era frutto della sintesi di cinque proposte presentante a partire dal 2018 da altrettanti esponenti politici: Massimo Ungaro (Italia Viva), Rina De Lorenzo (Liberi e Uguali), Manuel Tuzi (Movimento Cinque Stelle), Niccolò Invidia (Movimento Cinque Stelle) e Rosa Maria Di Giorgi (Partito Democratico). La proposta era focalizzata sull’eliminazione della gratuità per questo tipo di stage e la garanzia di massima trasparenza rispetto al ricorso ai tirocini. La proposta a prima firma Massimo Ungaro, nel 2018 deputato PD, era stata sostenuta anche da Chiara Gribaudo, 41 anni, piemontese, già allora deputata e oggi rieletta nelle file del Partito Democratico, vicepresidente della Commissione Lavoro, da sempre attenta ai temi del lavoro giovanile. Il testo, alla cui stesura aveva contribuito anche la Repubblica degli Stagisti, proponeva un rimborso spese minimo di 350 euro per i tirocini curriculari. Gribaudo si era fatta anche promotrice nella scorsa legislatura di una proposta relativa all’apprendistato, rafforzandone il ruolo come strumento principale di accesso dei giovani al mondo del lavoro.Con la nuova legislatura però qualcosa si è bloccato, in quanto molti dei «paladini» dei diritti degli stagisti non sono stato rieletti – a partire dagli stessi promotori del testo unico. Nessuno dei cinque, infatti, siede attualmente in Parlamento. Non si tratta tuttavia degli unici politici che in questi anni si sono battuti a favore degli stagisti. Durante la pandemia il tema del sostegno economico agli stagisti che, causa Covid, avevano perso la propria fonte di reddito era stato al centro del dibattito parlamentare, con un emendamento sul tema nell'ambito del cosiddetto Decreto Rilancio. L'emendamento era stato sostenuto, oltre che dalla prima firmataria Chiara Gribaudo, anche da Massimo Ungaro, da 14 deputati del PD, da Alessandro Fusacchia che allora sedeva nel gruppo misto, da Riccardo Magi di PiùEuropa e Carmela Grippa ed Elisabetta Barbuto del Movimento Cinque Stelle. L'emendamento proponeva di mettere cento milioni a disposizione delle Regioni, per consentire il supporto economico agli stagisti impegnati in ciascun territorio. L'emendamento, soprattutto per un tema di costi, non è stato poi inserito nel Decreto, a seguito del parere negativo espresso in fase di discussione.Anche in questo caso, i parlamentari che si erano dimostrati attenti alle istanze degli stagisti non sono stati premiati dalle urne: oltre a Ungaro, non sono stati rieletti in Parlamento neppure Alessandro Fusacchia, Riccardo Magi, Carmela Grippa ed Elisabetta Barbuto. Per quanto riguarda il PD, dei 14 deputati che avevano sostenuto quel particolare emendamento, ne siedono attualmente in Parlamento solo tre, ossia Debora Serracchiani, Matteo Orfini e Lia Quartapelle Procopio. Chi sarà in Parlamento, adesso, a dar voce alle istanze e a lottare per aumentare i diritti degli stagisti?Chiara Gribaudo, che come visto è tra i pochi "sostenitori degli stagisti" riconfermati in Parlamento, ha fatto il punto della situazione con la Repubblica degli Stagisti: «Al momento mi risulta che la mia sia la sola proposta depositata che da un lato riprende il lavoro che avevamo interrotto con la caduta del governo Draghi e dall’altro prova a dare risposte ancora più coraggiose e puntuali rispetto ai problemi che ci sono stati posti dai rappresentanti delle generazioni più giovani. Il loro precariato è una delle emergenze più gravi di questo Paese e per questo abbiamo previsto dei limiti temporali ben precisi per l’attivazione e la durata dei tirocini, che in ogni caso dovranno prevedere un rimborso spese che consenta a tutti di svolgere questo tipo di esperienza. L’obiettivo ultimo è quello di limitare anche l’uso dei tirocini extracurricolari a favore dei contratti di apprendistato».Il riferimento è alla proposta di legge depositata alla Camera lo scorso 15 novembre sui tirocini curricolari ed extracurricolari per l’orientamento e la formazione dei giovani. L'iter di discussione della proposta al momento non è ancora stato avviato. Secondo Gribaudo il rischio è che questi temi non ricevano la giusta attenzione da parte della nuova maggioranza politica: «Più che per la mancanza di promotori, temo una minore attenzione per un problema di maggioranze politiche. Poco prima che cadesse il governo Draghi, in  Commissione Lavoro e Cultura stavamo votando un testo base il più possibile unitario ma, nonostante lo sforzo dei relatori, la destra compattamente votava contro il rimborso spese e un’indennità minima e voleva allungarne la durata invece che ridurla. Quindi il problema è che oggi quelle forze sono maggioranza in Parlamento e nelle commissioni, per cui dall’opposizione sarà comunque difficile portare avanti queste battaglie se non costruiremo una forte alleanza anche fuori dalle aule parlamentari». Gribaudo rinnova il proprio impegno a occuparsi di questi temi: «Continuerò a battermi, come ho fatto in questi anni, per provare a ricordare ad una classe dirigente spesso di tutti i colori politici che deve iniziare a vedere e riconoscere le esigenze delle generazioni più giovani. Penso alla fatica fatta per inserire la “Dis-coll”, l’indennità di disoccupazione delle collaborazioni,  alle dimissioni in bianco, alle tante battaglie sul lavoro autonomo che troppo spesso si conducono quasi in solitaria. Cosi come mi impegnerò per favorire un’occupazione di qualità per giovani e donne, che più di altri pagano sempre il prezzo delle crisi». Al momento quindi tutto è in standby: quello che rimane di anni di dibattiti è una proposta di legge e un numero limitato di esponenti politici che ha già dato prova di avere a cuore i diritti degli stagisti. Ma chissà, tra i nuovi eletti vi potrebbero essere nuovi interlocutori attenti a questi temi.Parallelamente, come si sta muovendo il Governo? Se «Largo ai giovani» era uno dei punti del programma di Fratelli d’Italia, al suo interno la parola tirocinio non era mai stata menzionata. Gli stessi giovani, dati alla mano, tuttavia hanno dimostrato di aver dato fiducia al centrodestra: il 23% dei giovani della fascia d’età 25-34 anni ha votato Fratelli d’Italia, arrivando quasi al 40% se si considerano anche gli altri partiti della coalizione. Al momento la nuova legge finanziaria parla di agevolazioni per le assunzioni a tempo indeterminato per chi ha contratti a termine e in particolare per le donne under 36. Nulla nel dettaglio sul fronte tirocini.Sembrano dunque altri i temi prioritari; un'impressione confermata dalle scelte di questi primi mesi di legislatura. Sarà impresa ardua riportare in primo piano il tema degli stage e più in generale dei giovani, provando magari a fare rete anche fuori dal Parlamento? La Repubblica degli Stagisti monitorerà con attenzione il cammino dell'unica proposta di legge per ora presentata.Chiara Del Priore

