Categoria: Approfondimenti

Specializzandi in farmacia ospedaliera, gli “invisibili” senza stipendio del Servizio sanitario nazionale

Stessi doveri, ma non stessi diritti. Gli specializzandi in farmacia ospedaliera, proprio come quelli in medicina, svolgono presso il Servizio sanitario nazionale la propria specializzazione, che dura quattro anni e prevede 1.500 ore annuali di tirocinio. E avrebbero diritto, parimenti ai medici, ai contratti di formazione specialistica.Tuttavia «per i farmacisti ospedalieri sono in subordine alla capienza “delle risorse già previste”, e questa condizione fa scivolare il diritto nell’impossibilità, perché i fondi sono a mala pena sufficienti per coprire il fabbisogno dei medici specialisti», spiega alla Repubblica degli Stagisti Paolo Serra, responsabile nazionale area giovani e precari del Sindacato nazionale farmacisti ospedalieri (Sinafo). Ma non solo. Gli specializzandi in farmacia ospedaliera devono pagare mediamente 2.500 euro l'anno di tasse universitarie più 4.500 euro di aliquota intera all'Inps. La Repubblica degli Stagisti ha cercato di mappare il settore della farmacia ospedaliera in Italia rivolgendosi all'ente di riferimento, la Società italiana di farmacia ospedaliera e dei servizi farmaceutici delle aziende sanitarie (Sifo), ma a tre mesi dalla richiesta esso non è stato in grado di fornire i numeri sulle farmacie ospedaliere e i farmacisti ospedalieri attivi in Italia e sul fabbisogno annuale della categoria. Incredibile ma vero, Sifo non sa dire quante farmacie ospedaliere siano attive in Italia e quanti farmacisti ospedalieri impieghino, quale sia il fabbisogno annuale medio della categoria e neppure quanti posti vengano banditi annualmente dal Servizio sanitario nazionale. Comunque. Nel 2010 è arrivato in Parlamento il disegno di legge “Disposizioni per l’equiparazione dello status contrattuale ed economico dei laureati specializzandi medici e non medici che afferiscono alle scuole di specializzazione di area sanitaria”, che però non è riuscito a trovare i numeri per l’approvazione. Nel 2013 una sentenza del Consiglio di Stato ha imposto ai ministeri l’obbligo di retribuire gli specializzandi, in osservanza all’art.8 della legge n.401/2000. Per effetto della sentenza, le Scuole di specializzazione in farmacia ospedaliera (Ssfo) sono state chiuse per timore di ricorso. Successivamente il decreto legge n.42/2016 ha abrogato l’articolo e le scuole hanno ripreso a bandire concorsi. Da allora gli specializzandi continuano a prestare lavoro gratuito al Ssn. E così i rappresentanti della piccola ma agguerrita categoria stanno pensando di fare quello che i colleghi di medicina fecero all'incirca vent'anni fa: fare ricorso alla Corte europea per veder sancito il loro diritto di essere inquadrati come lavoratori (ancorché "in formazione"), a essere pagati e a ricevere anche i contributi previdenziali. Tutti diritti che fino a soli vent'anni fa erano negati anche ai medici specializzandi, e che ora a quei medici sono garantiti proprio grazie a una sentenza.L’ultima delusione è arrivata con l’esclusione della categoria dal decreto n.402/2017, relativo ai requisiti minimi e agli standard delle scuole di specializzazione di area sanitaria. «L’inserimento nel decreto avrebbe garantito e migliorato la qualità del nostro percorso formativo specialistico. Inoltre saremmo stati al passo con gli standard europei e avremmo potuto rivendicare con voce ancora più forte il nostro diritto ai contratti di formazione» commenta Antonio Pirrone, presidente della Rete nazionale degli specializzandi in farmacia ospedaliera. La Renasfo, nata quattro anni fa per portare avanti la lotta per il riconoscimento dei diritti della categoria, dall'ottobre 2017 è un’associazione studentesca che conta circa 200 iscritti tra soci ordinari, ovvero specializzandi, e soci sostenitori. La scuola di farmacia ospedaliera ha una storia di quarant’anni - il primo concorso venne bandito a Napoli nel 1978 - ed è obbligatoria per accedere ai ruoli del Servizio sanitario nazionale. Oggi in Italia ci sono ventidue scuole di specializzazione in farmacia ospedaliera, per un totale di circa 130 specializzandi. Numeri tutto sommato piccoli. «Per finanziare i nostri contratti di formazione basterebbero 10-15 milioni annui, ovvero il 3% dei contributi per i colleghi medici» puntualizza infatti Pirrone. Certo è che la situazione attuale fa del farmacista ospedaliero una professione “per pochi”. «A parte i pochi fortunati vincitori di borse, per lo più universitarie e regionali, molti di noi sono costretti a fare turni di notte o a lavorare il fine settimana in farmacie aperte al pubblico. A lungo andare questo mira la nostra formazione e non ci permette di raggiungere gli standard che lo Stato ci richiede», aggiunge Pirrone.Le borse di studio erogate dall’università sono sempre più rare. Ad esempio l’università di Milano, che negli anni scorsi ne metteva a disposizione quattro, nell’ultimo bando ne ha assegnate solo due, sulla base del reddito personale (non superiore a 7mila euro annui) e del principio di meritocrazia (posizionamento in graduatoria dopo il test di ammissione). Poi ci sono le borse di studio finanziate dalle strutture ospedaliere o territoriali, bandite dalle singole strutture e assegnate per titoli e colloquio. «Devo dire che alla fine dello scorso anno, con lo sblocco dei fondi regionali di Farmacovigilanza, questi bandi sono notevolmente aumentati in Lombardia» racconta il presidente di Renasfo «garantendo la copertura economica di molti colleghi. Ma questa non rappresenta la soluzione alla nostra situazione, lo ritengo un semplice palliativo che per il momento ci fa sopravvivere». Un altro problema che grava sulla condizione della categoria è quello della previdenza. «È stato incrementato il periodo in cui si può usufruire della riduzione dell’aliquota al 3%» spiega Pirrone «ma permangono altre problematiche, come il fatto che le borse di studio non contemplano la copertura previdenziale obbligatoria dell’Inps e che lo specializzando è costretto a pagare l’aliquota intera». Oggi l’unica strada possibile per ottenere il riconoscimento dei diritti rivendicati appare quella giudiziaria. «Dopo anni di dialogo con la parte politica e istituzionale non rimane che adire alle vie legali» afferma Serra «per inseguire, attraverso la magistratura, quello che riteniamo un diritto equo e dignitario».Rossella Nocca

Diritti dei riders, cosa dice la Carta di Bologna – e perché Foodora e gli altri big non la firmano

