Categoria: Approfondimenti

Medicina, quale specializzazione scegliere dopo la laurea?

Se nella vasta gamma di corsi di laurea a disposizione dei giovani si trovano fin da sempre facoltà più direttamente spendibili nel mondo del lavoro, medicina rientra senza dubbio tra queste, essendosi piazzata anche nel 2016, secondo i dati dell’ultimo rapporto Almalaurea, al primo posto per il tasso di occupazione a cinque anni dal titolo, che viaggia oltre il 94%. Anche lo stipendio a cinque anni dalla laurea non delude: la retribuzione netta si aggira in media intorno ai 1.850 euro al mese. A ben guardare, però, oltre l’80% dei neo-medici non può ancora considerarsi fuori dal percorso formativo, perché c'è da frequentare la specializzazione, tappa pressoché obbligata per poter poi lavorare all’interno del sistema sanitario nazionale. Senza di essa, infatti, sembra che gli aspiranti medici possano fare ben poco: sostituzioni di medicina generale e guardie mediche, essenzialmente. Data però la lunghezza della specializzazione – che va in media dai 4 ai 6 anni – e la mole di studio richiesta al superamento del concorso, per titoli ed esami, attraverso cui le borse di specializzazione vengono annualmente assegnate, può essere utile, prima di scegliere la strada da prendere, mettere a confronto le varie opportunità dando un’occhiata anche alle chances occupazionali offerte da ciascuna specialità. «Le specializzazioni più favorevoli sono sicuramente pediatria, anestesiologia, medicina interna e medicina di base che, stando agli ultimi dati, avrà in futuro una grande carenza» spiega a Repubblica degli Stagisti Pierino Di Silverio [nella foto qui sotto], consigliere dell’Ordine dei medici di Napoli e membro del direttivo nazionale Anaao giovani. Stando ai numeri [nella figura a sinistra], infatti, sono queste le specialità che si preparano a registrare, nel periodo 2014-2023, il maggior numero di pensionamenti: 6mila per pediatria, quasi 5.500 per anestesiologia, oltre 4mila per medicina interna. Poche invece sono le notizie dal mondo del privato, per il quale è difficile stabilire quali siano le specializzazioni più fruttuose in termini di retribuzione: i contributi versati dai medici che esercitano privatamente, spiega la la cassa previdenziale dei medici Enpam, non sono distinti sulla base della specializzazione che hanno conseguito ma confluiscono in un fondo unico, quello dedicato appunto alla libera professione. Attenzione però ai dati apparentemente incoraggianti che arrivano dal sistema sanitario nazionale: il gran numero di pensionamenti non significa che per ogni medico anziano che andrà in pensione si aprirà automaticamente un posto di lavoro per un giovane medico. Il numero dei contratti di formazione Miur, ossia delle borse di studio per specializzandi per ciascuna area, risulta infatti nello stesso lasso di tempo nettamente inferiore; si parla infatti di 2.900 borse per pediatria, 5.140 per anestesiologia e 2.280 per medicina interna. Ciò significa che, salvo cambiamenti nella programmazione, mancheranno presto circa oltre 3mila pediatri, quasi 2mila medici interni e più di 300 anestesisti, ma anche, stando ai dati, quasi 1000 chirurghi, oltre 800 psichiatri, e l'elenco potrebbe continuare.Il problema evidente in tali discrepanze sembra però stare a monte, ossia nella forte differenza che si registra ormai da anni tra il grande numero di laureati in medicina e il ristretto numero di borse di specializzazione messe a bando ogni anno dallo Stato e, in minima parte, dalle Regioni: «Gli immatricolati alla facoltà di medicina sono circa 10mila all’anno, con un tasso di laurea in sei anni del 93%. Se si considera che i contratti formativi erano quest’anno 6.700, a cui si aggiungono i circa mille posti per la specializzazione in medicina generale, il gap che ne deriva è enorme. In questo modo circa tra i 1500 e i duemila colleghi restano fuori ogni anno da canali formativi, poiché con la legge Bindi l’ingresso in ospedale è subordinato al titolo di specialista» chiarisce Di Silverio. Per questo Anaao Giovani chiede che venga incrementato il numero dei contratti di formazione specialistica di almeno 2mila unità, per arrivare ad un minimo di 8mila contratti l’anno, così da cercare di «allargare l’imbuto formativo creato da una fallimentare programmazione» si legge sul sito dell’associazione. «La soluzione alla carenza di specialisti che si registrerà nei prossimi anni non sta infatti nel permettere un libero accesso al corso di laurea in Medicina e chirurgia», che «condannerebbe un’intera generazione di medici alla disoccupazione», ma nel «permettere a tutti i laureati in medicina di completare il percorso formativo post-lauream per poter accedere al mondo del lavoro pubblico e privato». Ma, se la soluzione è rappresentata da una corretta programmazione in termini di numeri e di tipologia dispecializzazione, occorre però migliorare la formazione specialistica anche in termini di qualità, poiché «la rete formativa medica ha bisogno di essere integrata, così come deve essere integrata la formazione medica con gli ospedali», spiega Di Silverio. «Auspichiamo e chiediamo da tempo a Roma la creazione di teaching hospital affinché il giovane medico possa girare tra gli ospedali e “imparare facendo”»: dati alla mano, infatti, il 71% di chi ha frequentato un reparto ospedaliero ritiene che la formazione professionalizzante sia migliore rispetto all’analogo universitario. «Questo dimostra che le strutture ospedaliere sono in grado di fornire una formazione di massimo livello, spesso ben al di sopra dei reparti universitari, dando un’ulteriore conferma del fatto che la via maestra per risolvere i problemi del percorso di formazione post-lauream è quella del doppio binario formativo».Ad essere necessario è poi «un cambiamento nella tipologia contrattuale del medico specializzando, che ad oggi percepisce una normale borsa di studio con funzioni contrattuali non ben definite» aggiunge Di Silverio. L’adozione di un contratto a termine «consentirebbe invece di raggiungere i requisiti per entrare nel sistema sanitario dopo la specializzazione, così come di versare quote contributive decorose per il raggiungimento della pensione. In più permetterebbe l’acquisizione dei diritti del lavoratore, che oggi appaiono sfumati e discrezionali».Anche per Walter Mazzucco [nella foto a sinistra], presidente dell’Associazione italiana medici, il problema sta in «una programmazione fatta male», poiché incentrata su un «modello ospedalocentrico» che non tiene conto della necessità di investire invece anche sulle strutture sanitarie territoriali: «se in passato il prevalere di malattie acute rendeva gli ospedali centrali nel sistema sanitario, adesso la programmazione dovrebbe tener conto di un prevalere di malattie croniche che, salvo il riacutizzarsi, possono essere trattate più agilmente sul territorio» spiega Mazzucco. «Il medico che si laurea spesso non conosce bene le possibilità di lavoro sul territorio e ha come sola aspettativa quella di fare il medico ospedaliero»: eppure queste strutture potrebbero dare buone opportunità anche ai giovani neo-medici, a patto però di essere valorizzate. «Avendo 21 servizi sanitari regionali con richieste differenti, il quadro è variegato» sia in termini di problematiche che in termini di opportunità post-specializzazione: «Al Sud si lamenta la mancanza di concorsi a tempo indeterminato, causati dai blocchi imposti dai piani di rientro: in pratica, non ci saranno concorsi a tempo indeterminato finché non ci sarà una rimodulazione delle reti ospedaliere che crei un’adeguata rete di salute» dice Mazzucco. Molti giovani medici del meridione guardano allora al Nord Italia, dove ci sono più possibilità e, spesso, non totalmente sfruttate dato che molti medici «preferiscono, piuttosto che andare a lavorare in un’area periferica, spostarsi in qualche città all’estero». Per questo «abbiamo tanti medici che vanno fuori, soprattutto in Svizzera e Regno Unito». Se dunque la laurea in Medicina continua ad essere considerata un titolo “inossidabile”, anche per gli aspiranti medici, il percorso non sembra essere tutto rose e fiori. Lo conferma la bocciatura dell’emendamento proposto in Commissione bilancio alla Camera volto a garantire la copertura economica, nella legge di bilancio 2018, per circa mille contratti di formazione specialistica in più a partire dal prossimo anno accademico. Mille contratti che secondo l'Anaao «sarebbero stati del tutto insufficienti rispetto alle reali esigenze del fabbisogno del sistema sanitario nazionale e all’angosciante problema dell’imbuto formativo che sta stringendo in una morsa i giovani medici», ma che avrebbero fatto almeno sperare, se non altro, in un impegno e in un interesse delle istituzioni nei confronti della formazione medica specialistica. Giada Scotto

