Categoria: Approfondimenti

Conviene aprirsi una partita Iva? Regime dei minimi, forfettario, ordinario: facciamo chiarezza

Un esercito da 5 milioni e 400mila codici a 11 cifre, di cui 3 milioni e 800mila relativi a persone fisiche. Questi i numeri dell'universo delle partite Iva in Italia, fra lavoratori autonomi, aziende e liberi professionisti. Ma come si fa a diventare datori di lavoro di se stessi? «Aprire una partita Iva è veloce e immediato» spiega alla Repubblica degli Stagisti Flavio Resnati, commercialista e consulente di SMart, società mutualistica per artisti, creativi e freelance «perché basta compilare il modulo apposito e presentarlo in via cartacea presso l'Agenzia delle Entrate o in via telematica, oppure rivolgersi a un commercialista. La partita Iva viene rilasciata immediatamente ed è subito operativa». L'alternativa alla partita Iva per il lavoro autonomo saltuario è la ritenuta d'acconto, pari al 20% dell'importo della prestazione occasionale, che può essere utilizzata tuttavia solo se non si superano i 5mila euro l'anno.  Il costo dell'apertura di una partita Iva è nullo o comunque esiguo se ci si affida al supporto di un professionista. Ma averla costa: bisogna calcolare fra i 300 e i 1.000 euro l'anno per il “mantenimento” – tra dichiarazione annuale dei redditi, calcolo imposte e contributi – a cui vanno aggiunti tutti i costi che comporta autogestirsi, come ad esempio l’affitto di un ufficio o di una postazione di coworking, le spese di viaggio e tutte quelle spese che un contratto di lavoro invece coprirebbe. Inoltre, chi apre la partita Iva come ditta deve pagare la registrazione alla Camera di Commercio (circa 80-100 euro).Il regime ordinario è soggetto a un'aliquota che va dal 23% per redditi fino ai 15mila euro al 43% per redditi superiori ai 75mila euro. Il regime forfettario (ex "regime dei minimi"), introdotto dalla Legge di Stabilità 2015, è un regime agevolato che vuole andare incontro a chi decide di intraprendere una nuova attività o a chi già ne ha una e consegue un fatturato entro certi limiti, ovvero 30mila euro annui, coefficiente di redditività del 78% – per “coefficiente di redditività” si intende una percentuale variabile dal 48 all'86%, che si applica ai ricavi su cui viene poi calcolata l'imposta del 5% (per le nuove iniziative), imposta che sale al 15% dopo i primi cinque anni.Il regime forfettario prevede infatti una tassazione del 5% per le nuove attività (nei primi cinque anni) e il 15% di aliquota ordinaria. In particolare, per i primi cinque anni, si applica l'aliquota ridotta del 5% qualora il contribuente non abbia esercitato, nei tre anni precedenti l'inizio dell’attività, attività artistica, professionale o d'impresa, anche in forma associata o familiare. Questo purché l’attività da esercitare non costituisca, in nessun modo, mera prosecuzione di altra attività precedentemente svolta sotto forma di lavoro dipendente o autonomo, escluso il caso in cui l’attività precedentemente svolta consista nel periodo di pratica obbligatoria ai fini dell'esercizio di arti o professioni. Per chi non ricade in queste fattispecie si applica l'aliquota del 15%. Dal punto di vista amministrativo ci sono dei vantaggi per chi adotta il regime forfettario: non occorre tenere la contabilità né presentare la dichiarazione Iva, non si è soggetti allo "spesometro" e non si è obbligati alla fatturazione elettronica.Ma il regime forfettario, dall'altra parte, rischia di non incentivare la crescita: per conservarne i vantaggi, infatti, non bisogna superare il limite di fatturato, che è pari a 30mila annui per i professionisti (per le altre attività il limite va da un minimo di euro 25mila a un massimo di euro 50mila), e la forfettizzazione delle spese non induce a investire in innovazione e formazione, limitando quindi la crescita professionale.Ma quando sceglierlo? «Non si può dare una risposta univoca perché bisogna sempre esaminare la situazione soggettiva del freelance», sostiene Resnati «ma in linea generale può convenire, a meno che il professionista abbia dei costi che superino il 22% del fatturato o abbia detrazioni/deduzioni soggettive, quali carichi di famiglia, spese mediche, interessi sui mutui, spese per detrazioni risparmio energetico o ristrutturazioni etc». Quanto invece alla previdenza, «i contributi all'Inps e alle varie casse di appartenenza si versano come se si fosse nel regime ordinario», aggiunge il commercialista.In linea generale, possono aprire una partita Iva usufruendo del regime forfettario i soggetti già in attività e/o i soggetti che iniziano un’attività di impresa, arte o professione, purché nell’anno precedente abbiano conseguito ricavi o percepito compensi non superiori a determinati limiti (ragguagliati all’anno nel caso di attività iniziata in corso di anno), e abbiano sostenuto spese complessivamente non superiori a 5mila euro lordi per lavoro accessorio, lavoro dipendente e per compensi erogati ai collaboratori, anche assunti per l’esecuzione di specifici progetti. Inoltre il costo complessivo dei beni strumentali, al lordo degli ammortamenti, non deve superare, alla data di chiusura dell’esercizio, i 20.000 euro.  Secondo uno studio dell'Associazione italiana dottori commercialisti il 78% delle persone fisiche titolari di partita Iva ha un fatturato inferiore ai 65mila euro. Ovvero la cifra a cui il governo propone di estendere il regime forfettario. Ciò significa che quasi tre milioni di contribuenti verrebbero esclusi dall'obbligo della fatturazione elettronica.La bozza della nuova legge di bilancio prevede infatti dal 2019 un innalzamento del limite di fatturato a 65mila euro annui con aliquota del 15% (5% per le nuove attività) e dal 2020 un'aliquota del 20% per fatturati dai 65mila ai 100mila euro annui. Il che presenta anche un rovescio della medaglia di cui è bene essere consapevoli: prevedere condizioni così vantaggiose per le Partita Iva potrebbe contribuire a uno spostamento di una quota consistente di rapporti di lavoro da contratti di tipo subordinato a collaborazioni di tipo autonomo.  «Questa modifica, se approvata, renderebbe il lavoro autonomo molto più conveniente rispetto al lavoro dipendente a parità di costo aziendale» conferma Resnati. L’effetto potrebbe essere quindi quello di far aumentare le false partite Iva: la scelta di aprirne una infatti non sempre è frutto di una libera scelta. A volte è dettata dall'impossibilità di ottenere un contratto di lavoro. Sempre più spesso, inoltre, sono i datori di lavoro/committenti a proporre – talvolta imporre – questa modalità, che nasconde in realtà prestazioni da lavoro dipendente. «La partita Iva “vera” comporta la possibilità di scegliere per chi lavorare e, solitamente, più si lavora più si dovrebbe guadagnare. Certo non si hanno tutte le tutele previste dal lavoro dipendente... quelle poche che rimangono!», aggiunge Resnati. «Tuttavia esistono delle realtà, come SMart, che mirano ad assicurare ai soci freelance l’autonomia tipica del lavoro indipendente con le garanzie tipiche del lavoro dipendente».Il Jobs Act aveva introdotto alcune novità rispetto alla sorveglianza della “genuinità” delle partite Iva, operando una stretta sulle false partite Iva. Ad esempio la norma sulla presunzione, in base alla quale le collaborazioni di tipo subordinato (cococo e cocopro) o nella forma del lavoro autonomo a partita Iva sono considerate come lavoro subordinato, dipendente, qualora siano «prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative, ripetitive ed organizzate dal committente rispetto al luogo ed all’orario di lavoro». In particolare, il lavoratore autonomo per essere tale non deve avere collaboratori e non può essere sostituito, la sua attività deve prevedere una durata e il committente non deve organizzare l'attività stessa. Inoltre il lavoratore non deve lavorare negli uffici dell’azienda né avere orari di lavoro prestabiliti.Ma le nuove misure oggi in arrivo potrebbero almeno contribuire a combattere l’evasione fiscale? «Purtroppo si tratta di un fenomeno esteso», ammette Resnati, «e riguarda anche il mondo del lavoro dipendente. Le agevolazioni potrebbero anche produrre un effetto opposto: sul fronte del fatturato si viene esclusi dallo spesometro, mentre dal lato delle spese la forfettizzazione dei costi non incentiva a chiedere la fattura. È necessario prima di tutto un cambio di mentalità. Anche limitare l’uso del contante aiuterebbe».Insomma, anche laddove la partita Iva non sia una scelta ma una strada obbligata, sta a ciascun titolare controllarne i rischi e coglierne le opportunità, nel rispetto della legge, e cercare di trasformarla in uno strumento per esercitare il proprio lavoro in maniera più libera e organizzata.Rossella Nocca

Servizio civile, la denuncia: “Per il 2019 soldi dimezzati”. Il Dipartimento promette che troverà i fondi aggiuntivi