Con il boom della cosiddetta gig economy capita sempre più spesso, aggirandosi per le città italiane, di imbattersi nei riders, fattorini in bicicletta o motorino che consegnano cibo su ordinazione per conto di piattaforme popolari come Foodora, Globo, Just Eat o Deliveroo. La Fondazione Debenedetti stima che in Italia ce ne siano circa 10mila.Si tratta di figure utilizzate spesso come rappresentazione della situazione precaria del mercato del lavoro in cui si muovono le nuove generazioni. In particolare, negli ultimi mesi la questione è stata sotto la luce dei riflettori per via di diversi attacchi da parte di sindacati, prese di posizione di alcuni politici e inchieste giornalistiche che hanno evidenziato l’estrema precarietà di un settore economico –non per niente «gig economy» si traduce con «economia dei lavoretti» – caratterizzato dall’utilizzo di co.co.co. o collaborazioni occasionali con pagamenti – esigui – «a consegna». Il settore è scarsamente regolamentato in quanto diversi principi giuslavoristici si applicano a fatica ai rapporti di lavoro, assai atipici, tra i riders e le piattaforme per cui effettuano le consegne.Tra le varie iniziative sorte negli ultimi mesi spicca la Carta di Bologna («Carta dei diritti fondamentali del lavoro digitale nel contesto urbano»), in vigore da fine maggio per iniziativa della giunta del sindaco PD Virginio Merola. Si tratta del primo accordo in Europa tra riders, sindacati – oltre al sindacato di base Riders Union, protagonista della trattativa, anche Cgil, Cisl e Uil –, istituzioni e piattaforme digitali. «Abbiamo deciso di non aspettare. Abbiamo chiamato anche i sindacati, e abbiamo chiesto alle società di non mandarci i loro legali ma quelli che avevano potere di firma» ha raccontato di recente l’assessore Marco Lombardo durante un evento dell'associazione Milano In – Innovare x Includere a Milano, ricordando come la scintilla che ha dato avvio all'iniziativa è stato uno sciopero “natalizio” organizzato lo scorso dicembre da Riders Union. Ma dalla parte delle aziende hanno firmato la Carta soltanto Sgnam e MyMenu – start-up emiliane di recente fuse in Meal srl – che insieme rappresentano più o meno duecento lavoratori, sul totale dei cinquecento riders che operano sul territorio bolognese, mentre sono rimasti fuori tutti i big del settore. «Queste due piattaforme sono piccoline a livello nazionale, ma a Bologna rappresentano una rilevante quota sul totale dei riders attivi» spiega Lombardo.Il documento è molto snello: è composto da dodici articoli in cui sono elencati e disciplinati i «diritti fondamentali» dei riders. La Carta è organizzata in quattro punti programmatici, in cui sono stabiliti «standard minimi di tutela che si applicano a tutti i lavoratori e collaboratori operanti all’interno del territorio della Città metropolitana di Bologna» che lavorano per conto di una o più piattaforme digitali. La Carta si applica ai riders «indipendentemente dalla qualificazione dei rapporti di lavoro» con l’azienda. Tra i primi diritti/obblighi quello per cui le piattaforme devono comunicare informazioni come la propria identità, la data di inizio e la durata prevista il compenso e le modalità di pagamento e la procedura per terminare il rapporto di lavoro. Significativa la specificazione per cui «in mancanza di un luogo di lavoro fisso o predominante, il principio che il lavoratore è impiegato in luoghi diversi o è libero di determinare il proprio luogo di lavoro». La previsione è importante in quanto una delle critiche principali mosse negli ultimi mesi alle piattaforme è quella per cui i riders – pur non essendo inquadrati come dipendenti – siano, di fatto, obbligati a ritrovarsi in determinati luoghi da cui ricevere gli ordini di consegna dalle piattaforme.La parte principale della Carta è il Capo III, dedicato ai diritti della persona, tra cui quello ad un compenso orario fisso «equo e dignitoso», che ogni piattaforma deve garantire ai rider. Il compenso in questione, in particolare, non deve essere inferiore ai minimi tabellari «sanciti dai contratti collettivi di settore» sottoscritti dalle organizzazioni sindacali (al momento sono in corso negoziazioni in questo senso a livello nazionale). Inoltre, la Carta prescrive che ai lavoratori debbano essere garantite indennità per il lavoro notturno, nei giorni festivi o in «condizioni metereologiche sfavorevoli». Figurano nel documento anche il divieto di qualsiasi discriminazione e l’obbligo di comunicare con congruo preavviso e per iscritto il recesso dal rapporto di lavoro. Ai riders è riconosciuto anche il diritto di connessione e di disconnessione – il che non è banale, trattandosi di lavoratori «digitali» – oltre che ai diritti a formare organizzazioni sindacali, di sciopero (definito «diritto al conflitto») e alla tutela dei dati personali.Fondamentale è il riconoscimento di un diritto alla salute e alla sicurezza, da proteggere «indipendentemente dalla qualificazione giuridica» del rapporto di lavoro. Si tratta di una delle questioni più controverse di tutta la materia in quanto diverse inchieste giornalistiche hanno stimato come l’ottanta per cento circa dei riders, essendo inquadrati come collaboratori occasionali, non ha assicurazioni pagate dalle aziende. A questo proposito, la Carta prescrive invece che le piattaforme si facciano carico di «un’assicurazione che copra i lavoratori dal rischio di infortuni e di malattie sul lavoro», oltre che dai danni causati in caso di incidenti stradali – anche nei confronti dei terzi. Eventualità, quest’ultima, assai comune dal momento che i riders sfrecciano in bicicletta o in moto nelle città. Sempre a proposito di sicurezza, le piattaforme che hanno sottoscritto la Carta si impegnano, inoltre, a fornire ai riders «strumenti idonei e dispositivi di sicurezza obbligatori», oltre che a rimborsare in tutto o in parte le spese di manutenzione degli strumenti di lavoro, come ad esempio le biciclette.Gli ultimi due articoli della Carta riguardano gli impegni programmatici del comune di Bologna per promuovere il documento. Emblematico, a questo proposito, il fatto che Merola abbia chiesto pubblicamente di boicottare le piattaforme che non hanno aderito all’iniziativa. Come detto, queste ultime sono in realtà tutte le big del settore. Gianluca Cocco, ceo di Foodora Italy – società che recentemente ha annunciato il proprio addio dall’Italia – si è giustificato sostenendo che ci sarebbe il rischio di una «geopardizzazione» delle regole: «Pensiamo che il tavolo su cui articolare questa discussione sia a livello nazionale», e anche Deliveroo si è allineata.A livello nazionale, come noto, la situazione è in evoluzione. Nel suo primo appuntamento da ministro del lavoro, Luigi Di Maio – incontrando una delegazione di riders – aveva definito la categoria come «il simbolo di una generazione abbandonata» e aveva garantito l’impegno del governo sulla questione. Dopo vari incontri con le piattaforme, Di Maio aveva quindi annunciato l’apertura di una concertazione per scrivere un contratto collettivo in materia (che sarebbe il primo in Europa). Annuncio che, di riflesso, ha però portato all’esclusione dei riders dal decreto dignità. Nel frattempo, a metà luglio Filt-Cgil, Fit-Cisl e Uiltrasporti hanno annunciato il riconoscimento dei riders come lavoratori subordinati nel contratto collettivo nazionale della logistica. Una dichiarazione però «unilaterale», che non ha soddisfatto gli attivisti di Riders Union Bologna, per cui il problema permarrà a prescindere, non essendo i riders assunti dalle piattaforme come lavoratori subordinati. E a fine luglio alcuni giornali hanno riportato la notizia del licenziamento per motivi «disciplinari» di Tommaso Falchi – portavoce di Riders Union che ha fatto parte della delegazione incontrata da Di Maio – che, a quanto riferito dai media, è stato sanzionato dall’impresa per cui lavorava per aver usato il furgone aziendale per lo sciopero.La situazione a livello nazionale è ancora in divenire e assai incerta; e per questo la Carta di Bologna può rappresentare un importante modello cui far riferimento.Giulio Monga

Saggistica da ombrellone? Un libro propone come migliorare il mondo del lavoro

Il mondo del lavoro è cambiato, questo lo sappiamo. Un mondo spesso popolato di persone con “lavoretti” poco stabili, di contratti (quando ci sono) a breve termine, di gig economy, di incertezza economica e – per diretta conseguenza - talvolta perfino esistenziale. Di giovani più o meno istruiti che scappano all'estero per cercare fortuna e di altri che restano a casa senza sapere dove sbattere la testa, che ancora oggi fanno tirocini mal pagati e senza prospettive, che impiegano anni interi per raggiungere un minimo di autonomia e sicurezza. E per quanto si cerchi di fare, non solo in Italia, ma anche a livello europeo, per contrastare il fenomeno della disoccupazione e del precariato (giovanile e non), gli unici movimenti si registrano ancora in differenze infinitesimali nei tassi Istat. La tendenza, insomma, rimane persistente. Ci vorrebbe una rivoluzione? Può darsi. Ed è proprio una piccola rivoluzione quella di cui parla Sandrino Graceffa, amministratore delegato di SMart, cooperativa di tutela e gestione di progetti creativi, nel suo libro Rifare il mondo… del lavoro. Un’alternativa alla uberizzazione dell’economia, edito da DeriveApprodi l'anno scorso. Una rivoluzione che parla di imprese cooperative condivise piuttosto che di startup, di mutualismo invece che di iper-concorrenza e di solidarietà redistributiva al posto di sistemi di protezione sociale ormai anacronistici rispetto al panorama non solo nazionale, ma anche europeo e mondiale. Le premesse sono quelle già citate: se negli anni Ottanta il lavoro era visto come un giogo e qualcosa di cui si sarebbe voluto fare a meno, oggi essere senza lavoro è causa di sofferenza. Il lavoro salariato permanente a tempo pieno, però, attualmente rappresenta solo il 22,5% dei lavoratori a livello mondiale, una minoranza assoluta. Il mercato è dominato da due tendenze: da un lato, sono in aumento forme di lavoro “a tempo parziale”, spesso più per obbligo che per scelta, e dall'altro crescono le forme di lavoro autonomo, naturale frutto di un'economia condivisa dove gli strumenti di produzione sono dematerializzati e sempre più legati alla capacità intellettuale e allo spirito creativo. E' questa l'“uberizzazione” di cui parla Graceffa, un sistema in cui potenzialmente ci sarebbero tutti i presupposti per un grande livello di autonomia ed emancipazione, ma che in realtà sempre più atomizza i lavoratori nelle loro attività, generando un contesto iper-concorrenziale in cui è difficile sopravvivere.La questione è a maggior ragione vera per i giovani di oggi, che si ritrovano ad avere a che fare non solo con un numero crescente di datori di lavoro (secondo Graceffa, dagli anni Sessanta il numero medio dei datori di lavoro che si incontrano si è moltiplicato per tre, e nei prossimi decenni è destinato a decuplicarsi) ma anche con esperienze lavorative spesso molto diverse tra loro. E se da un lato questa varietà rischia di compromettere l'integrità del percorso professionale, dall'altro comunque è garanzia di acquisizione di un gran numero di competenze, specifiche ma anche e soprattutto soft, spendibili in ogni contesto. Non è quindi a caso, spiega Graceffa, se i giovani di oggi tendono sempre più a diversificare esperienze e capacità e contestualmente puntano a volersi spendere in contesti più ibridi e articolati rispetto al classico impiego in banca o in azienda. Lavorare per progetti e per interessi, poiché se il posto fisso ormai è un miraggio, tanto vale trovare qualcosa che interessi e coinvolga davvero. Così, se i profili professionali più richiesti al giorno d'oggi sono specialisti dell'ICT, ingegneri e programmatori (di cui c'è grande carenza), al contrario sono tanti i professionisti che optano per carriere creative. Come quelli appartenenti al mondo dello spettacolo, gli stessi che SMart supporta ogni giorno. Secondo l'Osservatorio Gestione Lavoratori dello spettacolo e sportivi professionisti dell'Inps, il numero di lavoratori dello spettacolo con almeno una giornata retribuita nel 2017 è risultato pari a 306.234 (attori in testa), di cui la classe di età più numerosa è quella tra i 25 e i 29 anni con 44.219 lavoratori (il 14,4% del totale). Ma le retribuzioni? Scarse, in effetti: mediamente meno di 11mila euro all'anno.Anche questo fa parte del problema: al di là della spendibilità del proprio profilo professionale, in diversi settori – dice Graceffa - il fenomeno dell’auto-impiego sta promuovendo la crescita di vere e proprie forme di auto-sfruttamento. E sono tanti, probabilmente troppi coloro che finiscono per doversi accordare con il datore di lavoro su una somma forfetaria in cambio delle proprie prestazioni: in questi casi per il lavoratore è difficile arrivare a guadagnare più di 4 euro l’ora, e i pochi contributi versati non consentono di avere tutele e servizi commisurati al proprio lavoro. Una tendenza che si ripercuote sull'intero sistema: basti dire che, secondo l'Istat, nel 2015 l'economia sommersa (dove il lavoro nero fa il paio con le attività illegali) aveva un valore di 208 miliardi di euro, il 12,6% del Pil. Il lavoro dipendente a tempo indeterminato, insomma, non è più la forma predominante, ma nemmeno l’autoimprenditorialità universale può essere una via sostenibile per il futuro. Occorre trovare una terza via tra l’iperflessibilità e atomizzazione completa del lavoratore da un lato, e l’iperprotetto sistema fondato sul lavoro a durata indeterminata dall’altro. La soluzione che Graceffa propone a tal proposito muove in due direzioni: da un lato, la creazione di un regime europeo universale di protezione sociale (Reups) che riunisca i principi fondanti della previdenza sociale nel continente, rendendo la mobilità lavorativa più sostenibile. Dall'altro, l'introduzione di sperimentazioni sociali come le cooperative d’attività e impiego multisettoriali in Francia, organizzazioni dove le persone sono al tempo stesso salariati e soci dell’impresa, fissano la remunerazione e la indicizzano secondo il fatturato e non secondo il tempo di lavoro o le tabelle contrattuali. Un modello positivo che, secondo l'ad di SMart, potrebbe essere preso da esempio e implementato anche in diversi gruppi sociali e imprese.Potrebbe funzionare su larga scala? Difficile a dirsi, almeno per ora. Ma esempi positivi di certo non mancano: uno su tutti è Bigre!, primo esperimento transnazionale tra Francia e Belgio fondato su una comunità unica di lavoratori autonomi che garantiscono scambi mutualistici nella gestione fiscale, protezione sociale, auto-finanziamento e tutela dei diritti dei lavoratori intermittenti o indipendenti.Troppo lontano dalla realtà? L’inizio di un’economia parallela senza scopo di lucro, basata sulla condivisione e la solidarietà redistributiva, è già in atto. La macchina del cambiamento, silenziosa ma tenace, è partita, e Graceffa ci dice che sta crescendo in maniera organica e pervasiva. Chissà che non raggiunga anche voi, lì sotto l'ombrellone, mentre sfogliate le pagine di questo libro.Irene Dominioni

