Categoria: Approfondimenti

Lavoro agile, lo usano soprattutto gli uomini nelle grandi imprese: il quadro dell'Osservatorio Smartworking

Nel nostro Paese lo smartworking è in crescita e lo scenario attuale sembra far sperare ancora bene per il futuro.  Sono stati presentati un paio di settimane fa, nel corso del convegno «Smartworking: una rivoluzione da non fermare» i risultati della ricerca dell’Osservatorio Smartworking della School of Management del Politecnico di Milano relativi al cosiddetto lavoro agile.Risultati che arrivano a poco più di un anno dalla legge 81/2017, che ha definito e disciplinato lo smartworking in maniera organica, individuandone le caratteristiche distintive nella «flessibilità organizzativa, volontarietà delle parti e adozione di strumentazione tecnologica» ed evidenziando come ulteriori elementi rilevanti la parità di trattamento economico e normativo, il diritto all’apprendimento permanente e la tutela degli aspetti legati alla salute e alla sicurezza.Cosa dice la ricerca? Innanzitutto offre un panorama numerico: in Italia i lavoratori agili sono 480mila, pari al 12,6% del totale degli occupati che, in base alla tipologia di attività, potrebbero oggettivamente fare smartworking (una cassiera di un supermercato o un portalettere, evidentemente, non potrebbero). Il numero indica un aumento del venti per cento rispetto allo scorso anno, quando il numero di smartworkers si era attestato a 305mila. La sorpresa però è che si tratta prevalentemente di lavoratori di genere maschile, che rappresentano il 76%, di età compresa tra i 38 e i 58 anni e residenti nel nord-ovest del Paese.Le principali motivazioni che inducono i lavoratori a scegliere lo smartworking sono legate alla sfera personale e al miglioramento del benessere. Per un 46% dei lavoratori c’è la possibilità di evitare lo stress durante gli spostamenti casa-ufficio, per un 43% il miglioramento del proprio equilibrio tra vita privata e professionale. Ma ci sono anche aspetti negativi: tra le criticità riscontrate le più frequenti sono la percezione di un senso di isolamento circa le dinamiche dell’ufficio (18%), seguita dal maggiore sforzo di programmazione delle attività e di gestione delle urgenze (16%).A questo proposito è interessante osservare come la percentuale più alta di smartworker si registri tra lavoratori di sesso maschile e non più giovanissimi, a differenza di quanto si potrebbe pensare a una prima analisi più superficiale del tema, che porta ad associare il lavoro agile soprattutto nella sua possibilità di lavorare da casa alle donne magari con figli più piccoli, per facilitare la conciliazione tra lavoro e vita familiare.Il dato 2018 dimostra invece che lo smartworking è un fenomeno più ampio e trasversale, legato in generale all’esigenza di migliorare il benessere lavorativo e in generale l’equilibrio tra vita privata e professionale.«Pensare che la conciliazione sia un’esigenza solo femminile è uno stereotipo da superare» dice Silvia Zanella, responsabile global digital marketing di Adecco, commentando i risultati della ricerca: «Gli uomini da un lato partecipano molto di più rispetto a un tempo alla gestione del carico familiare. Dall’altro lato sta tramontando la mitologia del fare tardi la sera per fare carriera. Se c’è un merito dello smart working è aver smascherato certi luoghi comuni. Non necessariamente chi stacca dopo o è sempre in ufficio è più produttivo di chi adotta un approccio agile». «Quando ho presentato la proposta di legge sullo smartworking, l’obiettivo principale era che potesse diventare presto uno strumento utilizzato dalle lavoratrici e dai lavoratori indistintamente» aggiunge Alessia Mosca, deputata al Parlamento europeo ed esperta di smartworking: «Sono convinta che sia necessario intraprendere una nuova strada per migliorare la situazione delle donne nel nostro Paese: le politiche, pubbliche e aziendali, rivolte alle donne - dalla possibilità per le neo-mamme di chiedere il part-time all’allungamento del congedo - perpetuano una visione del genere femminile come un “problema da risolvere”. Credo sia profondamente sbagliato: si diventa genitori in due, le responsabilità di cura della famiglia appartengono agli uomini così come alle donne. Per superare una volta per tutte la vecchia suddivisione “uomini nello spazio pubblico, cioè il lavoro, e donne nello spazio privato, la famiglia” è necessario agire a livello sistemico e fornire strumenti rivolti a entrambi, perché entrambi possano portare avanti il proprio percorso professionale e partecipare alla cura della propria famiglia. Il fatto che i dati ci dicano che la maggior parte degli smartworker oggi sono uomini è, dal mio punto di vista, estremamente positivo: la necessità di riprendere spazi e tempi per la propria vita non ha connotazione di genere».Ma in quali contesti si ricorre maggiormente allo smartworking? A fare da padrone sono le grandi imprese: considerando un campione di 183 imprese con più di 250 addetti, in un’azienda su due (56% dei casi) sono presenti progetti strutturati di smartworking. Per la maggior parte delle imprese il modello si concretizza nella possibilità di lavorare da remoto, scelta dal 53% delle grandi imprese, mentre l’altro 47% mette in pratica anche esigenze di ripensamento degli spazi.  «Le grandi corporation hanno tempi di risposta più rapidi proprio perché inserite in un contesto globale dove le novità arrivano prima» riflette Zanella: «Vuoi perché lo Smart working è già presente in casa madre, vuoi perché organizzazioni globali sono necessariamente flessibili, lo smart working è la risposta per il lavoro che cambia».In effetti le grandi imprese, soprattutto multinazionali, sono state le prime in assoluto a introdurre strumenti di flessibilità nell’organizzazione del lavoro, già prima che esistesse la legge. In questo senso «hanno aperto un cammino» dice Mosca «e dimostrato non solo che si poteva fare ma anche che i risultati erano impressionanti, sia per i lavoratori che per l’azienda. È stato molto importante avere dei casi di studio: hanno permesso la raccolta di dati, anche per dare una spinta alla proposta di legge, poi trasformata in un decreto del governo».Invece le piccole e medie imprese di lavoro agile sembrano proprio non voler sentir parlare: solo l’8%, in linea con l'anno passato, dichiara di avere progetti strutturati di smartworking e addirittura il 38% di non avere interesse verso questa modalità di lavoro. Dati, questi, che da una parte non sorprendono considerando che le grandi aziende sono tendenzialmente più organizzate e strutturate in termini di risorse e personale per poter gestire lo smartworking. Dall’altra, però, un vantaggio non indifferente del lavoro agile è proprio l’ottimizzazione di costi e spazi di lavoro, aspetti non di poco conto per le realtà più piccole.Un segnale positivo rispetto al 2017 arriva invece dalla pubblica amministrazione, che sta dando i primi segnali su questo fronte. Se lo scorso anno solo il 5% degli enti pubblici aveva avviato progetti di smartworking, quest’anno la percentuale è aumentata di oltre la metà, attestandosi sull’8%. Un incentivo è stato senza dubbio rappresentato dall’approvazione della legge sul lavoro agile: il 60% degli enti pubblici che ha attivato iniziative di questo genere ha dichiarato di aver trovato uno stimolo nella nuova legge. Sono 358 le PA con più di dieci addetti coinvolte nella ricerca dell’Osservatorio: «Da quello che so, ma non sono un’esperta» modera un po' gli entusiasmi Zanella «ci si aspettavano progressi maggiori. Di certo la cultura della performance misurabile non sempre si sposa con alcune logiche radicate nel settore pubblico». In occasione del convegno sono stati anche assegnati gli «Smartworking Award» 2018, premi destinati alle aziende che si sono distinte per i propri progetti legati al lavoro agile. A2A, Gruppo Hera, Intesa Sanpaolo e Maire Tecnimont sono le aziende che si sono aggiudicate il riconoscimento quest’anno. Zurich si è invece guadagnata lo «Smartworking Impact Award», premio indirizzato alle organizzazioni già vincitrici dello Smartworking Award, nelle quali il progetto negli ultimi anni ha avuto un impatto significativo sull’organizzazione.Chiara Del Priore

Tirocini in Garanzia giovani presso gli enti pubblici: nessun divieto, è "solo" una raccomandazione