Aggiornamento delle normative per i tirocini, ecco la lista Regione per Regione

Da ormai diverse settimane la Repubblica degli Stagisti sta seguendo l’iter di recepimento da parte delle Regioni italiane delle linee guida per gli stage extracurriculari, emesse dalla Conferenza Stato-Regioni a maggio 2017. Dalla Valle d’Aosta alla Sicilia (comprese le province autonome di Trento e Bolzano), le regole dei tirocini stanno infatti per cambiare, integrando e migliorando le direttive contenute nelle leggi vigenti fino a questo momento e risalenti al 2013.Qualche Regione ha già provveduto ad aggiornare la propria normativa, a volte con cambiamenti sostanziali (basti pensare al Lazio, che già ad agosto aveva varato le nuove misure, portando il rimborso spese minimo a ben 800 euro mensili). Altre, invece, sono rimaste indietro, superando la deadline del 25 novembre, il termine ultimo che le linee guida indicavano per il recepimento.La Repubblica degli Stagisti ha pubblicato gli aggiornamenti finora disponibili sia per le Regioni che hanno già deliberato, sia per quelle che ancora stanno lavorando al proprio testo, raccogliendo informazioni e dichiarazioni da sindacalisti, consiglieri regionali e giunte. Tra miglioramenti e qualche pecca, le Regioni sono in dirittura d’arrivo: di seguito trovate la lista degli articoli già pubblicati sul tema, Regione per Regione, mentre a breve seguiranno anche gli articoli per le Regioni mancanti. Buona lettura! LombardiaPiemonteValle d'AostaVenetoProvincia di TrentoFriuli Venezia Giulia LiguriaEmilia RomagnaToscanaMarcheLazioCampaniaAbruzzoBasilicataCalabriaSiciliaSardegna

I 10 articoli che hanno fatto il 2017 su Repubblica degli Stagisti

Il 2017 è stato un anno intenso per quanto riguarda il mondo dei giovani e quello del lavoro: un anno di proteste nelle piazze, di nuove leggi, di statistiche e di testimonianze. La Repubblica degli Stagisti ha cercato di raccontarlo, seguendo gli argomenti di discussione più caldi, informando e, talvolta, anche sollevando critiche. Dallo sciopero mondiale degli stagisti alle polemiche sugli annunci di stage mascherati, ecco la top ten degli articoli che hanno fatto il 2017 sulla Repubblica degli Stagisti.1) Sciopero contro l'alternanza scuola lavoro: ragazzi, non sbagliate bersaglio.A ottobre i giovani di tutta Italia sono scesi in piazza per protestare contro l’alternanza scuola lavoro. “Ci sfruttano”, è stato il loro messaggio. «A una come me, che da quasi un decennio si batte per i diritti degli stagisti e contro lo sfruttamento, viene da piangere» ha scritto Eleonora Voltolina, direttore della Repubblica degli Stagisti, nel suo editoriale Sciopero contro l'alternanza scuola lavoro: ragazzi, non sbagliate bersaglio. L’alternanza è un’esperienza pensata per dare un assaggio di che cosa significa entrare nel mondo del lavoro e quindi uno strumento di consapevolezza in più per i ragazzi, non una misura pensata per danneggiarli. Se da un lato è giusto denunciare gli abusi, d’altra parte non bisogna commettere l’errore di denigrare mansioni semplici e di fatica, come servire hamburger in un fast food, perché anche quelle sono prove che consentono di capire meglio il mondo: «Avreste tante cose per cui battagliare, non sbagliate bersaglio».  2) Maxi-stage nei tribunali: «Disperati, facciamo di tutto per rimanere nel progetto». Le proposte per "salvare" gli esclusi.Un altro tema caldo del 2017, nonostante non sia nuovo sulla Repubblica degli Stagisti, è quello dei tirocini negli uffici giudiziari italiani, affrontato da Marianna Lepore nell’articolo Maxi-stage nei tribunali: «Disperati, facciamo di tutto per rimanere nel progetto». Le proposte per “salvare” gli esclusi. Chiamati “maxi” perché si prolungano per anni, di fatto mascherando lavori veri e propri, questi tirocini interessano ad oggi 2500 persone e costituiscono un guaio non indifferente, vista peraltro la mancanza cronica di personale del settore della giustizia. Una situazione paradossale di illegalità all’interno dello stesso ministero.  3) Dis-Coll ora anche per assegnisti e dottorandi di ricerca, ma l'Inps non sa dire quanti ne hanno finora usufruito.I dottorandi e gli assegnisti di ricerca, invece, dopo una battaglia durata due anni potranno usufruire dell’indennità di disoccupazione rivolta ai collaboratori coordinati e continuativi iscritti in via esclusiva alla gestione separata dell’Inps. A parlarne è Rossella Nocca nell’articolo Dis-Coll ora anche per assegnisti e dottorandi di ricerca, ma l'Inps non sa dire quanti ne hanno finora usufruito. Destinata ad una platea di poco meno di mezzo milione di persone, pur non risolvendo il problema strutturale del finanziamento del sistema, del reclutamento e del turnover, rappresenta un piccolo grande successo per il mondo del precariato universitario.  4) Pensioni ai superstiti: possono esserne beneficiari anche gli universitari under 26 fino alla laurea, ma solo se in corso.Ilaria Mariotti, invece, ha focalizzato il tema delle indennità corrisposte a quei giovani che perdono un genitore in età da pensione oppure ancora lavoratore nell’articolo Pensioni ai superstiti: possono esserne beneficiari anche gli universitari under 26 fino alla laurea, ma solo se in corso. L’articolo approfondisce nel dettaglio i requisiti per accedere al sussidio, in seguito ad una richiesta sul forum della Repubblica degli Stagisti da parte di un giovane universitario in cerca di delucidazioni. Spesso, infatti, qui sono le domande poste dagli stessi lettori a stimolare un approfondimento! 5) Aggiornamento delle linee guida in materia di tirocini: ecco le novitàStrettamente in tema di stage, invece, la novità principale del 2017 è stata l’emissione a maggio delle nuove linee guida per i tirocini extracurriculari, affrontate nel dettaglio nell’articolo Aggiornamento delle linee guida in materia di tirocini: ecco le novità di Giada Scotto. Tra le principali novità, la durata massima degli stage stabilita a 12 mesi e quella minima a due mesi; la migliore definizione di aspetti in precedenza trascurati, l’introduzione di nuovi soggetti abilitati all’attivazione dei tirocini e l’ampliamento sia dei compiti del soggetto promotore sia di quelli del soggetto ospitante. 6) 20 febbraio, una giornata per dire no agli stage-sfruttamento: basta una foto a sostegno del Global Intern StrikeIl 20 febbraio, invece, gli occhi degli stagisti di tutto il mondo sono stati puntati sul Global Intern Strike, la mobilitazione per protestare contro gli stage non pagati, ancora troppo frequenti perfino in realtà blasonate come l’ONU. La Repubblica degli Stagisti ha preso parte allo sciopero, invitando tutti a farsi una foto con un messaggio di supporto nell’articolo 20 febbraio, una giornata per dire no agli stage-sfruttamento: basta una foto a sostegno del Global Intern Strike. In Italia i tirocini curriculari, cioè quelli che vengono svolti mentre si sta facendo per esempio l'università, o un corso di formazione, o un master, ancora non prevedono un rimborso spese. «Noi combattiamo gli stage gratuiti per molte ragioni. La più importante è che sono classisti» ha spiegato Eleonora Voltolina, direttore della Repubblica degli Stagisti aggiungendo: «La nostra proposta è di prevedere una indennità obbligatoria anche per i tirocini curriculari, un compenso minimo per tutti i tirocini di durata superiore alle 200 ore».7) Statuto del lavoro autonomo, cosa cambia per i freelance? «Per la prima volta siamo considerati lavoratori»Grande attenzione in questo 2017 anche per il tema del lavoro autonomo, che ad aprile ha visto l’approvazione di un nuovo statuto ad hoc per tutelare di più questa categoria di lavoratori. Nell’articolo Statuto del lavoro autonomo, cosa cambia per i freelance? «Per la prima volta siamo considerati lavoratori» Irene Dominioni ha intervistato Anna Soru, presidente di Acta, l'associazione nazionale dei freelance, individuando i punti salienti della nuova legge ed evidenziando gli scogli ancora da superare.8) Cerco ingegnere a 600 euro al mese, ovvero l'analfabetismo degli addetti alle Risorse umane. Eleonora Voltolina, invece, ha parlato di un caso che a giugno ha suscitato scalpore in Cerco ingegnere a 600 euro al mese, ovvero l'analfabetismo degli addetti alle Risorse umane: un'inserzione pubblicata su un giornale cartaceo che offriva un posto a un ingegnere con laurea magistrale a pieni voti e numerosi altri requisiti, il tutto con un "contratto" a 600 euro al mese. Inutile dire che si trattava di un'offerta di stage mascherata. «Sarebbe il caso che il proprietario dell’impresa facesse una colossale lavata di capo al suo direttore Risorse umane. Perché la sua azienda non sarebbe mai finita in questa bufera se la persona incaricata del recruiting avesse fatto bene il suo mestiere», scrive Voltolina. Insomma, bisogna chiamare le cose con il loro nome: «uno stage è uno stage e non può essere confuso con – o spacciato per – un contratto di lavoro».9) Flop Garanzia Giovani in Campania, mobilitazione per denunciare i pagamenti in ritardo e molte altre criticità.Marianna Lepore ha raccontato i limiti del programma Garanzia Giovani, per cui molti giovani campani sono giunti al «bivio dell’insostenibilità» per via di tempi di attesa lunghissimi, graduatorie farsa e persino il rischio di non ricevere un’indennità di tirocinio, Nell’articolo Flop Garanzia Giovani in Campania, mobilitazione per denunciare i pagamenti in ritardo e molte altre criticità. «In pochissimi hanno trovato lavoro dopo questi tirocini, per cui, in alcuni casi, hanno aspettato oltre un anno per ricevere l’indennità di partecipazione» scrive Lepore, dopo aver raccolto le testimonianze di coloro che ad aprile hanno organizzato un sit in davanti alla sede della Regione. Un articolo che evidenzia il contributo limitato che Garanzia Giovani ha apportato finora e una voce in più a sostenere quelle dei giovani che ne denunciano le storture.10) Wannabe expat? Vademecum dei siti utili per chi vuole trasferirsi all'estero.Infine, a parte (o forse per via di) tutti i limiti italiani, un ultimo tema che nel 2017 si è rivelato di grande interesse per i lettori della Repubblica degli Stagisti è stato quello dell’estero. Nell’articolo Wannabe expat? Vademecum dei siti utili per chi vuole trasferirsi all'estero Irene Dominioni ha raccolto una lista degli indirizzi più utili per chi sta sognando, programmando o progettando di trasferirsi all’estero, dai siti per reperire informazioni di carattere generale su un determinato Paese a quelli per individuare l’opportunità di studio o lavoro migliore. Un sempreverde tra le questioni di interesse per i giovani e uno degli articoli più letti dell’anno.Tra gli argomenti che stanno più a cuore ai lettori rientrano infine le testimonianze di stage (trasformati in contratti di lavoro) dei ragazzi nelle aziende parte del network RdS, gli articoli volti a segnalare opportunità, bandi e borse di studio, così come le altre rubriche che la Repubblica degli Stagisti mette a disposizione dei giovani. Il 2018 si prospetta altrettanto ricco di spunti: in attesa che cominci, leggete il resoconto di quello che sta per finire e... in bocca al lupo per tutti i vostri nuovi progetti!Irene Dominioni

