Categoria: Approfondimenti

«Perché tanti insegnanti accettano di lavorare gratis nella scuola? Per il punteggio»

Insegnanti che per un intero anno scolastico vanno a scuola, svolgono le loro lezioni ma alla fine del mese non ricevono alcun bonifico. O, peggio, dopo averlo ricevuto sono costretti a prelevare la somma e a ridarla in contanti negli istituti privati in cui hanno svolto le lezioni.Il malcostume delle false buste paga non sembra fermarsi. Continua a verificarsi, soprattutto al Sud, nelle scuole primarie e in particolare in quelle confessionali. «Al nord pagano, di meno, ma pagano; e alla fine si prende uno stipendio, magari facendo 36 ore invece delle 24 previste. Però lì sono più frequenti anomalie nel contesto del titolo di studio» spiega Paolo Latella, membro del direttivo nazionale Unicobas e segretario regionale per la Lombardia alla Repubblica degli Stagisti. «A Bologna, per esempio, qualche anno fa nelle scuole confessionali c’erano persone che non avevano titolo per insegnare e invece gestivano le classi delle scuole primarie» aggiunge il segretario regionale, che nel 2014 aveva pubblicato un dossier, diventato poi un libro, in cui denunciava apertamente questo problema.Il suo racconto, però, non si ferma qui: come dimenticare lo scandalo a Lesina in Puglia, dove una vigilessa stampava titoli e lauree false? Titoli fasulli grazie ai quali «gente con la terza media si è trovata a insegnare in tutta Italia». E non conoscendo la situazione drammatica a cui sono sottoposti questi insegnanti si è poi lamentata per l’assenza di guadagno. «È il caso di una signora che in precedenza faceva la donna delle pulizie e si è lamentata perché per pulire guadagnava 15 euro l’ora mentre presentando il titolo da laureata in una scuola paritaria alla fine riceveva solo il punteggio»Ma perché in tanti accettano di lavorare gratis e sottostare alle minacce dei propri dirigenti? «Il problema è sempre il punteggio. A breve dovrebbe partire il nuovo sistema di reclutamento ma per le supplenze si farà comunque riferimento alle graduatorie di istituto e lì il punteggio serve ancora» spiega Gianluca Vacca, deputato del Movimento 5 Stelle, membro alla Camera dei deputati della VII commissione, Cultura scienza e istruzione.  «Non solo, il punteggio delle paritarie è lo stesso per la scuola pubblica. Ecco perché come M5S abbiamo proprio qualche settimana fa votato il nostro programma scuola per le prossime elezioni e uno dei punti messi al voto è stata la revisione della parità scolastica. Bisognerà chiarire se non convenga eliminare o ridurre il punteggio dato a chi insegna in queste scuole».Si insegna gratis, quindi, per fare punteggio, aspirare poi a qualche supplenza in scuole statali ed entrare nel giro degli incarichi. C’è però una novità, introdotta dalla legge 107, che non è molto conosciuta. «La Buona scuola ha in parte bloccato tutto questo. Se, infatti, entro tre anni di supplenze in scuole pubbliche con incarichi annuali non riesci a vincere il concorso ordinario, allora non puoi più insegnare nella scuola. Quindi resterai in terza fascia per le supplenze, ma non otterrai più l’incarico annuale» spiega Latella: «Già dal 2019 ci saranno i primi verdetti, e gente che ha insegnato per anni come precario nel pubblico o nel privato rimarrà senza lavoro». Il sindacalista spiega meglio la questione: «Fatta la riforma, pendevano tantissimi ricorsi al Tar o al giudice del lavoro perché i nuovi docenti di ruolo chiedevano la ricostruzione economica per tutti gli anni di precariato. C’era stata, infatti, una sentenza della Corte europea che diceva che l’Italia era in difetto perché faceva lavorare illegalmente da molti anni i precari della scuola. E allora il ministero, per salvaguardare se stesso, ha messo questo vincolo di tre anni per bloccare i ricorsi. Non tutti però sono informati sul tema e continuano a fare le supplentine».Resta da chiedersi se esista un modo per