A seguito della pubblicazione dell’articolo «Cento stagisti al Comune di Napoli, un tirocinio formativo ma senza sbocchi lavorativi (in violazione di una certa circolare…)», l’assessorato ai giovani del Comune ha fatto pervenire alla Repubblica degli stagisti una email con una serie di precisazioni. La più rilevante: l’esistenza di una seconda circolare del ministero del Lavoro, datata 30 aprile 2015, che formula più precisamente la impossibilità di svolgere tirocini in Garanzia Giovani all'interno di enti pubblici come una “raccomandazione” e non come un “divieto”.La Repubblica degli Stagisti ha quindi chiesto direttamente a Salvatore Pirrone, dal maggio 2016 direttore generale dell’Anpal e firmatario delle due circolari in quanto dg della Direzione per le Politiche attive del ministero del Lavoro, di far luce sulla questione.La notizia più rilevante dell’intervista a Pirrone è che «non c’è mai stato un divieto dal ministero a tirocini in Garanzia Giovani negli enti pubblici, ma solo una generale raccomandazione». Che, «non essendo fondata su norme che vietano un determinato percorso, visto che non è vietato né nei regolamenti europei né nella normativa regionale, non poteva spingersi fino al divieto». Il Comune di Napoli, quindi, non è caduto nell’errore di non rispettare un divieto, ma ha semplicemente scelto di non seguire una raccomandazione.Effettivamente il testo della nota del 3 aprile 2015 non mette nero su bianco la frase “è fatto divieto” – ma prescrive che, considerato il principio secondo cui l’accesso agli impieghi presso la pubblica amministrazione debba avvenire mediante concorso come prescrive l’articolo 97 della Costituzione, «gli enti pubblici locali, nazionali e trasnazionali vadano esclusi dal novero dei soggetti ammessi ad ospitare i tirocini nell’ambito del Programma, vista l’impossibilità che i periodi di tirocinio presso tali soggetti consentano un successivo inserimento lavorativo».Ma la successiva circolare del 30 aprile ritorna sull'argomento e raccomanda di non fare – ma non vieta – lo svolgimento dei tirocini negli enti pubblici. Sonia Palmeri, assessora al Lavoro e alle risorse umane della Regione Campania, sottolinea che «il Comune di Napoli, come altre pubbliche amministrazioni campane, ha potuto attivare i tirocini» – si riferisce naturalmente ai tirocini in Garanzia Giovani legati ai fondi messi a disposizione dalla Regione attraverso un apposito bando – «in funzione dell’attuazione del regolamento regionale a quell’epoca in vigore, approvato dalla precedente amministrazione di centrodestra del governatore Caldoro». Dall’assessorato confermano che le richieste delle varie pubbliche amministrazioni sono state tutte risalenti al primo semestre 2015, quando al governo della Regione vi era la precedente giunta: «La Regione Campania ha tenuto in considerazione la raccomandazione, controllando ogni forma di possibile abuso e riducendo il rischio che il tirocinio si trasformasse in un’inutile perdita di tempo».Se però «gli enti pubblici locali, nazionali e trasnazionali vanno esclusi», come dice la prima circolare, è presumibile che per quanto non esista un divieto esplicito, essi non dovrebbero attivare questo genere di tirocini. Anche perché, spiega Pirrone, «l’indicazione nei confronti delle regioni ad evitare l’utilizzo dei tirocini negli enti pubblici era spiegata nella nota: le possibilità di stabilizzazione sono sostanzialmente nulle». Da qui la «calda raccomandazione a limitare strettamente» questi stage, soprattutto «per evitare che, in particolare nelle regioni del Mezzogiorno, si crei una sorta di aspettativa al posto pubblico».L’assessora Palmeri è di altro avviso, e precisa che ai giovani partecipanti «è stata data la possibilità attraverso il tirocinio in Garanzia Giovani di fare un’esperienza formativa importante di sei mesi non replicabili e di cui, sin dal primo momento, è stato evidenziato il carattere della temporaneità. Il programma europeo punta all’occupabilità dei giovani, quindi a realizzare percorsi che rimettano i neet in condizioni stimolanti per la costruzione di una propria identità professionale» continua l’assessora: «È il neet a scegliere se candidarsi a vacancy nel pubblico o di datori privati».Nella sua email alla Repubblica degli Stagisti l’assessorato ai giovani del Comune di Napoli evidenzia anche che il DD 566 del 2014 «definisce il tirocinio extracurriculare Garanzia Giovani un’esperienza di formazione pratica presso un luogo di lavoro che non costituisce rapporto di lavoro né prevede un obbligo di assunzione diretta», visto che lo stage «consente al tirocinante di acquisire competenze professionali per arricchire il proprio curriculum vitae e favorire l’inserimento o il reinserimento lavorativo futuro».Su questo punto Pirrone conferma come la raccomandazione europea si sia espressa per un’offerta di qualità, anche se è difficile definire cosa si intenda: «Dal nostro punto di vista è quella in grado di incrementare le competenze della persona coinvolta e quindi migliorarne le prospettive di inserimento lavorativo. Anche l’esperienza presso l’amministrazione pubblica, come il servizio civile nazionale – che difficilmente preludono a un inserimento lavorativo immediato – sono comunque esperienze finalizzate a incrementare le competenze, e quindi a rendere il soggetto più appetibile dal mercato del lavoro in generale».Palmeri è ancor più netta: «I giovani conoscono bene il dato immutabile che nella pubblica amministrazione si accede, a norma di legge, per pubblico concorso. Dovrei forse vietare ai giovani di esprimere la loro volontà nel fleggare la candidatura ad una posizione di stage nella pa?». Quanto all’utilità di un tirocinio di questo tipo, senza appunto sbocchi lavorativi, l’assessora al lavoro campano ribadisce: «L’obiettivo chiaro è far partecipare il neet alla vita sociale, allontanando lo spettro dell’immobilità».Sul caso specifico dei tirocini in Garanzia giovani presso il Comune di Napoli Pirrone specifica che non conosce il progetto, e che come ministero hanno dato indicazioni volte a scoraggiare il finanziamento dei tirocini nelle pubbliche amministrazioni, ma ammette: «È chiaro poi che le Regioni, nell’ambito della normativa vigente, hanno facoltà di finanziare ciò che ritengono più utile».In tutta la questione c’è infatti anche un tratto formale, riferito ai risultati dell’ultimo referendum costituzionale. L’Anpal, infatti, ha la responsabilità di gestire il programma Garanzia Giovani che, però, «è configurato con le regioni come organismi intermedi principali, visto che c’è un sistema costituzionale che prevede la competenza legislativa concorrente in materia di politiche del lavoro e, di conseguenza, la competenza in materia di organizzazione dei servizi da parte delle regioni». La proposta di riforma della Costituzione di due anni fa prevedeva di riportare la competenza legislativa in materia di formazione allo Stato, ma il risultato referendario ha invece condotto ad un altro esito. Per questo motivo, spiega Pirrone, «oggi ci muoviamo nel sistema costituzionale attuale». Che vuol dire anche un’interpretazione diversa dell’applicazione della raccomandazione da regione a regione.Il Comune di Napoli, dunque, non ha violato una circolare, come erroneamente scritto dalla Repubblica degli Stagisti, ma ha deciso di non seguire una raccomandazione – su un punto delicatissimo di tutta la questione Garanzia giovani, ovvero l’effettiva possibilità di assunzione al termine del tirocinio. Marianna Lepore

Abolizione del numero chiuso a Medicina, accademici e associazioni studentesche si dividono