All'estero con il programma “au pair”: un’esperienza per tutti, ma solo uno su dieci è maschio

Ogni volta che sentiamo parlare di lavoro au pair, si parla di “ragazze alla pari”. E forse in pochi sanno che questa esperienza non è preclusa ai maschi. Semplicemente, si tende a pensare che le mansioni del lavoro alla pari siano tipicamente femminili, ma è ora di sfatare anche questo tabù. «Le persone che fanno un'esperienza "au pair" sono circa 80-100mila all'anno in tutto il mondo», spiega Patricia Brunner, managing director dell'International Au Pair  Association (Iapa): «L'ottanta-novanta per cento sono donne. I principali paesi ospitanti sono Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Germania e Austria, mentre quelli che inviano più ragazzi alla pari sono Germania, Brasile, Colombia e Messico».In Italia il fenomeno au pair è in crescita. «Nell’ultimo anno i numeri delle partenze sono quasi raddoppiati, arrivando a 1.300 ragazzi italiani alla pari, senza considerare le partenze “clandestine” con le tante agenzie non ufficiali o con accordi privati», spiega Gaia Leonardi, presidente dell’agenzia International Au Pair Italy nonché dell'Associazione nazionale italiana delle agenzie alla pari (Aniap), «Attualmente il rapporto tra i ragazzi e le ragazze che partono è di uno a dieci. Le ragazze sono sicuramente le più richieste, soprattutto se hanno esperienza con i bambini, ma i ragazzi stanno aumentando». Le mete preferite dagli italiani sono Gran Bretagna e Irlanda – per lo più per la maggiore vicinanza e per la lingua – seguite da Stati Uniti, Australia, Nuova Zelanda, Francia, Germania, Cina. Il 90% delle esperienze au pair va a buon fine: solo il 10% viene interrotto prima del termine. Tra le destinazioni, l'Italia negli ultimi anni ha perso appeal. «Sono drasticamente calati gli arrivi di ragazzi alla pari nelle famiglie italiane – solo 600 quest’anno – soprattutto dai paesi extra Ue, in quanto l’Italia non ha recepito la direttiva Ue n.801/2016» aggiunge Leonardi «che negli altri paesi autorizza i cittadini di paesi terzi a soggiornare all’estero per motivi di collocamento alla pari per l’intera durata del periodo au pair, quindi per loro il limite di permanenza è di soli tre mesi». L’esperienza au pair è considerata un progetto di scambio culturale per l’apprendimento e il perfezionamento di una lingua straniera, regolamentato a livello europeo. Il periodo all’estero può variare fra tre mesi e un anno e possono fare domanda per diventare au pair i giovani fra i 17 e i 30 anni, anche se nella maggior parte dei paesi la fascia è compresa fra i 18 e i 27. I candidati devono essere non sposati, senza figli e avere una conoscenza almeno basilare della lingua del paese in cui intendono soggiornare. Conoscenza che sarà approfondita con appositi corsi in loco dal costo medio di 100-150 euro. «Chiediamo ai ragazzi di compilare un questionario con le loro referenze da baby sitter, le certificazioni quali diploma e corsi di lingua, la patente di guida, il certificato medico e quello giudiziario», spiega alla Repubblica degli Stagisti Elizabeth Lenihan, presidente della Celtic ChildCare Aupairs, agenzia affiliata all’Aniap e all’International Au Pair Association. Le famiglie che intendono ospitare ragazzi alla pari in Italia devono avere bambini minorenni in casa eassicurare  al ragazzo o alla ragazza una camera singola, un bagno di uso esclusivo, il vitto e un pocket money settimanale minimo che, in linea con lo standard europeo, è di 80 euro per circa 30 ore di aiuto a settimana. Nel Regno Unito la British Au Pair Agencies Association (Bapaa) raccomanda un pocket money di almeno 80 sterline – ovvero quasi 90 euro – a settimana. In Francia si percepiscono tra i 70 e gli 80 euro, in Irlanda si arriva a ricevere circa 162 euro a settimana, negli Stati Uniti circa 140 dollari per un massimo di 45 ore a settimana. In Italia la cifra media varia di città in città: ad esempio a Roma si mantiene sugli 80 euro, mentre a Milano può arriva a 90-100 euro. Il lavoro alla pari è classificato in varie tipologie. C’è la formula demi pair, che consiste nella collaborazione in famiglia per cinque giorni alla settimana, con tre ore al giorno di lavori domestici e cura dei bambini; tempo libero al mattino o al pomeriggio; due giorni e tre sere liberi alla settimana. E c’è la demi pair plus, alle stesse condizioni, ma con quattro ore al giorno di lavoro anziché tre. Altra opzione è la formula au pair: collaborazione in famiglia per sei giorni alla settimana, per cinque ore al giorno di lavori domestici e cura dei bambini; tempo libero al mattino o al pomeriggio; un giorno e tre/cinque sere libere alla settimana. Anche qui è prevista la versione plus: sei giorni di lavoro per cinque/otto ore al giorno (massimo 40 ore di lavoro settimanali); con quattro/cinque pomeriggi, tre/quattro sere e uno/due interi giorni liberi alla settimana. Infine ecco la formula mother’s help: collaborazione in famiglia per 50 ore settimanali; con due/tre sere di baby sitting; un giorno e mezzo libero e tre/cinque sere libere. Quest’ultima prevede un pocket money superiore, che può arrivare a 120 euro settimanali. Tuttavia in Italia, secondo quanto stabilito dalla legge n.304/1973, l'impegno dell'au pair non deve superare le 5 ore giornaliere per 6 giorni a settimana, quindi la soglia massima è di 30 ore settimanali (comprese le ore serali di babysitting). Ma come fare per diventare ragazzi alla pari? «Il primo consiglio è quello di rivolgersi ad agenzie affidabili, come quelle affiliate all’Aniap», suggerisce Gaia Leonardi, «che supportano i ragazzi sia pre partenza che sul posto, attraverso una figura di riferimento nel paese ospitante». Questo è l’unico modo per difendersi dalle truffe: «Qualche tempo fa sono stata contattata da una ragazza che aveva trovato tramite Facebook una famiglia ospitante, che prima le ha chiesto 1.800 euro per il visto e poi è sparita». Insomma, in questi casi, è preferibile evitare il fai-da-te. «Noi forniamo a chi parte la lista dei ragazzi e delle ragazze alla pari presenti nella zona, li mettiamo in contatto tramite un gruppo Facebook e abbiamo solo famiglie ben referenziate», spiega Lenihan.I costi del servizio variano di agenzia in agenzia. La International Au Pair Italy, ad esempio, richiede 90 euro di tassa di iscrizione e poi 300 euro alla famiglia ospitante e 200 al ragazzo che vuole partire. La Celtic ChildCare non richiede ai ragazzi tassa di iscrizione, ma direttamente 350 una volta stipulato il contratto au pair. Invece le famiglie ospitanti pagano dai 290 ai 790 euro – più 125 di iscrizione – per un periodo di ospitalità da un mese a dodici mesi. Per i ragazzi sono da aggiungere le spese di passaporto e visto, che dipendono ovviamente dalla scelta del paese. Ad esempio per andare negli Stati Uniti si spendono 600 euro tra visto e costi di agenzia. Ogni stato disciplina diversamente l’accoglienza dei ragazzi alla pari. Ad esempio negli Usa i costi del viaggio di andata e ritorno e dell’assistenza sanitaria sono a carico della famiglia ospitante. Qui inoltre si richiedono: età fra i 18 e i 26 anni, patente di guida, diploma di scuola media superiore una discreta conoscenza dell’inglese. Il corso di lingua sul posto è obbligatorio. La Svizzera ospita per un periodo non inferiore ai 12 mesi. In Islanda esiste il limite di 25 anni, e si richiedono: il possesso del diploma di scuola media superiore, l’esperienza nella cura dei bambini e una buona conoscenza della lingua inglese. Poi ovviamente ci sono le richieste delle singole famiglie: c’è chi richiede che il giovane abbia la patente di guida, chi accetta solo non fumatori... e così via. Il consiglio è di fare domanda almeno tre mesi prima della partenza, per dare all’agenzia il tempo di selezionare la famiglia e avere modo di conoscerla attraverso telefonate e videochiamate. Poi si stipula una sorta di contratto che definisce tutti gli aspetti del rapporto, dagli orari al pocket money.Ma perché un ragazzo dovrebbe fare un’esperienza alla pari? «Lavoro da una decina d’anni nel settore e ho scelto di farlo dopo aver ospitato ragazzi alla pari e dopo aver mandato le mie figlie all’estero con questo programma», racconta Leonardi, «perché credo che sia un’esperienza completa e il modo più genuino e più forte per conoscere una nuova cultura: bisognerebbe farla conoscere di più, soprattutto ai maschi!».Rossella Nocca