Cambiano gli spazi di lavoro: l'ufficio diventa luogo di incontro

Già da anni si sentiva parlare di smartworking, la possibilità per gli impiegati di lavorare con più libertà sui tempi e modi di produzione. L’accelerazione in tal senso è arrivata proprio grazie alla pandemia di Coronavirus che, almeno per alcuni mesi, ha obbligato nel 2020 tutti a fare i conti con la necessità di portare avanti il lavoro da casa. Per questo motivo le aziende, grandi o piccole che fossero, hanno dovuto accettare il cambiamento della gestione e dell’uso degli spazi di lavoro.C’erano aziende, però, che già da tempo avevano iniziato questo percorso: come Bip, società di consulenza fondata nel 2003 in Italia, oggi presente in tredici Paesi nel mondo, e Banca PSA, che si occupa delle attività di finanziamento e di leasing sulle vetture Peugeot, Citroen, DS e ora anche del gruppo FCA. Entrambe fanno parte del network delle aziende virtuose della Repubblica degli Stagisti.Proprio nell’ottica della rivoluzione degli spazi lavoro, Bip ha inaugurato a fine 2021 una nuova sede in Piazza Liberty a Milano, a due passi dal Duomo, che ben rappresenta la trasformazione in atto con un lavoro più dinamico. Da tempo la società di consulenza dava flessibilità ai suoi lavoratori rispetto a dove lavorare, se da casa o in ufficio: una possibilità diventata ancora più centrale post pandemia, con il risultato che oggi tutte le persone della multinazionale possono attivare se vogliono lo smart working anche al 100 per cento. Se l’ufficio si svuota dei suoi dipendenti, questo non significa che smetta di avere una sua utilità: cambia però il suo ruolo, e talvolta è addirittura più vissuto di prima. Le persone arrivano in ufficio per incontrarsi – con i clienti o con il proprio team – non più per lavorare davanti al computer.Questo cambiamento in Bip Group non ha portato a cali di produzione. «La produttività delle nostre persone con lo smart working è aumentata, ma è necessario che le aziende guardino ad altri fattori: benessere, livello di interazione, soddisfazione delle persone» esordisce Rosario Sica, Ceo di OpenKnowledge: «In questo momento dovremmo prendere più in considerazione il lavoro in presenza e accogliere la modalità ibrida, valutando il modo migliore per mantenere viva l’appartenenza e il legame con l’organizzazione mediante incontro e collaborazione».L’ufficio quindi resta come entità, come riferimento dell’attività lavorativa: «Come luogo di incontro. Proprio a seguito del Covid abbiamo scoperto che ci sono un sacco di altri luoghi in cui possiamo svolgere i nostri compiti» spiega alla Repubblica degli Stagisti Chiara Tagliaro, assegnista di ricerca presso il Real Estate Center del Politecnico di Milano da tempo interessata ai temi della gestione e uso degli spazi di lavoro, e autrice di Progetto Ufficio. Strategia e processi per l’evoluzione degli spazi aziendali, pubblicato dalla casa editrice Franco Angeli: «Mentre per le attività di gruppo o per sviluppare la creatività, l’innovazione, questo si può fare solo quando si è insieme fisicamente. E le possibilità di interscambio sono molteplici, non solo quelle legate alla riunione formalizzata»Anche Banca PSA ha sperimentato e sta sperimentando una modifica della funzione dell’ufficio. A breve, entro marzo 2023, cambierà la sede: «Siamo in una fase di riorganizzazione aziendale all’interno del gruppo Stellantis e quindi stiamo concentrando la sede legale della nostra azienda di Mirafiori, a Torino» spiega Stefano Mattuglia, Hr Director di Banca PSA. La sede, però, non è l’ufficio quotidiano perché i dipendenti hanno cominciato da tempo a poter lavorare in smart working: «La presenza in ufficio va da due a otto giorni al mese: quindi sostanzialmente siamo un’azienda con 500 e più sedi di lavoro, perché ogni casa diventa un ufficio. Il progetto di smart working per noi non è nuovo, è cominciato a inizio 2019, però il  Covid ci ha fatto accelerare su alcuni progetti: la funzione Hr per esempio ora è totalmente digitale, dal recruiting alla parte training, dalle relazioni sindacali alle riunioni».Questo significa che l’ufficio sta cambiando proprio la sua funzione: «Rispetto al passato quello che resterà è proprio il fatto che l’edificio, in quanto luogo di lavoro, è un pezzo delle nostre città» conferma Chiara Tagliaro: «Verrà integrato come nell’antichità, all’interno di un tessuto urbano: l’edificio degli Uffizi a Firenze è forse stato il primo ufficio amministrativo della città nel 1500. Era molto integrato al tessuto urbano e questo succederà anche in futuro».Evoluzione dell’ambiente di lavoro che la Liberty Tower di Bip rispecchia in pieno. «L’idea di Liberty nasce nel 2019 con l’obiettivo di creare uno spazio nuovo, “situation based” che potesse rispondere alle necessità “situazionali” rispetto ai vari profili professionali» racconta Rosario Sica di Bip: «Ad esempio con aree creative, aree di lavoro condivise, postazioni singole, zone di workshop o di formazione, divani, coffee break, intelligenza artificiale: tutto distribuito in 3mila metri quadrati». A un anno dall’inaugurazione, e con la pandemia alle spalle, ora è necessario guardare alle nuove esigenze e adattare gli uffici a una nuova mentalità: «Vorremmo continuare ad ascoltare gli utenti, migliorare e creare nuove sale riunioni e spazi di collaborazione, ampliare spazi informali e tornare ad incontrarci sempre di più». Nel frattempo il nuovo ufficio è addirittura più vissuto dai dipendenti, con maggiore attività creativa e innovativa. All’ottavo piano è presente anche un’area per lavorare nella realtà virtuale, con spazi che possono essere sviluppati con tecnologie all’avanguardia come quelle legate al metaverso e poi applicate nei vari settori lavorativi. Ambienti estremamente mobili, possibilità di modificare lo spazio con le scrivanie, aree più creative e innovative. Un luogo sempre attivo e abitato, in questo senso completamente diverso da un ufficio vecchio stile.Simile il cambiamento anche per PSA. «Con l’avvento della nuova strategia abbiamo cominciato a concepire le aree di coworking: la funzione sociale è diventato il principale motivo per cui costruire la nostra sede» riflette Stefano Mattuglia: «Abbiamo cominciato a introdurre nuovi concetti come le zone cooperative con le poltrone e i sofà dove le persone  possono incontrarsi per fare le riunioni, a concepire le famose agorà, i posti teatro per le riunioni all’aperto. Ma abbiamo cercato di dare uno sfogo anche a chi cerca concentrazione: ci sono le aree mindful dove le persone possono fare analisi dati in maniera concentrata, con arredi