Quest’anno sono stati messi a bando oltre 53mila posti come volontari del servizio civile, lievitati poi a poco meno di 57mila per effetto del bando straordinario di Garanzia Giovani. Un numero alto, anche se in effetti sufficiente ad accontentare solo poco più della metà dei 100mila candidati. Ma nel prossimo futuro i posti potrebbero essere ancora meno. Questo per effetto dei 148 milioni di euro previsti dalla legge di bilancio in discussione alla Camera, che secondo le previsioni si ridurrebbero a 143 milioni di euro nel 2020 e 102 nel 2021.Di fronte alla prospettiva di un possibile dimezzamento delle opportunità per i giovani, la settimana scorsa il Forum nazionale servizio civile, la Rappresentanza nazionale dei volontari del servizio civile, la Conferenza nazionale enti di servizio civile e l’Associazione Mosaico hanno lanciato un comunicato stampa congiunto «per chiedere ai parlamentari di tutte le forze politiche di presentare e sostenere emendamenti che rendano possibile nel 2019 un bando come quello del 2018».L'altroieri il governo ha affidato la replica a una nota del sottosegretario di Stato alla presidenza del Consiglio con delega al servizio civile Vincenzo Spadafora: «La legge di bilancio non prevede alcun taglio significativo per il 2019. In realtà si conferma quanto stanziato dal precedente governo».Effettivamente l’ultimo stanziamento diretto per il bando scaduto il 28 settembre scorso per il servizio civile – che prevede la possibilità per giovani tra i 18 e i 29 anni di fare un’esperienza di durata variabile tra otto e dodici mesi presso un ente in Italia o all’estero – era stato pari a 152 milioni, non molto lontani dai 148 previsti per il 2019. Ma con una differenza: «Avendo mantenuto negli ultimi anni un rapporto con il governo e il Dipartimento della gioventù e del servizio civile nazionale» precisa infatti Enrico Maria Borrelli, presidente del Forum nazionale servizio civile e di Amesci «sapevamo che era solo una parte del finanziamento complessivo, mentre il resto veniva preso in quota parte da fondi per il terzo settore, la riqualificazione delle periferie, e finanziamenti speciali di singoli ministeri, e quindi che 270-300 milioni sarebbero stati assicurati».Anche Spadafora promette di impegnarsi a «trovare fondi aggiuntivi per il 2019». Ma, in attesa di conoscere le fonti di stanziamento, i conti per ora continuano a non quadrare. «Ciascun giovane volontario ha il costo unitario di 5.400 euro l’anno» spiega alla Repubblica degli Stagisti Borrelli «somma che comprende il rimborso spese mensile di 433,80 euro ai ragazzi, i 90 euro l’anno agli enti ospitanti per la formazione e i costi generali del Dipartimento, dalla comunicazione alle ispezioni. I 148mila euro coprirebbero quindi solo 27mila volontari». «Con questo taglio si farebbe un passo indietro rispetto agli sforzi fatti in questi anni» aggiunge Feliciana Farnese, rappresentante nazionale dei volontari del servizio civile e componente della Consulta nazionale del servizio civile «in controtendenza rispetto all’obiettivo finale del servizio civile universale. Universale che voleva dire dare la possibilità di svolgere l’esperienza a tutti i giovani che facevano domanda, in Italia e nell’Unione europea, e voleva dire inclusione, attraverso il coinvolgimento dei richiedenti asilo e dei titolari di protezione umanitaria e sussidiaria internazionale».Un’altra scelta molto criticata è quella di cancellare il progetto sperimentale Integr-Azione per giovani migranti, che peraltro non toccava le tasche dello Stato, usufruendo del programma Fondo asilo, migrazione e integrazione (Fami). «Negare l’accesso a un fondo che non costa nulla è puro ostracismo» commenta Borrelli «verso un progetto che, in una situazione delicata del rapporto tra italiani e migranti, era una delle poche strade strutturate per far uscire i migranti da situazioni di ghetto e marginalità». Rispetto a questa sospensione, il sottosegretario replica così: «Non è stato possibile prevedere fondi Fami nel recente Avviso agli enti di presentazione progetti per il 2019, non certo per disinteresse mio o del Dipartimento, ma perché gli accordi sottoscritti prevedevano impegni di risorse soltanto per il 2018». Accordi che il dipartimento aveva stipulato con il ministero dell’Interno e quello del Lavoro: la patata bollente della responsbailità di questa cancellazione passa dunque ai due vicepremier, Matteo Salvini e Luigi Di Maio, titolari proprio di quei due dicasteri.Altro nodo è il silenzio del governo sulla ricostituzione della Consulta nazionale del servizio civile, decaduta il 17 ottobre scorso, «proprio mentre sono urgentissimi i provvedimenti di modifica della normativa» si legge nel comunicato degli organi di settore «a cominciare da quella in materia di accreditamento degli enti e di organizzazione quotidiana del servizio dei giovani operatori volontari, per dare applicazione alle nuove disposizioni di legge». Spadafora spiega così questo ritardo: «Non è stato possibile insediare la Consulta nazionale per il servizio civile universale prevista dal DLgs 40/2017, in quanto la nuova disposizione individua i rappresentanti degli enti mediante il nuovo Albo di servizio civile universale. Tale albo, come è noto, non è ancora operativo, essendo ancora efficaci, fino al 5 maggio 2019, i previgenti albi». Ma la soluzione dovrebbe essere dietro l’angolo: «A stretto giro verranno chieste agli enti e alle amministrazioni le designazioni dei rappresentanti che siederanno nella nuova Consulta, ai quali si aggiungeranno i rappresentanti eletti dai volontari», si legge sempre nella nota.Tuttavia gli stanziamenti e la Consulta non rappresentano al momento le uniche preoccupazioni degli operatori del settore rispetto alla salvaguardia del servizio civile. «Perché un giovane dovrebbe lavorare 30 ore a settimana per 433,80 quando, grazie al reddito di cittadinanza, potrebbe riceverne 780 a fronte di 8 ore di impegno settimanali?», si chiede il presidente del Forum nazionale servizio civile: «Perché, anziché introdurre forme enormemente più costose e disorganizzate, non si pensa di ingigantire il servizio civile, ad esempio estendendolo agli ultra 60enni o agli under 18?». Spadafora assicura che il governo non marginalizzerà l’esperienza: «Abbiamo  iniziato a ragionare con una prospettiva di lungo periodo sull’impianto stesso della programmazione» si legge nella nota: «A breve, coinvolgeremo i diversi attori del sistema per poter disporre di tutti gli elementi di valutazione. Stiamo poi individuando soluzioni organizzative ed operative per ridurre drasticamente i tempi della valutazione dei progetti, accelerare l’avvio in servizio dei volontari e mettere a regime le diverse fasi di governo del sistema».Per il momento, al di là dei possibili scenari futuri, ci si aspetta che «il governo si impegni  a cercare di trovare altri fondi per rimanere quantomeno sullo stesso numero di volontari del 2018». O almeno questo è l'auspicio di Feliciana Farnese e dei circa 100mila giovani che ogni anno fanno richiesta per accedere ai percorsi di servizio civile.Rossella Nocca