All’Europol settanta stage all'anno con rimborso di 800 euro al mese: gli italiani sono in prima fila

Tra le agenzie UE che ogni anno offrono a giovani studenti e neolaureati l’opportunità di un tirocinio nei propri uffici c’è l’Europol (European Police Office), organismo che gestisce la cooperazione in materia di intelligence degli stati membri dell’Unione. Da non confondersi con l’Interpol, che ha sede a Lione ed è l’organizzazione che si occupa di cooperazione di polizia e contrasto al crimine internazionale e a cui aderiscono 192 nazioni di tutto il mondo. Sin dalla sua fondazione nel 1999, l’Europol accoglie ogni anno una settantina di stagisti.Sarà il rimborso spese mensile che sfiora gli 800 euro al mese, sarà per il fascino dell'intelligence, fatto sta che gli italiani sono sempre al primo posto nella lista dei candidati per questi stage: nel 2018, quasi un quarto dei candidati per una posizione da stagista nell’agenzia proveniva dall’Italia. Un dato che si riflette nel numero di tirocinanti ammessi in quanto, con 15 stagisti, l’Italia costituisce la nazione più rappresentata tra gli stagisti che hanno raggiunto o raggiungeranno gli uffici nel corso di quest’anno. Al secondo posto i Paesi Bassi, in cui si trova la sede dell’organizzazione (a l’Aja).Come la maggior parte delle agenzie UE, l’Europol ha un documento in cui sono contenute tutte le regole sugli stage che si svolgono nei propri uffici. Si tratta della Decisione del direttore esecutivo sui tirocini (Decision of the Executive Director on Internships) approvata per la prima volta nel 2016 e aggiornata lo scorso 15 marzo e consultabile sulla pagina del sito dedicata ai tirocini. All’interno di questo documento è chiarita la natura del tirocinio, che deve essere vincolato ad un progetto formativo e non deve essere finalizzato alla copertura di posti in organico. La Decisione disciplina quindi ogni aspetto relativo agli stage: come la durata, i requisiti necessari e le modalità per presentare la propria candidatura, lo svolgimento delle selezioni, le regole di condotta e il rimborso spese.Gli stage durano, in media, tra i tre e i sei mesi e agli stagisti ammessi l’Europol garantisce un rimborso spese di 793 euro al mese più i costi di viaggio. Possono candidarsi i cittadini di un Paese UE che siano maggiorenni e laureati o laureandi in una disciplina collegata alle attività di intelligence dell’agenzia. Scienze politiche, reazioni internazionali, studi legati alla sicurezza e all’intelligence, scienze della comunicazione e altre materie umanistiche sono i background che vanno per la maggiore tra gli stagisti degli ultimi anni. Prerequisito per essere ammessi è la conoscenza di almeno due lingue dell’Unione, una delle quali deve essere per forza l’inglese, che è la lingua lavorativa dell’agenzia. È vietato candidarsi a coloro che abbiano già lavorato o abbiano svolto un tirocinio per più di sei settimane in un altro organismo, istituzione o agenzia europea. Gli stage non preludono a successive assunzioni anche se, come sottolineato dall’agenzia, in passato diversi ex tirocinanti hanno partecipato a selezioni per posizioni lavorative nell’organico e le hanno superate.Come detto, ogni anno l’agenzia accoglie in media una settantina di stagisti (nel 2018 per la precisione saranno 71), e l’Italia è la nazione più rappresentata tra i trainee. Molto interessanti sono i dati relativi al genere ottenuti dalla Repubblica degli Stagisti: dei 74 tirocinanti ammessi nel 2016, infatti, 47 erano donne e 27 uomini. Prevalenza femminile che è cresciuta nel 2017, quando l’Europol ha ospitato 72 stagisti di cui 49 donne e 23 uomini. Si tratta, insomma, di un percorso di formazione che attira molte donne con la passione e la vocazione per l’intelligence, la sicurezza e la cooperazione internazionale.L’età dei candidati va solitamente dai 23 ai 29 anni e si tratta di laureati o di laureandi al termine del percorso di studi magistrali. Nel 2017 sono arrivate 2.028 candidature da tutta Europa. Un dato che rappresenta una crescita rilevante rispetto alle 1.440 del 2016. Di queste 2028, 495 sono giunte da italiani, ossia appunto il 24% del totale. L’Europol costituisce un’ulteriore riprova di come tanti giovani nel nostro paese ambiscano a svolgere esperienze formative in simili contesti internazionali: una "fame" di opportunità di stage con indennità dignitose, non così frequenti negli enti pubblici nostrani. Per potersi candidare occorre compilare l’apposito form presente sul sito, rispondendo ad un annuncio di stage. Non sono ammesse candidature spontanee e non sono previsti bandi complessivi: gli annunci vengono pubblicati durante tutto il corso dell'anno, senza un timing preciso. Al momento non risultano aperte selezioni sul sito.Nella maggior parte dei casi, spiega alla Repubblica degli Stagisti il dipartimento HR di Europol, vengono pubblicati annunci relativi a specifici tirocini. Potrebbero però essere pubblicati annunci più generici, attraverso cui vengono realizzate delle «liste di riserva» di candidati ammessi e da smistare in diversi progetti all’interno dell’agenzia. Liste di riserva, mantenute per un anno, possono essere realizzate anche a seguito di una selezione per uno specifico progetto e possono essere utilizzate per contattare i candidati per progetti simili a quello per cui avevano inviato la propria richiesta ma per il quale era stato selezionato un altro soggetto. In altre parole, candidarsi può sempre valere la pena, in quanto un buon profilo può essere tenuto in considerazione per più di un progetto di stage.Giulio Monga