tipici». E le trasformazioni non si fermano qui: «L’area caffè diventa area di coworking, e si trasforma anche l’ufficio: niente più carta su pareti ma vidiwall. Poi c’è lo studio dell’acustica, del verde, e tutta la parte relativa alla salute e al benessere attraverso illuminazione, materiali e colori. Tutto questo incide sulla produttività dei nostri dipendenti: il workplace disegnato in maniera funzionale e piacevole ha un contributo positivo al senso di appartenenza, allo star bene, alla voglia anche di andare in sede. L’ufficio diventa un luogo di incontro, di network, di parte cooperativa dei team che si trovano ogni tot giorni a lavorare insieme in un ambiente di lavoro comune. La presenza fisica serve per trovarsi, bere un caffè, allinearsi e motivarsi, ma va bene farla massimo otto giorni al mese».In alcuni casi gli uffici oggi inoltre, come chiarisce Chiara Tagliaro, non sono più uno spazio per produrre il lavoro, ma addirittura diventano «uno spazio per promuovere la produttività di una città. Un ufficio che diventa luogo per eventi, spazio per ospitare persone, spazio di educazione». Un luogo dedicato al benessere delle persone. «Abbiamo sempre portato avanti attività per il benessere dei nostri dipendenti. Il cambiamento principale è dato dalla modalità. Prima le attività di questo tipo erano quasi esclusivamente fisiche, oggi molto più ibrida: fisica e digitale» conferma Fausto Fusco, Chief People&Culture Officer di Bip, che aggiunge un altro cambiamento: «Il passaggio da worklife balance inteso come “benefit” per il professionista a un worklife balance inteso come responsabilità, verso i clienti, il team e l’azienda, a fronte della disponibilità di tempo e spazio». Proprio per questo la società di consulenza ha attivato delle partnership per accedere a servizi di supporto psicologico, una piattaforma per seguire attività sportive, vari servizi dedicati alla genitorialità. E poi ha dotato i propri dipendenti di tutte le strumentazioni proprio per lavorare anche da casa in maniera adeguata. Con effetti sulla produttività positivi, visto che ognuno può organizzare il tempo di lavoro in modo migliore. Se dal lato organizzativo lo smart working aiuta, quello che manca è la possibilità di avere nuove relazioni e idee: per questo l’ufficio aperto condiviso come luogo di incontro facilita questo momento.L'ufficio quindi d'ora in poi andrà inteso come luogo in divenire, spazio di condivisione, innovazione, incontro e idee. «Se dopo aver fatto un viaggio per arrivare in sede facessi le stesse cose che potrei fare a casa sarebbe frustrante, per questo l’azienda deve pensare che in quella giornata ci siano dei contenuti differenti» aggiunge Mattuglia di Banca PSA:  «Quel che rende ingaggiante l’ufficio è riuscire a fare lì qualcosa che non riesco a fare a casa mia». Come per esempio «vedere più colleghi, avere una percezione dell’azienda, avere informazioni che a casa non ho». Tutti aspetti in linea con quello che dicono molte ricerche sul tema degli spazi di lavoro e comfort della situazione lavorativa come uno dei tre fattori chiave nella decisione di accettare o meno un lavoro. «E lo sarà sempre di più in futuro!» conclude Chiara Tagliaro. Perciò conviene già oggi creare spazi sostenibili, aperti, dove si crea, ci si incontra e si condivide, come hanno fatto Bip e Banca PSA. Spazi che possano essere i luoghi ideali del mondo del lavoro del prossimo futuro.Marianna Lepore

Tirocini ben pagati, ecco come si investe davvero sui giovani

“Offresi tirocinio per fare esperienza. Non è previsto rimborso spese”: era la prassi – percepita perfino come normale – fino a una decina di anni fa, quando non esisteva alcun obbligo in materia di indennità per i tirocinanti, e le aziende che decidevano di dare un rimborso spese ai propri stagisti erano una rarità.Tutto ha cominciato a cambiare, a livello di diritti, nel 2012, con l'approvazione da parte della Regione Toscana della primissima normativa che introduceva l’obbligo di indennità per i tirocinanti extracurricolari. L'anno dopo la Conferenza Stato Regioni ha emanato le prime Linee guida in materia di tirocini extracurricolari, includendo anche l'indennità. In base a queste nuove regole tutte le Regioni hanno promulgato, tra il 2013 e il 2014, le proprie normative. Oggi offrire un tirocinio extracurricolare senza compenso è illegale. E le indennità minime, fissate da ciascuna Regione nelle proprie normative, variano dai 300 euro della Sicilia agli 800 del Lazio.A chi credeva che obbligare a pagare un tirocinante sarebbe stato un deterrente per le aziende, i dati mostrano il contrario. I numeri ufficiali del ministero del Lavoro mostrano come si sia passati dai 185mila stage extracurricolari attivati nel 2012 ai quasi 330mila del 2021. Certo, le battaglie in questo settore non sono terminate, visto che a tutt’oggi non c’è nessuna legge che obblighi le aziende ad offrire un rimborso spese per quanto riguarda, invece, i tirocini curricolari, quelli all’interno dei percorsi di studio. La normativa dei curricolari risale a un vecchio decreto, il 142 del 1998, che non solo ormai ha appunto un quarto di secolo, ma ha anche una validità “monca” visto che all’epoca regolava tutti i tirocini – anche gli extracurricolari, che poi dal 2013 sono invece rientrati sotto le normative regionali. Per questo nel corso dell’ultima legislatura era cominciato il dibattito alla Camera sulla proposta di legge Ungaro che normava i tirocini curricolari e introduceva un obbligo di rimborso spese.Ci sono però anche aziende che, invece, hanno deciso di intraprendere da anni un’altra strada e pagare non solo i tirocinanti extracurricolari ma anche quelli curricolari, con indennità di tutto rispetto. E quando la Repubblica degli Stagisti ha avviato la sua attività, nel 2009, ha esplicitato nella sua Carta dei diritti degli Stagisti proprio la battaglia contro gli stage gratuiti, e deciso di ospitare sulle sue pagine solo aziende che si impegnassero a pagare i loro stagisti (e all'epoca non era obbligatorio nemmeno per gli extracurricolari!).Dunque nessuna azienda presente su RdS offre stage gratuiti, in nessun caso: tutte prevedono una indennità di almeno 500 euro al mese (o più alta, in caso la Regione dove hanno sede preveda un minimo più alto) per gli stagisti extracurricolari, e almeno 250 per gli stagisti curricolari. E non finisce qui: da qualche anno RdS ha anche istituito un premio a quelle aziende che svettano per l'ammontare dell'indennità offerta: la multinazionale dolciaria Ferrero e Cefriel, spin-off del Politecnico di Milano attivo del campo dell'Information Technology, lo hanno vinto pochi mesi fa per il fatto di offrire super-rimborsi agli stagisti: in particolare Ferrero offre a tutti – indipendentemente dalla tipologia di stage – mille euro al mese. Cefriel, invece, tra gli 800 e i 1.100 euro al mese.  