eliminare questa prassi delle supplenze non retribuite. Secondo Vacca e Latella l’unica soluzione è quella di verificare puntualmente i pagamenti. Non solo, però, sui conti correnti dei docenti, bensì «facendo un controllo incrociato tra i dipendenti della scuola e il bilancio dell’azienda che fornisce il servizio di istruzione. Una scuola paritaria ha dei bilanci» spiega il sindacalista Unicobas «e quei bilanci devono essere pubblici. A quel punto basta fare il controllo sulle entrate delle rette degli studenti e le uscite per pagare gli insegnanti. E quei versamenti devono sì apparire sui conti correnti dei docenti ma non deve esserci un prelievo per la stessa cifra, come ora accade. Il gioco ora è questo: firmano lettere di licenziamento senza data, gli fanno il versamento e poi le scuole pretendono di riavere in contanti la stessa cifra».Certo, fare i controlli non è facile anche perché «dove ci sono finanziamenti pubblici e scuole che fanno business, dietro c’è tutta la malavita organizzata. E ci sono ispettori che in alcune situazioni territoriali hanno anche paura di andare a fare i controlli. Per far capire il business che c’è dietro, basta questo dato: solo a Caserta ci sono 404 scuole paritarie a fronte di 210 pubbliche».Un'altra difficoltà è che il dato completo dei docenti non retribuiti nelle scuole paritarie non esiste. «La stima è difficile» dice Vacca: «Non c’è una contezza esatta dei numeri. L’anno scorso ho raccolto le segnalazioni di abusi in Abruzzo e molti docenti mi hanno raccontato dei contratti falsi, delle ore inferiori dichiarate rispetto a quelle fatte, dell’assenza di pagamento. In totale avrò ricevuto una 40ina di segnalazioni. Ma per avere un numero esatto probabilmente bisognerà aspettare i due anni di piena operatività della legge».Il ministero della pubblica istruzione non ha un dato più recente di quello legato al report delle ispezioni svolte dal giugno 2016, dove peraltro non si fa menzione di eventuali problemi nei pagamenti. Dopo quella data nessun nuovo monitoraggio. La Repubblica degli Stagisti ha provato a reperire questi dati contattando diverse direzioni territoriali del lavoro, purtroppo senza successo. Resta quindi sullo sfondo una domanda: come sia possibile arginare il fenomeno e riportare tutto nella legalità se non sono conosciuti nemmeno i numeri del problema. Marianna Lepore

Fab lab, l’officina dove il futuro (anche professionale) si plasma in 3D

Il futuro del mondo del lavoro è, e sempre più sarà, nel digitale. Già da qualche anno, infatti, nelle classifiche dei mestieri più ricercati, in Italia e non solo, svettano figure come il programmatore, lo sviluppatore, il data scientist e il digital designer. Ma le competenze digitali sono davvero così necessarie? La risposta è sì. Se per ora alcuni di questi mestieri rimangono emergenti e rari, ancora separati dal normale universo delle discipline professionali, inevitabilmente le nuove tecnologie si inseriranno sempre più in ogni contesto, sia lavorativo che di normale vita quotidiana. E la loro padronanza, che oggi rappresenta semplicemente una carta in più da giocare a livello lavorativo, è destinata a diventare la normalità. Personalità come Alessandra Stella, direttore scientifico del Parco Tecnologico Padano a Lodi, hanno rimarcato la necessità universale di imparare il coding e la programmazione, non soltanto per chi intende lavorare in questo campo. Mentre Carlo Pietrassanta, AD di Microsoft Italia, sostiene che le aziende non dovrebbero limitarsi ad assumere giovani, ma affidare loro la primaria responsabilità di digitalizzarle, inserendoli nel board direttivo e rendendoli protagonisti del cambiamento.Un ideale certamente positivo, ma ancora si fatica a ingranare: basti pensare a episodi come quello avvenuto soltanto qualche tempo fa all’università Statale di Milano, dove era sorta una polemica per l’intenzione del rettorato di introdurre il numero chiuso in