Il 16 ottobre scorso il governo ha lanciato una "bomba" sul mondo dell'università e della sanità. All'interno del comunicato stampa sulla manovra 2019, si leggeva: «Si abolisce il numero chiuso nelle Facoltà di Medicina, permettendo così a tutti di poter accedere agli studi». Di tutta risposta, in un comunicato stampa congiunto, il ministro della Salute Giulia Grillo e quello dell'Istruzione Marco Bussetti hanno fatto sapere che, da parte loro, si erano limitati a chiedere un aumento degli accessi e delle borse di specializzazione. Qualche ora dopo la notizia si è relativamente "sgonfiata": la presidenza del consiglio ha chiarito infatti che «si tratta di un obiettivo politico di medio periodo per il quale si avvierà un confronto tecnico con i ministeri competenti e la Crui, che potrà prevedere un percorso graduale di aumento dei posti disponibili, fino al superamento del numero chiuso». Fatto sta che nei piani, anche se non a breve termine, del governo c'è la revisione dell'attuale sistema di accesso agli studi in Medicina, e questo ha inevitabilmente aperto un accesso dibattito tra le categorie interessate. «In un primo momento siamo rimasti entusiasti» commenta Alessio Bottalico, coordinatore nazionale dell'associazione Link - Coordinamento Universitario «in quanto l’abolizione del numero chiuso a Medicina rappresenta una delle nostre più grandi battaglie per assicurare il diritto allo studio». Dopo la soddisfazione iniziale, è arrivato tuttavia il confronto con la realtà: «Pensiamo che ad oggi siano necessari finanziamenti, da un lato per garantire una didattica adeguata, dall’altro per aumentare le borse di specializzazione, altrimenti si crea solo illusione» aggiunge Bottalico. Riflessioni, queste, che saranno all’ordine del giorno dell’assemblea nazionale “O le borse o la vita!”, organizzata da Link e dall’associazione di specializzandi Chi si cura di te per il prossimo 9 novembre a Roma. Intanto il 26 ottobre Link, insieme ad altre associazioni studentesche, ha incontrato il ministro del lavoro Luigi Di Maio, che si è limitato a confermare che l'abolizione del numero chiuso è nel programma del governo, ma serve tempo.Per l’anno accademico 2018/19 hanno svolto i test di accesso a Medicina 67mila candidati e solo 10mila - meno di uno su sette - li hanno superati. Eppure lo stringente meccanismo selettivo non basta a garantire a tutti i laureati il prosieguo immediato del percorso. Anzi, più della metà dei laureati attualmente non riesce ad accedere al primo colpo a una delle specializzazioni per le quali ha espresso la propria preferenza. Quest’anno, infatti, sono state meno di 7mila le borse di studio bandite per le specializzazioni mediche, a fronte di 15mila domande e di 8mila medici prossimi alla pensione. Ciò significa che 8mila laureati resteranno in un “limbo” almeno per un anno. L’altra faccia della medaglia è però che, a un anno dal titolo, l’80 per cento dei laureati è inserito nel mondo del lavoro. Nonostante le perplessità sulla fattibilità, l’apertura politica verso il superamento del numero chiuso, secondo il coordinatore di Link, resta tuttavia un passo importante: «Può contribuire a garantire il diritto alla salute: si pensi infatti che in Italia 13 milioni di persone sono escluse dalle cure. E può mettere fine al business legato ai test di accesso, dai testi che costano 100 euro ai corsi di preparazione che arrivano a 5mila euro, fino alla fuga all’estero degli aspiranti medici». Insomma, l’abolizione dei test selettivi renderebbe più “democratico” il diritto allo studio e insieme quello alla salute.Ma c’è chi non la pensa esattamente così. «Il numero programmato va preservato: abolirlo sarebbe una follia» dice Emanuele Spina, presidente del Segretariato italiano giovani medici «perché porterebbe il diritto alla salute a sottostare alle logiche del mercato e del miglior offerente, e perché quello del medico è un lavoro delicato che necessita di una formazione e di strutture adeguate. Per questo siamo pronti a bloccare le attività degli specializzandi e ad organizzare proteste per difendere l’accesso programmato. Siamo invece aperti a al dialogo per una riprogrammazione del numero di posti». Spina è anche contrario alla possibilità di adottare il sistema “alla francese”, con la selezione prima del secondo anno: «Il primo anno è di pre clinica, che con la medicina ha poco a che fare, inoltre se venisse utilizzato il criterio degli esami sostenuti e della media voti si tornerebbe a una logica clientelare e baronale, e il sistema si presterebbe a interpretazioni più soggettive. E poi l'anno perso come verrebbe speso? Meglio uno sbarramento all'inizio, che direziona verso un altro corso, magari affine, in attesa di ritentare il test». Intanto pochi giorni fa, il 20 ottobre, la Conferenza permanente dei presidenti di consiglio di corso di laurea magistrale in Medicina e chirurgia ha approvato all'unanimità una mozione in cui richiede ai ministri della Salute e dell'Istruzione di «aprire un dialogo costruttivo che sia in grado di condurre ad una sintesi condivisa delle esigenze legate alle strategie politiche complessive del governo della cosa pubblica con quelle del sistema della formazione di qualità e della sua sostenibilità nel rispetto della programmazione dei fabbisogni reali del Ssn e dei Ssr».Tra i firmatari c'è Stefania Basili, presidente della Conferenza stessa e del corso di laurea magistrale in Medicina e chirurgia "D" dell'università La Sapienza di Roma, che alla Repubblica degli Stagisti spiega alcune delle proposte che saranno portate avanti: «Riteniamo che una programmazione attendibile e congrua debba essere necessariamente regolata da un processo di selezione, sicuramente migliorabile e auspicabilmente preceduto da una prova attitudinale». L'attuale test di ammissione è infatti ritenuto da molti un “terno al lotto”, che non è in grado di definire realmente l’essere all’altezza o meno di diventare un medico. «Riteniamo inoltre che debba venir dato maggior rilievo ai rapporti istituzionali che già intercorrono tra scuola secondaria e università» aggiunge Basili «con un ampliamento e miglioramento dei progetti di alternanza scuola-lavoro e di orientamento allo studio della medicina, anche in collaborazione con gli Ordini dei medici. Tutto questo potrebbe essere un mezzo di autovalutazione vocazionale alla medicina per gli studenti della scuola secondaria, riducendo i grandi numeri che si presentano al test e preparando questi giovani ad “essere medici”».  C’è un’altra argomentazione dei “no” all’abolizione del numero chiuso. «Se si aprisse l’accesso a tutti, decadrebbe la valenza europea del titolo» spiega Andrea Lenzi, presidente dell'associazione Conferenza permanente dei presidenti di consiglio di corso di laurea magistrale in Medicina e chirurgia. Le 5.500 ore di didattica certificata nei sei anni permettono infatti l’accreditamento europeo della formazione italiana, consentendo ai laureati la libera circolazione nei paesi dell’Ue. Senza contare che l’abolizione della programmazione «sarebbe uno spreco per le famiglie e per la società, visto che i meno di 1.000 euro di tasse universitarie annuali coprono solo una piccola parte dei costi di uno studente in Medicina».   A oltre vent’anni dalla sua introduzione, il numero chiuso a Medicina per la prima volta viene messo concretamente in discussione, aprendo a una possibile rivoluzione all’interno di una delle categorie oggi considerate “privilegiate” per gli sbocchi occupazionali e gli stipendi di gran lunga superiori alla media. Rossella Nocca

A cosa serve e come presentare la Did, la dichiarazione di immediata disponibilità al lavoro

La dichiarazione di immediata disponibilità al lavoro – la cosiddetta “Did” – è oggi un passaggio obbligatorio per usufruire di servizi per l’inserimento nel mercato del lavoro. La procedura, attraverso la quale i disoccupati e comunicano di essere alla ricerca di un lavoro, oltre che tramite il proprio Centro per l’impiego di riferimento, da dicembre 2017 si può effettuare direttamente online attraverso i siti dell’Anpal o i sistemi informativi del lavoro regionali. Inoltre dal 22 ottobre esiste una terza possibilità: i richiedenti possono essere supportati dai Centri per l'impiego e dai patronati convenzionati anche nella compilazione online attraverso l'area riservata del portale Anpal.Ricordiamo che il decreto legislativo n.150 del 2015 ha introdotto un nuovo concetto di “stato di disoccupazione”, secondo cui «sono considerati disoccupati i soggetti privi di impiego che dichiarano in forma telematica al sistema informativo unitario delle politiche del lavoro […] la propria immediata disponibilità allo svolgimento di attività lavorativa e alla partecipazione alle misure di politica attiva del lavoro concordate con il centro per l’impiego». Per quanto riguarda i percettori di sostegno al reddito la domanda di Naspi o Dis-coll, la domanda di indennità di mobilità resa all'Inps equivale a dichiarazione di immediata disponibilità ed è trasmessa dall'Inps all'Anpal.Con la circolare n.1/2017 l’Anpal ha definito le regole informatiche per fare sì che le Did rese su portale Anpal o su sistemi informativi regionali potessero essere considerate valide ai fini dell’accesso della persona al sistema dei servizi per il lavoro e delle politiche attive.Ma come si fa a presentare la dichiarazione? Il cittadino che è senza lavoro e non percepisce sostegni al reddito o il lavoratore dipendente che ha ricevuto una comunicazione di licenziamento  – nel periodo di prevviso di licenziamento – può autenticarsi nell’are riservata con le credenziali Inps selezionando la voce “dichiarazione di immediata disponibilità” e inserire le informazioni personali, professionali e lavorative, utili anche al calcolo dell’indice di profilazione quantitativo. Segue la prenotazione dell’appuntamento al Centro per l’impiego per la firma del Patto di servizio personalizzato, attraverso il quale il soggetto si impegna ad accettare una eventuale offerta che sia “congrua” al suo profilo.Chi non è in possesso del Pin Inps deve registrarsi sul portale Anpal, dopo di che la sua dichiarazione sarà acquisita con riserva. Quindi, al momento del contatto con il Centro dell’impiego, l’interessato dovrà confermare il suo stato di disoccupazione e convalidare l’autenticazione. La procedura si può effettuare direttamente da casa oppure con l’aiuto di un Centro per l’Impiego o un patronato, appositamente convenzionato con l’Anpal. Per ricevere assistenza si può telefonare al numero verde 800 000039 dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 18 o scrivere una mail all’indirizzo info [chiocciola] anpal.gov.it.«Nel periodo compreso tra dicembre 2017 e luglio 2018 sono entrate nel sistema nazionale oltre un milione di dichiarazioni di disponibilità» dice alla Repubblica degli Stagisti Stefano Pirrone, direttore generale dell’Anpal: «Di queste quasi il 20 per cento sono state ricevute direttamente sul portale nazionale e il restante 80 per cento tramite i canali di cooperazione applicativa. In quest’ultimo caso la Did è stata inserita in un sistema regionale, in quanto presentata direttamente presso il Centro per l’impiego o altro operatore accreditato oppure su un portale regionale, e ricevuta dal sistema nazionale tramite gli usuali canali di colloquio telematico tra sistemi».Nelle ultime settimane però ci sono stati segnalati alcuni disservizi nella compilazione della Did online. «Il motivo principale è che in molti casi è stato necessario allineare i dati presenti nei diversi sistemi» spiega Pirrone: «Talvolta le operazioni di allineamento dei sistemi effettuate in concomitanza degli orari di apertura al pubblico dei Centri per l’impiego, hanno creato dei blocchi del sistema». Il direttore dell’Agenzia tuttavia rassicura sul regolare ripristino delle funzionalità: «Ad oggi l’attività di forte collaborazione inter-istituzionale con le Regioni/Province autonome ha permesso di mettere in atto tutte le correttive necessarie a rendere più agevole il servizio».Un'altra novità in materia di Did online ha riguardato i cittadini stranieri appartenenti all’Unione europea che soggiornano regolarmente sul territorio italiano.  L’Anpal ha infatti chiarito, con la circolare n. 4/2018, che essi hanno diritto al pari dei cittadini italiani a fruire dei servizi e delle misure di politica attiva del lavoro. Pertanto gli uffici di collocamento nazionali sono tenuti a prestare ai cittadini comunitari la medesima assistenza che prestano agli italiani sia dal punto di vista dell’attivazione che della ricollocazione nel mercato del lavoro. Questo, in virtù del principio di non discriminazione e di libera circolazione dei lavoratori degli Stati membri.  La Did online fai-da-te rappresenta una svolta importante per i cittadini, anche in virtù della lentezza dell’informatizzazione nei Centri per l’impiego, soprattutto nel Meridione. Secondo il Monitoraggio dei Servizi per il lavoro 2017 dell'Anpal, dei 501 Cpi presenti in Italia la metà ha dotazioni informatiche insufficienti, mentre al Sud e nelle isole la percentuale sale al 72%. Gli ostacoli non riguardano solo gli strumenti ma anche il personale: il blocco del turn over fa sì che l’età media sia piuttosto alta e che molti dipendenti non siano adeguatamente formati per gestire le nuove procedure telematiche. Insomma, l’auspicio è che la nuova procedura possa snellire la burocrazia e agevolare il percorso già abbastanza complicato dei cittadini nell’attuale mondo del lavoro.  Rossella Nocca