Abolizione del numero chiuso a Medicina, parte la discussione alla Camera

Il primo step c'è stato: è partito ieri presso le commissioni congiunte Istruzione e Affari sociali della Camera l’esame delle proposte di legge sull’abolizione del numero chiuso a Medicina. Dunque quello che è rimasto a lungo solo uno slogan potrebbe cominciare a concretizzarsi. E i primi cambiamenti potrebbero entrare a regime già per l’anno accademico 2019/2020.  Attualmente il 40% dei corsi universitari in Italia – circa 2mila su 4.800 totali – è ad accesso programmato. Resta ora da capire quanto e come cambierà il sistema di accesso all'università e se il nuovo modello sarà applicabile ad altri campi con un giusto equilibrio tra diritto allo studio e diritto al lavoro. Diverse le proposte depositate. Tra queste, due – quelle presentate da Fabio Rampelli, vicepresidente della Camera e del Consiglio regionale del Veneto –  si limitano ad abrogare la legge 264/1999. Le altre due – del capogruppo alla Camera del Movimento 5 stelle Francesco D’Uva e del deputato leghista Paolo Tiramani – sono più articolate e si ispirano al modello “alla francese”.La proposta di D’Uva stabilisce che l’ammissione al secondo anno sia «disposta dagli atenei previo superamento di un'apposita prova di verifica, unica per tutti i corsi e di contenuto identico nel territorio nazionale, sulla base dei programmi degli studi effettuati durante il primo anno accademico, per accertare la predisposizione alle discipline oggetto dei corsi medesimi». L'ammissione a tale prova sarebbe condizionata al superamento di tutti gli esami previsti nel primo anno. Tiramani propone invece che «entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della legge, con decreto del Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca, sono stabiliti meccanismi selettivi per gli studenti iscritti a corsi universitari, consistenti nell'individuazione di quote minime di esami di profitto da superare durante il primo anno di corso, prevedendo la decadenza dall'iscrizione dello studente inadempiente, fatte salve apposite deroghe».Pier Luigi Gallo, presidente M5s della Commissione Cultura di Montecitorio, ha promesso delle audizioni con le parti interessate, associazioni accademiche e studentesche, ma per il momento non sono ancora arrivate convocazioni. «Siamo pronti a discutere in modo costruttivo» commenta Giuseppe Novelli, rettore dell’università Tor Vergata di Roma e coordinatore della Commissione Medicina della Conferenza dei rettori delle università italiane (Crui) «con un approccio capace di tener conto delle sinergie con gli altri corsi di laurea che includono ai primi anni materie affini». Ma l’accesso programmato secondo il rettore va preservato: «Questo impianto ha dato sinora ottimi risultati. Ovviamente deve avere come finalità prima, anzi esclusiva, il miglioramento della qualità della didattica e la riduzione degli abbandoni». «Attualmente nessuno ci ha contattato. Se accadrà» precisa Enrico Gulluni, coordinatore nazionale dell’Unione degli universitari «porteremo la nostra posizione, favorevole a una graduale apertura dell’università, ma con riserva». Diversi i punti critici evidenziati: «Il primo è che si parla solo di Medicina quando la legge 264/1999 regola ad esempio anche le professioni sanitarie come Infermieristica, di cui pure c’è carenza nelle strutture sanitarie, e il corso di laurea in Architettura, dove ci sono meno candidati che posti disponibili, quindi il numero chiuso potrebbe essere abolito subito», spiega alla Repubblica degli Stagisti Gulluni: «Inoltre per introdurre l’accesso libero bisogna prima fare investimenti per l’ampliamento delle strutture, per un piano straordinario di reclutamento dei docenti e per una migliore efficienza dell’orientamento alle scuole superiori, dove non c’è la contezza di quello che si va a studiare e degli sbocchi occupazionali». A proposito di orientamento, alcune esperienze sperimentali sono già state avviate. Come il corso di Biomedicina attivato in una trentina di istituti scolastici, dal terzo anno delle superiori, e consistente in cinquanta ore l’anno fra teoria e “pratica”, per aiutare gli studenti a capire la propria predisposizione o meno agli studi in Medicina. Il coordinatore Udu è critico invece rispetto alla proposta di prendere in prestito il modello “alla francese”. «Escludere uno studente da Medicina se non supera per due volte un test significherebbe infrangere il diritto allo studio e quindi anche la Costituzione».Ma se il numero chiuso viene messo in discussione per Medicina, c’è chi lo ritiene adeguato per corsi di laurea "tradizionalmente" ad accesso libero. Qualche mese fa il ministro dell’Interno Matteo Salvini aveva dichiarato: «A Medicina c’è bisogno di ossigeno. Abbiamo bisogno di medici e di ingegneri. Ma metterei il numero chiuso nelle facoltà umanistiche, da dove ne sono usciti tanti di laureati».Prima di Salvini ci aveva già pensato qualcun altro. La Statale di Milano nel 2017 aveva introdotto l’accesso programmato nei corsi laurea in Filosofia, Lettere, Lingue e letterature straniere, Scienze dei beni culturali, Scienze umane dell'ambiente, del territorio e del paesaggio e Storia, ma ha dovuto riaprirlo a seguito di un ricorso accolto dal Tar del Lazio. «I tentativi della Statale non sono altro che modi per nascondere il sottofinanziamento da parte dello Stato» sostiene Giuseppe Ingoglia, coordinatore dell’Udu Milano «e di eliminare i problemi di spazio, di carenza di docenti etc. Noi ci siamo attivati per garantire il diritto allo studio e abbiamo vinto la prima battaglia». La legge prevede infatti che l’accesso programmato sia vincolato ad alcune requisiti, ad esempio la necessità di laboratori altamente qualificati, che nel caso della Statale non sussisteva, e l’obbligo di tirocini. «Quest’anno il tentativo si è ripetuto con il corso di laurea in Mediazione linguistica e culturale e con quello di Lingue e letterature straniere» aggiunge Ingoglia: «Nel primo caso abbiamo presentato un nuovo ricorso, nel secondo abbiamo rinunciato in quanto alla fine le domande si sono dimostrate inferiori rispetto ai posti disponibili». Secondo il rettore Novelli «nel nostro Paese c’è un gran bisogno anche di figure di tipo umanistico: pensiamo ai beni culturali, alla gestione e conservazione degli stessi, all'utilizzo delle nuove tecnologie digitali, della comunicazione e dei nuovi media. Solo pochi esempi che ci confermano la necessità di impegnarci ulteriormente per indirizzare meglio anche chi sceglie questi percorsi, per allineare i fabbisogni del mercato all’offerta formativa». Rossella Nocca

Lavoro agile, lo usano soprattutto gli uomini nelle grandi imprese: il quadro dell'Osservatorio Smartworking

Nel nostro Paese lo smartworking è in crescita e lo scenario attuale sembra far sperare ancora bene per il futuro.  Sono stati presentati un paio di settimane fa, nel corso del convegno «Smartworking: una rivoluzione da non fermare» i risultati della ricerca dell’Osservatorio Smartworking della School of Management del Politecnico di Milano relativi al cosiddetto lavoro agile.Risultati che arrivano a poco più di un anno dalla legge 81/2017, che ha definito e disciplinato lo smartworking in maniera organica, individuandone le caratteristiche distintive nella «flessibilità organizzativa, volontarietà delle parti e adozione di strumentazione tecnologica» ed evidenziando come ulteriori elementi rilevanti la parità di trattamento economico e normativo, il diritto all’apprendimento permanente e la tutela degli aspetti legati alla salute e alla sicurezza.Cosa dice la ricerca? Innanzitutto offre un panorama numerico: in Italia i lavoratori agili sono 480mila, pari al 12,6% del totale degli occupati che, in base alla tipologia di attività, potrebbero oggettivamente fare smartworking (una cassiera di un supermercato o un portalettere, evidentemente, non potrebbero). Il numero indica un aumento del venti per cento rispetto allo scorso anno, quando il numero di smartworkers si era attestato a 305mila. La sorpresa però è che si tratta prevalentemente di lavoratori di genere maschile, che rappresentano il 76%, di età compresa tra i 38 e i 58 anni e residenti nel nord-ovest del Paese.Le principali motivazioni che inducono i lavoratori a scegliere lo smartworking sono legate alla sfera personale e al miglioramento del benessere. Per un 46% dei lavoratori c’è la possibilità di evitare lo stress durante gli spostamenti casa-ufficio, per un 43% il miglioramento del proprio equilibrio tra vita privata e professionale. Ma ci sono anche aspetti negativi: tra le criticità riscontrate le più frequenti sono la percezione di un senso di isolamento circa le dinamiche dell’ufficio (18%), seguita dal maggiore sforzo di programmazione delle attività e di gestione delle urgenze (16%).A questo proposito è interessante osservare come la percentuale più alta di smartworker si registri tra lavoratori di sesso maschile e non più giovanissimi, a differenza di quanto si potrebbe pensare a una prima analisi più superficiale del tema, che porta ad associare il lavoro agile soprattutto nella sua possibilità di lavorare da casa alle donne magari con figli più piccoli, per facilitare la conciliazione tra lavoro e vita familiare.Il dato 2018 dimostra invece che lo smartworking è un fenomeno più ampio e trasversale, legato in generale all’esigenza di migliorare il benessere lavorativo e in generale l’equilibrio tra vita privata e professionale.«Pensare che la conciliazione sia un’esigenza solo femminile è uno stereotipo da superare» dice Silvia Zanella, responsabile global digital marketing di Adecco, commentando i risultati della ricerca: «Gli uomini da un lato partecipano molto di più rispetto a un tempo alla gestione del carico familiare. Dall’altro lato sta tramontando la mitologia del fare tardi la sera per fare carriera. Se c’è un merito dello smart working è aver smascherato certi luoghi comuni. Non necessariamente chi stacca dopo o è sempre in ufficio è più produttivo di chi adotta un approccio agile». «Quando ho presentato la proposta di legge sullo smartworking, l’obiettivo principale era che potesse diventare presto uno strumento utilizzato dalle lavoratrici e dai lavoratori indistintamente» aggiunge Alessia Mosca, deputata al Parlamento europeo ed esperta di smartworking: «Sono convinta che sia necessario intraprendere una nuova strada per migliorare la situazione delle donne nel nostro Paese: le politiche, pubbliche e aziendali, rivolte alle donne - dalla possibilità per le neo-mamme di chiedere il part-time all’allungamento del congedo - perpetuano una visione del genere femminile come un “problema da risolvere”. Credo sia profondamente sbagliato: si diventa genitori in due, le responsabilità di cura della famiglia appartengono agli uomini così come alle donne. Per superare una volta per tutte la vecchia suddivisione “uomini nello spazio pubblico, cioè il lavoro, e donne nello spazio privato, la famiglia” è necessario agire a livello sistemico e fornire strumenti rivolti a entrambi, perché entrambi possano portare avanti il proprio percorso professionale e partecipare alla cura della propria famiglia. Il fatto che i dati ci dicano che la maggior parte degli smartworker oggi sono uomini è, dal mio punto di vista, estremamente positivo: la necessità di riprendere spazi e tempi per la propria vita non ha connotazione di genere».Ma in quali contesti si ricorre maggiormente allo smartworking? A fare da padrone sono le grandi imprese: considerando un campione di 183 imprese con più di 250 addetti, in un’azienda su due (56% dei casi) sono presenti progetti strutturati di smartworking. Per la maggior parte delle imprese il modello si concretizza nella possibilità di lavorare da remoto, scelta dal 53% delle grandi imprese, mentre l’altro 47% mette in pratica anche esigenze di ripensamento degli spazi.  «Le grandi corporation hanno tempi di risposta più rapidi proprio perché inserite in un contesto globale dove le novità arrivano prima» riflette Zanella: «Vuoi perché lo Smart working è già presente in casa madre, vuoi perché organizzazioni globali sono necessariamente flessibili, lo smart working è la risposta per il lavoro che cambia».In effetti le grandi imprese, soprattutto multinazionali, sono state le prime in assoluto a introdurre strumenti di flessibilità nell’organizzazione del lavoro, già prima che esistesse la legge. In questo senso «hanno aperto un cammino» dice Mosca «e dimostrato non solo che si poteva fare ma anche che i risultati erano impressionanti, sia per i lavoratori che per l’azienda. È stato molto importante avere dei casi di studio: hanno permesso la raccolta di dati, anche per dare una spinta alla proposta di legge, poi trasformata in un decreto del governo».Invece le piccole e medie imprese di lavoro agile sembrano proprio non voler sentir parlare: solo l’8%, in linea con l'anno passato, dichiara di avere progetti strutturati di smartworking e addirittura il 38% di non avere interesse verso questa modalità di lavoro. Dati, questi, che da una parte non sorprendono considerando che le grandi aziende sono tendenzialmente più organizzate e strutturate in termini di risorse e personale per poter gestire lo smartworking. Dall’altra, però, un vantaggio non indifferente del lavoro agile è proprio l’ottimizzazione di costi e spazi di lavoro, aspetti non di poco conto per le realtà più piccole.Un segnale positivo rispetto al 2017 arriva invece dalla pubblica amministrazione, che sta dando i primi segnali su questo fronte. Se lo scorso anno solo il 5% degli enti pubblici aveva avviato progetti di smartworking, quest’anno la percentuale è aumentata di oltre la metà, attestandosi sull’8%. Un incentivo è stato senza dubbio rappresentato dall’approvazione della legge sul lavoro agile: il 60% degli enti pubblici che ha attivato iniziative di questo genere ha dichiarato di aver trovato uno stimolo nella nuova legge. Sono 358 le PA con più di dieci addetti coinvolte nella ricerca dell’Osservatorio: «Da quello che so, ma non sono un’esperta» modera un po' gli entusiasmi Zanella «ci si aspettavano progressi maggiori. Di certo la cultura della performance misurabile non sempre si sposa con alcune logiche radicate nel settore pubblico». In occasione del convegno sono stati anche assegnati gli «Smartworking Award» 2018, premi destinati alle aziende che si sono distinte per i propri progetti legati al lavoro agile. A2A, Gruppo Hera, Intesa Sanpaolo e Maire Tecnimont sono le aziende che si sono aggiudicate il riconoscimento quest’anno. Zurich si è invece guadagnata lo «Smartworking Impact Award», premio indirizzato alle organizzazioni già vincitrici dello Smartworking Award, nelle quali il progetto negli ultimi anni ha avuto un impatto significativo sull’organizzazione.Chiara Del Priore