"La biologia è vita e la vita è donna", le biologhe contro i pregiudizi di genere

Se nelle materie della cosiddetta area Stem (Scienze, Technology, Engineering and Mathematics) le donne sono tendenzialmente in minoranza, la biologia rappresenta una delle eccezioni alla regola. Le ragazze che scelgono di studiare questa materia, infatti, sono molto più numerose dei ragazzi. Secondo l’Anagrafe nazionale studenti (Ans), nell’anno accademico 2016/2017 le immatricolazioni “in rosa” al corso di studi in Scienze biologiche sono state il 70,3% del totale. E la predominanza femminile è ormai consolidata, se si pensa che già dieci anni fa le donne immatricolate erano state il 69,6% del totale.Di conseguenza, anche l’Ordine Nazionale dei Biologi (Onb) per il 70% è donna. Ma essere in maggioranza numerica non mette al riparo l’universo femminile dalla discriminazione di genere. Nel settembre scorso ha fatto scalpore l’esternazione dell’allora candidato e oggi attuale presidente dell’Ordine professionale, Vincenzo D’Anna, che, nel commentare i casi di violenza di Rimini e Firenze, invitava le donne «a essere più caute perché il loro corpo potrebbe essere preda dell’istinto primordiale e ancestrale del maschio».Da quelle parole giudicate “sessiste” è nata una protesta virale, attraverso il gruppo privato Facebook “Le biologhe solidali alle vittime di stupro”, l’hashtag #fuoridallordine e un comunicato stampa. «Il principio base della biologia è proprio l’evoluzione della specie: noi dobbiamo affidare il nostro Ordine a una persona che si professa moderna e innovativa ma favorisce il miglioramento della donna in tal modo?», dichiarava una delle promotrici della protesta, la biologa Chiara Zanichelli. Che tuttavia – intervistata dalla Repubblica degli Stagisti – riconosce il recente risultato delle votazioni: «Gli iscritti hanno espresso un voto democratico, quindi auguriamo al neo presidente un buon lavoro». Lavoro che – al di là delle polemiche – si auspica possa migliorare la condizione lavorativa dei biologi e delle biologhe, che rappresentano la maggioranza della categoria.«Ho scelto di diventare biologa quando avevo dodici anni, perché amavo il mare, l’ambiente e la mia città, Napoli. Da 25 anni sono anche una subacquea, mi piace definirmi un “pesce fuor d’acqua”, si racconta la Zanichelli. Che aggiunge: «Mi sono occupata di ambiente anche come valutatore di sistemi di gestione, e poi di qualità e sicurezza alimentare. Mi sono avvicinata alla nutrizione come completamento, occupandomi dell’effetto dell’alimento sull’essere umano, attraverso un approccio innovativo e sostenibile. Mi piace insegnare alle persone come fare della nutrizione un modo per rispettare l’ambiente. Collaboro con pubbliche amministrazioni, enti di ricerca e sono presidente di un’associazione, Demetra, che organizza iniziative volte a sensibilizzare il singolo e la collettività su alimentazione, ambiente e salute». Settori su cui conviene puntare oggi: «I finanziamenti per i giovani sono quasi tutti legati alla salvaguardia dell’ambiente, in quanto l’impatto antropico è il male del secolo», spiega la biologa napoletana.Le “sorprese” della vita non hanno cambiato la sua prospettiva: «Sono diventata madre a vent’anni e a mio figlio cantavo la tavola periodica al posto della ninna nanna, lo portavo con me all’università, ho lavorato fino all’ottavo mese di gravidanza». Certo le responsabilità arrivate così presto hanno condizionato inevitabilmente le sue scelte: «Ho rinunciato al dottorato senza borsa, non retribuito, alla carriera accademica perché essendo madre non potevo “aspettare ancora” a guadagnare. Ma oggi gli occhi di mio figlio, fiero di me anche se sono più fuori che dentro casa, sono la mia linfa vitale». L’appoggio della famiglia per fortuna non le è mancato: «Mio padre e mia madre mi hanno sempre motivato a studiare e lavorare. Mia madre è cresciuta in collegio, dove ha avuto un’educazione rigida, ma era molto moderna, mi diceva di investire su me stessa ed essere indipendente, pur senza trascurare la famiglia e gli affetti».Ma perché le ragazze dovrebbero avere tutto l’interesse a scegliere la biologia? Secondo la Zanichelli «questa materia è sicuramente più affine al mondo femminile, che ha una naturale predisposizione per l’approccio a studiare la vita, che è donna. La sensibilità e la determinazione, quando si fondono con la competenza, sono doti notoriamente vincenti per l’universo femminile. Inoltre oggi prevalgono i biologi liberi professionisti, e «proprio perché le opportunità sono tante in campo biologico, noi donne, mamme dobbiamo puntare anche verso questo profilo professionale, che troppo spesso ancora spaventa. Siamo agevolate perché c’è la possibilità di gestire meglio il lavoro e di confrontarsi con meccanismi in cui abbiamo una marcia in più, come le public relations e il multitasking, in una libera professione che è sempre più tutelata, grazie a un welfare che si sta riqualificando». Anche grazie all’impegno delle donne stesse.«Da quando sono stata eletta presidentessa dell’Enpab, l’Ente di previdenza e assistenza a favore dei biologi, ho cercato di avviare una “femminilizzazione” degli organi consiliari» racconta alla Repubblica degli Stagisti Tiziana Stallone, la seconda donna a presiedere una cassa di previdenza «visto che prima di rinnovarsi c’era una sola donna. E le donne riportano all’umanità dell’istituzione». Oggi le biologhe possono contare su una serie di tutele: «Le nostre iscritte hanno la possibilità di scaricare fino a 2.000 euro per tutte le visite che sostengono. Inoltre l’Enpab considera la gravidanza a rischio come inabilità al lavoro, riconoscendo un’indennità giornaliera», spiega la presidentessa. Che poi aggiunge: «Nelle borse di studio riserviamo dei posti alle neo mamme, per facilitarne l’integrazione dopo lo stop della gravidanza, e a coloro che hanno avuto un abbattimento del reddito del 30% nell’attività professionale, che quasi sempre sono donne che sono dovute fermare per i figli o per i genitori anziani».Tiziana Stallone, che è biologa nutrizionista, sperimenta in prima persona le difficoltà di essere donna e professionista: «Lavoro sette giorni su sette, e nel fine settimana sono sempre in viaggio. Per fortuna ho la comprensione e il supporto di mio marito, che fa lo psichiatra e lavora con me in uno studio associato». Ma, nonostante la posizione che riveste, deve ancora fare i conti con i pregiudizi di genere: «Mi continua a stupire come una donna venga accolta in certi contesti. L’altro giorno mi hanno detto “Noto con stupore che lei non ha timore reverenziale”. La volontà dell’altra persona, che sia uomo o donna, sarà sempre quella di minare le nostre capacità. E allora noi dobbiamo credere ancora di più in noi stesse».Rossella Nocca