Durante il suo evento annuale “Best Stage” la Repubblica degli Stagisti assegna infatti i suoi “AwaRdS” alle aziende più virtuose, e una delle categorie è proprio “miglior rimborso spese”.«È un riconoscimento al valore che i giovani portano in azienda» spiega Roberta Letorio, responsabile Human Capital di Cefriel: «I ragazzi sono inseriti su attività progettuali e contribuiscono portando una competenza: è giusto riconoscerla. In più è importante aiutare e supportare i giovani a creare una propria autonomia dalle famiglie. Negli altri Paesi europei l’età con cui si inizia a essere indipendenti dal punto di vista economico è più bassa rispetto al nostro contesto. Quindi è bello che la persona inizi a ragionare in un’ottica di autonomia e indipendenza anche economica. Ricordiamoci che sono dei ragazzi che stanno affrontando delle spese ed è importante che non gravino sulle famiglie».«Da sempre Ferrero adotta una politica che mette le persone al centro», dice Deborah Zago, Italy Business HRBP Ferrero: «Gli stage rappresentano un’occasione di incontro, collaborazione ed arricchimento biunivoco: tanto la nostra azienda investe sui giovani, tanto loro investono tempo ed energie in Ferrero. L’indennità è commisurata all’importanza che attribuiamo all’investire nella crescita, nella formazione e nel futuro professionale, anche dei più giovani». Un investimento che la multinazionale piemontese fa ormai da tempo per tutti i tipi di stage: «Riteniamo sia importante riconoscere un’indennità a tutti, indipendentemente che siano tirocini curriculari o extracurriculari. Per questo abbiamo uniformato gli importi, pari a mille euro netti al mese, oltre al rimborso spese per il primo mese di residence, alla mensa gratuita e altre facilitazioni». La scelta è quella di facilitare l’inizio dello stage concedendo ai giovani la tranquillità e il tempo per trovare una sistemazione adeguata. Elementi che possono essere considerati come una leva che agisce sull’attrattività, anche se, puntualizza Zago, «crediamo che la leva motivazionale che dovrebbe portare a scegliere uno stage in Ferrero sia da ricercare nella profondità delle attività, nel coinvolgimento aziendale e nell’opportunità individuale garantita dall’esperienza nella nostra azienda».«Se organizzati in maniera consapevole e programmata i tirocini possono davvero, così come l’alto apprendistato e l’alternanza scuola lavoro, dare una possibilità ai giovani di anticipare un’immagine rispetto al proprio futuro» aggiunge Roberta Letorio: «Spesso i giovani che incontriamo non sono ancora sicuri rispetto a quello che sarà il loro futuro lavorativo e allora confrontarsi con una realtà aziendale in cui ci sono tanti percorsi diversi può aiutare anche nell’orientamento». La manager sottolinea come sia importante per l’azienda stessa prevedere un sostegno economico anche per gli stagisti curricolari, «perché crea un impegno da parte dei giovani. È uno scambio per cui tu fai una prestazione e io ti riconosco una formazione all’interno del tuo percorso di studi» a cui si somma, appunto, il rimborso spese.L’obiettivo è sempre quello di un prosieguo della collaborazione e logicamente il fatto che un giovane si laurei dopo lo stage curricolare all’interno dell’azienda porta valore aggiunto. C’è poi un altro motivo per cui alcune aziende decidono di sostenere i propri tirocinanti curricolari, proprio come investimento sul loro futuro: il costo eccessivo degli affitti in città come Milano, per esempio, dove altrimenti solo un giovane con genitori abbienti potrebbe accettare di svolgere un tirocinio da fuorisede senza rimborso. Pagare i tirocinanti, che siano curricolari o extracurriculari, è un elemento decisivo per i giovani che si affacciano al mondo del lavoro, soprattutto in tempi di crisi come quelli attuali dove per le famiglie diventa sempre più difficile mantenere un figlio fuorisede.Questo atteggiamento verso la giusta remunerazione per la prestazione svolta può incidere nella costruzione di un mercato del lavoro più sano. «L’esperienza di stage è in primis un’opportunità formativa, e bisogna tener conto della sua sostenibilità economica» conclude Deborah Zago: «Il rimborso deve essere commisurato alle attività e agli impegni: è un passaggio propedeutico alla costruzione della propria carriera professionale, quindi un’esperienza ibrida di formazione che allo stesso tempo deve contribuire a costruire il mindset dello stagista nei confronti del mondo del lavoro. Impegnarsi per favorire opportunità professionali per i giovani è una responsabilità condivisa in cui Ferrero vuole dare il proprio contributo».Un ingresso nel mondo del lavoro con il giusto riconoscimento per i compiti svolti è, dunque, possibile ed è anche l’inizio di un cammino virtuoso in cui non si sarà tentati dall’accettare in seguito stipendi da fame.Marianna LeporeL'immagine di apertura è tratta dall'account 14995841 su Pixabay in modalità CreativeCommons

Gli stipendi troppo bassi dei giovani e la polpetta avvelenata dell'aiuto dalla famiglia

I lavori sottopagati – così come gli stage sottopagati, o addirittura gratuiti – sono ingiusti. Specialmente quando si tratta di mestieri prestigiosi, ambiti, e dunque i datori di lavoro giocano sulla “attrattività” di quei settori, di quelle professioni, per poter avere persone entusiaste e capaci senza pagarle il giusto.Nel caso degli stage la situazione è ancor più complicata perché c’è sempre di mezzo il discorso-trappola della formazione come “vantaggio principale” messo a disposizione dello stagista – uno scivolo per chi vuole comportarsi in maniera truffaldina e ottenere manodopera o cervellodopera a costo basso o nullo. “Eh ma ti sto insegnando!” è la scusa classica che si sentono indirizzare gli stagisti quando il tirocinio proposto prevede come indennità una somma irrisoria... o addirittura niente.La questione della dignità del lavoro, del diritto ad essere pagati per la propria prestazione (anche quando si è in formazione), è centrale anche perché, come è facile intuire, se ci sono mestieri prestigiosi ma cronicamente sottopagati o gratuiti, questi mestieri saranno aperti e contendibili solo da chi ha risorse proprie, e insomma, non ha – troppo – bisogno di guadagnare per vivere. Ciò di solito coincide con chi ha una famiglia abbiente alle spalle, disponibile a integrare i magri guadagni o, nel caso degli stage gratuiti, ad assumersi in toto il mantenimento dei figli per il tempo di svolgimento del periodo di formazione/lavoro senza compenso.Dunque una prima, grande ingiustizia, la più grande, è che se non si riesce a