Farmacisti e crisi occupazionale, l’appello della Federazione: “Introducete il numero chiuso”

I farmacisti italiani sono sul podio dei professionisti più ricchi. Secondi i redditi medi per categoria pubblicati dall’Agenzia delle entrate (Fonte: Dichiarazioni dei redditi 2016), con i loro 121mila euro, sono secondi soltanto ai notai e precedono i medici. Ma questi dati non devono trarre in inganno sullo stato di salute della categoria. A meno che gli aspiranti farmacisti non abbiano alle spalle una farmacia di famiglia, la strada per loro non è proprio in discesa. Gli iscritti all’albo dei farmacisti sono circa 96mila (dati aggiornati al 2017). Di questi, 57mila, tra titolari e collaboratori, sono occupati nelle farmacie, che ammontano a 20mila tra comunali e private. 17mila, invece, quelli che operano in altri settori: Servizio sanitario nazionale, industria farmaceutica e distribuzione intermedia. Secondo i dati AlmaLaurea, il tasso di occupazione a un anno dal titolo nella classe di laurea in farmacia e farmacia industriale è del 55,1%, mentre la retribuzione netta mensile media è di 1.226 euro. In base alle previsioni della Joint Action Health Workforce Planning and Forecasting, iniziativa comunitaria cui partecipa il  nostro ministero della Salute, il fabbisogno di farmacisti per il Servizio sanitario nazionale per il periodo 2015-2040 è di circa 1.500 unità l’anno. «In media i 33 Dipartimenti di Farmacia in Italia producono 4.500 neolaureati l'anno. Ciò significa che c'è un esubero di 3mila laureati ogni anno», spiega Davide Petrosillo, presidente della Federazione nazionale associazioni giovani farmacisti (Fenagifar). Secondo le stime della Federazione ordini farmacisti italiani (Fofi), da qui a vent’anni saranno 63mila i professionisti disoccupati.«Il problema occupazionale è il riflesso dell'attuale situazione di instabilità del settore» aggiunge Petrosillo «dovuta fra le altre cose anche alla recente novità dell'ingresso del capitale nelle farmacie, che porta i titolari di farmacie ad essere più oculati nelle assunzioni». La legge 124/2017 sulla concorrenza ha infatti autorizzato l'ingresso delle società di capitali nella titolarità dell'esercizio della farmacia privata.Ma non solo. «Diversi fattori economici, come la discesa del prezzo dei medicinali e la contrazione del Fondo sanitario, hanno ridotto fortemente i margini della farmacie di comunità» spiega il presidente della Fofi, Andrea Mandelli, senatore nella scorsa legislatura.Ma quali possono essere le soluzioni per migliorare l’accesso al mondo del lavoro? «La strada più percorribile al momento sarebbe quella di introdurre nei corsi di laurea in farmacia il numero programmato a livello nazionale», propone Petroselli. Una strada percorribile? «La fattibilità dipende dal legislatore. Di certo il numero dovrebbe tenere conto del fabbisogno individuato dal ministero, pari ad esempio a 448 unità l'anno per l'anno accademico 2017/18», commenta il presidente Fofi. Un’altra soluzione potrebbe arrivare dai nuovi sbocchi nella farmacia dei servizi. «La linea della Federazione si basa sul presupposto che il farmacista può e deve andare oltre la dispensazione del medicinale. Ad esempio» spiega Mandelli «egli può collaborare al processo di cura in un ambito strategico come l’aderenza alla terapia. Il modello della farmacia dei servizi è alla vigilia dell’implementazione sul territorio e speriamo che contribuisca definitivamente ad assorbire la disoccupazione. Anche il corso di laurea deve essere riformato per adeguarsi al nuovo ruolo del farmacista».A proposito di formazione, sono numerosi i nuovi ambiti da esplorare. «Oggi invitiamo i giovani a puntare  sugli aspetti più "etici" della professione come la galenica, la fitoterapia, la presa in carico del paziente e la comunicazione efficace», spiega Petroselli. Poi aggiunge: «Importante sarà di pari passo, curare gli aspetti del marketing e della gestione, in quanto con l'ingresso del capitale nelle farmacie non ci si potrà permettere errori di gestione economica. Se oggi i giovani continuano a scegliere farmacia è proprio perché la vedono come una professione in evoluzione».Altra proposta della Federazione è quella di incrementare gli organici dei farmacisti ospedalieri. «Il Servizio sanitario dovrebbe considerare che in tutto l’Occidente industrializzato il farmacista ospedaliero è presente a livello di reparto e fa parte dei team di cura, con effetti positivi in termini clinici ed economici». Secondo i dati dell'ultimo annuario statistico del Servizio sanitario nazionale (2016 su dati 2013), i farmacisti occupati nel Ssn erano 2.512, distribuiti fra i 1.070 ospedali, considerando – ricordiamo – che ciascun ospedale del Ssn è obbligato ad avere una farmacia.    Anche nel settore farmaceutico oggi sono tanti i giovani che si trasferiscono all’estero. In Europa ci sono oltre 150mila farmacie e i farmacisti italiani hanno la possibilità di esercitare la professione in qualsiasi paese europeo, in quanto i titoli richiesti in Italia (laurea, esame di Stato) sono riconosciuti dall’Unione europea. L’unico “ostacolo” è il test linguistico sulla conoscenza della lingua del paese ospitante. Al momento, secondo quanto riportato in uno studio di AgrifarLab, laboratorio di idee di giovani farmacisti Fenagifar, i paesi in cui cresce l’offerta sono la Germania e i Paesi scandinavi, mentre saturi risultano i mercati del Regno Unito e dei Paesi del Sud (Francia, Spagna, Portogallo, Grecia). Per fornire una bussola ai futuri farmacisti sulle opportunità nazionali e internazionali, l’università La Sapienza di Roma qualche mese fa ha organizzato l’incontro “Cosa farò da grande: professione farmacista”, rivolto a laureandi e neo laureati e destinato ad essere il primo di un ciclo. «Ci siamo resi conto che i nostri ragazzi avevano poca consapevolezza delle opportunità post laurea» racconta alla Repubblica degli Stagisti Rossella Fioravanti, ricercatrice in Chimica farmaceutica presso l’ateneo e consigliere dell’Ordine dei farmacisti di Roma «così abbiamo voluto far capire loro, attraverso gli interventi di testimonial della categoria, che quella in farmacia è una laurea versatile e che non devono dare per scontato l’impiego all’interno di una farmacia». Insomma, anche se oggi chi si iscrive a questo corso di laurea non lo fa più per la garanzia di un’occupazione, sono tante e interessanti le sfide verso le quali il settore farmaceutico si avvia, sfide che potrebbero richiedere nuove competenze e creare nuove opportunità. Rossella Nocca

Voucher e lavoro occasionale, con le novità del decreto Dignità molto rumore per nulla