Tirocini in Garanzia giovani presso gli enti pubblici: nessun divieto, è "solo" una raccomandazione

A seguito della pubblicazione dell’articolo «Cento stagisti al Comune di Napoli, un tirocinio formativo ma senza sbocchi lavorativi (in violazione di una certa circolare…)», l’assessorato ai giovani del Comune ha fatto pervenire alla Repubblica degli stagisti una email con una serie di precisazioni. La più rilevante: l’esistenza di una seconda circolare del ministero del Lavoro, datata 30 aprile 2015, che formula più precisamente la impossibilità di svolgere tirocini in Garanzia Giovani all'interno di enti pubblici come una “raccomandazione” e non come un “divieto”.La Repubblica degli Stagisti ha quindi chiesto direttamente a Salvatore Pirrone, dal maggio 2016 direttore generale dell’Anpal e firmatario delle due circolari in quanto dg della Direzione per le Politiche attive del ministero del Lavoro, di far luce sulla questione.La notizia più rilevante dell’intervista a Pirrone è che «non c’è mai stato un divieto dal ministero a tirocini in Garanzia Giovani negli enti pubblici, ma solo una generale raccomandazione». Che, «non essendo fondata su norme che vietano un determinato percorso, visto che non è vietato né nei regolamenti europei né nella normativa regionale, non poteva spingersi fino al divieto». Il Comune di Napoli, quindi, non è caduto nell’errore di non rispettare un divieto, ma ha semplicemente scelto di non seguire una raccomandazione.Effettivamente il testo della nota del 3 aprile 2015 non mette nero su bianco la frase “è fatto divieto” – ma prescrive che, considerato il principio secondo cui l’accesso agli impieghi presso la pubblica amministrazione debba avvenire mediante concorso come prescrive l’articolo 97 della Costituzione, «gli enti pubblici locali, nazionali e trasnazionali vadano esclusi dal novero dei soggetti ammessi ad ospitare i tirocini nell’ambito del Programma, vista l’impossibilità che i periodi di tirocinio presso tali soggetti consentano un successivo inserimento lavorativo».Ma la successiva circolare del 30 aprile ritorna sull'argomento e raccomanda di non fare – ma non vieta – lo svolgimento dei tirocini negli enti pubblici. Sonia Palmeri, assessora al Lavoro e alle risorse umane della Regione Campania, sottolinea che «il Comune di Napoli, come altre pubbliche amministrazioni campane, ha potuto attivare i tirocini» – si riferisce naturalmente ai tirocini in Garanzia Giovani legati ai fondi messi a disposizione dalla Regione attraverso un apposito bando – «in funzione dell’attuazione del regolamento regionale a quell’epoca in vigore, approvato dalla precedente amministrazione di centrodestra del governatore Caldoro». Dall’assessorato confermano che le richieste delle varie pubbliche amministrazioni sono state tutte risalenti al primo semestre 2015, quando al governo della Regione vi era la precedente giunta: «La Regione Campania ha tenuto in considerazione la raccomandazione, controllando ogni forma di possibile abuso e riducendo il rischio che il tirocinio si trasformasse in un’inutile perdita di tempo».Se però «gli enti pubblici locali, nazionali e trasnazionali vanno esclusi», come dice la prima circolare, è presumibile che per quanto non esista un divieto esplicito, essi non dovrebbero attivare questo genere di tirocini. Anche perché, spiega Pirrone, «l’indicazione nei confronti delle regioni ad evitare l’utilizzo dei tirocini negli enti pubblici era spiegata nella nota: le possibilità di stabilizzazione sono sostanzialmente nulle». Da qui la «calda raccomandazione a limitare strettamente» questi stage, soprattutto «per evitare che, in particolare nelle regioni del Mezzogiorno, si crei una sorta di aspettativa al posto pubblico».L’assessora Palmeri è di altro avviso, e precisa che ai giovani partecipanti «è stata data la possibilità attraverso il tirocinio in Garanzia Giovani di fare un’esperienza formativa importante di sei mesi non replicabili e di cui, sin dal primo momento, è stato evidenziato il carattere della temporaneità. Il programma europeo punta all’occupabilità dei giovani, quindi a realizzare percorsi che rimettano i neet in condizioni stimolanti per la costruzione di una propria identità professionale» continua l’assessora: «È il neet a scegliere se candidarsi a vacancy nel pubblico o di datori privati».Nella sua email alla Repubblica degli Stagisti l’assessorato ai giovani del Comune di Napoli evidenzia anche che il DD 566 del 2014 «definisce il tirocinio extracurriculare Garanzia Giovani un’esperienza di formazione pratica presso un luogo di lavoro che non costituisce rapporto di lavoro né prevede un obbligo di assunzione diretta», visto che lo stage «consente al tirocinante di acquisire competenze professionali per arricchire il proprio curriculum vitae e favorire l’inserimento o il reinserimento lavorativo futuro».Su questo punto Pirrone conferma come la raccomandazione europea si sia espressa per un’offerta di qualità, anche se è difficile definire cosa si intenda: «Dal nostro punto di vista è quella in grado di incrementare le competenze della persona coinvolta e quindi migliorarne le prospettive di inserimento lavorativo. Anche l’esperienza presso l’amministrazione pubblica, come il servizio civile nazionale – che difficilmente preludono a un inserimento lavorativo immediato – sono comunque esperienze finalizzate a incrementare le competenze, e quindi a rendere il soggetto più appetibile dal mercato del lavoro in generale».Palmeri è ancor più netta: «I giovani conoscono bene il dato immutabile che nella pubblica amministrazione si accede, a norma di legge, per pubblico concorso. Dovrei forse vietare ai giovani di esprimere la loro volontà nel fleggare la candidatura ad una posizione di stage nella pa?». Quanto all’utilità di un tirocinio di questo tipo, senza appunto sbocchi lavorativi, l’assessora al lavoro campano ribadisce: «L’obiettivo chiaro è far partecipare il neet alla vita sociale, allontanando lo spettro dell’immobilità».Sul caso specifico dei tirocini in Garanzia giovani presso il Comune di Napoli Pirrone specifica che non conosce il progetto, e che come ministero hanno dato indicazioni volte a scoraggiare il finanziamento dei tirocini nelle pubbliche amministrazioni, ma ammette: «È chiaro poi che le Regioni, nell’ambito della normativa vigente, hanno facoltà di finanziare ciò che ritengono più utile».In tutta la questione c’è infatti anche un tratto formale, riferito ai risultati dell’ultimo referendum costituzionale. L’Anpal, infatti, ha la responsabilità di gestire il programma Garanzia Giovani che, però, «è configurato con le regioni come organismi intermedi principali, visto che c’è un sistema costituzionale che prevede la competenza legislativa concorrente in materia di politiche del lavoro e, di conseguenza, la competenza in materia di organizzazione dei servizi da parte delle regioni». La proposta di riforma della Costituzione di due anni fa prevedeva di riportare la competenza legislativa in materia di formazione allo Stato, ma il risultato referendario ha invece condotto ad un altro esito. Per questo motivo, spiega Pirrone, «oggi ci muoviamo nel sistema costituzionale attuale». Che vuol dire anche un’interpretazione diversa dell’applicazione della raccomandazione da regione a regione.Il Comune di Napoli, dunque, non ha violato una circolare, come erroneamente scritto dalla Repubblica degli Stagisti, ma ha deciso di non seguire una raccomandazione – su un punto delicatissimo di tutta la questione Garanzia giovani, ovvero l’effettiva possibilità di assunzione al termine del tirocinio. Marianna Lepore