diverse facoltà, ad esclusione dei soli dipartimenti di Matematica, Fisica, Giurisprudenza e Geologia. La ragione? Il numero di immatricolazioni a corsi come Filosofia, Storia e Beni Culturali continua a crescere in percentuali a doppia cifra, il tasso di abbandono dopo il primo anno rimane alto e l’inoccupazione dei neo-laureati a tre anni di conseguimento dal titolo non è meno preoccupante.Che fare per invertire il trend? Diverse sono le proposte destinate ai giovani per quantomeno iniziare ad avvicinarsi ai temi della tecnologia e del digitale. A Milano, dopo l’esperienza di MiGeneration Lab, programma di formazione digitale gratuito destinato a giovani Neet, diversi fab lab hanno proseguito le attività di formazione, offrendo corsi su diversi temi aperti a tutti. Questi laboratori di fabbricazione digitale rappresentano un buon punto di partenza, perché il loro carattere fortemente locale e ad alto concentrato di tecnologia è ideale per imparare ad utilizzare software e hardware e arricchire il curriculum di competenze tecniche. Per saperne di più la Repubblica degli Stagisti ha parlato con Yatta!, Opendot Lab e WeMake della rilevanza che corsi di coding, fashion design, IoT, realtà virtuale e così via ricoprono per fornire ai giovani le competenze necessarie per competere nel mondo del lavoro di domani.Nonostante il livello di scolarizzazione di coloro che partecipano alle formazioni dei fab lab sia tendenzialmente alto, la categoria sociale che descrive meglio i frequentatori di questi spazi è quella dei “curiosi”. Si può infatti partire anche da zero e, spesso e volentieri, per intraprendere un corso è sufficiente possedere un po’ di dimestichezza con il pc. «La trasversalità è fondamentale» conferma Enrico Bassi, design engineer e co-fondatore di OpenDot, riferendosi a quante persone diverse un makerspace può arrivare a coinvolgere. Perché, in fondo, il punto di forza del fab lab è proprio l’accessibilità della tecnologia. «Non vuol dire che non si fa fatica ad impararla, ma che è semplificata il più possibile. Quando impari a fare qualcosa che non credevi di poter fare, qualsiasi sia il livello di complessità, questo ti dà fiducia e ti aiuta a tirare fuori il tuo potenziale». Quello della capability, ovvero la consapevolezza e l'accrescimento delle proprie capacità, viene riconosciuto da tutti come il maggior valore che le attività del fab lab sanno trasmettere. Bassi racconta che, grazie a questi stimoli, qualcuno è anche riuscito a trovare lavoro: «una ragazza, per esempio, aveva la passione per gli orecchini e ha capito che poteva costruirseli utilizzando una stampante 3D piuttosto che costruirli a mano, trovando così una serie di soluzioni che hanno reso i suoi prodotti più competitivi; un altro aveva immaginato un accessorio per la bicicletta, un tavolino da picnic per le gite fuori porta montato direttamente sulla bici; mentre altre ragazze hanno iniziato insieme a Save the Children attività rieducative per bambini con dei pupazzi costruiti con una ricamatrice a controllo numerico».Anche per chi non ha svolto un percorso di studi strettamente legato alle nuove tecnologie, quindi, un corso in un fab lab può contribuire allo sviluppo di nuove competenze, scoperte ed energie. «Lo scopo dell’associazione è quello di fornire degli strumenti per lavorare» dice Marco Lanza, che si occupa di coordinare Yatta! e la sua parte di laboratorio. «La formazione è imprescindibile dall’aspetto tecnico, e anche l’aspetto motivazionale è centrale nel far scattare la scintilla dell’interesse e della passione per portare avanti la conoscenza e l’applicazione delle nuove tecnologie». I fab lab sono luoghi dove si incontrano le professionalità più diverse, ma spesso sono popolati anche da studenti. In particolare, alcuni arrivano dall’università proprio per incrementare certi tipi di competenze che in aula non possono apprendere. «Gli atenei ti forniscono un titolo ad esempio