imporre che l’attività lavorativa – in qualsiasi forma che non sia volontariato – debba essere pagata equamente, avremo sempre nicchie più o meno grandi di lavoro (solitamente glamour) presidiate dai cosiddetti “figli di papà”.Eppure c’è un’altra ingiustizia. Più piccola, meno visibile, meno facile da riconoscere. Ma non per questo meno vera. E molto, molto diffusa. A potersi permettere questi periodi – anche lunghi – di scarso guadagno non sono necessariamente, in realtà, solo i “figli di papà”. Ci sono anche tantissimi giovani della classe media, e perfino medio-bassa, che ricevono un aiuto sistematico dalle proprie famiglie – anche se queste famiglie non nuotano nell’oro.Che sia il contributo per l’affitto o la messa a disposizione di una casa per vivere, regali importanti come la macchina o le vacanze, oppure semplicemente l’abitudine di riempire il frigo o pagare le multe, o l’attività di babysitting per gli eventuali (pochi) figli, mille sono gli aiuti che i giovani, specialmente in Italia, ricevono dalle loro famiglie d’origine. Le famiglie lo fanno, il più delle volte, in maniera generosa, altruista, amorevole – per permettere a questi figli di rincorrere i loro sogni professionali, di poter realizzare i loro obiettivi senza l’ansia di non riuscire ad arrivare alla fine del mese.Ma chi riceve aiuti dalla sua famiglia anche quando ha superato i venticinque, i trent’anni, è davvero fortunato?C’è un aspetto che troppo spesso viene tralasciato quando si ragiona di questi argomenti, e che si può efficacemente rappresentare con la frase “Pago, pretendo!” di un famoso personaggio dei “cinepanettoni” degli anni Ottanta, il “commendator Zampetti”.Pago, pretendo. I soldi sono un laccio, un guinzaglio. E nel caso dei giovani, un formidabile strumento di controllo in mano ai genitori su figli ormai grandi e vaccinati.Una «anticamera di una ‘libertà vigilata’ sociale ed economica» per i giovani adulti: così la descrive Giuseppe Annibale Micheli, che ha dedicato decenni allo studio delle dinamiche demografiche, intergenerazionali, e dei rapporti all’interno delle famiglie, scrivendo libri appassionanti e illuminanti sul tema. In Sempregiovani & Maivecchi, pubblicato da FrancoAngeli nel 2009, Micheli parte per esempio chiarendo come le cinque «tessere del mosaico» della transizione all’età adulta – «la fine degli studi, l’acquisizione di un lavoro stabile, l’uscita di casa, la formazione di un’unione stabile, la nascita di un figlio» – siano ormai scombussolate. E spesso non per scelta dei diretti interessati bensì per caso, per sorte avversa, perché molti meccanismi sociali ed economici sembrano essersi inceppati e impediscono ai giovani di andare avanti. I ventenni-trentenni trovano lavoro più tardi, vengono inquadrati con contratti precari (che spesso anziché «entry ports» si rivelano «job traps»), ricevono retribuzioni troppo basse per potersi permettere da soli una casa. Una vita.E allora intervengono le famiglie. Aiutano. Ma questo aiuto non è gratuito. C’è uno scotto da pagare: accettare che il proprio distacco da casa venga «pilotato». Non poter tagliare il «cordone ombelicale con la famiglia di origine» – anzi, essere chiamati a mantenerlo «robusto». Restare vicini, fisicamente o anche solo mentalmente, alla casa paterna. Restare dipendenti. Una casa diversa viene messa a disposizione, certo, e questo è un «vantaggio materiale» per i figli squattrinati. Ma sono i genitori a – contribuire a – sceglierla. Sono i genitori a suggerire dove, come, quando comprarla o affittarla. E magari si tengono pure le chiavi, in concreto o in astratto, e con esse «il diritto di entrare nello spazio privato dei figli».Uno spazio privato che include ogni scelta di vita: cosa studiare, che stile di vita adottare, con quali amici e partner, che mestiere fare, dove e come passare il proprio tempo, come spendere i propri soldi. Se e quando fare figli, con chi farne, come educarli. «I genitori italiani sono tradizionalmente disposti ad aiutare generosamente i figli che si conformano alle loro aspettative» scrive Micheli «ma la loro disponibilità cala in modo rilevante se i figli operano scelte non condivise». E quindi, inevitabilmente, «l’importanza strategica del sostegno economico dei genitori rende» (per i figli adulti “aiutati”) «particolarmente rischioso mettere in atto scelte che disattendano le loro aspettative». Costringendoli a sacrificare un pezzo – piccolo, grande, a volte addirittura enorme – della loro libertà.Per questi figli che si avvicinano ai trent’anni e che a volte anche li superano eppure ancora guadagnano drammaticamente troppo poco – a volte nemmeno mille euro al mese – i genitori sono un’assicurazione sulla vita (e sulle comodità). Permettono loro di farsi strada nel mondo anche senza doversi “guadagnare da vivere” in senso stretto. Ma così facendo si auto-condannano al ruolo perenne di subordinati, di “sempre(troppo)giovani”, e mettono nelle mani di mamma e papà uno strumento di pressione formidabile: «Finiti i tempi dei padri padroni, l’arma più convincente» è proprio «la minaccia di ritirare il proprio supporto economico per l’acquisto della casa, e il supporto in manodopera per l’accudimento dei nipotini». Nel suo libro più recente, Preferirei di no, uscito nel 2021 per Mimesis edizioni e focalizzato più specificamente sul crollo delle nascite, Micheli dice anche che il «definitivo arresto dell’ascensore sociale» (definitivo… ma non per sempre, si spera) sta portando «al graduale prosciugarsi dei salvadanai familiari» che però sono «per la verità ancora oggi sorprendentemente inesausti». Dunque le famiglie italiane hanno ancora dei “tesoretti” da distribuire ai figli per rimediare alla situazione economica e di welfare disastrata. Ma il dono, ricorda Micheli di nuovo in Sempregiovani & Maivecchi, qualunque esso sia, implica un obbligo implicito a contraccambiare, che «scatta come una tagliola», «intrappolando il figlio inconsapevole». Quel figlio si renderà conto magari solo molto più avanti – quando per esempio la prospettiva di accettare una proposta di lavoro in un luogo lontano, o la scelta di fare un bambino al di fuori del matrimonio, o di separarsi dal partner di lunga data e avviare una nuova relazione, troveranno la disapprovazione e la pressione negativa da parte dei genitori “che ti hanno sempre tanto aiutato, non vorrai mica essere un figlio ingrato?” – di quanto questa tagliola possa far male. Un “Pago, pretendo” implicito, nella maggior parte addirittura inconsapevole, o comunque strenuamente negato.Gli aiuti economici dei genitori sono spesso salvifici per i giovani italiani, è innegabile. Ma non sono indolori. E costringono il più delle volte a una vita “a responsabilità limitata”.