Abolizione del numero chiuso a Medicina, accademici e associazioni studentesche si dividono

Il 16 ottobre scorso il governo ha lanciato una "bomba" sul mondo dell'università e della sanità. All'interno del comunicato stampa sulla manovra 2019, si leggeva: «Si abolisce il numero chiuso nelle Facoltà di Medicina, permettendo così a tutti di poter accedere agli studi». Di tutta risposta, in un comunicato stampa congiunto, il ministro della Salute Giulia Grillo e quello dell'Istruzione Marco Bussetti hanno fatto sapere che, da parte loro, si erano limitati a chiedere un aumento degli accessi e delle borse di specializzazione. Qualche ora dopo la notizia si è relativamente "sgonfiata": la presidenza del consiglio ha chiarito infatti che «si tratta di un obiettivo politico di medio periodo per il quale si avvierà un confronto tecnico con i ministeri competenti e la Crui, che potrà prevedere un percorso graduale di aumento dei posti disponibili, fino al superamento del numero chiuso». Fatto sta che nei piani, anche se non a breve termine, del governo c'è la revisione dell'attuale sistema di accesso agli studi in Medicina, e questo ha inevitabilmente aperto un accesso dibattito tra le categorie interessate. «In un primo momento siamo rimasti entusiasti» commenta Alessio Bottalico, coordinatore nazionale dell'associazione Link - Coordinamento Universitario «in quanto l’abolizione del numero chiuso a Medicina rappresenta una delle nostre più grandi battaglie per assicurare il diritto allo studio». Dopo la soddisfazione iniziale, è arrivato tuttavia il confronto con la realtà: «Pensiamo che ad oggi siano necessari finanziamenti, da un lato per garantire una didattica adeguata, dall’altro per aumentare le borse di specializzazione, altrimenti si crea solo illusione» aggiunge Bottalico. Riflessioni, queste, che saranno all’ordine del giorno dell’assemblea nazionale “O le borse o la vita!”, organizzata da Link e dall’associazione di specializzandi Chi si cura di te per il prossimo 9 novembre a Roma. Intanto il 26 ottobre Link, insieme ad altre associazioni studentesche, ha incontrato il ministro del lavoro Luigi Di Maio, che si è limitato a confermare che l'abolizione del numero chiuso è nel programma del governo, ma serve tempo.Per l’anno accademico 2018/19 hanno svolto i test di accesso a Medicina 67mila candidati e solo 10mila - meno di uno su sette - li hanno superati. Eppure lo stringente meccanismo selettivo non basta a garantire a tutti i laureati il prosieguo immediato del percorso. Anzi, più della metà dei laureati attualmente non riesce ad accedere al primo colpo a una delle specializzazioni per le quali ha espresso la propria preferenza. Quest’anno, infatti, sono state meno di 7mila le borse di studio bandite per le specializzazioni mediche, a fronte di 15mila domande e di 8mila medici prossimi alla pensione. Ciò significa che 8mila laureati resteranno in un “limbo” almeno per un anno. L’altra faccia della medaglia è però che, a un anno dal titolo, l’80 per cento dei laureati è inserito nel mondo del lavoro. Nonostante le perplessità sulla fattibilità, l’apertura politica verso il superamento del numero chiuso, secondo il coordinatore di Link, resta tuttavia un passo importante: «Può contribuire a garantire il diritto alla salute: si pensi infatti che in Italia 13 milioni di persone sono escluse dalle cure. E può mettere fine al business legato ai test di accesso, dai testi che costano 100 euro ai corsi di preparazione che arrivano a 5mila euro, fino alla fuga all’estero degli aspiranti medici». Insomma, l’abolizione dei test selettivi renderebbe più “democratico” il diritto allo studio e insieme quello alla salute.Ma c’è chi non la pensa esattamente così. «Il numero programmato va preservato: abolirlo sarebbe una follia» dice Emanuele Spina, presidente del Segretariato italiano giovani medici «perché porterebbe il diritto alla salute a sottostare alle logiche del mercato e del miglior offerente, e perché quello del medico è un lavoro delicato che necessita di una formazione e di strutture adeguate. Per questo siamo pronti a bloccare le attività degli specializzandi e ad organizzare proteste per difendere l’accesso programmato. Siamo invece aperti a al dialogo per una riprogrammazione del numero di posti». Spina è anche contrario alla possibilità di adottare il sistema “alla francese”, con la selezione prima del secondo anno: «Il primo anno è di pre clinica, che con la medicina ha poco a che fare, inoltre se venisse utilizzato il criterio degli esami sostenuti e della media voti si tornerebbe a una logica clientelare e baronale, e il sistema si presterebbe a interpretazioni più soggettive. E poi l'anno perso come verrebbe speso? Meglio uno sbarramento all'inizio, che direziona verso un altro corso, magari affine, in attesa di ritentare il test». Intanto pochi giorni fa, il 20 ottobre, la Conferenza permanente dei presidenti di consiglio di corso di laurea magistrale in Medicina e chirurgia ha approvato all'unanimità una mozione in cui richiede ai ministri della Salute e dell'Istruzione di «aprire un dialogo costruttivo che sia in grado di condurre ad una sintesi condivisa delle esigenze legate alle strategie politiche complessive del governo della cosa pubblica con quelle del sistema della formazione di qualità e della sua sostenibilità nel rispetto della programmazione dei fabbisogni reali del Ssn e dei Ssr».Tra i firmatari c'è Stefania Basili, presidente della Conferenza stessa e del corso di laurea magistrale in Medicina e chirurgia "D" dell'università La Sapienza di Roma, che alla Repubblica degli Stagisti spiega alcune delle proposte che saranno portate avanti: «Riteniamo che una programmazione attendibile e congrua debba essere necessariamente regolata da un processo di selezione, sicuramente migliorabile e auspicabilmente preceduto da una prova attitudinale». L'attuale test di ammissione è infatti ritenuto da molti un “terno al lotto”, che non è in grado di definire realmente l’essere all’altezza o meno di diventare un medico. «Riteniamo inoltre che debba venir dato maggior rilievo ai rapporti istituzionali che già intercorrono tra scuola secondaria e università» aggiunge Basili «con un ampliamento e miglioramento dei progetti di alternanza scuola-lavoro e di orientamento allo studio della medicina, anche in collaborazione con gli Ordini dei medici. Tutto questo potrebbe essere un mezzo di autovalutazione vocazionale alla medicina per gli studenti della scuola secondaria, riducendo i grandi numeri che si presentano al test e preparando questi giovani ad “essere medici”».  C’è un’altra argomentazione dei “no” all’abolizione del numero chiuso. «Se si aprisse l’accesso a tutti, decadrebbe la valenza europea del titolo» spiega Andrea Lenzi, presidente dell'associazione Conferenza permanente dei presidenti di consiglio di corso di laurea magistrale in Medicina e chirurgia. Le 5.500 ore di didattica certificata nei sei anni permettono infatti l’accreditamento europeo della formazione italiana, consentendo ai laureati la libera circolazione nei paesi dell’Ue. Senza contare che l’abolizione della programmazione «sarebbe uno spreco per le famiglie e per la società, visto che i meno di 1.000 euro di tasse universitarie annuali coprono solo una piccola parte dei costi di uno studente in Medicina».   A oltre vent’anni dalla sua introduzione, il numero chiuso a Medicina per la prima volta viene messo concretamente in discussione, aprendo a una possibile rivoluzione all’interno di una delle categorie oggi considerate “privilegiate” per gli sbocchi occupazionali e gli stipendi di gran lunga superiori alla media. Rossella Nocca