da fashion designer, senza preoccuparsi minimamente del fatto che poi tu in realtà non sai progettare digitalmente un cartamodello» puntualizza Cristina Martellosio, responsabile del settore educational e delle politiche giovanili di WeMake. «All’interno delle facoltà c’è molta, troppa teoria, e gli studenti arrivano qui per imparare a fare. L’apprendimento, in fondo, passa soprattutto attraverso l’esperienza. E così piuttosto che presentare un curriculum è quasi più importante mostrare un book dei propri progetti». Dimostrando così che le competenze sono acquisite, non solo sulla carta. Se è vero che, intraprendendo certi corsi, le persone cercano la professionalizzazione e modi per affinare le proprie competenze, come per la modellazione 3D oppure il digital fashion o la robotica, altri, come quello sui wearable (i dispositivi indossabili come smartwatch e action cam) sono scelti semplicemente per curiosare un po’. Nel mondo del digitale, nessuna competenza viene appresa a vuoto.In un fab lab c’è quindi anche molta libertà e occasione di sperimentare. «Più che sulle tecnologie, noi lavoriamo sulla forma mentis» afferma di nuovo Bassi. «In una fase storica dettata dal cambiamento, nessuno ti può dire come affrontarlo nel modo migliore. Non ha senso focalizzarsi tanto sulle tecnologie in sé, perché oggi, ad esempio, le stampanti 3D di cinque anni fa sono roba da antiquariato. È un po’ come costruire l’aereo mentre ci stai viaggiando, sono queste le skill che servono per sopravvivere nel mondo di oggi. Ciò che uno fa in un fab lab è imparare ad imparare». Per questo la filosofia di fondo è quella di valorizzare anche gli sbagli. «Anche quando i progetti dei ragazzi sono troppo ambiziosi, non gli diremo mai che non potranno farcela», dice Martellosio. «Perché noi crediamo molto nell’errore. E anche se uno non riesce a trovare la soluzione scattano comunque motivazione, interesse, incremento delle competenze digitali e quindi una serie di competenze trasversali».Frequentare un fab lab costituisce dunque un’esperienza positiva per tutti, non solo per chi già vive di pane e tecnologia. In un mondo in continuo mutamento, acquisire le basi per cavalcarlo non potrà che essere di aiuto. «La fabbricazione digitale oggi è esattamente quello che era, negli anni ‘90, imparare ad usare il computer» conclude Bassi. «In futuro sempre più attività, anche le più creative, artigianali e manuali, avranno una componente tecnologica. Se uno fa il ceramista e ad un certo punto inizia a progettare le proprie stampe con una stampante 3D, scoprendo così che può risparmiare considerevolmente, piuttosto che mandarle allo studio che gliele ha prodotte fino a quel momento, non smette di essere ceramista per diventare un modellatore 3D, ma la tecnologia lo aiuta nel suo lavoro. Le tecnologie sono abilitanti ad altre cose, non sono fini a se stesse».Insomma, accrescere le proprie competenze digitali non significa diventare programmatori o scienziati dei dati. Ma in vista dell’uso sempre più quotidiano che ne faremo, sul lavoro e non solo, è proprio il caso che tutti iniziamo a masticare un po’ più di tecnologia. Esperienze come quelle nei fab lab suggeriscono che la nostra è un’epoca di grandi opportunità per chiunque abbia voglia di mettersi alla scoperta di queste innovazioni, fosse anche solo per hobby o per curiosità. I vantaggi vanno ben oltre il solo punto di vista tecnico, e le possibilità sono infinite, esattamente come le combinazioni di una macchina a controllo numerico. Il programma (di vita) di ciascuno, invece, non ha il livello di predeterminazione di un software, ma non si può certo dire che questo sia un male.Irene Dominioni

Quarto anno di superiori all'estero fra luci e ombre, il parere dei dirigenti scolastici