Alternanza scuola-lavoro, oltre mille studenti all'anno ospitati da Nestlé

Sono molte ormai le aziende che ai ragazzi delle scuole superiori offrono percorsi di alternanza scuola-lavoro. «Abbiamo constatato quanto gli studenti abbiano bisogno di conoscere quali sono i possibili sbocchi lavorativi post laurea, di quanto si riveli per loro importante incontrare e confrontarsi con chi è già inserito nel mondo del lavoro»: così Giacomo Piantoni, direttore delle Risorse Umane del Gruppo Nestlé in Italia, inizia a raccontare alla Repubblica degli Stagisti dell'esperienza della sua azienda con l'alternanza. «Questi percorsi permettono agli studenti di toccare con mano l’importanza della collaborazione e del lavoro di squadra nel rispetto dei diversi ruoli, della creatività, della flessibilità, dell’individuazione e valorizzazione dei propri punti di forza», il più delle volte con una evidente percezione di utilità da entrambe le parti, aziende e studenti. Nestlé ha avviato i suoi programmi nel 2015, in occasione dell’entrata in vigore della legge 107, più comunemente nota come “la Buona Scuola”, e da allora non ha più smesso.L’alternanza in Nestlé rientra nel programma “Nestlé needs YOUth”, uno dei primi esempi di iniziative europee per l'occupazione giovanile da parte di un’azienda privata. Il progetto è stato volto sin dalle prime fasi a creare una stretta collaborazione tra i team di relazioni industriali, relazioni esterne e HR, costituendo un team misto (tutor aziendali preparati per diventare formatori, consulenti di Openjob Metis e docenti degli istituti tecnici e professionali) finalizzato a progettare azioni di avvicinamento dei giovani alla cultura delle professioni tecniche. Già dal primo anno 190 alunni di istituti tecnici sono stati inseriti in otto fabbriche, accompagnati da più 3.600 ore di formazione organizzate nelle scuole e 23 tirocini estivi attivati post-alternanza in fabbrica. Nel 2017 il progetto è stato esteso anche ai licei: qui sono stati coinvolti gli studenti milanesi nella sede di Assago, per un totale di oltre mille studenti ospitati tra gli stabilimenti e la sede centrale. I percorsi sono diversificati per gli studenti del liceo e per gli studenti di istituti tecnici, ma per tutti la prima giornata di alternanza è dedicata a far scoprire agli studenti il funzionamento di una grande azienda del settore alimentare. Per gli studenti di istituti tecnici l’alternanza consiste in un periodo di due o tre settimane all’interno della fabbrica, dove diverse ore di formazione in aula sulla sicurezza sono seguite dalla sperimentazione in prima persona di mansioni di determinate figure professionali che operano nello stabilimento, dove i ragazzi apprendono il funzionamento dei diversi macchinari di produzione.Per i liceali, invece, il percorso avviene in ufficio ed è volto ad approfondire le professionalità che lavorano nella sede centrale. Una combinazione di interventi in aula da parte dei professionisti di Nestlé, di meeting e attività di team working con un approccio di gamification rendono la prima settimana di alternanza molto stimolante, mentre durante la seconda settimana gli studenti si mettono al lavoro sperimentando diversi ruoli aziendali nei settori di marketing, finance, supply chain, comunicazione, digital e HR. Una scoperta non solo delle mansioni, quindi, ma anche di come si svolge la giornata lavorativa dall’inizio alla fine. «Riteniamo che questa visione ad ampio spettro di diversi ambiti aziendali possa essere un valido e concreto aiuto nel fare poi la scelta del percorso di studi universitari», racconta Piantoni.Il periodo di alternanza viene concordato con gli istituti scolastici tenendo conto sia delle esigenze didattiche delle scuole, sia delle attività degli stabilimenti, e solitamente avviene subito dopo la fine delle lezioni (dalla metà di giugno) o prima dell’inizio del nuovo anno scolastico (a inizio settembre). E i ragazzi come sono? «Gli studenti si sono rivelati una piacevole scoperta, perché essendo così giovani e senza le sovrastrutture che si generano nelle quotidiane dinamiche di lavoro in azienda, hanno restituito feedback chiari e sinceri sul nostro modo di lavorare, riuscendo a farci riflettere molto su chi siamo e come lavoriamo», dice ancora il direttore HR. L’entusiasmo di lanciarsi in un’attività nuova, diversa da quella dei banchi di scuola, è quindi un vantaggio da entrambe le parti. «Uno degli aspetti più sfidanti per noi è stato indubbiamente riuscire a tenere sempre viva la loro attenzione e rendere loro comprensibile il lessico tecnico d’azienda, ma anche in questo ci ha sorpreso la loro rapidità di apprendimento».Anche i ragazzi si dichiarano soddisfatti e arricchiti dall’esperienza. Nestlé ha voluto raccogliere alcuni “highlights” delle loro testimonianze in un video dove si sono raccontati in prima persona. Il racconto di Manuel è uno di questi esempi: «È stata un’esperienza molto positiva non solo perché mi ha dato la possibilità di imparare molto sul mondo del lavoro e dell’alimentazione; la conoscenza di persone con diverse esperienze e ruoli lavorativi mi ha permesso di farmi un’idea sia del mio percorso di studi universitario sia, in futuro, di quello lavorativo». I percorsi di alternanza sono pensati e gestiti direttamente dai responsabili delle Risorse Umane e dagli staff delle sedi che lavorano al progetto Nestlé needs YOUth. L’alternanza è infatti un tassello del più grande progetto di Nestlé per favorire l’occupazione dei giovani attraverso quattro pilastri: inserimenti diretti,opportunità di stage e tirocini, Readiness for Work (programma di preparazione al lavoro che include orientamento professionale, workshop dedicati alla stesura del CV e preparazione al colloquio di lavoro presso scuole, istituti di formazione e strutture Nestlé) e coinvolgimento dei partner commerciali di Nestlé nel programma Alliance for YOUth, una "Alleanza per i giovani”, stretta tra Nestlé e i partner commerciali in tutta Europa per mobilitare le aziende che vogliono agire concretamente per favorire l'inserimento dei giovani europei nel mondo del lavoro. E non mancano nemmeno gli interventi di formazione da parte dei tutor di fabbrica negli istituti tecnici e professionali e gli open day dedicati ai giovani e agli studenti per aiutarli nell’orientamento. L’alternanza in Nestlé appare come una macchina ben oliata, ma se c’è una pecca (peraltro quella che le aziende lamentano più spesso) è la burocrazia, abbastanza articolata soprattutto perché riguarda studenti non ancora maggiorenni. Non solo bisogna essere precisi con le scadenze e i documenti, infatti, ma il fatto che «Attualmente ogni scuola fa riferimento all’iter ministeriale ma di fatto ciascun istituto ha la propria convenzione, i propri documenti e i propri tempi per la gestione degli studenti» pone un’ulteriore difficoltà: «Per gli insegnanti non è semplice gestire l’attività didattiche e i rapporti con le aziende. Sarebbe interessante la costruzione di una sorta di regolamento comune per l’alternanza scuola-lavoro, da applicare a tutti gli istituti scolastici».Malgrado queste difficoltà, comunque, Nestlé riconosce l’alternanza scuola-lavoro come un valido strumento di formazione sia per l’orientamento professionale che per il proseguimento degli studi. Il reciproco arricchimento che l’alternanza offre è infatti un’occasione di crescita per l’azienda e non solo un’opportunità concreta per gli studenti. Una “mission” aziendale che si sostanzia nell’approccio e nella motivazione di tutto l’organico nel farsi conoscere da parte dei giovani: Nestlé dedica infatti diversi mesi alla preparazione di un percorso formativo solido; sono necessari incontri con i referenti scolastici, molte ore per raccogliere i documenti necessari e intere giornate dedicate alla preparazione dei contenuti. «L’alternanza è un modo per sviluppare al nostro interno le competenze di leadership, di gestione, di organizzazione ed è un modo per mettersi in gioco verso l’esterno cercando di aprirsi il più possibile al dialogo e all’ascolto delle nuove generazioni», puntualizza ancora Piantoni. È anche per questo che, secondo Nestlé, le aziende dovrebbero mettersi gratuitamente a disposizione delle scuole per accogliere gli studenti, in un’ottica di vero “mecenatismo” verso i più giovani.Oltre a continuare ad accogliere i ragazzi in azienda, per il prossimo anno scolastico Nestlé ha già messo in conto di organizzare un tavolo di confronto con le scuole e le istituzioni per individuare le prospettive future di questa iniziativa, sulla scia di Nestlé needs YOUth e Alliance for YOUth. Cementando al contempo le collaborazioni con le scuole del territorio, avviando nuovi contatti con altri istituti e continuando a volersi dimostrare una best practice a livello nazionale.Irene Dominioni

Selezione del personale, l'esperta: “Personalizzate il cv e fate attenzione alla reputazione sui social”

1999: nasce il cv formato europeo con l’obiettivo di creare uno strumento per permettere a ogni cittadino europeo di esercitare la propria professione in qualsiasi stato dell’Unione Europea. Oggi quel cv ha quasi vent'anni e sembra destinato alla soffitta. La sua evoluzione è in qualche modo lo specchio dei cambiamenti che hanno interessato in questi anni il mondo delle risorse umane e, nello specifico, la selezione del personale.Se ne è parlato in occasione di Nobilita, festival della cultura del lavoro organizzato qualche mese fa a Bologna dall’associazione FiordiRisorse e dalla testata web Senza Filtro, che ha visto confrontarsi giornalisti, addetti ai lavori del mondo delle risorse umane e formatori su tanti temi, tra cui quello del recruiting e delle evoluzioni delle modalità di reclutare personale – anche alla luce della crescita del digital e della cosiddetta social reputation: cioè tutto ciò che viene detto di noi in particolare attraverso il web.«Tra le aziende il cv europeo è stato sempre deprecato, è senz’altro utile per fare un benchmark molto veloce, ma soprattutto oggi la tendenza diffusa è quella di verificare la creatività e la personalità di un candidato sin dall’inizio» dice alla Repubblica degli Stagisti  Silvia Zanella, responsabile global digital marketing di Adecco, multinazionale di selezione del personale e autrice del libro Social recruiter: «Personalmente quando ricevo un cv europeo la mia prima impressione non è positiva, a meno che esso non sia espressamente richiesto dall’azienda. Il cv europeo porta a una fortissima standardizzazione e permette minori opzioni di personalizzazione. In generale credo poco al curriculum, penso che non faccia uscire molto la persona». Quali sono allora i consigli per chi manda una candidatura? «Non credo sia utile inoltrare sempre lo stesso cv alle aziende, va studiata l’azienda e calibrato il curriculum a seconda del destinatario. Il cv va “vestito” in maniera conforme al tipo di azienda per cui mi candido, cercando di bilanciarne i contenuti in modo diverso in base a cosa richiede. Se già ci fossero cv “modellati” le cose andrebbero diversamente. Un’altra mossa utile potrebbe essere una lettera motivazionale ben scritta, che consenta al candidato di esprimere la propria creatività».Scrivere una bella lettera motivazionale e personalizzare il proprio curriculum però può non essere abbastanza. Nell’era del web e dei social conta molto anche cosa si dice di noi in rete e soprattutto cosa raccontiamo attraverso Facebook e simili. Su questi temi Silvia Zanella lavora da anni, precisamente dal 2010, quando ancora i social non erano completamente esplosi in tutte le loro potenzialità, intuendo la loro importanza cruciale anche nell'ambito della selezione del personale: «La nostra immagine digitale ha un impatto perché i selezionatori verificano se ciò che una persona dice ha qualche risonanza, fanno verifiche sulle informazioni pubbliche presenti sui profili Facebook o Instagram del candidato».L’ultima ricerca di Adecco su questo tema, realizzata su 2.742 candidati e 143 recruiter in Italia, ha evidenziato come il 35% dei recruiter abbia ammesso di aver escluso potenziali candidati dalla selezione a causa di informazioni contenute sui social, una percentuale sempre più in aumento rispetto agli anni precedenti. Secondo i recruiter interpellati le principali motivazioni dell’esclusione sono state foto sconvenienti (20%) o informazioni non coerenti con il cv (18%). «Il recruiter è una persona che si fa un’idea in base agli elementi in suo possesso, provenienti ovviamente anche dalla rete» spiega Zanella. Va sottolineato tuttavia come anche i candidati si informino sul web sulle aziende presso cui vorrebbero andare a lavorare: sempre secondo la ricerca Adecco, il 76% dei candidati ha verificato online almeno una volta la reputazione di un’azienda.È importante quindi fare molta attenzione a quello che si fa sapere di se stessi sugli spazi pubblici: «Compito di tutti deve essere quello di sentirsi responsabilizzati quando si pubblica online», aggiunge Silvia Zanella. Senza dimenticare che ci sono anche casi in cui l’immagine espressa da idee, parole, contenuti postati sui social viene notata dai recruiter e può influenzare la scelta di un candidato: «I social possono avere anche un ruolo positivo: se è vero che sono molte le persone scartate a causa di quanto trovato online, è anche vero che esistono casi di persone scelte anche grazie a quanto pubblicato». L’importante è essere creativi e riuscire a far emergere tutti gli aspetti più interessanti di se stessi – quando si parla di lavoro, ma non solo.Chiara Del Priore