Perché si va via dall'Italia, perché non si torna: l'affresco dei giovani all'estero della creatrice di Spaghettipolitics

Uscire. Andare. Mettersi alle spalle l’Italia per qualche mese, qualche anno. Imparare. Lasciarsi sorprendere. Aprire la mente. Questo è il messaggio più forte contenuto nel libro Il futuro non può aspettare di Michela Grasso, una 23enne appassionata di scienze politiche che – con un profilo Instagram chiamato Spaghettipolitics con 240mila followers e oltre trecento contenuti all’attivo – è riuscita a sdoganare il tema complesso della politica italiana con un punto di vista dall’estero, sopratutto per il pubblico straniero dei più giovani.Il sottotitolo del libro che ha scritto, uscito a fine 2021 per De Agostini, è «Perché la mia generazione è costretta a partire», e quel verbo passivo, “costretta”, è interessante perché contemporaneamente rappresenta e non rappresenta quello che Michela Grasso vuole comunicare. Da una parte è vero che lei, da ventenne italiana con già tanta esperienza all’estero – a cominciare dal quarto anno di scuola superiore passato in Oregon, negli Stati Uniti, passando per l’università in Olanda e arrivando poi alla scelta di fare un anno di volontariato in Francia con il corpo europeo di solidarietà – non risparmia critiche anche dure all’Italia: «Andare via, molto spesso, è più semplice che tornare, soprattutto quando la tua nazione non fa nulla per garantirti un futuro adeguato». E poi più avanti: «La fuga dei cervelli è anche questa: ragazzi e ragazze che se ne vanno perché non si sentono benvenuti in Italia, portando le loro competenze all’estero».Eppure Grasso è ben consapevole che sia meglio partire non perché ci si sente “costretti”, ma per una libera scelta, un desiderio genuino di scoperta. Vivere in Paesi diversi dal proprio serve soprattutto in un’ottica di crescita personale, piuttosto che di fuga o di sfogo della rabbia: «Riuscire a viaggiare conoscere altri Paesi europei aiuta formare un’identità europea, e non solo» scrive infatti: «Facilita anche la crescita di aspirazioni e capacità molto preziose per la vita dell’Unione Europea. Viaggiare libera dai pregiudizi e dona nuove prospettive, che aiuteranno nella formazione professionale, creando cui cittadini più consapevoli, attenti e uniti».Ma ci sono anche molti che partono per scelta e poi non tornano perché si sentono in qualche modo “costretti” a restare lontani: perché l'Italia non offre abbastanza. A volte nemmeno il minimo indispensabile. «Quello che mi manca, in Italia, è la possibilità di sognare, e di crescere» scrive infatti Grasso nelle prime pagine: «Il lavoro è poco e retribuito male, c'è persino carenza di stage non pagati e i giovani sono l'ultima ruota del carro». Se questa situazione non cambia, i giovani continueranno ad andarsene e a tenersi ben lontani dall'Italia, rientrando solo per le vacanze e le feste comandate, ripensando magari con nostalgia alla loro infanzia e giovinezza in Italia ma costruendo sempre più saldamente la propria vita adulta altrove: «Questo libro vuol essere una richiesta di aiuto, da parte mia e di tante centinaia di migliaia di giovani italiani, per poter scegliere un giorno di tornare a casa ed essere sicuri di poter condurre la vita che meritiamo. Una vita dove essere trattati, pagati e considerati per quello che siamo, per quello che valiamo». Nel volume, una raccolta di testimonianze di giovani – perlopiù di coetanei dell’autrice, classe 1999, quindi ragazzi a cavallo tra l'adolescenza e l'età adulta, impegnati in studi universitari o appena entrati nel mondo del lavoro – si trovano esperienze di emigrazione positive e negative, expat che rimpiangono l’Italia ed expat che non ci tornerebbero mai. Un affresco pieno di diversità che vuole rappresentare anche le persone solitamente meno raccontate, le cosiddette minoranze – chi ha un colore di pelle diverso dal bianco, un orientamento sessuale diverso dall’eterosessualità, un corpo con una disabilità. Alcuni degli intervistati sono a loro volta, proprio come Grasso, persone attive online e sui social network, che portano avanti progetti multimediali con l’obiettivo di raccontare un pezzo di mondo dal loro punto di vista.Del resto il numero di persone con cittadinanza italiana all’estero è impressionante: in aggiunta ai 60 milioni di italiani in Italia, ce ne sono oltre cinque milioni e mezzo – di cui più di due e mezzo tra i 18 e i 49 anni – iscritti all’Aire, l’anagrafe dei residenti all’estero. Molti di questi – oltre 2,2 milioni – hanno il passaporto italiano grazie a qualche padre, nonna, bisnonno, in virtù dello ius sanguinis. Ma c’è anche l’emigrazione nuova, “ripartita” più o meno vent’anni fa e in costante aumento: quella raccontata appunto da Michela Grasso. Nel solo 2020, per esempio, secondo i dati pazientemente e preziosamente raccolti ogni anno nel Rapporto Italiani nel Mondo, quasi 110mila italiani hanno spostato la propria residenza in un altro Paese: una mobilità soprattutto giovane, dato che quasi il 43% dei neo expat del 2020 aveva tra i 18 e i 34 anni. E tra questi ci sono alcuni dei protagonisti delle 240 pagine del libro. Che sono partiti per le ragioni più svariate: «C’è chi fugge, lottando per la propria sopravvivenza. C’è chi lascia tutto per amore, che sia per un partner o per un figlio. E c’è chi migra con la consapevolezza che ci sia ben poco per cui valga la pena di restare. Le ragioni per andarsene sono innumerevoli e ognuno le vive in maniera diversa».Dice per esempio Michela Grasso in un passaggio: «Se noi giovani ce ne andiamo è anche per riprenderci parte della libertà che in Italia sentiamo di non avere, in un paese governato da uomini che sono tutti uguali identici – bianchi, cisgender, eterosessuali, di un’età almeno superiore a quarant’anni (ma meglio sessanta) – e non hanno il coraggio di lasciare spazio alle nuove generazioni».Il libro è pieno di dritte, di “tips” per tutti coloro che accarezzano l'idea di partire per studiare o lavorare all'estero, ma non hanno ancora fatto il grande passo. E poi è divertente. La giovane autrice racconta per esempio del mitico “pacco da giù”, la riserva di viveri che diventa «pezzo di cuore che gli italiani di ogni età si fanno mandare dai genitori o dai nonni, il modo di nascosto in cui un padre e una madre possono dire “ti voglio bene“ senza esporre troppo le proprie vulnerabilità». Ma a volte ci sono pagine che affrontano temi anche molto spinosi, come le case da incubo in cui ci si ritrova a vivere quando ci si trasferisce in città sconosciute, lo spaesamento nel non parlare perfettamente la lingua e non cogliere i riferimenti politici e culturali delle conversazioni con i nativi, o le brutte esperienze in cui alcuni expat si trovano invischiati quando cercano lavoro e finiscono per essere sotto inquadrati, sottopagati, a volte addirittura sfruttati. Perché andare all’estero non è sempre certo una passeggiata, e non è detto che si trovi subito una buona sistemazione!Le due categorie in cui l’autrice suddivide chi sceglie di andarsene sono quella di chi «odia il paese dove vive e ama l’Italia, ha difficoltà a interagire con gli stranieri e preferisce il comfort degli italiani» e poi quella di chi «odia l’Italia e ama l’estero, non fa che parlare di quanto l’Italia sia terribile e sottolineare le meraviglie straniere». Ovviamente è la via di mezzo la situazione più consueta: «io per esempio vado a momenti» scherza lei.Michela Grasso è ben consapevole che «viaggiare e vivere all’estero sono dei privilegi che derivano direttamente dalla famiglia in cui si cresce, che può darti non solo il sostegno economico ma anche gli strumenti necessari e l’educazione necessari per approcciarsi al mondo con mente aperta e occhi diversi». Non è quindi solo una questione economica: chi è capace ad adattarsi può anche viaggiare con budget ridotti, e poi c’è sempre l’opzione di lavorare prima di partire o mentre si è in viaggio. E’ sopratutto una questione culturale. Ed ecco che torna il messaggio principale dell’autrice ai suoi coetanei, e a tutti quelli più giovani di lei: fare la valigia e partire, per dare una scossa di terremoto alle proprie certezze e alla propria comfort zone, e imparare in posti lontani da casa propria. Per poi magari, chissà, un giorno tornare e costruire un’Italia finalmente più a misura di giovani.