In un paese dove la “fuga dei cervelli” prosegue senza soluzione di continuità e la possibilità di aprirsi a nuovi orizzonti già durante gli studi superiori fa gola a sempre più ragazzi, il sistema scolastico si divide fra aperture e resistenze, buone pratiche e ostacoli tecnici.È quanto emerso dal Rapporto 2016 dell’Osservatorio Nazionale sull’internazionalizzazione delle scuole e la mobilità studentesca della Fondazione Intercultura, basato su un campione di 400 dirigenti scolastici delle scuole secondarie superiori. Se l’indice di internazionalizzazione delle scuole è rimasto costante rispetto all’ultima rilevazione del 2014, è invece diminuita di 5 punti la percentuale di scuole che hanno aderito a progetti internazionali (63%). In particolare, hanno aderito ad almeno un progetto internazionale il 70% dei licei e poco più del 50% degli istituti tecnici e professionali.Perché questa battuta d’arresto nella spinta all’internazionalizzazione? I motivi principali, secondo i dirigenti scolastici intervistati, sono sopratutto tre: la carenza di budget, la mancanza di interesse degli alunni, l’inadeguatezza dei programmi proposti rispetto al profilo dell’istituto scolastico, soprattutto per quanto riguarda tecnici e professionali. E ancora, un sesto dei dirigenti hanno attribuito la “colpa” alla scarsa adesione da parte degli insegnanti e alle procedure complicate per partecipare o alla mancata accettazione della loro richiesta di adesione. Altri fattori critici sono la mancata proposta di adesione, l’insufficienza di informazioni, le problematiche organizzative e la resistenza da parte delle famiglie.«La diffidenza è spesso dovuta a difficoltà organizzative, come il reinserimento di chi ritorna o l’ospitalità degli studenti stranieri, con la necessità di fare orari personalizzati e di costruire attività specifiche», spiega alla Repubblica degli Stagisti Grazia Fassorra, responsabile Formazione dell’Associazione nazionale dirigenti e alte professionalità della scuola (Anp). Limiti che rischiano di privare i ragazzi di «un’esperienza estremamente formativa, in cui mettersi alla prova con coraggio in un ambiente totalmente estraneo, di cui spesso non conoscono la lingua, e acquisire competenze avanzate che in un itinerario normale non è possibile acquisire», aggiunge Fassorra.«Il sistema scolastico italiano è molto rigido e qualsiasi elemento di novità può destabilizzare. Vedersi mancare un alunno da tre mesi a un anno può comportare un elemento di disturbo» aggiunge Marina Imperato, dirigente scolastico del liceo scientifico statale “Leon Battista Alberti” di Napoli. Il suo istituto è un esempio virtuoso di internazionalizzazione e interculturalità: «Sono in questa scuola da 7 anni e ho raccolto un’eredità favorevole, che ho implementato. La mia scuola è impegnata sul versante interculturale a 360 gradi. Basti pensare al corso di filosofia comparata occidentale/islamica attivato con il supporto dell’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”» racconta.Il freno all’internazionalizzazione è spesso rappresentato dai docenti, probabilmente anche perché quelli da profilo internazionale, ovvero con almeno un’esperienza internazionale (collaborazioni con docenti stranieri, insegnamento all’estero, corsi di lingua o di aggiornamento etc.) sono ancora troppo pochi: solo uno su cinque. E così talvolta agli studenti capita di incontrare l’ostruzionismo del corpo docenti, sia nel pre partenza che al ritorno, nella eventuale verifica dell’idoneità all’anno successivo, a discrezione delle singole scuole. «Da noi non è previsto alcun esame» spiega Marina Imperato «perché ci teniamo al risconto valutativo da parte delle scuole ospitanti e perché i nostri alunni si mantengono in costante contatto con la classe e con i docenti».Una nota positiva è che, pur interessando meno scuole rispetto ad altri paesi europei, in Italia i programmi internazionali vantano una percentuale maggiore di studenti coinvolti, pari al 72%, come la Francia, e inferiore solo a quella della Germania (84%). Un dato che fa ben sperare sulla crescita del fenomeno dell’internazionalizzazione, a cui oggi – secondo Fassorra – va data un’accezione più ampia, «perché nelle scuole stanno arrivando sempre più studenti stranieri e, se le scuole avranno già fatto esperienza, avranno imparato anche l’approccio». Che sia una delle chiavi per l’integrazione?Rossella Nocca