Cv europeo, le avventure di un (quasi) ventenne tra i cambiamenti del mercato del lavoro

Ha quasi vent'anni ma, per tutte le evoluzioni che ha attraversato e tuttora vive, sembra più «grande» della sua età. Stiamo parlando del cv europeo, ora chiamato Europass, sin dall’anno della sua introduzione, il 1999, espressione della volontà di creare uno strumento comune per la condivisione di conoscenze e competenze nei paesi Ue. Come è cambiato da allora, e soprattutto: oggi è in declino?«Il cv Europass è un’evoluzione del già noto cv europeo, che dalla fine degli anni Novanta aveva rappresentato il tentativo di standardizzare, attraverso uno strumento comune a tutti i paesi UE, il modo di presentare le proprie abilità, conoscenze e competenze» racconta Alessandra Biancolini dell’Anpal, l'Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro, in cui rientra il Centro Nazionale Europass, che coordina tutte le attività relative ai documenti Europass «Nel 2002 il cv europeo entra a fare parte di una più ampia strategia per ampliare la trasparenza dell'istruzione e della formazione professionale attraverso l’uso di strumenti e di reti di informazione e viene inserito nel portafoglio Europass. Il formato viene leggermente rivisto, vengono mantenute le linee generali della sua struttura ma al posto del logo con la bandiera UE c’è il logo dell’iniziativa omonima, Europass» .Nel 2012, altro importante step nell’evoluzione del cv europeo: «Durante la presidenza lussemburghese viene deciso di dare nuovo impulso all’iniziativa Europass ed anche il cv ne beneficia, con un nuovo formato, che comprende un editor online con diverse innovazioni, tra cui un’interfaccia più accessibile con una visualizzazione immediata dell'impaginazione finale del documento, nuovi campi e nuova identità grafica per una maggiore leggibilità» spiega Biancolini: «Il cv viene essenzialmente diffuso e veicolato attraverso la piattaforma europea dedicata, accessibile al link Europass, e tramite la rete europea costituita dai Punti di Contatto nazionali, cioè Centri Nazionali Europass».Da un punto di vista tecnico «il cv Europass può essere compilato direttamente online sul portale europeo e postato ai motori di ricerca di lavoro, quali Monster o Xing, indicati nell’editor» specifica Biancolini: «In alternativa, può essere scaricato in word e compilato con le istruzioni alla mano. Sul sito sono presenti anche dei modelli precompilati in tutte le lingue ufficiali UE ma è intenzione della Commissione UE, viste le recenti evoluzioni, eliminare il modello in word ed offrire esclusivamente la compilazione online tramite l’editor. E per quanto riguarda l'utilizzo in Italia? Le statistiche europee più recenti indicano un declino, nelle ultime due annualità, del numero di download del documento in word, passato da oltre 4 milioni e 900mila download del 2016 a circa 1 milione 127mila del 2018. Inoltre, proprio per modernizzare l’infrastruttura tecnologica di accesso al cv Europass e avvicinarsi maggiormente al target dei giovanissimi, è disponibile da quest’anno un applicativo di compilazione guidata per smartphone con interfaccia».Negli anni l’uso del cv Europass è cambiato per una serie di motivazioni, tra cui proprio l’avvento delle piattaforme online di recruitment, gestite direttamente dalle aziende, anche se non necessariamente a svantaggio del cv europeo: «Non parlerei di declino in senso assoluto. I dati gestiti dal portale europeo mostrano un trend decrescente in termini di download del template, il modello word, che però vanno opportunamente comparati con il numero dei cv creati online tramite l’editor» spiega ancora Biancolini: «Dalle statistiche europee si evidenza che nel periodo compreso tra il 2005 ed il 2017 sono stati oltre 100 milioni i cv Europass creati online, a cui vanno aggiunti i 60 milioni di download del template del cv. In Italia la cifra è di circa 24 milioni per i cv creati online, oltre 29 milioni per quelli scaricati, nello stesso periodo di riferimento. Le recenti iniziative che anche in Italia hanno portato all’affacciarsi di nuovi formati unitamente ad appositi siti ed app sono il frutto di un’evoluzione naturale dei sistemi di gestione del web da parte delle persone per ogni aspetto della propria vita, in primis per la ricerca di lavoro», sostiene la Biancolini.Le piattaforme online gestite dalle aziende possiedono tuttavia caratteristiche ben precise, che possono influenzare la modalità di realizzazione del cv da parte del candidato, aggiunge Dario Franzosi, direttore area recruiting di Jobmeeting, una delle più importanti fiere del lavoro italiane: «Alcuni software sono in grado di leggere i cv allegati. Per questo quando si prepara il proprio è necessario ragionare per tag e parole chiave e chiedersi “con che tag o parola voglio essere trovato?” “Per questa specifica offerta di lavoro è meglio mettere in evidenza alcune parole?” È fondamentale inoltre inserire tutte le info importanti per la specifica candidatura nella prima pagina del cv».Nel tempo, quindi, la scelta dei candidati è stata da una parte condizionata dalle piattaforme gestite direttamente dalle aziende, dall’altra ha iniziato a ricadere su altre tipologie di cv più «creative» e meno vincolanti rispetto al formato europeo: «Sono abbastanza conosciute le critiche più ricorrenti al cv modello Europass, come formato troppo strutturato che porta all’elaborazione di un documento estremamente lungo o comunque superiore alle due pagine nella maggior parte dei casi» riflette Franzosi, che ha a che fare tutti i giorni con i cv dei tanti frequentatori di Job Meeting e si è fatto una sua opinione sul cv europeo: «Le aziende che richiedevano il cv europeo da un po’ di anni hanno smesso di farlo. Le ultime a mollare sono state le aziende dalla pubblica amministrazione. Personalmente credo che il cv europeo non sia lo strumento migliore di presentazione di un candidato: in un contesto in cui abbiamo deciso di sottostare in pieno alle regole del libero mercato non possiamo pensare di incasellare e limitare troppo le informazioni e la modalità di comunicazione dei candidati. Chi cerca lavoro, infatti, è invitato a mettere in atto ogni strategia possibile per emergere in ambiti sempre più competitivi dove stanno tornando ad acquisire valore doti come creatività e immaginazione». Allargando lo sguardo all’estero, si notano ulteriori differenze, come racconta Elettra Bertucco, consulente del Cosp (il Comitato provinciale per l’Orientamento Scolastico e Professionale) di Verona ed esperta di orientamento. «Molti studenti rimangono stupiti nello scoprire che ad esempio negli Stati Uniti non deve essere indicato alcun dato personale che possa esser discriminante, come data di nascita, data di laurea, qualsiasi informazione che suggerisca sesso, età, orientamento religioso» dice Bertucco, che oggi vive e lavora nella sua città natale – Verona, appunto – ma ha alle spalle un’esperienza negli Stati Uniti che le ha permesso di acquisire un’esperienza significativa in ambito risorse umane. Franzosi evidenzia differenti tendenze: «In ogni paese ci sono diversità di tipo culturale e di approccio che si riflettono anche nel modo in cui si cerca lavoro e ci si presenta. Riassumendo molto possiamo dire che un formato come quello europeo, utilizzato ovviamente solo in Europa, in altri paesi extra Ue viene generalmente considerato troppo lungo. Quasi sempre è preferibile cercare di sintetizzare tutto non andando oltre le due pagine. Dagli Usa, invece, nasce la tendenza che si sta espandendo molto del formato “skilled-based” che mette in rilievo le proprie competenze e che mette in secondo piano studi e formazione». Chi intende dunque tentare un’esperienza internazionale deve quindi essere ben informato sulle diversità relative alle candidature e alle modalità di ricerca del lavoro.Ma in fondo il problema è davvero nella forma? Secondo Biancolini no: «Mi sembra che la vera differenza la faccia il contenuto, e non il formato in cui quest’ultimo è espresso. Al di là degli ambiti in cui i veri “creativi” hanno bisogno di un loro formato originale, io non direi che il mancato successo di un CV sia da attribuire al formato, quanto invece alla modalità di presentazione di se stessi, del proprio “bilancio di competenze” in senso ampio nonché dalla capacità di sfruttare giusti canali di promozione ed accesso alle informazioni utili».Per Elettra Bertucco «Spesso mancano proprio le basi: scrivere in italiano corretto, saper sintetizzare se il cv risulta troppo lungo e approfondire se necessario. Saper scremare le esperienze da mettere in risalto e aver chiaro il proprio pubblico: a chi sto mandando il cv e per quale posizione?». «Avere il cv europeo non è di per sé un elemento negativo» è la conclusione di Franzosi «ma è molto importante pensare prima di tutto al suo contenuto, saper condensare in poco spazio quello che conta davvero senza dilungarsi su cose inutili e cercare per quanto possibile di far emergere il proprio valore e le proprie competenze».Tirando le somme, è ancora presto per affermare che il cv europeo sia tramontato. Piuttosto è necessario un cambio di prospettiva: passare dall’attenzione al formato al lavoro sulla costruzione di un racconto, quanto più flessibile e creativo, di sé e del proprio percorso professionale.Chiara Del Priore