La polizza assicurativa obbligatoria non piace ai giovani avvocati: costa troppo in proporzione ai guadagni

Il 2017 ha portato una novità non di poco conto per i legali in tutta Italia: l’obbligo di dotarsi di una polizza professionale. Gli oltre 243mila iscritti all’albo, secondo le statistiche del Consiglio Nazionale Forense, stando a quanto stabilito dalla legge 247/2012 (art. 12) devono stipulare una polizza assicurativa a copertura della responsabilità civile derivante dall’esercizio della professione e dalla custodia di documenti, denaro, titoli ricevuti in deposito dai clienti. E devono anche avere una polizza a copertura degli infortuni derivanti ai propri collaboratori in conseguenza dell’attività svolta. Quanto stabilito dalla legge del 2012 è stato inserito nel decreto ministeriale del settembre 2016 che si occupa proprio delle “Condizioni essenziali e massimali minimi delle polizze assicurative” per la responsabilità civile di chi esercita la professione di avvocato. La polizza deve prevedere una retroattività illimitata, anche a favore degli iscritti, e una clausola di ultrattività almeno decennale.In realtà erano cinque anni che una legge già parlava dell’obbligatorietà di dotarsi di una polizza, ma l'obbligo non era mai stato reso operativo. Di recente era stata fissata la data limite dell’11 ottobre 2017. Ma proprio quel giorno in Gazzetta ufficiale è comparsa la proroga di un mese, facendo slittare l’obbligatorietà al 10 novembre. Un obbligo imprescindibile e che rientra tra i sei requisiti che devono ricorrere congiuntamente per rimanere iscritti all’albo, tra questi anche quello di essere titolari di una partita Iva attiva e di aver trattato almeno cinque affari per ciascun anno: pena la cancellazione.Il provvedimento della polizza ha agitato le acque tra i professionisti, soprattutto tra i più giovani e tra quelli che non hanno una grandissima mole di lavoro. Partiamo dai dati: secondo i numeri dell’avvocatura 2016 analizzati dalla Cassa Forense, più della metà degli avvocati ha un reddito annuale sotto i 20mila euro con quasi tre su dieci con poco più di 5mila. Ed è soprattutto la fascia più giovane della categoria a rientrare nei guadagni medio bassi. Al di sotto dei 29 anni, infatti, il reddito irpef medio è di poco più di 10mila euro, e migliora di scarsi 4mila euro tra i 30 e i 34 anni.Ed è quindi su queste categorie di avvocati ancora alle prime armi che questa misura creerà qualche difficoltà. Perché la polizza deve essere adottata da tutti, indipendentemente dal guadagno annuale.Certo, non è proprio intuitivo capire che cosa debba coprire una polizza assicurativa per un avvocato, al contrario, ad esempio, di come possa essere lampante quella adottata da un chirurgo. Bisogna quindi andare a leggere bene il decreto entrato in vigore quest’anno per capire di che si tratta. La polizza assicurativa deve garantire «la copertura della responsabilità del professionista per qualsiasi tipo di danno arrecato al cliente: patrimoniale, non patrimoniale, indiretto, permanente, temporaneo e futuro. Ed è inclusa anche la copertura per responsabilità da colpa grave e per pregiudizi causati a terzi». In pratica l’avvocato si deve assicurare per due profili di rischio: quello legato all’esercizio della professione in sé e verso la clientela – responsabilità per danni involontariamente provocati nello svolgimento della professione legale, compresa la custodia di documenti, somme di denaro, titoli ricevuti in deposito dai clienti – e quello legato alle vicende dell’attività organizzata in azienda – quindi infortuni di dipendenti e collaboratori. Categoria in cui rientrano anche gli infortuni ai praticanti. Ma quanto costa questa polizza? Gli avvocati possono provare a chiedere un preventivo alle varie agenzie di assicurazioni che si sono mobilitate per prevedere delle offerte di questo tipo, ma bisogna stare in guardia e verificare che le offerte personali prevedano di default anche l’opzione per l’ultrattività decennale.Per non dover negoziare personalmente i costi si può approfittare delle convenzioni sottoscritte dagli organismi di categoria, primo fra tutti l’ente previdenziale – la Cassa forense. Al momento quelle disponibili sono nove, e riguardano gruppi assicurativi sia italiani sia stranieri. Logicamente il costo della polizza varia a seconda del fatturato dichiarato dal professionista, ma anche dalle garanzie accessorie scelte. Ad esempio, Generali prevede per gli avvocati under 35 uno sconto del 50% sul premio annuo della polizza, fissato a 300 euro l’anno, per chi non supera i 30mila euro di fatturato. In cambio si otterrà un massimale sinistro annuale di 350mila euro.La convenzione con Compagnia Amissima prevede per gli avvocati iscritti alla Cassa da non più di sei anni, quindi senza limite di età, un premio minimo di 250 euro, sempre con un massimale di 350mila, per chi ha un introito massimo di 30mila euro l’anno. Premio lordo annuo che a partire dal settimo anno di iscrizione sale a 400 euro.Diverse le tariffe con la Unipol Sai, che per chi guadagna entro i 15mila euro annui con un massimale di copertura di 350mila euro, chiede un premio di 260 euro a cui si applica uno sconto in base al numero di anni di iscrizione all’albo portando la cifra a scendere, per il primo anno, a 183 euro.Anche la società Brokeritaly è tra quelle che hanno sottoscritto una convenzione con la Cassa Forense creando un pacchetto che parte da un premio minimo di 135 euro per quanti hanno un fatturato inferiore ai 15mila euro annui.Ci sono anche altre convenzioni e poi esiste come già scritto la contrattazione personale con le agenzie. Ma proviamo a fare un po’ di calcoli per vedere se ai giovani avvocati questa spesa, apparentemente non altissima, incida o meno sul reddito.Secondo i dati della Cassa Forense, i giovani avvocati al di sotto dei 30 anni superano di pochissimo i 10mila euro annui di reddito. Se a questi si tolgono i 1.846 euro di contributi da versare alla Cassa – e si tratta già della riduzione riservata agli under 35 per i primi sei anni di iscrizione; la somma piena è 3.609 euro –, si sottrae poi la quota annuale da versare agli Ordini di appartenenza (che varia a seconda delle regioni con una media sui 200 euro), e si elimina anche la cifra per la polizza professionale sui 250 euro, l’avvocato under 35 chiude l’anno con un ottimistico reddito lordo di 7.700 euro, scarsi 640 al mese. A cui vanno sottratte anche le spese per l’utilizzo di determinati software e soprattutto il fitto almeno di una stanza all’interno di uno studio per esercitare la professione.È su queste cifre reali, quindi, che è scoppiato il malcontento degli avvocati. Che alla fine, comunque, si sono dovuti rassegnare a sottoscrivere le polizze. Tutto finito? Non proprio. Perché dopo le proteste del Consiglio nazionale forense che ha chiesto al ministro della giustizia di valutare l’opportunità di modificare la legge «nel senso di prevedere come facoltativa» la copertura assicurativa in materia di infortuni, in una prima stesura obbligatoria anche per quelli derivanti a sé, alla fine è arrivata la risposta del guardasigilli Orlando. Che, d’accordo «sull’opportunità di rimettere all’autonoma decisione del singolo avvocato la stipulazione di una polizza a copertura degli infortuni a sé derivanti in conseguenza dell’attività svolta nell’esercizio della professione», aveva comunicato di aver trasmesso all’Ufficio legislativo la proposta di modifica dell’articolo 12 comma 2 della legge 247.E infatti anche il Parlamento si è occupato della questione. Tanto che nel decreto collegato alla legge di bilancio 2018, approvato in via definitiva al Senato il 30 novembre, è stato dedicato l’articolo 19-novies alla questione, cancellando dalla legge del 2012 le parole “a sé”. In pratica l’avvocato non ha più l’obbligo di stipulare una polizza per la copertura degli infortuni derivanti a sé stesso, ma resta l’obbligo per la copertura assicurativa di eventuali collaboratori, dipendenti e praticanti. Nonostante proprio il Ministero avesse chiesto al suo ufficio legislativo di valutare anche l'ipotesi della modifica relativa all'esenzione dell'avvocato dall'obbligo assicurativo per gli infortuni derivanti ai collaboratori già provvisti di relativa copertura data dall'iscrizione all'Inail.Resta quindi da chiedersi come mai ci sia stata un'abrogazione a metà, non comprendendo i collaboratori, e se vi sia spazio in futuro per un'eventuale abrogazione dell'assicurazione infortuni anche per questi soggetti. Quello che è probabile è che a questo punto anche i costi ora disponibili vengano rimodulati e diminuiti. Con buona pace dei tanti professionisti under 30 alle prime armi e con redditi bassi che, preoccupati dal poter essere cancellati dall’albo, la polizza l'hanno già sottoscritta entro i termini previsti.  Marianna Lepore

Laurea in ingegneria e lavoro quasi assicurato, ma attenzione alla scelta dell'indirizzo