Docenti non pagati negli istituti paritari, la soluzione? «Assumere almeno mille ispettori ministeriali»

Andare a lavoro tutte le mattine, svolgere le proprie ore, tornare a casa e sapere che tutta la fatica prestata sarà poi ripagata alla fine del mese con lo stipendio. Sembrerà una banalità a quelli che da sempre sono stati ripagati per il proprio lavoro. Non lo è per quanti, invece, alla fine del mese ricevono a stento i contributi. Non è il caso solo di freelance, giornalisti, o giovani alle prime armi con il mondo del lavoro. Ma è quello che capita, in alcuni casi da molti anni, a centinaia di docenti che insegnano nelle scuole paritarie. E che il “ricatto” del lavoro non pagato lo accettano per fare l’agognato punteggio e riuscire poi a superare qualcuno nelle graduatorie di istituto ed essere quindi chiamati per qualche supplenza annuale.Una storia vecchia, già descritta nel 2014 da Paolo Latella, membro del direttivo nazionale Unicobas e segretario regionale per la Lombardia, in un dossier, diventato poi un libro, mandato ai ministri Carrozza e Giannini, che ad oggi non ha avuto ancora alcun riscontro. All’epoca Latella raccolse oltre 500 storie di illegalità dietro gli istituti parificati. Da allora sono passati tre anni ma la situazione non è migliorata. Anzi, «è peggiorata. Anche perché il numero di iscritti nelle paritarie, sia pubbliche sia private, è aumentato. E quindi è aumentato anche il business. E poi non esistono controlli tanto che a tutt’oggi non c’è una mappatura reale a livello regionale in tutta Italia con i controlli effettuati», spiega il segretario regionale Unicobas alla Repubblica degli Stagisti. «L’anno scorso c’è stato un comunicato stampa che diceva che erano state riscontrate una percentuale di scuole non in regola, ma non si capisce dal comunicato qual è la scuola. Addirittura in Sicilia non sappiamo nemmeno quante siano state controllate!».Il riferimento di Latella è al comunicato stampa del ministero dell’istruzione del novembre 2016, in cui si raccontavano i risultati delle 288 ispezioni effettuate nei primi sei mesi dell’anno che avevano portato a 27 revoche della parità. Con picchi di otto chiusure in Abruzzo, quattro in Lombardia e tre in Campania e Basilicata e l’assenza di qualsiasi dato per la Sicilia. Un numero che a prima vista potrebbe far pensare a maggiori violazioni al centro nord piuttosto che al sud, ma che Latella semplicemente motiva dicendo che «in Lombardia ci sono ispettori serissimi che non lasciano passare nulla». Il vero punto è che gli ispettori ministeriali non si occupano di controllare la regolarità dei contratti di lavoro e quindi l’eventuale mancanza di retribuzione per i docenti. «Quello è un discorso che dovrebbe fare la guardia di finanza o il ministero del lavoro quando l’ispettore trova e segnala delle anomalie».Ma per gli ispettori è comunque un compito arduo visto che sono molte altre le cose che devono verificare. E poi perché, anche se il loro numero è passato da 56 a 104 negli ultimi tre anni, sono sempre pochissimi: «Basti pensare che in Francia ci sono 600 ispettori in una singola città. I 104 in Italia non bastano per verificare tutto: i loro compiti spaziano dall’aiuto delle risorse economiche statali fino al monitoraggio e valutazione fino alla verifica dei requisiti delle scuole paritarie. Perciò è fortemente insufficiente e andrebbe rivisto», spiega Gianluca Vacca, deputato del Movimento 5 Stelle, membro alla Camera dei deputati della commissione Istruzione.Ma anche sui dati pubblici dei controlli al momento disponibili, fermi al giugno 2016, non c’è nessuna specifica sulle violazioni. Non