Università, e poi? I consigli degli esperti ai giovani: stage, esperienze all’estero, competenze digitali

La transizione tra l’università e il mondo del lavoro è un momento importante nella vita di ciascun giovane: si potrebbe dire che sia un vero e proprio rito di passaggio nel mondo degli adulti, un primo passo verso l’autonomia. In quello che però oggi rappresenta un momento di grande difficoltà per i giovani, a Best Stage 2018 la Repubblica degli Stagisti ha riunito una serie di esperti nella tavola rotonda intitolata “Università, e poi?”, proprio per approfondire le varie sfaccettature e problematiche di questo passaggio.Prima di entrare nel vivo dell’argomento, vale la pena di approfondire i risultati del sondaggio presentato a Best Stage con cui la Repubblica degli Stagisti ha indagato il rapporto tra le aziende del suo network e il mondo delle università e dei master, per capire come questi attori agiscono e si rapportano per favorire l’ingresso dei giovani nell’ambito professionale, e soprattutto che cosa le aziende si aspettano e cosa ottengono dalle università. Il primo, confortante dato che emerge dalle ottanta (circa) aziende del panel, riunite in una trentina di gruppi, è che queste sono generalmente soddisfatte dei neolaureati che arrivano loro dalle università: in particolare, il 70% rintraccia nei ragazzi una buona preparazione e il 30% persino eccellente. Certo, ci sono aspetti su cui bisogna migliorare: le carenze rintracciate più frequentemente tra gli studenti sono quelle linguistiche (l’inglese ma non solo) e le soft skills, ormai universalmente considerate un asset fondamentale in ogni ambito lavorativo. Di contro, il voto di laurea conta meno di quanto ci si potrebbe aspettare: il 65% delle aziende lo reputa “molto importante” nel momento in cui seleziona i candidati, e per il 28% è solo “abbastanza importante”. Inoltre, il career day è il momento di contatto più usato dalle aziende per entrare in contatto con gli studenti, prima scelta per quasi il 20% delle aziende del network, seguito a brevissima distanza dagli incontri ad hoc organizzati tra aziende e studenti in università, e poi dalle testimonianze aziendali in ateneo. Alla domanda su come si potrebbe migliorare ulteriormente il contatto tra aziende e potenziali candidati all’interno delle università, le aziende rispondono che servirebbero più occasioni di contatto diretto gratuito con gli studenti e neolaureati (36%), seguito dalla richiesta di intensificare i processi di preselezione dei candidati da parte degli atenei stessi, e infine l’accesso ai database con i CV dei laureati.Poste queste premesse, quali sono le problematiche principali del passaggio tra università e lavoro oggi, e come collaborano aziende e università per favorirlo? Se il primo strumento per avviare i giovani al mondo del lavoro è, naturalmente, lo stage, Barbara Rosina, direttrice del Cosp (il centro per l’orientamento allo studio e alle professioni) dell’università Statale di Milano, mette subito le cose in chiaro: su 65mila iscritti al suo ateneo, gli stage attivati ogni anno sono circa 6mila, di cui il 70-80% curriculari. C’è una crescente attenzione da parte dell’università verso il tema dello stage, anche perché «da qualche anno gli atenei vengono valutati a livello ministeriale anche in questo senso», in particolare sulla base del numero di tirocini attivati e della valutazione delle aziende sui tirocinanti. «Io penso che le università debbano farsi fortemente promotrici dei tirocini curriculari» dice l’esperta: «si tratta di formazione al lavoro, ed è fondamentale che dopo l’università si possa arrivare direttamente al lavoro. Ai ragazzi consiglio di non aspettare dopo la laurea per fare uno stage». Molti sono però i giovani che preferiscono ancora laurearsi prima, e poi solo successivamente dedicarsi alle esperienze on the job. In più, la direttrice del Cosp riporta come ci sia ancora molta confusione: diversi studenti sono infatti convinti, nel momento in cui approdano in un’azienda per un’esperienza di tirocinio, di avere un “contratto” di stage, mentre per definizione lo stage è un’esperienza di formazione e prevede semplicemente una convenzione, non costituendo lavoro. L’università, sottolinea ancora Rosina, cerca di informare il più possibile, ma sarebbe importante che tutti i corsi di laurea promuovessero gli stage già durante il corso di studi, così da dare a ciascuno la possibilità di avere un assaggio di mondo del lavoro e quindi un’idea più chiara su cosa fare dopo.E le aziende cosa dicono? Paolo Costa, co-founder e direttore marketing e comunicazione di Spindox, è deciso: «Perseguiamo l’obiettivo di inserire stabilmente in azienda più giovani possibili, e cerchiamo ogni giorno di convincere i neolaureati che noi siamo la scelta migliore per un tempo che sia il più lungo possibile». Un approccio sfidante, ma che deve fare i conti con alcune limitazioni peculiari al proprio settore, quello informatico: paradossalmente, infatti, nonostante i profili IT siano oggi tra i più ricercati nel mondo del lavoro, capita che persino loro non abbiano le basi giuste da cui partire per iniziare a lavorare. Questo perché, secondo una ricerca svolta da Spindox su 55 diversi atenei, su 119 insegnamenti universitari, tra lauree triennali e specialistiche in ambito IT, meno della metà (45) impartiscono i linguaggi di programmazione più utili per le aziende. «Abbiamo laureati in informatica da centodieci e lode che non sanno cosa sia JavaScript e che per questo con noi non possono lavorare» spiega Costa. Per sopperire a questi “buchi” Spindox si occupa anche di fare formazione e training specifici per i suoi giovani all’inizio del periodo di stage, ma molti altri giovani, pur avendo un titolo che in teoria è iper-spendibile sul mercato, rischiano di avere più difficoltà del previsto a inserirsi nel mondo del lavoro.La realtà, quindi è che entrare nel mondo del lavoro oggi può essere difficile per qualsiasi giovane. Rimane il fatto che oggi, più che in passato, esistono lauree “forti” e “deboli”: Marina Timoteo, docente di Diritto privato comparato all’università di Bologna e direttrice del consorzio Almalaurea, racconta che, a cinque anni dal titolo, i laureati magistrali di ingegneria, in materie economico-statistiche e in quelle sanitarie hanno un tasso di occupazione superiore al 90%, mentre i laureati del gruppo giuridico, geo-biologico e letterario si trovano sotto la media. Anche le retribuzioni (di gran lunga inferiori rispetto all’estero) variano molto: dai 1600 euro medi dei laureati nelle materie “vincenti”, le Stem, ai 1200 euro per coloro che hanno un titolo giuridico, mentre il settore psicologico e quello dell’insegnamento presenta buste paga inferiori ai mille euro mensili. Certo, c’è stato un miglioramento rispetto all’anno scorso nel tasso di occupazione dei laureati a un anno dal titolo, ma a fronte di un 63% di studenti universitari che auspica la sicurezza e la stabilità del posto del lavoro, «bisogna rendersi conto che stiamo attraversando un cambiamento strutturale e irreversibile: c’è una necessità di adeguamento culturale» puntualizza Timoteo. In attesa che questo avvenga (e si sa, ci vuole tempo) quali sono allora gli asset più strategici per rendersi “attrattivi” nei confronti dei datori di lavoro? Sicuramente «le esperienze all’estero, il possesso di competenze informatiche e le esperienze di tirocinio curriculare» risponde la direttrice di AlmaLaurea.Contemporaneamente occorre sfatare il mito che “laurearsi è una perdita di tempo”: secondo Francesco Cancellato, direttore de Linkiesta.it e autore del libro “Né sfruttati né bamboccioni - Risolvere la questione generazionale per salvare l’Italia”, la scelta del percorso di studi all’università andrebbe sicuramente fatta tenendo conto del contesto e del mercato in cui ci si trova. «Questo è il momento migliore per essere giovani, cioè è il momento migliore per aver appreso le conoscenze un minuto prima di iniziare a lavorare» spiega il giornalista: «Con le rivoluzioni della digitalizzazione e dell’automazione degli ultimi vent’anni, le competenze diventano obsolete nel giro di poco. Chi si è laureato più recentemente dovrebbe essere avvantaggiato in questo senso, ma se non si investe nella conoscenza incrementale, il vantaggio dei giovani non esiste». E aggiunge: «il vero mismatch oggi in Italia è che se sei un laureato di alto livello ti trovi o a fare un lavoro sottoqualificato, oppure hai offerte più allettanti che provengono dall’estero, perché in Italia il grosso dei costi si concentra sui lavoratori più anziani».La rapidità del cambiamento e la richiesta di competenze in continua evoluzione, insomma, è alla base di grandi squilibri nel mondo del lavoro. Anche per questo l’orientamento è un tema centrale: se si pensa che addirittura il 17,4% degli studenti, come rileva Almalaurea, non sa perché non ha scelto un determinato corso di laurea – una percentuale addirittura raddoppiata rispetto al 2006 – e che si sono persi 24 punti percentuali nel numero di iscrizioni all'università tra il 2005 e il 2015, c’è da preoccuparsi. E nonostante un ateneo come la Statale non abbia perso iscritti «sono moltissimi coloro che abbandonano gli studi oppure che “vivacchiano”», riporta Barbara Rosina.Ovviamente, comunque, l’università non è l’unica scelta possibile dopo le superiori: Cristina Tajani, assessora al lavoro del Comune di Milano, cita a questo proposito l’esempio delle scuole civiche che il Comune gestisce soprattutto nell’ambito delle cosiddette “performing arts”, «percorsi ormai praticamente equipollenti ai titoli universitari e molto professionalizzanti», in ambiti che vanno dal teatro alla musica, il cinema e l’interpretariato. In più, ci sono percorsi formativi specifici rivolti a fasce protette, dove lo strumento dello stage «è stato usato con grande successo ed ha aiutato molte aziende a conoscere e a vincere pregiudizi», e da non dimenticare anche le possibilità che il settore pubblico offre: «negli ultimi tempi sono aumentate le domande per fare stage curriculari o extracurriculari presso il Comune» osserva Tajani, anche probabilmente dovute al fatto che le vacancy (e quindi i concorsi) sono ora pubblicizzati su LinkedIn. Un modo non per entrare nel lavoro (non si può essere assunti dopo uno stage in Comune, naturalente: le assunzioni avvengono tramite concorso), ma una possibilità di formarsi e di conoscere “dal di dentro” un'amministrazione locale.Ultimo aspetto da focalizzare, il fatto che ormai la formazione non finisce davvero mai: «I ragazzi vivono nel mito della laurea professionalizzante, pensando che le competenze che acquisiscono all’università siano definitive e che dureranno loro per tutta la vita» conclude Paolo Costa, ma «dovrebbero imparare a disimparare per poter imparare ogni volta cose nuove»: solo così potranno essere davvero “sul pezzo”, riuscendo a muoversi con successo nel mondo del lavoro.Irene Dominioni