Se prendersi una laurea significa fare un investimento, investire tempo, impegno e denaro con la speranza di aprirsi una buona strada per il futuro, i diplomati che decidono di intraprendere un percorso di studi in ingegneria sembrano proprio aver fatto centro. La laurea in ingegneria risulta infatti una garanzia anche in tempi di crisi, con un tasso di occupazione, a un anno dal conseguimento del titolo, pari all’84,9%. Una percentuale destinata a crescere a cinque anni dalla laurea, con ben il 93,4% di ingegneri occupati, superati solamente dai medici, il cui tasso di occupazione sfiora il 94%. Ma non è tutto: secondo i dati dell’ultimo rapporto AlmaLaurea la maggior parte degli ingegneri ha un contratto a tempo indeterminato (il 75,5% dei casi) e una retribuzione da far invidia agli altri colleghi laureati, con poco meno di 1700 euro mensili. I giovani che hanno deciso di puntare sulla "facoltà vincente" sono stati nell'ultimo anno accademico quasi 42mila (il 40,5% degli immatricolati dell'intera area scientifica), ma le ragazze non arrivano a 10mila. La maggior parte di queste risultano iscritte al Politecnico di Milano, che si conferma l'ateneo più "women-friendly". Ma se i numeri continuano ad attrarre tanti neodiplomati, prospettando un percorso tutto rose e fiori, a rovinare o, perlomeno, complicare i piani degli aspiranti ingegneri è la sostanziale differenza in termini di garanzia d’occupazione - e di retribuzione - tra gli indirizzi di studio a disposizione. Nonostante il 2016 abbia registrato la più elevata domanda di laureati in ingegneria degli ultimi sedici anni (26.540 secondo i dati raccolti dal centro studi del Consiglio nazionale degli ingegneri), infatti, i valori si mostrano tutt’altro che omogenei: ad essere particolarmente richiesti sono gli ingegneri meccanici ed energetici (con una retribuzione media netta mensile a cinque anni dal titolo di 1.790 euro), nonché quelli del settore informatico (1.703 euro), elettronico (1.744 euro) e delle telecomunicazioni (1.652 euro), con un aumento della domanda di oltre il 20% rispetto al 2015. Soffrono invece i laureati degli indirizzi civile e ambientale (le cui retribuzioni medie si fermano a 1.490 euro), che hanno visto ridursi il numero di opportunità lavorative del 5,5% rispetto al 2015: «È vero che la parte più consistente dei laureati in questi ambiti svolge la propria attività lavorativa in qualità di liberi professionisti» si legge nel rapporto del Consiglio nazionale «ma è pur vero che il dato negativo è l’indicatore di un contesto generale in cui il settore delle costruzioni e delle opere pubbliche, dopo anni di profonda crisi e di tagli di spesa consistenti, sta evidenziando solo ora limitati segnali di ripresa». E il maggior calo nelle assunzioni di questi due profili si riscontra al Sud: quasi un quarto in meno. Un dato che riflette una più generale disparità tra Nord e Sud nella domanda di lavoratori con competenze ingegneristiche, con circa due terzi delle assunzioni localizzate nelle regioni settentrionali: basta pensare che Lombardia e Piemonte coprono da sole il 40% del totale di assunzioni in Italia, con oltre 10mila opportunità lavorative rivolte per lo più a ingegneri dell’area elettronica e dell’informazione, ma anche a ingegneri gestionali, industriali e dell’area mista. Cresce invece la richiesta di profili informatici ed elettronici nel Centro Italia e in particolar modo nel Lazio dove, delle 4mila assunzioni totali, più della metà è riservata a questi due profili. Un divario netto, dunque, che non colpisce soltanto il mondo delle imprese ma anche quello dell’università. Al momento di scegliere l’ateneo a cui scriversi, infatti, le future matricole si trovano davanti un panorama ben chiaro: secondo la classifica delle facoltà di ingegneria italiane selezionate dalla guida Censis-Repubblica per il 2017 ad occupare le prime quattordici posizioni sono università del Centro-Nord, con in testa l’università di Modena e Reggio Emilia, seguita dal Politecnico di Torino e da quello di Milano. I primi due atenei del Sud si trovano al 15esimo e 16esimo posto, e sono rispettivamente l’università di Catanzaro e quella di Cagliari. «La classifica della didattica Censis si basa su due indicatori in relazione ai quali i corsi di laurea triennali di ingegneria di Cagliari risultano a volte più, a volte meno competitivi» ha spiegato a Repubblica degli Stagisti Corrado Zoppi, presidente della facoltà di Ingegneria dell’ateneo cagliaritano: «per quanto riguarda l’internazionalizzazione, infatti, Cagliari è seconda, avendo il nostro ateneo e, in particolare i corsi di ingegneria, una tradizione al riguardo consolidata e in espansione; ma è 31esima per ciò che riguarda la progressione di carriera dello studente, una problematica abbastanza radicata nei corsi di ingegneria di Cagliari, dove il tempo medio della laurea triennale è stato, nel 2015, di poco inferiore ai sei anni, mentre quello dei corsi di ingegneria di diverse università del Centro-Nord è inferiore di circa un anno e mezzo». Per questo motivo «già dall'anno scorso il coordinamento didattico della facoltà ha  cercato di indirizzare la questione, e l'offerta formativa di  quest'anno ha riorganizzato i corsi di matematica e fisica del primo anno cercando di rendere meno gravoso il carico didattico delle matricole». Questo perché «la lentezza della progressione della carriera ha effetti molto negativi sia sul numero di studenti iscritti in corso che sul numero di laureati magistrali e, in cascata, fa sì che gli stessi corsi di laurea magistrale risentano di un numero minori di iscritti» spiega Zoppi «proprio perché i laureati triennali sono molti meno di quelli che potrebbero e dovrebbero essere. Su questo aspetto gli atenei del Centro-Nord hanno iniziato a lavorare molto prima di noi e ciò ha portato a questa classifica piuttosto deludente sui corsi di Ingegneria degli atenei del Sud».E il passaggio da uno step all’altro risulta in effetti un problema serio se si considera che meno della metà dei laureati triennali (il 47,6%) intende proseguire con la laurea magistrale, secondo i dati AlmaLaurea.Eppure la specialistica sembra dare decisamente più chances di una “semplice” triennale: «I nostri laureati magistrali hanno un’aspettativa di lavorare in maniera stabile, a cinque anni dal titolo, di circa l’80%. Questa aspettativa è invece decisamente più bassa per quanto riguarda i laureati triennali» conferma Zoppi.A rendere più ghiotto il proprio curriculum agli occhi delle aziende è poi, accanto al titolo magistrale, una precedente esperienza lavorativa (specifica per la mansione o almeno nello stesso settore), necessaria in oltre due terzi delle assunzioni e considerata decisamente più rilevante rispetto a un ulteriore titolo di studio quale dottorato o master, richiesto in meno del 20% dei casi. Un fronte su cui gli studenti di ingegneria sembrano però dover migliorare, fermandosi a poco più del 56% la percentuale di laureati che hanno avuto esperienze lavorative durante gli studi. Laureati che non si fanno invece cogliere impreparati sulle altre due competenze più richieste dal mondo delle imprese, quella informatica e quella linguistica. Secondo i dati AlmaLaurea, infatti, la maggior parte dei neo-ingegneri ha una buona conoscenza della rete e dei programmi del pacchetto Office, nonché una conoscenza “almeno buona” dell’inglese (80 laureati su 100), considerato ormai un must in molte tipologie di lavoro, anche se i numeri scendono notevolmente se si guarda alla conoscenza di altre lingue, tedesco in primis.  Ma quali sono, in fin dei conti, i settori a cui questi laureati possono puntare una volta terminati gli studi e fatto bagaglio di tutte le “plus-competenze” necessarie? Al primo posto si trovano il settore dei servizi e quello dell’industria: «Lo sbocco privilegiato per gli ingegneri dipendenti resta l’impresa di grandi dimensioni, ossia con più di cinquanta dipendenti» fanno infatti sapere dal centro studi del Consiglio nazionale di categoria. Molto più ristretta risulta invece la quantità di assunti negli studi professionali e nel settore delle costruzioni, dove però è molto elevata la quantità di liberi professionisti e consulenti e prevale, quindi, la domanda di lavoro autonomo rispetto a quello dipendente.Giada Scotto