Nei primi giorni di agosto è stato approvato il cosiddetto Decreto Dignità che ha introdotto, tra le varie disposizioni, delle novità sul fronte dei buoni lavoro, meglio noti come voucher. Se prima questo inquadramento poteva essere usato per piccoli lavoretti – come ripetizioni, babysitting, o, ad esempio, la donna delle pulizie – da luglio l'uso dei voucher è vietato, dal punto di vista dei committenti (cioè da chi paga per avere un servizio) alle famiglie e alle microimprese, seppur con qualche eccezione; e dal punto di vista dei prestatori di lavoro (cioè da chi si mette a disposizione per offrire quel servizio) è stato confermato il divieto di utilizzo dei voucher per gli studenti sopra i 25 anni. I voucher inoltre non si possono più comprare dal tabaccaio, ma devono essere richiesti in modalità telematica tramite la piattaforma dell’Inps.Analizzando la normativa nel dettaglio, il decreto prevede il ritorno all’utilizzo dei voucher nel settore agricolo e negli enti locali che abbiano alle proprie dipendenze fino a cinque lavoratori subordinati a tempo indeterminato e per le strutture ricettive operanti nel settore del turismo, nel caso in cui abbiano alle proprie dipendenze fino a otto lavoratori. Inoltre i buoni lavoro possono essere applicati solo a determinati soggetti: studenti, pensionati, disoccupati e percettori di forme di sostegno al reddito. Le prestazioni devono avere una durata limite di 280 ore nello stesso anno e devono essere svolte nell’arco dei 10 giorni successivi all’attivazione. Ci sono poi dei limiti economici: per ciascun lavoratore, con riferimento alla totalità degli utilizzatori, i compensi non possono superare i 5mila euro. La stessa cifra è fissata committenti, con riferimento alla totalità dei lavoratori pagati attraverso questa modalità nel corso di un anno.È stata introdotta, inoltre, la possibilità per il prestatore di lavoro di richiedere, con l'atto di registrazione sulla piattaforma Inps, il pagamento in contanti presso qualsiasi sportello postale, invece che con bonifico bancario. Tale pagamento verrà effettuato trascorsi 15 giorni dal consolidamento della procedura informatica riguardante la singola prestazione lavorativa. Cosa cambia rispetto alla normativa precedente? Nel 2015, prima dell'abolizione dei voucher, secondo il report dell'Inps “Il lavoro accessorio dal 2008 al 2015. Profili dei lavoratori e dei committenti”, dell’oltre un milione 380mila prestatori di lavoro accessorio nel 2015, poco meno della metà – per la precisione 595mila – erano stati giovani under 30. Secondo i dati pubblicati sul sito dell'Inps nel 2017, dopo l'abolizione, il numero complessivo di prestatori di lavoro accessorio è sceso a circa 700mila, di cui circa 260mila nella fascia d'età 20-29 anni. Gli under 30 sono insomma molto coinvolti dai cambiamenti normativi relativi ai voucher.Per comprendere le novità, in realtà poche, è necessario ricordare che a marzo 2017 il governo Gentiloni aveva abolito i buoni lavoro, spinto dalla pressione della Cgil relativa a un referendum abrogativo, legato a un abuso di questi strumenti. Qualche mese dopo, tuttavia, era stata varata una manovra correttiva contenente nuove disposizioni in sostituzione dei voucher cancellati in precedenza.«La scelta del governo Gentiloni di abolire i voucher è stata un grave errore, motivato solo da ragioni politiche: dopo lo scossone del referendum del 4 dicembre, il Governo voleva evitare di andare incontro al referendum promosso dalla Cgil. Appena abolito lo strumento, il legislatore si è reso conto che il mercato del lavoro aveva bisogno di una forma contrattuale che fosse utilizzabile per i piccoli lavori ed è stata quindi reintrodotta una disciplina simile a quella precedente, ma più burocratica e inutilmente complessa», rimarca Giampiero Falasca, avvocato specializzato in diritto del lavoro.La manovra correttiva aveva ribattezzato i “nuovi” voucher con la denominazione Libretto famiglia: simil “assegni” del valore di 10 euro, da utilizzare per il pagamento di prestazioni lavorative per piccoli lavori domestici, con il limite massimo di 2.500 euro l'anno percepiti dallo stesso lavoratore e di 280 ore annuali di lavoro per lo stesso datore.
 Per le imprese c’era invece la possibilità di ricorrere al contratto di prestazione occasionale ad alcune condizioni: il compenso minimo non doveva essere inferiore ai 9 euro orari, rispetto ai 7,5 previsti in precedenza, il tetto massimo di compensi annuali era di 5mila euro e non erano ammesse all'utilizzo aziende con più di 5 dipendenti. Non potevano ricorrere a questo tipo di contratto le imprese del settore edilizio e quelle artigiane. «La legge del 2017, varata principalmente al fine di evitare un referendum promosso dalla Cgil che avrebbe portato prevedibilmente all’abrogazione integrale di questa forma di organizzazione del lavoro occasionale, aveva sostituito i buoni lavoro in forma cartacea con i buoni virtuali, in forma interamente digitale, e ne aveva drasticamente ristretto il campo di possibile utilizzazione, escludendone tutte le imprese con più di cinque dipendenti», spiega il giuslavorista ed ex senatore Pietro Ichino.In qualche modo, quindi, si era cercato di mantenere lo strumento seppur in veste diversa, introducendo però maggiori restrizioni. Risultato: una netta diminuzione del ricorso a questa modalità di inquadramento del lavoro. «I dati disponibili sui primi due trimestri di applicazione della nuova normativa indicano, come era largamente prevedibile, una riduzione drastica, oltre il 90 per cento, del numero di ore lavorate e retribuite in questa forma» ribadisce Ichino: «E non c’è alcuna evidenza di una trasformazione del 90 per cento perduto in lavoro regolare ordinario: è molto probabile che oltre cento milioni di ore di lavoro occasionale siano transitate nell’area del lavoro nero, o si siano perse del tutto». Ora  si è aperta dunque una terza fase. Le disposizioni sui voucher del 2017 hanno avuto vita breve, circa un anno – neanche il tempo di abituarsi alle nuove regole, che già sono state superate da un altro sistema. Rispetto a questa fugace fase due, dunque, la nuova norma alza la soglia da cinque a otto dipendenti nel settore del turismo e dei relativi servizi e fissa a 10 i giorni dall’attivazione per l’avvio della prestazioni, in precedenza fissati a 3.  Viene però eliminata la possibilità da parte delle famiglie di ricorrere ai voucher per pagare lavori domestici o altre piccole prestazioni.Tirando le somme il decreto Dignità ha cercato, da una parte, di ampliare alcune soglie che restringevano il ricorso a questo tipo di strumento; dall’altra però l’impressione è che cambi poco o nulla. «Complessivamente non si può dire che il contenuto di questo decreto sia particolarmente incisivo: contiene una serie di ritocchi, tutto sommato marginali, alle norme varate nella passata legislatura, confermandone però l’impianto», conferma infatti Ichino.E Giampiero Falasca è dello stesso parere: «Le novità contenute nel decreto Dignità sono piccole modifiche che non risolvono il problema di fondo della disciplina vigente: è troppo complessa e si può applicare in casi troppo limitati. Un paese moderno dovrebbe regolare con un contratto adeguato i mini lavori, invece di mettere la testa sotto la sabbia con norme che sembrano nascondere la realtà. L'effetto di scelte come quelle dello scorso anno, ossia l'abolizione dei voucher e la successiva reintroduzione sotto forma di lavoro occasionale di un succedaneo meno fruibile, è stato molto negativo: una spinta verso forme contrattuali irregolari e di dubbia legittimità.Sarebbe stato auspicabile maggiore coraggio, su questo tema, invece sono stati introdotti piccoli aggiustamenti che risolvono solo in maniera limitata questi problemi».La rivoluzione annunciata al momento non c’è stata. Lo stesso Di Maio, in occasione della partenza del decreto Dignità lo scorso luglio, ha amesso che «se i voucher possono servire a settori come l’agricoltura e il turismo, per specifiche competenze, allora ben vengano, l’unica cosa è evitare abusi in futuro». Per ora è ancora presto per analizzare gli effetti delle nuove disposizioni. L'Inps ha spiegato alla Repubblica degli Stagisti che il prossimo documento sul tema sarà diffuso non prima dell'anno prossimo. Attendiamo pazientemente.   Chiara Del Priore    

Perché c'è bisogno di una nuova legge sui tirocini curricolari, subito!

Una nuova regolamentazone dei tirocini curricolari, con l'obiettivo di dare ai giovani che fanno stage durante il proprio percorso di formazione per la maggior parte universitari, a occhio e croce 200mila all'anno un quadro più forte di diritti. L'appello che la Repubblica degli Stagisti da almeno cinque anni rivolge incessantemente alla politica si è trasformato in qualcosa di più: una proposta di legge che comincia il suo iter parlamentare. Ma perché c'è così tanto bisogno di una nuova normativa? Ci sono tre motivi principali.Il primo è che da più di cinque anni esistono di fatto in Italia dei tirocini di serie A e dei tirocini di serie B. I tirocini di serie A sono quelli extracurriculari, che grazie anche alle battaglie della Repubblica degli Stagisti, e a un indirizzo concordato in sede di conferenza Stato regioni, hanno ottenuto tra il 2012 e il 2014 un nuovo quadro normativo – frastagliato, è vero, in ventuno normative regionali diverse, ma con molte più garanzie per gli stagisti, a cominciare dal diritto a ricevere un emolumento mensile minimo. A fronte di queste grandi novità che hanno sensibilmente migliorato la vita dei tirocinanti extracurriculari, è rimasto completamente scoperto il grande segmento dei tirocini curriculari, svolti durante il percorso di studi, per i quali ad oggi le garanzie sono poche se non nulle: soprattutto non c’è nessuna tutela dal punto di vista della remunerazione, quindi gli stagisti di serie A hanno diritto ad essere pagati e quelli di serie B invece possono continuare a subire stage gratuiti. È ora di eliminare questa discriminazione!La seconda ragione è che la normativa inizialmente pensata vent’anni fa per regolamentare tutto il settore dei tirocini è ad oggi di fatto largamente inutilizzabile. Stiamo parlando del decreto ministeriale 142/1998, che per quindici anni ha costituito la normativa unica a cui hanno fatto riferimento università, aziende, centri per l’impiego e tutti gli altri attori dell’universo stage. Il problema è che poi, tra il 2012 e il 2014, di fatto questo universo stage è stato spaccato in due a livello ufficiale: da una parte sono stati messi gli stage extracurricolari, affidando la competenza normativa alle Regioni, e dall’altra parte gli stage curricolari, di competenza invece statale. Dunque una normativa che era stata pensata per normare un argomento si è trovata dimezzato il suo raggio d’azione, e dunque depotenziata. Senza contare che ovviamente alcuni dei punti specifici del vecchio testo vengono specificati e normati anche nei nuovi testi regionali, sovrapponendosi alle prescrizioni della legge 142/98 e rendendolo di fatto in alcuni casi addirittura inapplicabile, come nello specifico per quanto riguarda il limite massimo di tirocinante ospitabili contemporaneamente da ciascuna azienda. Un nuovo quadro normativo aiuterà dunque in primis i soggetti promotori dei tirocini, che nel caso dei curricolari sono sopratutto gli uffici stage & placement universitari.La terza ragione è che, per effetto di una sciagurata decisione risalente all'epoca in cui Cesare Damiano era ministro del lavoro, i tirocini curriculari sono da oltre un decennio scomparsi dal radar e quindi non ci sono dati precisi su quanti ne vengono attivati ogni anno, di quale durata, con quali esiti. Il rapporto molto dettagliato che il ministero del Lavoro è in grado di produrre ogni anno sui tirocini extracurriculari, grazie al fatto che questi tirocini devono essere comunicati, al momento dell’avvio, attraverso il meccanismo delle comunicazioni obbligatorie – analogamente a qualsiasi rapporto di lavoro – per quanto riguarda i tirocini curriculari non può esistere. Infatti nel 2007 si è deciso che no, non c’era bisogno di fare la comunicazione obbligatoria quando si avviava un tirocinio curricolare. Magari l’intento era anche buono, e cioè togliere dalle spalle degli soggetti promotori (come detto, sopratutto uffici stage universitari) un’incombenza burocratica, sopratutto considerando che una gran parte di questo tipo di tirocini aveva una durata molto limitata (150-250 ore, pari a tre/sette settimane), ma risultato è stato pessimo. Con due righe è stato cancellato l’unico strumento che poteva permettere di mappare uno per uno i tirocini curriculari. E se è di trasparenza c’è bisogno per capire se uno strumento funziona non funziona, se viene usato bene o male, allora è ora e tempo che anche i tirocini curriculari rientrino nel radar del controllo dello Stato.Per queste e molte altre ragioni non si può più aspettare: c'è bisogno in Italia di una nuova legge sui tirocini curricolari. 