Freelance, problemi e soluzioni per il lavoro autonomo secondo Acta

Non solo 'riders'. Nonostante siano i fattorini delle consegne a domicilio la categoria di lavoratori autonomi al centro del dibattito degli ultimi giorni, perfino convocata a un tavolo dal neoinsediato governo gialloverde, il vero mondo dei veri freelance è un altro: ben più ampio, e bisognoso di riforme. Lo ha sottolineato ancora una volta Anna Soru, presidente di Acta, l'associazione dei freelance, in una conferenza alla Camera dei deputati in cui sono stati presentati i dati della ricerca europea I-Wire: I lavoratori indipendenti, chi sono e che cosa vogliono, condotta online su un campione casuale di circa 900 freelance appartenenti a otto Paesi europei. Che svolgono oggi attività sempre più fluide, i cosiddetti 'contingent work' come li ha definiti Soru, ovvero lavori caratterizzati da flessibilità e frammentarietà, in crescita con la diffusione delle tecnologie digitali. E in tal senso, per Acta, i riders sono solo una microscopica parte della galassia composta dagli autonomi. Presente anche la deputata Cinque stelle Tiziana Ciprini, già deputata nella scorsa legislatura e componente della commissione Lavoro, che ha ricordato come nel Decreto dignità qualche passo in avanti già sia stato fatto. La disattivazione del redditometro, strumento in mano al fisco per la determinazione del reddito, la semplificazione dello spesometro che da ora prevederà un solo adempimento annuale, l'abolizione dello split payment che consentiva il pagamento dell'Iva direttamente per mano della pubblica amministrazione in caso di acquisti di beni e servizi. Tutte misure pensate «per semplificarvi la vita» ha chiarito Ciprini, e nello specifico per lo split payment finalizzate a «lasciare maggiore liquidità in tasca ai professionisti», penalizzati secondi i 5 Stelle dal mancato incasso dell'Iva.Forse però a perderci davvero sono solo i più ricchi tra gli autonomi oggi attivi, un esercito che conta in Italia circa 3,5 milioni di lavoratori, vessati – come il sondaggio ha messo in luce – soprattutto dai bassi compensi: in quasi tutti i Paesi la stragrande maggioranza ha guadagni al di sotto dei 30mila euro annuali. In Italia è così per oltre il 70 per cento tra questi, con una fetta pari al 23% che sta addirittura sotto i 10mila euro l’anno. Con queste cifre il regime fiscale adottato sarà quello della partita Iva dei cosiddetti minimi, che per definizione esclude il versamento dell'Iva e rimane fuori quindi dai recentissimi provvedimenti. È pur vero che i compensi dei freelance sono difficilmente controllabili perché – ha sottolineato Soru – «essendo assimilati alle imprese sfuggono alla contrattazione collettiva, alle tabelle tariffarie e sono soggetti solo all'andamento del mercato». Per cercare di migliorare la propria condizione retributiva i freelance si trasformano sempre più spesso in 'slash workers', vale a dire lavoratori che esercitano più professioni allo stesso tempo. In Italia, secondo i dati della ricerca, il 54% svolge più di tre attività alla volta (il 26 “solo” due), a parimerito con gli altri paesi Ue. «Un lavoro solo non basta a mantenersi» si legge nella ricerca, e inoltre «è il mercato a richiedere flessibilità e le professioni stesse a avere confini sempre meno definiti». Altro tema è quello della discontinuità lavorativa, che interessa ancora una volta più della metà del campione di intervistati. Non ci si trova poi di fronte a un gruppo marginale. «Il lavoro del futuro sarà sempre meno dipendente e sempre più intraprendente» ha ribadito Ciprini citando il libro Lavoro 2025, basato su una ricerca commissionata l'anno scorso dal Movimento Cinque Stelle, secondo cui si lavorerà «sempre più per obiettivi e team, con lavoratori chiamati a autogestirsi e mansioni ripetitive sempre più soggette a automazione». La soluzione insomma qual è? Intervenire soprattutto sul welfare, partendo proprio da quel reddito di cittadinanza di cui tanto si discute e che – secondo Soru – potrebbe applicarsi «per garantire tutti i lavoratori esclusi dal sistema di welfare attuale nelle situazioni di malattia grave, disoccupazione, maternità». Lo spauracchio dell'assenza totale di reddito è infatti sempre dietro l'angolo per gli autonomi. Caso emblematico la maternità, non sempre riconosciuta alle lavoratrici da tutte le casse previdenziali: una delle principali ad esempio – la Gestione separata Inps – richiede di aver dichiarato almeno 15mila euro annuali per versare un'indennità. Una soglia elevata per le freelance, che mediamente percepiscono guadagni minori. Le proposte di Acta non finiscono qui. Urge anche «eliminare la distinzione tra autonomi e dipendenti nella definizione della no tax area, attualmente pari a 4.800 euro per gli autonomi, contro gli 8mila dei dipendenti» scrivono nel documento, e potenziare la formazione visto che «l’assegno di ricollocazione è riservato ai soli dipendenti». E ancora, creare più nidi e servizi alle famiglie a vantaggio di tutti i cittadini, senza invece «far piovere sul bagnato con incentivi pubblici a carico di tutti e diretti al welfare aziendale». Una politica che secondo Soru andrebbe a «avvantaggiare chi già lo è, ovvero i dipendenti». E poi le pensioni, per cui servono più investimenti onde evitare un futuro di pensionati in povertà «dove sarà evidente la disparità tra chi ricade in un regime prevalentemente retributivo e chi invece afferisce al sistema contributivo puro, tra cui soprattutto i giovani, sfavoriti anche da carriere lavorative tardive e discontinue». Ci sono anche idee nuove da realizzare nell'immediato. Una è quella di «mantenere la copertura del welfare per un anno agli ex dipendenti che diventano autonomi». E iniziare a «computare tutti gli anni lavorati, anche quando il versamento contributivo è stato inferiore al minimale, ai fini del raggiungimento della soglia del numero di anni necessario per il pensionamento». Acta lancia pure una proposta forte: «Per contrastare il dilagare del lavoro gratuito e semigratuito» si legge ancora in calce allo studio, «introdurre un salario minimo orario e abbandonare completamente lo strumento dello stage extra curriculare» favorito da un programma come Garanzia giovani «pensato non per aumentare gli occupati ma per finanziare gli stage».Quante di queste proposte verranno recepite da Lega e CinqueStelle e portate nell'attività legislativa ancora non si sa. Per ora la deputata Ciprini ha ammesso che sono i lavoratori freelance quelli che più «vanno incontro allo sviluppo e alle esigenze attuali, con una legislazione che invece resta indietro» e che dovrà essere aggiornata. E si è detta «aperta a interfacciarsi con associazioni e rappresentati di categoria per dare una risposta ottimale alle esigenze reali».  Ilaria Mariotti