Il congedo di paternità non è più sperimentale: anche in Italia diventa strutturale

Dieci anni fa – era il 2012 – veniva introdotto in Italia con la legge Fornero il primo congedo di paternità obbligatorio e retribuito, vale a dire la possibilità per i padri di astenersi dal lavoro per un – brevissimo – periodo conservando il diritto allo stipendio in concomitanza con l'arrivo di un figlio. Un solo giorno, cresciuto poi negli anni fino a arrivare, con la legge di Bilancio del 2020, a dieci giorni. Quest'anno, con la nuova Finanziaria, è stato fatto un passo più: il congedo è finalmente diventato strutturale, vale a dire che è entrato «a far parte del nostro ordinamento in modo permanente» spiega alla Repubblica degli Stagisti Simone Cagliano, consulente del Lavoro della Fondazione studi consulenti del lavoro [nella foto a destra]. Il risultato è che «i congedi non sono più sperimentali», e d'ora in poi «i padri lavoratori dipendenti potranno fruirne in caso di nascita, adozione, affidamento o collocamento temporaneo di minori» senza timore che l'ennesima legge del caso intervenga con qualche modifica. C'è poi un'importante novità: un decreto legislativo appena entrato in vigore – lo scorso 13 agosto – ha finalmente allargato la platea dei beneficiari del congedo di paternità anche ai dipendenti statali, finora incredibilmente esclusi dal diritto –che era riservato ai soli lavoratori del comparto privato. Spetteranno dunque d'ora in poi a tutti i neopapà lavoratori dipendenti «dieci giorni di assenza dal lavoro, che possono essere goduti anche in via non continuativa» precisa Cagliano, «e per i quali viene corrisposta un'indennità giornaliera a carico dell'Inps pari al cento per cento della retribuzione». Il decreto introduce un nuovo trattamento anche per i congedi parentali, sia per gli autonomi che per i dipendenti. Per gli autonomi non era mai stato istituito un congedo parentale, e sulle modalità di fruizione occorrerà attendere la relativa regolamentazione. Per ora si sa ciò che ha precisato l'Inps con il messaggio 2066 del 4 agosto 2022 spiegando i contenuti del decreto, e cioè che i neo-genitori «avranno diritto a tre mesi di congedo parentale per ciascuno, da fruire entro l’anno di vita del minore». Ma non si conoscono ancora i dettagli. Rispetto alla "classica" tipologia di congedo, ovvero il congedo parentale già esistente retribuito al 30 per cento destinato a tutti i lavoratori dipendenti, anche per questa tipologia il decreto 105 del 30 giugno 2022 introduce alcune novità. Tra queste la possibilità per entrambi i genitori di astenersi dal lavoro «per un periodo massimo complessivo di nove mesi (e non più sei)», si legge sempre nel messaggio Inps, fino al compimento del dodicesimo anno del bambino. I genitori potranno così chiedere tre mensilità ciascuno, più ulteriori tre mesi in alternativa tra loro. Tornando invece al congedo di paternità va specificato che, pur indicato con il termine "obbligatorio", di fatto resta una decisione del lavoratore: «Non sono previste sanzioni per il caso in cui non se ne usufruisca» commenta Cagliano. Di conseguenza il papà potrà scegliere se restare a casa a accudire il nuovo arrivato oppure continuare a lavorare. I dati sembrano confermare la scarsa propensione al coinvolgimento dei papà nella nascita dei figli al pari di quello materno. Secondo l'Inps le richieste di congedo obbligatorio sono passate infatti solo da 135 a 155mila dal 2019 al 2020 (poco più della metà dei neopadri). La strada è insomma ancora lunga. Il confronto con l'Europa posiziona l'Italia come fanalino di coda. In Spagna, dal 2021, il congedo obbligatorio per i neopapà è diventato di quattro mesi, dopo la tappa delle otto settimane del 2019 e delle dodici del 2020. In Francia i giorni usufruibili sono 25, in Svezia 480 ma cumulativi e usufruibili fino al compimento dei nove anni del bambino (e di questi 90 sono riservati al padre e altrettanti alla madre). «L’Italia incoraggia poco la fruizione dei permessi da parte dei padri» ragiona Cagliano: «Aver reso strutturale il congedo di paternità obbligatorio rappresenta una prima misura che dovrà essere accompagnata da altre previsioni normative nei prossimi anni». L’obiettivo «è quello di implementare la tutela della genitorialità e il work-life balance dei lavoratori dipendenti e autonomi, al fine di equilibrare i carichi lavorativi e le opportunità lavorative tra uomini e donne». A chiederlo è del resto l'Europa per cui si dovrà arrivare, riferisce il consulente, «a stabilire un periodo minimo, non inferiore a due mesi, di congedo parentale non cedibile all'altro genitore e per ciascun figlio», magari «prevedendo forme di premialità nel caso in cui tali congedi siano distribuiti equamente fra entrambi i genitori». L'Italia si sta muovendo in corrispondenza ai dettami europei ma «le tempistiche per arrivare alle misure concrete sono lunghe». Il congedo obbligatorio non è infine da confondere con il congedo facoltativo di un giorno, sempre retribuito al 100 per cento. Quello obbligatorio «si configura come un diritto autonomo e pertanto aggiuntivo a quello della madre, e spetta comunque indipendentemente dal diritto della madre al proprio congedo di maternità». Il papà che dopo la nascita del bebé resta a casa per accudire il bambino non sottrae infatti i giorni che spettano alla mamma, a differenza del congedo facoltativo. Quest'ultimo «è invece condizionato dalla scelta della madre lavoratrice di non fruire di un giorno di congedo di maternità. Il giorno del padre anticipa quindi il termine finale del congedo di maternità della madre» prosegue Cagliano. Per entrambe le categorie però il termine ultimo per poterne usufruire sono i cinque mesi del bambino, dalla nascita o dall'entrata in famiglia in caso di adozione. Ilaria Mariotti 

Chi sono i data scientists? Boom di offerte di lavoro, ma rimane il gender gap

«La maggiore risorsa economica non è più il petrolio. Sono i dati». Niccolò Golinelli era uno studente di appena 22 anni quando fu colpito da questa frase mentre leggeva un articolo dell’Economist, giornale finanziario inglese. È bastato questo semplice concetto per mettere in ordine le idee e capire che il percorso nella data science era quello giusto da seguire. Golinelli si è laureato prima in economia all’università Cattolica di Milano nel 2017 e poi ha conseguito una laurea magistrale, nello stesso ateneo, in data analitics for business nel 2019. Ora ha 26 anni e da due lavora a Milano, nel settore della cyber security, per  nota una azienda di consulenza internazionale. Ogni giorno ha a che fare con un’enorme quantità di dati. Cifre e algoritmi che negli ultimi dieci anni sono diventati i veri protagonisti del mercato. Ma esattamente chi è e che cosa fa un data scientist? Si tratta di un professionista con competenze che vanno dall’informatica alla statistica alla matematica. L’obiettivo principale è l’organizzazione, l’analisi e l’interpretazione di una grande quantità di dati, il tutto supportato dall’utilizzo di software progettati ad hoc. Più comunemente vengono usati i notebook open source, applicazioni web che servono per scrivere ed eseguire codici, visualizzare i dati e vederne i risultati. La pura analisi dei big data ad oggi è fondamentale per le aziende di qualsiasi settore che vogliono migliorare le proprie performance ed essere sempre più competitive sul mercato.