Il libretto formativo del cittadino, questo sconosciuto

Cos'è il libretto formativo del cittadino? Questo strumento in effetti è noto a pochi: si tratta di un libretto personale in cui sono registrate le competenze formali acquisite durante la formazione in contratto di inserimento, la formazione specialistica e la formazione continua, nonché le competenze non formali e informali. Lo strumento raccoglie e documenta informazioni, dati e attestazioni riguardo esperienze maturate in vari ambiti – educativo/formativo, lavorativo, sociale, ricreativo, familiare – al fine di migliorare la leggibilità e spendibilità delle competenze e l’occupabilità delle persone.E in realtà attualmente questo servizio è attivo solamente in quattro Regioni: Toscana, Puglia, Lazio e Marche.Eppure la nascita del libretto, corrispettivo italiano dell’Europass, risale a un decreto ministeriale del 2005, emanato in conseguenza degli accordi relativi alla Strategia di Lisbona, un insieme di linee guida europee finalizzate alla standardizzazione dei processi lavorativi, alla trasparenza delle competenze e alla mobilità delle persone. Oltre a questi obiettivi, si intendeva aiutare i cittadini ad acquisire consapevolezza del proprio bagaglio culturale e professionale nonché a dare valore ad esso attraverso il riconoscimento da parte delle istituzioni.Ancor meno numerosi probabilmente sono quelli che sanno che il libretto è stato integrato nel fascicolo elettronico del lavoratore (articoli 14 e 15 del decreto legislativo n.150/2015), una versione moderna e digitale del libretto formativo del cittadino, che ne raccoglie le medesime informazioni, integrate dalla possibile fruizione di provvidenze pubbliche e versamenti contributivi. In alcune regioni – almeno per il momento – verrà ancora identificato con il libretto formativo del cittadino. Per entrambi l’apertura avviene su volontaria richiesta del cittadino, salvo casi specifici, come quello del Servizio civile nazionale nell’ambito di Garanzia Giovani, che ne ha previsto la compilazione per tutti i volontari.La procedura di compilazione del fascicolo elettronico dovrebbe però essere molto più semplice e rapida. La gestione della precedente versione del libretto era demandata alle Regioni, che a loro volta individuavano dei soggetti, di solito i centri per l’impiego, responsabili delle pratiche di compilazione e di rilascio dello strumento. Il fascicolo elettronico del lavoratore, invece, non richiederà necessariamente l’autocompilazione assistita, ma potrà essere compilato e scaricato anche da casa attraverso lo Spid (Sistema pubblico di identità digitale) sul portale dell’Anpal (Agenzia nazionale politiche attive lavoro), che è il soggetto individuato per la gestione del fascicolo. «Le informazioni personali e lavorative saranno recuperate mediante le comunicazioni obbligatorie» spiega Andrea Simoncini, responsabile struttura di ricerca “Monitoraggio e valutazione formazione professionale e Fse” presso l'Anpal «e attraverso il sistema della formazione professionale universitaria, nonché dalla banca dati dell’Inps». Per quanto riguarda invece la validazione di certificazioni e competenze, Simoncini aggiunge che «ora le Regioni sono concentrate sulla standardizzazione delle qualificazioni». Un passaggio importante affinché ci possa essere un riconoscimento oggettivo delle potenzialità di ciascun lavoratore. Secondo il ricercatore Anpal «occorre valorizzare la parte non fisica della certificazione e limitare le certificazioni a quando sono strettamente necessarie, ad esempio per essere ammessi a un bando».Fa riflettere tuttavia che, a dodici anni dalla nascita del libretto formativo del cittadino, ci si trovi ancora in una fase di “start up”. Dal 2007 al 2010 il libretto è stato sperimentato in tredici enti fra regioni e province, coinvolgendo diverse fasce di popolazione: lavoratori in crisi occupazionale, apprendisti, lavoratori immigrati, militari volontari in congedo. La sperimentazione è avvenuta con il supporto dell’Isfol, l’attuale Inapp (Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche). Un iter non semplice. «In realtà il libretto esiste sì dal 2005, ma la normativa sul sistema validazione e certificazione che ha reso il servizio agibile risale al 2013 e la normativa sulle regioni al 2015» ammette Elisabetta Perulli, ricercatrice Inapp: «Le riforme per la valorizzazione delle competenze sono state molto faticose e frutto di un lavoro di negoziazione con i vari soggetti coinvolti: università, scuola, Regioni che rilasciano qualifiche professionali, ordini professionali e professioni regolamentate». Tra gli scogli più duri c’è stato il mondo universitario: «La principale difficoltà è stata quella di rendere esercitabili i crediti di esperienza lavorativa nel settore per dare sconti su quote parti di esami».L’Inapp oggi fornisce assistenza tecnica alle istituzioni e cura studi e indagini sul tema. Dalla sua attività di ricerca è nato l’Atlante del Lavoro e delle Qualificazioni, che rientra nel disegno di inserire in una stessa cornice qualificazioni rilasciate in diversi ambiti quali scuola, università, istruzione e formazione professionale di primo livello e superiore, qualificazioni regionali, qualificazioni acquisite mediante un contratto di apprendistato e professioni normate a vari livelli e in diversi contesti. Questo risultato è stato istituzionalizzato con il decreto interministeriale del 30 giugno 2015 (intitolato “Definizione di un quadro operativo per il riconoscimento a livello nazionale delle qualificazioni regionali e delle relative competenze, nell'ambito del Repertorio nazionale dei titoli di istruzione e formazione e delle qualificazioni professionali”). Parallelamente l’Inapp ha messo a disposizione un portale interamente dedicato al libretto, che si chiama Va.Li.Co. (Validazione Libretto Competenze) ed è rivolto agli amministratori e agli operatori italiani che vogliano condividere informazioni e risorse per progettare e realizzare pratiche coerenti con la cornice europea e nazionale.Ma come funziona il fascicolo elettronico? Una volta creato il form, si avvia la procedura di validazione delle competenze. «La pesatura delle esperienze è fatta prima attraverso un’indagine narrativa»,spiega Perulli, «poi attraverso la richiesta alla persona di produrre una documentazione tipo portfolio con contributi multimediali, documenti cartacei e altri prodotti realizzati durante l’esperienza. A questo punto il dossier viene chiuso e passato a un valutatore». In questa procedura possono intervenire tre figure: un tutor che aiuta a compilare il dossier, che può essere un libero professionista o un dipendente del soggetto deputato; un esperto valutatore che valuta il dossier e che - se non ha abbastanza strumenti per farlo – può allestire una prova (es. un colloquio con l’interessato) o chiamare in causa un esperto di settore; e appunto l’esperto di settore.Le regole per la compilazione variano di regione in regione. Recentemente nel forum della Repubblica degli Stagisti un giovane tirocinante ha chiesto delucidazioni sulla registrazione della sua esperienza formativa nel libretto: «non esiste un monte ore minimo universalmente valido per la registrazione dell’esperienza formativa sul libretto» rispondeElisabetta Perulli «ma la soglia è definita all’interno delle singole regioni e di solito coincide con le regole dei contratti, ad esempio per i tirocini Garanzia Giovani ammonta al 75% del totale».Ma come mai il possibile utilizzo dello strumento resta ancora sconosciuto ai più? Sicuramente perché non è stato comunicato a livello istituzionale, come conferma Perulli: «Non ci sono state ancora campagne di comunicazione in quanto ci sono regioni che non sono ancora in grado di offrire il servizio, anche se gli impianti normativi sono già in piedi. Prima di diffondere l’informazione stiamo cercando di assistere le regioni che stanno ancora indietro, ad esempio con la formazione degli operatori. Le Regioni in cui ad oggi è possibile richiedere lo strumento sono: Toscana, Puglia, Lazio e Marche».Alla situazione attuale, non è ancora possibile fare una stima dei possessori del libretto e/o del fascicolo. «A breve avvieremo un programma di monitoraggio, ma siamo sicuri che i numeri non sono ancora elevatissimi. La conoscenza da parte dei datori di lavoro è ancora molto scarsa e – laddove è conosciuto – lo è come adempimento reso noto dal consulente del lavoro», spiega la ricercatrice: «Quello che conta è che cresca nei cittadini una consapevolezza del diritto al riconoscimento di tutti gli apprendimenti e le competenze ovunque maturate, e che loro stessi siano soggetti attivi di pressione verso le istituzioni affinché questi diritti siano esercitabili ed esigibili».Chi volesse saperne di più sullo stato di implementazione e di agibilità del libretto formativo del cittadino nel proprio territorio deve rivolgersi alla Regione di appartenenza o al centro per l’impiego di riferimento.Rossella Nocca

Nuova normativa sui tirocini nel Lazio, come va la transizione?