Tirocini vietati ai farmacisti abilitati, fatta la “legge” trovato l’inganno?

Dopo anni di appelli e lettere di denuncia sull’abuso dei tirocini da parte delle farmacie, la richiesta degli organi di categoria è stata accolta. Le nuove linee guida in materia di tirocini formativi, approvate a maggio 2017, hanno stabilito che “non sono attivabili tirocini in favore di professionisti abilitati o qualificati all’esercizio di professioni regolamentate per attività tipiche ovvero riservate alla professione”. Per effetto di questa novità, sono banditi quindi anche gli stage per farmacisti abilitati e iscritti all'albo. O almeno così dovrebbe essere. Di fatto, non tutte le regioni hanno recepito questa parte della normativa nazionale. «Sono cinque le regioni che non si sono adeguate», spiega alla Repubblica degli Stagisti Francesco Imperadrice, presidente del Sindacato nazionale dei farmacisti non titolari (Sinasfa), «ovvero Campania, Emilia Romagna, Lazio, Lombardia e Puglia. Stiamo monitorando la situazione e le prime due dovrebbero farlo entro ottobre». Una svolta importante, quella delle Linee guida 2017, ma che ha lasciato evidentemente un “vuoto” in cui gli abusi possono ancora perpetrarsi. Ha fatto discutere recentemente un bando del Comune di Campobasso rivolto a due laureati in farmacia o chimica e tecnologie farmaceutiche per un tirocinio della durata di sei mesi (prorogabile e rinnovabile) presso due farmacie comunali, con indennità di partecipazione mensile pari a 500 euro. Nel testo si specificava che per candidarsi occorreva “non aver conseguito l’abilitazione all’esercizio della professione di farmacista” e “non essere iscritto all’Ordine dei Farmacisti”, per cui il bando formalmente è “a norma di legge”. Ma gli organi di categoria non ci stanno. «Non voglio pensare che sia un modo per aggirare le linee guida, ma a pensar male non si sbaglia mai» commenta  Fabio Romiti, vicepresidente del Movimento nazionale liberi farmacisti, che conta 12.500 farmacisti iscritti, per lo più farmacisti non titolari e farmacisti impiegati in parafarmacie. Fra l'altro il tirocinio post laurea per i non abilitati sarebbe praticamente un "doppione" di quello curriculare. «La prima cosa da fare è scegliere se far fare il tirocinio prima o dopo la laurea» è l'appello del vicepresidente del Movimento «altrimenti così viene utilizzato solo per non creare occupazione». Ricordiamo infatti che il tirocinio curriculare è obbligatorio per gli studenti dei corsi di laurea in farmacia e in chimica e tecnologie farmaceutiche, e ammonta a 936 ore spalmate su almeno sei mesi, da svolgere a partire dalla fine del quarto anno di corso, o interamente in una farmacia di comunità o per metà in una farmacia di comunità e per metà in una farmacia ospedaliera. Ciò vuol dire che nelle circa 20mila farmacie italiane dovrebbero arrivare ogni anno circa 4.500 laureandi. Le perplessità sul bando di Campobasso riguardano anche le possibili mansioni dei tirocinanti. «Cosa ci sta a fare un laureato non abilitato e non iscritto all’Ordine in farmacia» aggiunge Romiti «se non può maneggiare i farmaci… fa il magazziniere?». Ma dall’articolo 9 del bando sugli “obiettivi del tirocinio” sembra che ai tirocinanti sia consentito eccome di maneggiare i farmaci... d'altronde come potrebbe essere altrimenti? In particolare, si parla di «apprendimento di abilità tecnico-operative in riferimento alle attività di consulenza e dispensazione di farmaci e prodotti non farmaceutici, alle attività di controllo delle prescrizioni mediche, di acquisto e di conservazione dei farmaci, alle attività di gestione approvvigionamenti e magazzino di tutti i prodotti farmaceutici; acquisizione di abilità e competenze nella gestione dell’accoglienza e del commiato del cliente garantendo la privacy e la risoluzione dei reclami; acquisizione di tecniche di marketing finalizzate alla promozione e alla vendita di prodotti farmaceutici». Tante parole che non hanno convinto il Movimento nazionale liberi farmacisti, che ha chiesto conto all’amministrazione comunale della discutibile condotta. «Ci hanno risposto che si voleva dare un’opportunità ai neolaureati, ma per noi la risposta non è affatto soddisfacente. Abbiamo invitato la Federazione e l’Ordine a vigilare su questa situazione, ora possiamo solo aspettare», spiega. Dal canto suo, il presidente della Federazione ordini farmacisti italiani (Fofi) Andrea Mandelli promette: «Intendiamo sollecitare il decisore politico e sanitario: gli ordini professionali devono svolgere una costante azione di vigilanza anche su questo aspetto. Quello che è successo è un fatto grave».Il vicepresidente del Movimento nazionale liberi farmacisti mette in guardia sulle insidie di un abuso dei tirocini: «Questo sistema, ripetuto con due tirocinanti l’anno, evita l’assunzione, occupando un’intera annata. E nel caso dei farmacisti ha creato non pochi problemi di occupazione. Per questo consideriamo il tirocinio extracurriculare per i farmacisti immorale». Un altro problema è la previdenza. «Gli iscritti all'albo che vanno avanti con gli stage consumano il bonus dei cinque anni di disoccupazione dopo i quali devono pagare il 50% della quota intera Enpaf, che di questi tempi non è un aspetto da poco», sottolinea Imperadrice. Ma non è solo una questione economica: «In questo lavoro è il rapporto continuativo con il cliente che apporta qualità al servizio», precisa Romiti. Insomma, l’abuso dei tirocini rischierebbe di compromettere non solo la condizione occupazionale della categoria dei farmacisti, ma anche la qualità della prestazione che essi forniscono alla clientela. Ma allo stesso tempo questa formula si traduce in un risparmio notevole per i titolari delle farmacie, in quanto un farmacista regolarmente assunto a tempo indeterminato, partendo dall'inquadramento più basso, costa mensilmente 1.400/1.450 euro netti. La Repubblica degli Stagisti ha chiesto a Federfarma, la Federazione nazionale dei titolari di farmacia italiani, un parere sull'utilizzo dei tirocini nel settore, ma ha ricevuto un diniego: Federfarma  dichiara di non voler prendere una posizione pubblica al riguardo. Fatto sta che tra i beneficiari dei tirocini ci potrebbero essere anche quei non pochi laureati in farmacia che non si iscrivono all'albo per esercitare. In Italia i dottori in farmacia sono infatti circa 70mila, di cui solo 57mila sono diventati poi farmacisti. Anche per questo per il momento i tirocinanti non sembrano destinati a scomparire dalle farmacie.Rossella Nocca

Servizio civile, 53mila opportunità nel bando 2018: candidature fino al 28 settembre