«Quando ho iniziato a conoscere questo mondo i corsi di laurea in data science stavano nascendo. Quello della Cattolica, infatti, è uno dei primi in Italia e il mio anno è stato quello di inaugurazione», racconta Golinelli che durante i suoi studi ha deciso di prendere parte anche a due progetti ambiziosi: una startup e un’associazione per studenti e professionisti immersi nell’universo dei big data. «Il mio primo ingresso nel mondo del lavoro è stato nella startup “Soccerment”, di cui sono diventato socio, che si occupa di analizzare i dati nel mondo dello sport e in particolare nel calcio. Lo scopo è di sviluppare dei dati capaci di leggere le prestazioni degli atleti ed è un servizio rivolto ai singoli giocatori ma anche ai club, dagli amatoriali ai professionisti», racconta. Nel 2019 ha fondato anche l’associazione “Data Network” di cui è presidente. «L’abbiamo creata con lo scopo di promuovere la data science e creare un alto tasso di alfabetizzazione dei dati, la cosiddetta data literacy rivolta agli addetti ai lavori e non. Ad oggi siamo una trentina di soci attivi. Il Covid ha bloccato le iniziative ma contiamo di ripartire al più presto», prosegue Golinelli: «”Data Network” è anche un luogo in cui potersi creare dei contatti, trovare opportunità di lavoro e partecipare a incontri tra studenti ed esperti del settore».La data science in Italia sta vivendo una fase di grande fermento. Il settore ha avuto il suo boom negli Stati Uniti tra il 2006 e il 2010 e le aziende che lo hanno trainato sono quelle che da sempre hanno avuto a che fare con una grande mole di dati come Facebook, Apple, Google e Amazon. «Capimmo subito che questo movimento di big data sarebbe diventato importante, per questo decidemmo di mobilitarci», racconta alla Repubblica degli Stagisti Leonardo Camiciotti, executive director di TOP-IX (TOrino Piemonte Internet eXchange), consorzio nato nel 2002 e specializzato nell’innovazione tecnologica: «Andavamo costantemente negli Stati Uniti e ci siamo resi conto che in Italia mancava la gestione dei dati, le competenze e soprattutto la formazione accademica. Così abbiamo iniziato a fare dei corsi per professionisti, matematici e informatici di alto livello, ma anche aziende che per necessità dovevano interfacciarsi con i big data». Assieme al proprio consorzio, tra il 2011 e il 2012 Camiciotti ha creato il primo portale di rilascio di open data in Italia: «Dieci anni fa i data scientist possedevano un mosaico di competenze molto vasto, dall’ingegneria informatica alla statistica e allora come oggi lavorano all’interno di un team».Con il passare degli anni, però, anche le strutture accademiche si sono messe al passo coi tempi. Dal 2019 ad oggi sono una ventina in Italia le università che hanno deciso di investire in corsi di laurea e master specializzati in data science come Luiss, Bocconi e Cattolica (a numero chiuso) ma anche Statale di Milano e Bicocca (a numero aperto). In quest’ultima la crescita delle iscrizioni è stata rilevante, passando da 100 immatricolati nel 2018 a quasi 200 nel 2021. I percorsi offerti al loro interno presentano esami di statistica, matematica, econometria, computer science, machine learning e altri ancora. Tutti capaci di trasferire competenze trasversali, adattabili a qualsiasi area, dalla moda alla salute, dal marketing alle banche.La crescita del settore dei big data è stata confermata anche dalla Harvard Business Review che ha definito il data scientist come la professione più “sexy” del 2021. Anche la classifica di Glassdoor sui “50 best jobs in America” ha messo il data scientist al terzo posto nel 2022 e al primo posto tra il 2016 e il 2019. Secondo il Bureau Labor Statistics degli Stati Uniti i posti di lavoro in questo settore sono destinati ad aumentare dell’11% entro il 2024. Un’ascesa inarrestabile che si rispecchia anche in Italia, sebbene con cifre inferiori.L’azienda Experis, nel suo report “Tech cities” 2022, ha definito il data scientist come il secondo profilo più richiesto in Italia (17%) dopo il Java developer (46%). Le offerte di lavoro si concentrano soprattutto nel nord Italia, in particolare a Milano con il 53%; Roma in seconda posizione con il 20,4%. Scegliere questo campo professionale serve anche ad evitare il grande problema – non solo italiano – del lavoro sottopagato. La retribuzione annua lorda media dei data scientist infatti parte (in media) da un minimo di 27mila euro fino ad arrivare a 40mila. Gli stipendi più alti in Lombardia e Piemonte dove il guadagno media annuo è rispettivamente di 40mila e 36mila euro. Più si va verso sud, invece, più la Ral diminuisce con una retribuzione media di 33mila euro in Campania e 32mila in Puglia. Un divario preoccupante, quello tra nord e sud, che si riflette anche tra uomini e donne. Il gender gap infatti persiste anche nella data science e più in generale nelle professioni stem (science, technology, engineering and mathematics). Secondo il report di Linkedin sui 25 mestieri più in crescita in Italia nel 2022, i data scientist uomini rappresentano il 64%, le donne il 36% e il divario salariale in favore dei primi ammonta all’11,5%.«Tutto il mio team è composto principalmente da uomini», conferma Beatrice Giubilo, business analist di 29 anni che lavora per segugio.it,  azienda specializzata nella comparazione online di prodotti finanziari, assicurativi e tariffe. «Il settore della data science non è ancora bilanciato ma la forbice si sta restringendo sempre di più». Ma Giubilo che guarda al futuro prossimo con solido ottimismo e al passato con una dolce nostalgia: «Ho conosciuto la data science per caso. Dopo la laurea in economia all’università di Trieste ho lavorato in una compagnia assicurativa e proprio là ho incontrato degli esperti di statistica che già utilizzavano strumenti di data science. Questo settore mi ha incuriosito e così nel 2019 ho deciso di intraprendere un master in data science for management alla Cattolica di Milano».Tra le sue passioni ci sono i videogiochi e la moda, due settori lontani dall’universo dei big data, ma solo apparentemente. «Negli ultimi anni i grandi marchi hanno deciso di investire nei videogames, creando i look dei personaggi virtuali». Un’industria di grande valore in cui i data analist svolgono un ruolo fondamentale, raccogliendo e analizzando i dati e le preferenze dei clienti. «Il mondo della data science è come un grande ombrello colorato», conclude Beatrice Giubilo: «È versatile, può coprire tante aree diverse tra loro ed è accessibile. Basta avere passione».