A cosa serve e come presentare la Did, la dichiarazione di immediata disponibilità al lavoro

La dichiarazione di immediata disponibilità al lavoro – la cosiddetta “Did” – è oggi un passaggio obbligatorio per usufruire di servizi per l’inserimento nel mercato del lavoro. La procedura, attraverso la quale i disoccupati e comunicano di essere alla ricerca di un lavoro, oltre che tramite il proprio Centro per l’impiego di riferimento, da dicembre 2017 si può effettuare direttamente online attraverso i siti dell’Anpal o i sistemi informativi del lavoro regionali. Inoltre dal 22 ottobre esiste una terza possibilità: i richiedenti possono essere supportati dai Centri per l'impiego e dai patronati convenzionati anche nella compilazione online attraverso l'area riservata del portale Anpal.Ricordiamo che il decreto legislativo n.150 del 2015 ha introdotto un nuovo concetto di “stato di disoccupazione”, secondo cui «sono considerati disoccupati i soggetti privi di impiego che dichiarano in forma telematica al sistema informativo unitario delle politiche del lavoro […] la propria immediata disponibilità allo svolgimento di attività lavorativa e alla partecipazione alle misure di politica attiva del lavoro concordate con il centro per l’impiego». Per quanto riguarda i percettori di sostegno al reddito la domanda di Naspi o Dis-coll, la domanda di indennità di mobilità resa all'Inps equivale a dichiarazione di immediata disponibilità ed è trasmessa dall'Inps all'Anpal.Con la circolare n.1/2017 l’Anpal ha definito le regole informatiche per fare sì che le Did rese su portale Anpal o su sistemi informativi regionali potessero essere considerate valide ai fini dell’accesso della persona al sistema dei servizi per il lavoro e delle politiche attive.Ma come si fa a presentare la dichiarazione? Il cittadino che è senza lavoro e non percepisce sostegni al reddito o il lavoratore dipendente che ha ricevuto una comunicazione di licenziamento  – nel periodo di prevviso di licenziamento – può autenticarsi nell’are riservata con le credenziali Inps selezionando la voce “dichiarazione di immediata disponibilità” e inserire le informazioni personali, professionali e lavorative, utili anche al calcolo dell’indice di profilazione quantitativo. Segue la prenotazione dell’appuntamento al Centro per l’impiego per la firma del Patto di servizio personalizzato, attraverso il quale il soggetto si impegna ad accettare una eventuale offerta che sia “congrua” al suo profilo.Chi non è in possesso del Pin Inps deve registrarsi sul portale Anpal, dopo di che la sua dichiarazione sarà acquisita con riserva. Quindi, al momento del contatto con il Centro dell’impiego, l’interessato dovrà confermare il suo stato di disoccupazione e convalidare l’autenticazione. La procedura si può effettuare direttamente da casa oppure con l’aiuto di un Centro per l’Impiego o un patronato, appositamente convenzionato con l’Anpal. Per ricevere assistenza si può telefonare al numero verde 800 000039 dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 18 o scrivere una mail all’indirizzo info [chiocciola] anpal.gov.it.«Nel periodo compreso tra dicembre 2017 e luglio 2018 sono entrate nel sistema nazionale oltre un milione di dichiarazioni di disponibilità» dice alla Repubblica degli Stagisti Stefano Pirrone, direttore generale dell’Anpal: «Di queste quasi il 20 per cento sono state ricevute direttamente sul portale nazionale e il restante 80 per cento tramite i canali di cooperazione applicativa. In quest’ultimo caso la Did è stata inserita in un sistema regionale, in quanto presentata direttamente presso il Centro per l’impiego o altro operatore accreditato oppure su un portale regionale, e ricevuta dal sistema nazionale tramite gli usuali canali di colloquio telematico tra sistemi».Nelle ultime settimane però ci sono stati segnalati alcuni disservizi nella compilazione della Did online. «Il motivo principale è che in molti casi è stato necessario allineare i dati presenti nei diversi sistemi» spiega Pirrone: «Talvolta le operazioni di allineamento dei sistemi effettuate in concomitanza degli orari di apertura al pubblico dei Centri per l’impiego, hanno creato dei blocchi del sistema». Il direttore dell’Agenzia tuttavia rassicura sul regolare ripristino delle funzionalità: «Ad oggi l’attività di forte collaborazione inter-istituzionale con le Regioni/Province autonome ha permesso di mettere in atto tutte le correttive necessarie a rendere più agevole il servizio».Un'altra novità in materia di Did online ha riguardato i cittadini stranieri appartenenti all’Unione europea che soggiornano regolarmente sul territorio italiano.  L’Anpal ha infatti chiarito, con la circolare n. 4/2018, che essi hanno diritto al pari dei cittadini italiani a fruire dei servizi e delle misure di politica attiva del lavoro. Pertanto gli uffici di collocamento nazionali sono tenuti a prestare ai cittadini comunitari la medesima assistenza che prestano agli italiani sia dal punto di vista dell’attivazione che della ricollocazione nel mercato del lavoro. Questo, in virtù del principio di non discriminazione e di libera circolazione dei lavoratori degli Stati membri.  La Did online fai-da-te rappresenta una svolta importante per i cittadini, anche in virtù della lentezza dell’informatizzazione nei Centri per l’impiego, soprattutto nel Meridione. Secondo il Monitoraggio dei Servizi per il lavoro 2017 dell'Anpal, dei 501 Cpi presenti in Italia la metà ha dotazioni informatiche insufficienti, mentre al Sud e nelle isole la percentuale sale al 72%. Gli ostacoli non riguardano solo gli strumenti ma anche il personale: il blocco del turn over fa sì che l’età media sia piuttosto alta e che molti dipendenti non siano adeguatamente formati per gestire le nuove procedure telematiche. Insomma, l’auspicio è che la nuova procedura possa snellire la burocrazia e agevolare il percorso già abbastanza complicato dei cittadini nell’attuale mondo del lavoro.  Rossella Nocca

Farmacisti e crisi occupazionale, l’appello della Federazione: “Introducete il numero chiuso”