Fino a venerdì 28 settembre sono aperte le selezioni per il Servizio civile. Il bando di quest’anno mette in palio ben 53.363 posti da volontari: più di 6mila opportunità in più rispetto all'anno scorso –  un dato che si avvicina al record storico di 57mila registrato nel 2006. Un numero sempre più consistente di giovani, infatti, decide ogni anno di investire dodici mesi della propria vita in un’esperienza di servizio civile. In Italia o all’estero. Ad esempio, stando ai dati che si leggono sul sito, nel 2016 – ultimo anno per cui sono disponibili le statistiche – le candidature sono state quasi 104mila. Il successo del servizio civile non è dovuto solo a ragioni di vocazione sociale o volontaristica ma anche al rimborso spese relativamente generoso – soprattutto quello per il servizio all’estero – che viene garantito ai volontari selezionati. «Una grande possibilità per fare un’esperienza, sia per sé stessi che per gli altri» nelle parole di Vincenzo Spadafora, 44enne sottosegretario alla presidenza del consiglio con delega al servizio civile: «Per sé stessi in quanto si aderisce ad un progetto di formazione che potrà servire anche nel mondo lavoro, per gli altri in quanto si investe il proprio tempo in attività importanti per il bene del paese e, in generale, delle altre persone».Andiamo con ordine. Come ogni anno, l’iniziativa si rivolge a ragazzi e ragazze tra i 18 e i 28 anni, che siano cittadini italiani, di altri paesi dell’Unione Europea o extracomunitari con regolare permesso di soggiorno. Il servizio civile dura dodici mesi, può essere svolto una sola volta nella vita e unicamente presso enti pubblici o privati no-profit accreditati. Quest’anno, dei 53mila posti totali, 29mila sono messi in palio attraverso un bando che riguarda gli enti iscritti nell’Albo nazionale. Gli altri 24mila, invece, sono assegnati attraverso ventuno bandi relativi ai progetti degli enti iscritti negli Albi regionali (nel Trentino-Alto Adige c’è un bando sia per la provincia di Trento sia per quella di Bolzano). In tutto si tratta di oltre 5mila progetti per cui potranno essere selezionati i volontari per le attività più disparate nei settori ambiente, assistenza, educazione, promozione del patrimonio artistico e culturale, protezione civile o cooperazione internazionale.Come detto, caratteristica «vincente» del servizio civile è il rimborso spese. A tutti i volontari, infatti, viene riconosciuto un contributo di 433,80 euro al mese, cui va sommato il rimborso per le spese del viaggio iniziale che spetta ai volontari selezionati per un progetto che ha sede in un comune diverso da quello di residenza. Non è una cifra elevata, ma è comunque un importo significativo considerando che il servizio civile generalmente non è un'attività a tempo pieno, in quanto la maggior parte dei progetti prevede un impegno di un certo numero di ore per qualche giorno a settimana (comunque mai meno di 30); inoltre lo svolgimento del servizio civile non porta alla sospensione dell’iscrizione alle liste di mobilità o alle liste di collocamento e, generalmente, non è incompatibile con altre attività. Per il servizio civile all’estero il trattamento economico è ancora più vantaggioso, in quanto al contributo di 433,80 euro va aggiunta un’indennità fissa giornaliera, che varia a seconda del “costo paese” in cui i volontari sono impiegati. Queste indennità oscillano dai 13 euro per i progetti che si svolgono in Africa, Sud-est asiatico, Centro o Sud America, ai 15 per Europa, Nord America e Giappone. Sono inoltre coperte le spese di viaggio – che devono essere anticipate dall’ente – e i volontari hanno diritto a vitto e alloggio (a questo proposito, è previsto un contributo anche per gli enti organizzatori). I percorsi di servizio civile all'estero però sono una esigua minoranza, l'1,5% di tutti i posti disponibili: l'anno scorso, sui 47mila del bando 2017, solo 700 erano all'estero; il dato di quest’anno è 868.Per partecipare alle selezioni occorre andare sul sito e scaricare la domanda di partecipazione da inviare direttamente – via e-mail, a mezzo posta o via pec – all’ente presso cui si desidera svolgere il servizio civile, allegando la documentazione richiesta. Sempre sullo stesso sito si possono consultare gli elenchi dei progetti per cui sono aperte le selezioni e quelli degli enti organizzatori. Gli elenchi si trovano alle sezioni «Scegli il tuo progetto in Italia» o «Scegli il tuo progetto all’estero» – dalle quali si può accedere alle homepage dei siti degli enti organizzatori – oppure partendo dalle pagine web rispettivamente dedicate al bando nazionale e ai bandi regionali. Occorre prestare attenzione alle modalità con cui va presentata la domanda, dettagliatamente spiegate nel bando e chiarite anche dalle Faq. Soprattutto, bisogna tenere presente il fatto che «è possibile presentare una sola domanda di partecipazione per un unico progetto di servizio civile» e che, come si legge nel bando, «la presentazione di più domande comporta l’esclusione dalla partecipazione a tutti i progetti». Per quanto riguarda gli enti, è Arci Servizio Civile quello a offrire più progetti (335 a livello nazionale, con  2.403 volontari coinvolti) in Italia. Tra gli altri “a tre cifre”, si segnalano Confederazione Nazionale Misericordie d’Italia, con 152 progetti e 2.624 posti, Amesci (109 progetti e 1.165 posti), Lega Nazionale Delle Cooperative e Mutue (127 progetti e 752 posti) e Caritas Italiana (191 progetti, 1.373 posti). Per i progetti all’estero, invece, spicca Volontari nel Mondo – Focsiv, con 32 progetti e 370 posti.Anche per quest’anno la regione che offre più opportunità è la Sicilia, il cui bando mette in palio 3.589 percorsi di servizio civile per un totale di 339 progetti. Bene anche la Campania, alla ricerca di 3.524 giovani. Il terzo gradino del podio spetta Lombardia con 296 progetti che coinvolgeranno 3.156 volontari. Tra le altre regioni popolose si segnala il Lazio con 2.615 volontari, di cui 281 all’interno di Roma Capitale. 1.331 sono i giovani che verranno reclutati dal bando della Puglia, 1.168 quelli dal Piemonte. Da segnalare il dato interessante della Sardegna che, nonostante la popolazione non elevatissima, ha pubblicato un bando per ricercare 932 volontari. Il dato è significativo soprattutto se rapportato alla popolazione tra i 18 e 28 residente nell’isola, che si ferma a 173.351: in Toscana il numero di opportunità è praticamente uguale (980) ma i ragazzi della stessa fascia di età sono oltre il doppio (370.497)!Leggendo questi dati si conferma la tendenza degli ultimi anni che vede la richiesta maggiore di volontari – nonché di candidature – provenire dal Sud e dalle isole. Ad esempio, nel 2016 – secondo gli ultimi disponibili sul sito – il 45% delle candidature si è concentrato proprio nel Sud e nelle isole, mentre il Nord e il Centro avevano registrato entrambi un dato attorno al 27,50%.Novità di quest’anno, introdotta con una riforma del 2017, sono i 151 progetti sperimentali, che si rivolgono a 1.236 volontari. La loro caratteristica è poter includere programmi che per certi aspetti si differenziano dal servizio civile tradizionale. Il primo di questi aspetti è la flessibilità della durata del progetto, che può essere anche tra gli 8 ed i 12 mesi. Vi può anche essere la diversa modulazione dell’orario di servizio, che può essere anche di 25 ore a settimana – ossia 5 ore inferiori al minimo per il servizio civile ordinario – o la transnazionalità, nel senso che il percorso, anziché essere svolto tutto nello stesso posto, può avere luogo per la maggior parte del tempo in Italia e per un periodo di durata variabile tra uno e tre mesi in un altro paese dell’Unione Europea (a questo periodo si applica lo stesso regime economico del servizio civile all’estero). Alcuni di questi progetti sperimentali prevedono poi un periodo di tutoraggio da uno a tre mesi mesi – svolto da tutor selezionati a monte sulla base dei curriculum – finalizzato a facilitare l’accesso al mercato del lavoro dei volontari o, più genericamente, «misure che favoriscono la partecipazione dei giovani con minori opportunità» (ossia i Neet). Il che conferma il ruolo del Servizio Civile come strumento di ingresso dei giovani nel mercato del lavoro.Tra gli enti che propongono progetti sperimentali in Italia si segnalano Associazione ExpoItaly, che si rivolge a 95 volontari, Confcooperative e l’università di Bari alla ricerca, rispettivamente, di 75 e 68 volontari. Il primato spetta però all’Associazione Croce Rossa Italiana, pronta ad accogliere 96 ragazzi. Il solo soggetto a realizzare dei progetti – quattro – sperimentali per l’estero è CESC Project - Coordinamento Enti di Servizio Civile, il cui bando si rivolge a 32 volontari. In questo caso i bandi si rivolgono a lavoratori svantaggiati – ossia disoccupati da almeno sei mesi, di età tra i 15 e i 24 anni,  senza diploma o , soggetti appartententi a una minoranza etnica di uno Stato Ue – persone non inserite in percorsi di istruzione o formazione, iscritte al Programma Operativo Nazionale «Iniziativa Occupazione Giovani», soggeti provenienti da case famiglia e simili, affido familiare e da strutture per minori stranieri non accompagnati, residenti in Calabria, Campania, Puglia, Sicilia (le Regioni “Obiettivo Convergenza”), soggetti a basso reddito.Per qualunque altra informazione sul servizio civile e sugli altri progetti del relativo dipartimento della presidenza del consiglio è possibile visitare il sito o rivolgersi all’Urp al numero 06 67792600.Giulio Monga

“Chiamati al Futuro”: un bando per valorizzare i giovani, ma inquadramento e compensi non sono precisati