è dato sapere, quindi, se c’era qualcosa riguardo ai pagamenti degli insegnanti. «È tutto nascosto. Poi siamo già quasi in periodo pre elezioni politiche: figuriamoci se vanno a colpire le scuole che sono portatrici di bacini di voti. Ricordiamolo: le paritarie hanno contributi dallo Stato e dalle regioni e dai comuni. Perché dare 20-30mila euro alle strutture confessionali del territorio? Per tradurli in voti elettorali». Non c’è quindi nessuno, e Latella ci tiene a sottolinearlo più volte, che raccolga questi numeri.Nel frattempo la politica non è stata totalmente inerme. Dalla consegna del libro di denuncia di Latella nel 2014 ad oggi il Movimento 5 stelle si è occupato a più riprese del problema dei docenti non retribuiti nelle paritarie. L’ha fatto presentando nel giugno 2014 una prima interrogazione a risposta immediata all’allora ministra dell’istruzione, Stefania Giannini. Interrogazione in cui il deputato Silvia Chimienti proprio sul tema delle scuole paritarie e del dossier del professor Latella, che raccoglieva oltre 500 testimonianze di docenti non pagati, chiedeva come mai nessuno «abbia mosso un dito per approfondire la vicenda» e «quali iniziative il ministero intende adottare per porre fine a questo gravissimo scandalo, che non può più essere ignorato». Richiesta a cui l’ex ministra Giannini rispondeva ricordando che la vigilanza nelle paritarie è esercitata dagli uffici scolastici regionali che predispongono annualmente le ispezioni e che il ministero in più occasioni ha richiamato l’attenzione ad approfondire questa vigilanza, «con particolare riferimento al tema delicatissimo dei contratti di lavoro dei docenti». Il ministero in pratica non è competente sul controllo e in quella risposta ammetteva che le misure messe in atto fino a quel momento non erano state efficaci visto che «hanno potuto solamente superare alcune criticità anche a causa dell’impugnazione continua di questi atti». Ma l'ex ministra era convinta che i 55 nuovi ispettori reclutati avrebbero contribuito in modo concreto ad un miglior controllo che, in base al nuovo regolamento del 2013 doveva riguardare anche l’utilizzo del personale e quindi la legittimità o meno di certe procedure. Ipotesi che in realtà non si è realizzata visto che in tre anni la situazione non è cambiata.Il Movimento 5 Stelle ha continuato ad occuparsi del problema presentando due proposte di legge. La prima nel febbraio 2014 con Vacca primo firmatario, che proponeva un piano di monitoraggio continuo, in parte recepito dalla Buona scuola, e chiedeva come requisito necessario per il riconoscimento della parità scolastica l’obbligo di presentare la documentazione che attesti i pagamenti degli stipendi dei docenti. La seconda proposta di legge, invece, è stata presentata nel febbraio 2015 e chiedeva l’istituzione di una commissione parlamentare di inchiesta sulla condizione dei docenti nelle scuole private. «C’è stata da parte nostra un’azione continua per portare l’attenzione in commissione e qualcosa è stato fatto. Ma il vero problema è che deve diventare un controllo strutturale, periodico e continuo, altrimenti si risolve in un’azione mediatica che serve alla maggioranza per dire che qualcosa è stato fatto, ma in realtà gli istituti si reciclano e continuano a fiorire i diplomifici».Le proposte di legge del M5S, però, non sono mai state nemmeno calendarizzate. E ora che le elezioni anticipate sembrano essere state messe da parte, è comunque molto probabile, secondo Vacca, che il tutto venga rimandato alla prossima legislatura. Sottostando nuovamente ai giochi di forza delle maggioranze ed alleanze in Parlamento. Ma nel frattempo, mentre la politica posticipa il problema, il malcostume resta. Il pentastellato racconta come per esempio nella sua regione, l’Abruzzo, tra il 2015 e il 2016 siano state revocate molte parità scolastiche a vari istituti. «Il problema però è che spesso si riciclano. Rinascono con un