I farmacisti italiani sono sul podio dei professionisti più ricchi. Secondi i redditi medi per categoria pubblicati dall’Agenzia delle entrate (Fonte: Dichiarazioni dei redditi 2016), con i loro 121mila euro, sono secondi soltanto ai notai e precedono i medici. Ma questi dati non devono trarre in inganno sullo stato di salute della categoria. A meno che gli aspiranti farmacisti non abbiano alle spalle una farmacia di famiglia, la strada per loro non è proprio in discesa. Gli iscritti all’albo dei farmacisti sono circa 96mila (dati aggiornati al 2017). Di questi, 57mila, tra titolari e collaboratori, sono occupati nelle farmacie, che ammontano a 20mila tra comunali e private. 17mila, invece, quelli che operano in altri settori: Servizio sanitario nazionale, industria farmaceutica e distribuzione intermedia. Secondo i dati AlmaLaurea, il tasso di occupazione a un anno dal titolo nella classe di laurea in farmacia e farmacia industriale è del 55,1%, mentre la retribuzione netta mensile media è di 1.226 euro. In base alle previsioni della Joint Action Health Workforce Planning and Forecasting, iniziativa comunitaria cui partecipa il  nostro ministero della Salute, il fabbisogno di farmacisti per il Servizio sanitario nazionale per il periodo 2015-2040 è di circa 1.500 unità l’anno. «In media i 33 Dipartimenti di Farmacia in Italia producono 4.500 neolaureati l'anno. Ciò significa che c'è un esubero di 3mila laureati ogni anno», spiega Davide Petrosillo, presidente della Federazione nazionale associazioni giovani farmacisti (Fenagifar). Secondo le stime della Federazione ordini farmacisti italiani (Fofi), da qui a vent’anni saranno 63mila i professionisti disoccupati.«Il problema occupazionale è il riflesso dell'attuale situazione di instabilità del settore» aggiunge Petrosillo «dovuta fra le altre cose anche alla recente novità dell'ingresso del capitale nelle farmacie, che porta i titolari di farmacie ad essere più oculati nelle assunzioni». La legge 124/2017 sulla concorrenza ha infatti autorizzato l'ingresso delle società di capitali nella titolarità dell'esercizio della farmacia privata.Ma non solo. «Diversi fattori economici, come la discesa del prezzo dei medicinali e la contrazione del Fondo sanitario, hanno ridotto fortemente i margini della farmacie di comunità» spiega il presidente della Fofi, Andrea Mandelli, senatore nella scorsa legislatura.Ma quali possono essere le soluzioni per migliorare l’accesso al mondo del lavoro? «La strada più percorribile al momento sarebbe quella di introdurre nei corsi di laurea in farmacia il numero programmato a livello nazionale», propone Petroselli. Una strada percorribile? «La fattibilità dipende dal legislatore. Di certo il numero dovrebbe tenere conto del fabbisogno individuato dal ministero, pari ad esempio a 448 unità l'anno per l'anno accademico 2017/18», commenta il presidente Fofi. Un’altra soluzione potrebbe arrivare dai nuovi sbocchi nella farmacia dei servizi. «La linea della Federazione si basa sul presupposto che il farmacista può e deve andare oltre la dispensazione del medicinale. Ad esempio» spiega Mandelli «egli può collaborare al processo di cura in un ambito strategico come l’aderenza alla terapia. Il modello della farmacia dei servizi è alla vigilia dell’implementazione sul territorio e speriamo che contribuisca definitivamente ad assorbire la disoccupazione. Anche il corso di laurea deve essere riformato per adeguarsi al nuovo ruolo del farmacista».A proposito di formazione, sono numerosi i nuovi ambiti da esplorare. «Oggi invitiamo i giovani a puntare  sugli aspetti più "etici" della professione come la galenica, la fitoterapia, la presa in carico del paziente e la comunicazione efficace», spiega Petroselli. Poi aggiunge: «Importante sarà di pari passo, curare gli aspetti del marketing e della gestione, in quanto con l'ingresso del capitale nelle farmacie non ci si potrà permettere errori di gestione economica. Se oggi i giovani continuano a scegliere farmacia è proprio perché la vedono come una professione in evoluzione».Altra proposta della Federazione è quella di incrementare gli organici dei farmacisti ospedalieri. «Il Servizio sanitario dovrebbe considerare che in tutto l’Occidente industrializzato il farmacista ospedaliero è presente a livello di reparto e fa parte dei team di cura, con effetti positivi in termini clinici ed economici». Secondo i dati dell'ultimo annuario statistico del Servizio sanitario nazionale (2016 su dati 2013), i farmacisti occupati nel Ssn erano 2.512, distribuiti fra i 1.070 ospedali, considerando – ricordiamo – che ciascun ospedale del Ssn è obbligato ad avere una farmacia.    Anche nel settore farmaceutico oggi sono tanti i giovani che si trasferiscono all’estero. In Europa ci sono oltre 150mila farmacie e i farmacisti italiani hanno la possibilità di esercitare la professione in qualsiasi paese europeo, in quanto i titoli richiesti in Italia (laurea, esame di Stato) sono riconosciuti dall’Unione europea. L’unico “ostacolo” è il test linguistico sulla conoscenza della lingua del paese ospitante. Al momento, secondo quanto riportato in uno studio di AgrifarLab, laboratorio di idee di giovani farmacisti Fenagifar, i paesi in cui cresce l’offerta sono la Germania e i Paesi scandinavi, mentre saturi risultano i mercati del Regno Unito e dei Paesi del Sud (Francia, Spagna, Portogallo, Grecia). Per fornire una bussola ai futuri farmacisti sulle opportunità nazionali e internazionali, l’università La Sapienza di Roma qualche mese fa ha organizzato l’incontro “Cosa farò da grande: professione farmacista”, rivolto a laureandi e neo laureati e destinato ad essere il primo di un ciclo. «Ci siamo resi conto che i nostri ragazzi avevano poca consapevolezza delle opportunità post laurea» racconta alla Repubblica degli Stagisti Rossella Fioravanti, ricercatrice in Chimica farmaceutica presso l’ateneo e consigliere dell’Ordine dei farmacisti di Roma «così abbiamo voluto far capire loro, attraverso gli interventi di testimonial della categoria, che quella in farmacia è una laurea versatile e che non devono dare per scontato l’impiego all’interno di una farmacia». Insomma, anche se oggi chi si iscrive a questo corso di laurea non lo fa più per la garanzia di un’occupazione, sono tante e interessanti le sfide verso le quali il settore farmaceutico si avvia, sfide che potrebbero richiedere nuove competenze e creare nuove opportunità. Rossella Nocca

Voucher e lavoro occasionale, con le novità del decreto Dignità molto rumore per nulla