Fino al prossimo giovedì 20 settembre è possibile candidarsi per partecipare a “Chiamati al Futuro”, un progetto organizzato e promosso da Cnca, acronimo che sta per Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza. Si tratta di un’associazione di promozione sociale con sede a Roma, nata negli anni Ottanta e presente in diciassette regioni, con una rete di circa 250 affiliate – tra cooperative sociali, associazioni di promozione sociale, associazioni di volontariato ed enti religiosi – per le quali costituisce un raccordo a livello centrale.  L'organico di Cnca è formato da otto persone tra dipendenti e consulenti esterni – a cui possono essere aggiunti alcuni stagisti per specifici progetti – che si occupano soprattutto di aspetti amministrativi. La rete  associata, invece, è assai ampia e formata da circa 7mila lavoratori nelle organizzazioni che fanno parte del Coordinamento, più 4.500 volontari (secondo gli ultimi dati, rilevati nel 2012). “Chiamati al Futuro” è un’iniziativa che coinvolge alcune di queste organizzazioni, proponendosi di valorizzare le idee dei giovani che saranno coinvolti integrandoli in realtà già attive sul territorio e offrendo loro corsi di formazione su temi artistici, tecnologici, socio-educativi, urbanistico-architettonici, storici e culturali.Il progetto ha un budget totale di 250mila euro, di cui 200mila provengono dal Fondo per le politiche giovanili, gestito dal dipartimento Dipartimento della Gioventù e del Servizio civile nazionale della Presidenza del Consiglio. Gli altri 50mila euro sono messi direttamente da Cnca e dagli altri partner, ossia la Federazione Italiana Cemea (“Centri di Esercitazione ai Metodi dell’Educazione Attiva”), LiberaMente Cemea Taranto e Cemea della Sardegna Cooperativa Sociale. I finanziamenti sono stati ottenuti rispondendo ad un avviso pubblico del governo pubblicato nel 2015. Il progetto si rivolge a giovani tra i 18 e i 35 anni e si propone di creare un effetto leva positivo per le attività che Cnca porta già avanti sul territorio.  L’obiettivo, infatti, è quello di coinvolgere più di 800 ragazzi – soprattutto Neet e altri soggetti con fragilità – oltre a quelli (il numero esatto non è precisato) che saranno selezionati con il bando.Nel presentare la propria candidatura bisogna indicare a quale dei progetti delle realtà coinvolte nell’iniziativa si desidera portare il proprio contributo. Per ciascun progetto saranno selezionati cinque ragazzi, di cui quattro inquadrati come «referenti delle azioni locali» e uno come «responsabile delle azioni locali», che avrà delle responsabilità maggiori e dovrà coordinare tutto il lavoro realizzato assieme ai referenti. In totale, quindi, saranno 40 i ragazzi selezionati. «Nell’ambito di questa iniziativa, i referenti e i responsabili di zona saranno una sorta di raccordo tra la federazione centrale e le varie realtà locali» dice alla Repubblica degli Stagisti Massimo Ruggeri, uno dei responsabili di “Chiamati al Futuro”: «L’idea è che essi riescano a portare il loro sapere sul territorio, valorizzando con il loro talento attività ed iniziative già avviate e facendo sì che altri ragazzi si avvicinino alle nostre realtà».Sia per i referenti sia per i responsabili locali è previsto un contratto di collaborazione con Cnca, valido fino a fine progetto, ossia aprile 2020. Ai primi è riconosciuto un compenso omnicomprensivo di circa 1.000 euro: una somma molto modesta, soprattutto considerato il fatto che l’iniziativa partirà a ottobre e si concluderà nell’aprile 2020. È sostanzialmente un contributo necessario a sostenere tutte le spese necessarie per partecipare agli incontri di formazione. I responsabili locali, invece, riceveranno il quadruplo: 4mila euro. Stando a quanto si legge sul bando, inoltre, il compenso in questione potrà essere erogato solo alla fine del progetto con i ragazzi – sia referenti che responsabili – che sarebbero costretti ad anticipare le spese di tasca propria. «Sappiamo che, ad esempio, per un ragazzo che viene dalla Sardegna raggiungere Roma o una delle altre sedi in cui si svolgeranno i corsi di formazione potrebbe essere proibitivo dal punto di vista economico» ammette Ruggeri: «Stiamo studiando delle formule per erogare il contributo in più tranche, senza dover aspettare la fine del programma, anche se dipende tutto dalle modalità di rendicontazione utilizzate a livello ministeriale». Al momento non si ancora neanche la disponibilità oraria richiesta ai ragazzi, che con tutta probabilità varierà a seconda dei progetti territoriali. Ciò che è certo è che ai responsabili è chiesto un impegno maggiore, sia a livello di tempo che di mansioni, in quanto dovranno coordinare a livello organizzativo le attività di tutto il gruppo selezionato.Tuttavia oltre alla somma prevista dal bando – come spiegato sia da Ruggeri sia dal direttore, Riccardo Poli – i giovani selezionati potrebbero ricevere un compenso anche dalle organizzazioni presso cui, effettivamente, svolgeranno il proprio lavoro. A seconda dei casi, infatti, essi potrebbero essere inquadrati come dipendenti a tempo determinato o come collaboratori. Ma il problema è che c'è anche l'opzione di inquadrarli come semplici volontari e in questo caso il rischio è che non ci sia alcun riconoscimento economico oltre alla possibilità di usufruire delle strutture degli organizzatori: perché, obiettivamente, chi mai farebbe un contratto a tempo determinato (con tutti gli oneri di retribuzione, contribuzione, tasse...) quando può avere la stessa persona come volontario e completamente gratis, senza avere alcun onere nei suoi confronti? La Repubblica degli Stagisti ha posto a Cnca la questione: «Al momento questi aspetti sono ancora in via di definizione, ma contiamo di avere un quadro completo entro ottobre» è la risposta di Ruggeri.Stessa domanda anche a Mauro Turrisi, che segue “Chiamati al Futuro” per conto dell’ente Cemea Taranto. «I ragazzi da noi selezionati contribuiranno allo sviluppo del progetto “Cafè Ludico”, già attivo nella promozione del gioco come valore sociale nel territorio di Martina Franca» risponde Turrisi: «La formula migliore riteniamo sia quella del contratto di collaborazione, anche se al momento non sappiamo con certezza se potremmo garantire ai ragazzi un compenso economico. Il nostro obiettivo, comunque, è quello di proseguire la collaborazione con i giovani talenti selezionati anche al termine de “Chiamati al Futuro”, ricorrendo a contratti a tempo indeterminato, determinato o di collaborazione». Almeno una volta tanto non si parla di tirocini, ma non è detto che sia una buona notizia: al di là dei buoni propositi per il futuro, resta il fatto che dal punto di vista di compensi e inquadramento, la situazione è ancora un cantiere aperto. «Purtroppo le risorse messe a disposizione dal governo erano molto poche e abbiamo dovuto lavorare di fantasia cercando di coniugare il più possibile le esigenze dei ragazzi con quelle della federazione e con quelle delle varie entità locali coinvolte» si giustifica Ruggeri «L’auspicio è che, grazie a risorse diverse che possono derivare da finanziamenti locali o da donazioni, le organizzazioni del territorio possano garantire un corrispettivo adeguato ai ragazzi e, soprattutto, possano instaurare con essi delle collaborazioni di lunga durata».“Chiamati al Futuro” ha avuto una vita piuttosto accidentata: nonostante l’avviso pubblico del governo a cui ha risposto Cnca fosse – come detto – del 2015, il via libero definitivo della Presidenza del consiglio è arrivato soltanto nella primavera 2018. Il ritardo, causato da una serie di intoppi e rallentamenti burocratici che hanno interessato il Dipartimento della presidenza del consiglio, è da considerarsi tra i motivi per cui la questione dei compensi è ancora in via di definizione.In via di definizione sono anche le sedi in cui si svolgeranno gli incontri di formazione. Intanto almeno si sa quali sono le cooperative sociali affiliate a Cnca coinvolte, che si trovano a Brescia (Il Calabrone Cooperativa Sociale), nell’Alta Padovana (Maranatha), a Rimini (Il Millepiedi), a Bologna (Open Group) a Conversano, in provincia di Bari (Itaca) e a Bassano del Grappa, in provincia di Vicenza (Adelante). Altri territori interessati dalle attività del progetto saranno le provincie di Taranto e Cagliari, dove operano i partner di Cnca LiberaMente Cemea Taranto e Cemea della Sardegna Cooperativa Sociale.Per sottoporre la propria candidatura occorre avere tra i 18 e i 35 anni e presentare la documentazione indicata nel bando: domanda di partecipazione compilata, cv, copia di documento d’identità, breve testo in cui si motiva la scelta di aderire ad uno specifico progetto. La documentazione può essere inviata via e-mail all’indirizzo ufficionazionale [chiocciola] cnca.it –  con richiesta di conferma lettura e con oggetto «Avviso Chiamati al futuro» – a mano o per posta alla sede romana di Cnca, in via S. Maria Maggiore 148; l’ufficio è aperto da lunedì al venerdì dalle 9 alle 17. Gli organizzatori effettueranno le selezioni e individueranno i responsabili e i referenti locali sulla base della documentazione ricevuta. La graduatoria finale sarà pubblicata entro sabato 29 settembre sul sito ufficiale di Cnca.Giulio Monga