Il 1° ottobre 2017 è entrata in vigore la “Nuova disciplina sui tirocini extracurriculari nella Regione Lazio”, contenuta nella Deliberazione della Giunta regionale n.533 del 9 agosto 2017. Ciò vuol dire che tutti i tirocini extracurriculari avviati a partire da ottobre presso aziende del Lazio devono rispettare le nuove regole. Regole – come il rimborso spese minimo di 800 euro (e non più di 400 euro come nelle linee guida del 2013) e il periodo massimo di durata di 6 mesi (invece di 12) – che hanno rappresentato una vera e propria "rivoluzione", se si pensa che nelle “Linee guida in materia di tirocini formativi e di orientamento” contenute nell’accordo adottato dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano il 25 maggio scorso, il rimborso spese minimo era stato fissato a 300 euro. A un mese e mezzo dall’entrata in vigore delle nuova normativa, sulla scia del dibattito nato nel forum, la Repubblica degli Stagisti ha chiesto ad alcuni dei principali enti promotori di tirocini extracurriculari come sta procedendo la transizione. «Qualche settimana prima dell’entrata in vigore abbiamo ricevuto la comunicazione della Regione» spiega Francesca Gelosia, responsabile dell’Ufficio placement dell’università di Roma “Tor Vergata” «e abbiamo avvisato le aziende che ci sarebbe potuto essere qualche ritardo nelle convenzioni al fine dell’adeguamento. Tuttavia ci siamo adeguati sin da subito alla normativa, anche grazie al costante confronto con un referente della Regione Lazio».L’ateneo di Tor Vergata ha una piattaforma di placement su cui sono pubblicati gli annunci di stage delle aziende, da qui l’importanza di metterle al corrente del cambiamento in atto. Anche perché – ricordiamo – le aziende che non rispettano le nuove regole rischiano di incorrere nell’interdizione fino a 24 mesi dall’ospitare tirocinanti. «Abbiamo mandato loro un’informativa e quasi tutte hanno recepito le novità. Certo capita ancora che ci inviino proposte di tirocinio da 400 euro al mese, in questi casi le contattiamo per invitarle ad adeguare il rimborso», chiarisce Francesca Gelosia. Che conclude: «Dal 2 ottobre al 3 novembre sono già state stipulate 16 nuove convenzioni di tirocinio». Le vecchie convenzioni cessano di avere valore nel momento in cui terminano i tirocini iniziati prima dell’entrata in vigore della nuova normativa, infatti, e non possono essere rinnovate o prorogate.La transizione procede regolarmente anche all’università “Roma Tre”. «Abbiamo inviato dei quesiti a cui la Regione ha risposto» precisa Marina Mariantoni, responsabile dell’Ufficio Stage e tirocini «in parte direttamente con le faq pubblicate ed in parte ricevendoci per un incontro esplicativo con una rappresentante dell’assessorato. Ovviamente, come in tutti momenti di cambiamento, abbiamo dovuto sospendere per un breve periodo le attivazioni al fine di adeguarci, e questo può aver causato qualche disguido, ma non abbiamo avuto lamentele al riguardo».Le passate regole restano valide per i tirocini antecedenti il 1° ottobre. «Abbiamo attivato un tirocinio con la vecchia normativa a seguito di un avviso pubblico precedente all’entrata in vigore della nuova normativa, così come previsto dall’art. 18 comma 3 della dgr 533/17», conferma Mariantoni. Infatti nella deliberazione si legge: “I progetti formativi individuali (PFI) che recano come giorno di avvio del tirocinio una data precedente al 1° ottobre 2017 continuano ad essere disciplinati dalla dgr 199/2013 sino alla scadenza fissata nel PFI stesso, comprese le eventuali proroghe. L’istituto della proroga, per definizione infatti, non interviene sul contenuto formativo del tirocinio e sulle modalità del suo sviluppo, ma si limita ad aggiornare, prolungandola, la data del termine del PFI”. Una formulazione che non lascia spazio a dubbi. Una voce fuori dal coro rispetto alla percezione positiva dell’adeguamento è quella dell’università di Roma “La Sapienza”. L’ufficio stampa inizialmente risponde che «la Sapienza sta adeguando le  procedure  per l'attivazione dei  tirocini  extracurriculari in base a quanto  previsto dalla  deliberazione della Giunta regionale del Lazio n.533/2017». Poi, alla richiesta di maggiori dettagli, afferma che l’ateneo è «in attesa delle regole di attuazione».La Repubblica degli Stagisti ha chiesto anche un primo commento all’assessorato al lavoro della Giunta regionale del Lazio, che tuttavia per il momento preferisce non “sbilanciarsi”. Senza dubbio l’esperienza del Lazio merita di essere monitorata, anche perché potrebbe fungere da modello per le altre regioni, le quali – teoricamente entro il 25 novembre, ma con tutta probabilità tra la fine di quest'anno e i primi mesi del prossimo – saranno chiamate ad adeguarsi alle Linee guida nazionali. Rossella Nocca

Aspiranti avvocati, praticantato più breve ma guadagni bassi sopratutto per giovani e donne

Tecnicamente si chiama “tirocinio per l'accesso alle professioni regolamentate”, anche se tutti l'hanno sempre chiamata pratica professionale. In particolare, il periodo di formazione post-laurea per diventare avvocato, oggi chiamato anche tirocinio forense, ha subìto nel tempo delle modifiche, le ultime previste nel decreto ministeriale 70/2016 che sono entrate in vigore a partire dal 1 gennaio 2017.Cosa è cambiato, quindi, per chi oggi vuole diventare avvocato? Innanzitutto, per chi ha cominciato la pratica a partire dal 6 giugno 2016, è cambiata la durata: se una volta erano necessari 24 mesi presso uno studio legale, adesso ne bastano 18, con almeno 20 ore settimanali (ne riparleremo più avanti).Poi, superato l’esame e iscritti all’ordine professionale, comincia la vera battaglia sul campo per un reddito. Perché nonostante la professioni eserciti ancora una certo fascino, negli anni la mole di lavoro è diminuita molto, grazie a varie riforme che hanno portato fuori dai tribunali alcuni procedimenti una volta appannaggio solo degli avvocati, come le separazioni e i divorzi. E complice la necessità di spese per l’uso di software e del processo telematico, oltre all’eliminazione delle tariffe minime, la concorrenza in molti casi è diventata una gara al ribasso.Basta leggere i numeri: secondo le ultime statistiche pubblicate dal Consiglio Nazionale Forense relative al 2016, il totale nazionale degli iscritti all’albo è di 243.680 soggetti, con il picco di avvocati a Roma, oltre 25mila, seguita da Milano, quasi 19mila, e Napoli, quasi 14mila. Città che possono tranquillamente definirsi “capitali” degli avvocati, visto che al quarto posto c’è Bari, con scarsi 7mila iscritti: la metà della terza in classifica. Ma la professione conviene ancora? La Cassa Forense, cassa nazionale di previdenza e assistenza degli avvocati, ha provato a dare una risposta con un’analisi molto dettagliata dei numeri dell’avvocatura 2016, che in parte sono positivi: segnano una ripresa, dopo un lungo periodo di contrazione dei redditi. Ma evidenziano gravi disparità: per età, sesso e regioni. Oltre il 54% degli avvocati ha un reddito annuale sotto i 20mila euro, con quasi tre su dieci con poco più di 5mila, e circa l’80% al di sotto della media che è di 38mila euro l’anno. Discriminazione che avviene per età e sesso: se fino a 40 anni il reddito medio è sui 20mila euro annui, con gli uomini oltre i 27mila e le donne ferme sui 15mila, un avvocato uomo tra i 65 e i 69 anni in media guadagna oltre 80mila euro l’anno mentre una collega coetanea poco più di 40mila.E poi ci sono i ritardi nei pagamenti: principale problema riscontrato dagli avvocati under 40, secondo il rapporto Censis del marzo 2016, seguito dal peso crescente dei costi e adempimenti burocratici. Problemi che riguardano tutte le fasce di età, ma incidono in maniera netta sui redditi dei più giovani.Per gli avvocati alle prime armi diventa quindi più complicato riuscire ad avere un reddito dignitoso alla fine del mese. Problemi che si aggiungono a quello dell’affollato mercato del lavoro per i legali italiani. Basti pensare che dal 1985, quando gli avvocati erano 48mila, ad oggi, il numero si è quintuplicato, portando l’Italia ad essere il terzo Paese a livello europeo per concentrazione di avvocati con una media di quattro ogni mille abitanti, dopo il Liechtenstein e la Spagna (rispettivamente a sei e cinque). In numeri assoluti il Bel Paese è secondo solo alla Spagna, che ha più di 250mila avvocati.Una categoria di dimensioni abnormi dunque rispetto agli altri Paesi, con un reddito medio sceso negli ultimi anni: elementi che hanno influito sul numero di iscritti alla facoltà di Giurisprudenza. Tanto che secondo i dati fotografati dall’ufficio anagrafe del Miur e dalla redazione del Sole24Ore nell’anno accademico 2015/16 c’è stato un calo del 35% di iscritti rispetto a quattro anni prima.Per quelli, però, che non rinunciano a studiare da avvocati, il 2017 ha portato come accennato meno mesi di pratica per l'attuazione di quanto già previsto dal dpr 137/2012 in tema di riforma degli ordinamenti professionali e, più nello specifico, dalla legge 247/2012 in cui è dedicata una sezione a parte, il capo I del titolo IV, al tirocinio professionale.Dei diciotto mesi di pratica la legge attuale prevede, peraltro, che sei possano essere svolti durante gli studi universitari, quindi ancora prima di aver preso la laurea. Per farlo il primo requisito necessario è quello di essere in regola con gli esami, in particolare con alcuni come diritto civile e penale. Lo studente praticante avvocato dovrà frequentare uno studio professionale per almeno 12 ore settimanali, ma nel frattempo non è esonerato dalla frequenza dei corsi obbligatori universitari. E in più è obbligato anche a seguire i corsi di formazione continua tenuti da ordine e associazioni forensi, al pari di qualsiasi altro avvocato. Punti esplicitati anche nella convenzione quadro firmata tra Consiglio nazionale forense e Conferenza nazionale dei direttori di giurisprudenza e scienze giuridiche nel febbraio 2017. In pratica, quindi, lo studente avvocato tirocinante avrà molto lavoro da fare e molti impegni da dover incastrare nelle 24 ore giornaliere.Non c'è solo la possibilità di fare una parte della pratica professionale pre laurea. Il decreto ministeriale, infatti, stabilisce anche che sei mesi possano essere fatti all’estero, in un Paese dell’Unione europea presso lo studio di professionisti avente titolo equivalente a quello di avvocato abilitato. Il praticante deve, però, comunicare al Consiglio dell’ordine i contatti del professionista e la sua equivalenza a titolo di avvocato.Gli aspiranti avvocato possono anche svolgere 12 mesi presso l’Avvocatura dello Stato o fare un periodo formativo presso gli uffici giudiziari e fare gli ultimi sei mesi di pratica presso uno studio. E nel caso del tirocinio presso gli uffici giudiziari la buona notizia è la presenza di un rimborso di 400 euro al mese. Somma che fa gola a molti, tanto che negli ultimi anni il numero di richieste per questo tipo di tirocini è cresciuto. Con la conseguenza che nel 2016 ben 1300 dei 4mila laureati che avevano scelto questa opzione si sono ritrovati senza alcun rimborso.Non sono solo i numeri sulla professione futura a scoraggiare i giovani a intraprendere questa strada, si aggiungono anche le opinioni di chi oggi l’avvocato lo fa e non sembra avere un giudizio particolarmente positivo sulla fase attraversata dall’avvocatura: secondo l’indagine Censis 2015 quasi l’80% degli intervistati era convinto che si stesse attraversando una forte crisi professionale ed economica con la necessità di ripensare il proprio ruolo. Una situazione ancora lontana dal risolversi: secondo il rapporto annuale sull’avvocatura 2017, infatti, oltre il 78% degli avvocati l’anno scorso ha avuto difficoltà a risparmiare e uno su due ha subito un ridimensionamento delle entrate.Non servono poi studi statistici per sapere che nonostante l’alto numero di legali, le cause non si risolvono prima, anzi. I tribunali si intasano a causa del numero di procedimenti e all’aumento smisurato della burocrazia che, complici i tre gradi di giudizio, fa sì che solo per avere una sentenza di primo grado i tempi medi di definizione siano 992 giorni.Sullo sfondo per molti resta, però, la figura dell’avvocato come colui che sa ascoltare, ragionare e mediare seguendo un’etica. Poi nella pratica, complice la rincorsa al guadagno, e l’alta concorrenza, spesso si finisce con ampliare i lati negativi della professione. Che per molti giovani, però, ha ancora un certo fascino.Marianna LeporeFoto quadrata in alto a destra: di Morganforuall da Pixabay in modalità Creative Commons  