Nei primi giorni di agosto è stato approvato il cosiddetto Decreto Dignità che ha introdotto, tra le varie disposizioni, delle novità sul fronte dei buoni lavoro, meglio noti come voucher. Se prima questo inquadramento poteva essere usato per piccoli lavoretti – come ripetizioni, babysitting, o, ad esempio, la donna delle pulizie – da luglio l'uso dei voucher è vietato, dal punto di vista dei committenti (cioè da chi paga per avere un servizio) alle famiglie e alle microimprese, seppur con qualche eccezione; e dal punto di vista dei prestatori di lavoro (cioè da chi si mette a disposizione per offrire quel servizio) è stato confermato il divieto di utilizzo dei voucher per gli studenti sopra i 25 anni. I voucher inoltre non si possono più comprare dal tabaccaio, ma devono essere richiesti in modalità telematica tramite la piattaforma dell’Inps.Analizzando la normativa nel dettaglio, il decreto prevede il ritorno all’utilizzo dei voucher nel settore agricolo e negli enti locali che abbiano alle proprie dipendenze fino a cinque lavoratori subordinati a tempo indeterminato e per le strutture ricettive operanti nel settore del turismo, nel caso in cui abbiano alle proprie dipendenze fino a otto lavoratori. Inoltre i buoni lavoro possono essere applicati solo a determinati soggetti: studenti, pensionati, disoccupati e percettori di forme di sostegno al reddito. Le prestazioni devono avere una durata limite di 280 ore nello stesso anno e devono essere svolte nell’arco dei 10 giorni successivi all’attivazione. Ci sono poi dei limiti economici: per ciascun lavoratore, con riferimento alla totalità degli utilizzatori, i compensi non possono superare i 5mila euro. La stessa cifra è fissata committenti, con riferimento alla totalità dei lavoratori pagati attraverso questa modalità nel corso di un anno.È stata introdotta, inoltre, la possibilità per il prestatore di lavoro di richiedere, con l'atto di registrazione sulla piattaforma Inps, il pagamento in contanti presso qualsiasi sportello postale, invece che con bonifico bancario. Tale pagamento verrà effettuato trascorsi 15 giorni dal consolidamento della procedura informatica riguardante la singola prestazione lavorativa. Cosa cambia rispetto alla normativa precedente? Nel 2015, prima dell'abolizione dei voucher, secondo il report dell'Inps “Il lavoro accessorio dal 2008 al 2015. Profili dei lavoratori e dei committenti”, dell’oltre un milione 380mila prestatori di lavoro accessorio nel 2015, poco meno della metà – per la precisione 595mila – erano stati giovani under 30. Secondo i dati pubblicati sul sito dell'Inps nel 2017, dopo l'abolizione, il numero complessivo di prestatori di lavoro accessorio è sceso a circa 700mila, di cui circa 260mila nella fascia d'età 20-29 anni. Gli under 30 sono insomma molto coinvolti dai cambiamenti normativi relativi ai voucher.Per comprendere le novità, in realtà poche, è necessario ricordare che a marzo 2017 il governo Gentiloni aveva abolito i buoni lavoro, spinto dalla pressione della Cgil relativa a un referendum abrogativo, legato a un abuso di questi strumenti. Qualche mese dopo, tuttavia, era stata varata una manovra correttiva contenente nuove disposizioni in sostituzione dei voucher cancellati in precedenza.«La scelta del governo Gentiloni di abolire i voucher è stata un grave errore, motivato solo da ragioni politiche: dopo lo scossone del referendum del 4 dicembre, il Governo voleva evitare di andare incontro al referendum promosso dalla Cgil. Appena abolito lo strumento, il legislatore si è reso conto che il mercato del lavoro aveva bisogno di una forma contrattuale che fosse utilizzabile per i piccoli lavori ed è stata quindi reintrodotta una disciplina simile a quella precedente, ma più burocratica e inutilmente complessa», rimarca Giampiero Falasca, avvocato specializzato in diritto del lavoro.La manovra correttiva aveva ribattezzato i “nuovi” voucher con la denominazione Libretto famiglia: simil “assegni” del valore di 10 euro, da utilizzare per il pagamento di prestazioni lavorative per piccoli lavori domestici, con il limite massimo di 2.500 euro l'anno percepiti dallo stesso lavoratore e di 280 ore annuali di lavoro per lo stesso datore.
 Per le imprese c’era invece la possibilità di ricorrere al contratto di prestazione occasionale ad alcune condizioni: il compenso minimo non doveva essere inferiore ai 9 euro orari, rispetto ai 7,5 previsti in precedenza, il tetto massimo di compensi annuali era di 5mila euro e non erano ammesse all'utilizzo aziende con più di 5 dipendenti. Non potevano ricorrere a questo tipo di contratto le imprese del settore edilizio e quelle artigiane. «La legge del 2017, varata principalmente al fine di evitare un referendum promosso dalla Cgil che avrebbe portato prevedibilmente all’abrogazione integrale di questa forma di organizzazione del lavoro occasionale, aveva sostituito i buoni lavoro in forma cartacea con i buoni virtuali, in forma interamente digitale, e ne aveva drasticamente ristretto il campo di possibile utilizzazione, escludendone tutte le imprese con più di cinque dipendenti», spiega il giuslavorista ed ex senatore Pietro Ichino.In qualche modo, quindi, si era cercato di mantenere lo strumento seppur in veste diversa, introducendo però maggiori restrizioni. Risultato: una netta diminuzione del ricorso a questa modalità di inquadramento del lavoro. «I dati disponibili sui primi due trimestri di applicazione della nuova normativa indicano, come era largamente prevedibile, una riduzione drastica, oltre il 90 per cento, del numero di ore lavorate e retribuite in questa forma» ribadisce Ichino: «E non c’è alcuna evidenza di una trasformazione del 90 per cento perduto in lavoro regolare ordinario: è molto probabile che oltre cento milioni di ore di lavoro occasionale siano transitate nell’area del lavoro nero, o si siano perse del tutto». Ora  si è aperta dunque una terza fase. Le disposizioni sui voucher del 2017 hanno avuto vita breve, circa un anno – neanche il tempo di abituarsi alle nuove regole, che già sono state superate da un altro sistema. Rispetto a questa fugace fase due, dunque, la nuova norma alza la soglia da cinque a otto dipendenti nel settore del turismo e dei relativi servizi e fissa a 10 i giorni dall’attivazione per l’avvio della prestazioni, in precedenza fissati a 3.  Viene però eliminata la possibilità da parte delle famiglie di ricorrere ai voucher per pagare lavori domestici o altre piccole prestazioni.Tirando le somme il decreto Dignità ha cercato, da una parte, di ampliare alcune soglie che restringevano il ricorso a questo tipo di strumento; dall’altra però l’impressione è che cambi poco o nulla. «Complessivamente non si può dire che il contenuto di questo decreto sia particolarmente incisivo: contiene una serie di ritocchi, tutto sommato marginali, alle norme varate nella passata legislatura, confermandone però l’impianto», conferma infatti Ichino.E Giampiero Falasca è dello stesso parere: «Le novità contenute nel decreto Dignità sono piccole modifiche che non risolvono il problema di fondo della disciplina vigente: è troppo complessa e si può applicare in casi troppo limitati. Un paese moderno dovrebbe regolare con un contratto adeguato i mini lavori, invece di mettere la testa sotto la sabbia con norme che sembrano nascondere la realtà. L'effetto di scelte come quelle dello scorso anno, ossia l'abolizione dei voucher e la successiva reintroduzione sotto forma di lavoro occasionale di un succedaneo meno fruibile, è stato molto negativo: una spinta verso forme contrattuali irregolari e di dubbia legittimità.Sarebbe stato auspicabile maggiore coraggio, su questo tema, invece sono stati introdotti piccoli aggiustamenti che risolvono solo in maniera limitata questi problemi».La rivoluzione annunciata al momento non c’è stata. Lo stesso Di Maio, in occasione della partenza del decreto Dignità lo scorso luglio, ha amesso che «se i voucher possono servire a settori come l’agricoltura e il turismo, per specifiche competenze, allora ben vengano, l’unica cosa è evitare abusi in futuro». Per ora è ancora presto per analizzare gli effetti delle nuove disposizioni. L'Inps ha spiegato alla Repubblica degli Stagisti che il prossimo documento sul tema sarà diffuso non prima dell'anno prossimo. Attendiamo pazientemente.   Chiara Del Priore    

Perché c'è bisogno di una nuova legge sui tirocini curricolari, subito!

Una nuova regolamentazone dei tirocini curricolari, con l'obiettivo di dare ai giovani che fanno stage durante il proprio percorso di formazione per la maggior parte universitari, a occhio e croce 200mila all'anno un quadro più forte di diritti. L'appello che la Repubblica degli Stagisti da almeno cinque anni rivolge incessantemente alla politica si è trasformato in qualcosa di più: una proposta di legge che comincia il suo iter parlamentare. Ma perché c'è così tanto bisogno di una nuova normativa? Ci sono tre motivi principali.Il primo è che da più di cinque anni esistono di fatto in Italia dei tirocini di serie A e dei tirocini di serie B. I tirocini di serie A sono quelli extracurriculari, che grazie anche alle battaglie della Repubblica degli Stagisti, e a un indirizzo concordato in sede di conferenza Stato regioni, hanno ottenuto tra il 2012 e il 2014 un nuovo quadro normativo – frastagliato, è vero, in ventuno normative regionali diverse, ma con molte più garanzie per gli stagisti, a cominciare dal diritto a ricevere un emolumento mensile minimo. A fronte di queste grandi novità che hanno sensibilmente migliorato la vita dei tirocinanti extracurriculari, è rimasto completamente scoperto il grande segmento dei tirocini curriculari, svolti durante il percorso di studi, per i quali ad oggi le garanzie sono poche se non nulle: soprattutto non c’è nessuna tutela dal punto di vista della remunerazione, quindi gli stagisti di serie A hanno diritto ad essere pagati e quelli di serie B invece possono continuare a subire stage gratuiti. È ora di eliminare questa discriminazione!La seconda ragione è che la normativa inizialmente pensata vent’anni fa per regolamentare tutto il settore dei tirocini è ad oggi di fatto largamente inutilizzabile. Stiamo parlando del decreto ministeriale 142/1998, che per quindici anni ha costituito la normativa unica a cui hanno fatto riferimento università, aziende, centri per l’impiego e tutti gli altri attori dell’universo stage. Il problema è che poi, tra il 2012 e il 2014, di fatto questo universo stage è stato spaccato in due a livello ufficiale: da una parte sono stati messi gli stage extracurricolari, affidando la competenza normativa alle Regioni, e dall’altra parte gli stage curricolari, di competenza invece statale. Dunque una normativa che era stata pensata per normare un argomento si è trovata dimezzato il suo raggio d’azione, e dunque depotenziata. Senza contare che ovviamente alcuni dei punti specifici del vecchio testo vengono specificati e normati anche nei nuovi testi regionali, sovrapponendosi alle prescrizioni della legge 142/98 e rendendolo di fatto in alcuni casi addirittura inapplicabile, come nello specifico per quanto riguarda il limite massimo di tirocinante ospitabili contemporaneamente da ciascuna azienda. Un nuovo quadro normativo aiuterà dunque in primis i soggetti promotori dei tirocini, che nel caso dei curricolari sono sopratutto gli uffici stage & placement universitari.La terza ragione è che, per effetto di una sciagurata decisione risalente all'epoca in cui Cesare Damiano era ministro del lavoro, i tirocini curriculari sono da oltre un decennio scomparsi dal radar e quindi non ci sono dati precisi su quanti ne vengono attivati ogni anno, di quale durata, con quali esiti. Il rapporto molto dettagliato che il ministero del Lavoro è in grado di produrre ogni anno sui tirocini extracurriculari, grazie al fatto che questi tirocini devono essere comunicati, al momento dell’avvio, attraverso il meccanismo delle comunicazioni obbligatorie – analogamente a qualsiasi rapporto di lavoro – per quanto riguarda i tirocini curriculari non può esistere. Infatti nel 2007 si è deciso che no, non c’era bisogno di fare la comunicazione obbligatoria quando si avviava un tirocinio curricolare. Magari l’intento era anche buono, e cioè togliere dalle spalle degli soggetti promotori (come detto, sopratutto uffici stage universitari) un’incombenza burocratica, sopratutto considerando che una gran parte di questo tipo di tirocini aveva una durata molto limitata (150-250 ore, pari a tre/sette settimane), ma risultato è stato pessimo. Con due righe è stato cancellato l’unico strumento che poteva permettere di mappare uno per uno i tirocini curriculari. E se è di trasparenza c’è bisogno per capire se uno strumento funziona non funziona, se viene usato bene o male, allora è ora e tempo che anche i tirocini curriculari rientrino nel radar del controllo dello Stato.Per queste e molte altre ragioni non si può più aspettare: c'è bisogno in Italia di una nuova legge sui tirocini curricolari.