Donne attratte dalla chimica, ma il gap di genere resta: «Educhiamo anche i mariti a non ostacolare le nostre carriere»

Basta entrare in uno dei tanti laboratori chimici universitari per capire che la chimica è sempre più donna. Secondo i dati dell'Anagrafe nazionale studenti (Ans), nell’anno accademico 2015/2016 le ragazze immatricolatesi ai corsi di laurea in Scienze e tecnologie chimiche sono arrivate a superare – anche se di poco – i ragazzi. E il vantaggio si è confermato nell’anno 2016/2017 (51,5% contro 48,5%). Tra le materie dell’area Stem (Science, Technology, Engineering and Mathematics), la chimica è oggi una delle più amate dal genere femminile. Ma non solo. Rispetto a tre anni fa, infatti, il suo appeal è consistentemente cresciuto, con un incremento totale delle nuove iscrizioni del 29% e con circa 4mila immatricolati.«Le studentesse sono più numerose ma si perdono per strada, oppure restano nelle posizioni di base» si rammarica con la Repubblica degli Stagisti Luisa Torsi, professoressa ordinaria di Chimica analitica presso il Dipartimento di Chimica dell’università “Aldo Moro” di Bari. Nel 2010 è stata la prima donna e la prima italiana nella storia a vincere l’Henrick Emmanuel Merck per le Scienze Analitiche, premio internazionale destinato a scienziati capaci di migliorare la qualità della vita dei cittadini, grazie all’invenzione di un sensore bio-elettronico stampabile su plastica o carta, in grado di rivoluzionare il mondo della diagnostica medica. La Torsi è stata inoltre tra gli inventori della “macchina degli odori”, in grado di realizzare dei biosensori capaci di codificare e decodificare gli odori con una precisione simile a quella del naso umano, con possibili applicazioni ad esempio nell’industria dei profumi.Nonostante la sua esperienza positiva, la professoressa non nega l’esistenza del “soffitto di cristallo”: «Quando dieci anni fa ho sentito parlare per la prima volta di sottorappresentanza delle donne nelle posizioni apicali» spiega «l’ho percepito come una forzatura. Poi però mi sono resa conto che siamo noi donne che non ci rendiamo conto di essere discriminate perché pensiamo che quello che viene è ciò che ci meritiamo». Quindi aggiunge «Da quando l’ho capito mi sono fatta parte attiva nella sfida per la parità: vado nelle scuole superiori, partecipo a conferenze divulgative sulle donne e la scienza».«Le donne crescono con l’idea che a certi posti non ci possono arrivare o che per arrivarci devono rinunciare alla famiglia. Io sono diventata a favore delle quote rose perché certi fenomeni o li obblighi o non avverranno mai. È degradante ma è così», le fa eco Costanza Rovida, Project Manager presso Mastery, società  di Como che fornisce consulenza regolatoria per l’adempimento del REACH (regolamento adottato dalla Ue per migliorare la protezione della salute dell’uomo e dell’ambiente dai rischi delle sostanze chimiche) e Scientific Officer presso il CAAT–Europe (Center for Alternatives to Animal Testing) presso l’Universität Konstanz in Germania, in collaborazione con la John Hopkins University di Baltimora, oggi impegnata in prima linea, anche attraverso un tavolo ministeriale, nella promozione di metodi alternativi alla sperimentazione animale.Mastery, la società dove oggi lavora, è un caso di “disparità al contrario”, visto che a capo c’è una donna e sono impiegati 18 donne e 5 uomini. Ma la scienziata prima di arrivarci ha avuto modo di sperimentare le differenze di genere. «Io vengo da una famiglia “tradizionale”, con l’idea che le donne devono sposarsi e fare figli. I miei erano d’accordo che studiassi all’università, ma qualcosa di soft, giusto per “sfizio”», racconta alla Repubblica degli Stagisti Rovida. Che poi aggiunge: «L’imprinting familiare mi ha condizionato molto. Il mio primo marito voleva che smettessi di lavorare, così ho rifiutato molte proposte. È stato difficile capire che anche con due figli potevo realizzarmi».Insomma, a cambiare non deve essere soltanto la mentalità degli uomini ma in primis quella delle donne. «Dobbiamo educare le persone che abbiamo accanto, a partire dai mariti, all’idea che non vogliamo rinunciare alla nostra soddisfazione, perché ognuno di noi, uomo o donna, deve realizzare il suo potenziale più alto», conferma Luisa Torsi. Che poi fa riferimento alla sua esperienza: «Ho due figli e non sempre è stato facile conciliare vita privata e lavoro a questi livelli. Tuttavia la carriera universitaria ad esempio si può modulare, quello che non si deve fare è sparire per sei mesi. Io avevo l’astensione obbligatoria due mesi prima e tre mesi dopo la gravidanza, ma ho lavorato sempre. La responsabilità di componente attivo nella società non deve mai venir meno, altrimenti alla donna verrà sempre preferito l’uomo».I profili di Luisa Torsi e Costanza Rovida sono inseriti nella banca dati 100esperte.it, progetto nato per valorizzare le figure femminili in ambito Stem e combattere le discriminazioni di genere, dai media ai comitati scientifici fino ai convegni di settore. «Da quando è partito il progetto sto tenendo una statistica sui relatori e sui partecipanti ai convegni nazionali e internazionali ai quali presenzio» spiega Rovida «Ebbene, se i partecipanti sono per metà uomini e per metà donne, fra i relatori il rapporto è di 80-20 o 70-30».Ma perché una ragazza – nonostante tutto – dovrebbe avere ogni interesse a scegliere la chimica? «Studiare chimica vuol dire capire come funzionano le cose» dice Luisa Torsi «ed entrare in possesso di strumenti culturali utili a gestire situazioni complesse. In Italia la chimica viene insegnata bene, con corsi di livello internazionale e che sono ancora piuttosto “elitari”, quindi aprono prospettive di carriera più di altri».Industria, gestione, sicurezza sul lavoro, ricerca, insegnamento: sono tanti i possibili settori di occupazione per i laureati in chimica. In particolare, «uno degli sbocchi del futuro è il mondo della sostenibilità» sostiene Costanza Rovida «perché oggi le aziende hanno bisogno di investire in sviluppo, fare test per capire se i loro prodotti potranno causare problemi alla salute e all’ambiente. Questo richiederà lo sforzo congiunto di più professionalità: chimici, biologi, statistici…». Un consiglio che vale la pena di appuntare.Rossella Nocca