sistema di passaggi di proprietà, sotto mentite spoglie. Perciò servirebbe un monitoraggio continuo, con controlli mirati insieme alla guardia di finanza. Non ci vuole poi tanto per verificare se gli stipendi sono pagati regolarmente o se i docenti sono abilitati. Manca però il personale per fare i controlli e la volontà di fare un’azione continua nel tempo».Un punto, quello del maggior controllo, su cui è d’accordo anche Latella che spiega «La soluzione è assumere almeno mille ispettori ministeriali che vadano a controllare i pagamenti degli insegnanti, i finanziamenti delle scuole e la preparazione dei docenti. Soprattutto di quelli che a 27 anni si trovano con 7-8 anni di servizio contro chi in età matura continua a vivere al nord in un appartamento con quattro colleghi per farsi uno spezzone di supplenza». Marianna LeporeFoto rettangolare: da Pixabay in modalità Creative Commons

Pensione integrativa per il mondo della ricerca: con Resaver diventa realtà

La vita del ricercatore è spesso vagabonda, soprattutto all’inizio della carriera. Si comincia presso un’università, si prosegue in qualche centro di ricerca pubblico o privato, poi si risponde a qualche bando che garantisce fondi per continuare il proprio lavoro o si prende parte a una squadra che sta avviando un nuovo progetto. Questo vuol dire lavorare in città diverse e, sempre più spesso, in Paesi diversi. Quindi ricevere lo stipendio e pagare i contributi previdenziali in Italia, ma per alcuni periodi anche all’estero. Con la conseguenza, non senza controindicazioni, di spezzettare in varie casse pensionistiche i propri contributi, cioè la propria “riserva” per la pensione.Per quanto riguarda la quota dei contributi “obbligatoria” – o di primo pilastro – finché i sistemi previdenziali dei singoli Paesi non si mettono d’accordo, non si può fare molto. E al momento, spiega Giuseppe Montalbano, segretario nazionale Adi, i sistemi previdenziali restano sensibilmente diversi. Ma «i regolamenti comunitari consentono di mantenere i diritti previdenziali maturati in ciascun Paese, beneficiare di una quota di pensione proporzionale a tali diritti, ed esportare le prestazioni relative. Questo grazie alla cosidetta totalizzazione in regime comunitario».Ora, però, anche sul fronte delle pensioni integrative si sta muovendo qualcosa. La Commissione europea ha pensato, infatti, a tutti i lavoratori del mondo della ricerca finanziando con un budget di 4 milioni di euro, dal programma Horizon 2020, lo studio e l’avvio di un progetto che dovrebbe aiutare la mobilità. È Resaver, un fondo pensione integrativo che ha preso ufficialmente il via a inizio febbraio di quest’anno. A tre anni dal 2014, quando la Commissione evidenziando la grande frammentarietà del sistema pensionistico in Europa, aveva deciso di coprire i costi per la creazione di questo piano.Prima c’era stato, nel 2009, uno studio di fattibilità. «Nel 2011 sono stati radunati gli interessati al progetto e nel 2014 si è costituito il consorzio Resaver, che detta le regole del fondo costituito l’anno scorso. E recentemente la Covip ha dato l’autorizzazione all’esercizio anche in Italia», spiega alla Repubblica degli Stagisti Andrea Crivelli, attualmente membro del Board of directors di Resaver Consortium, con un’esperienza pluriennale nel settore delle risorse umane in particolare per la mobilità internazionale che l’ha portato dal gruppo Ilva ad Elettra Sincrotone, ente di ricerca attivo nel campo della fisica della materia.Membri fondatori di Resaver sono la Central European University di Budapest e l’associazione delle università nei Paesi Bassi (VSNU) e quattro istituzioni italiane: il Central European research infrastructure consortium, Elettra – Sincrotrone Trieste scpa, la Fondazione Edmund Mach e la Fondazione Istituto italiano di tecnologia. I membri associati al consorzio sono una quindicina, mentre le università aderenti sono quelle di Budapest e dei paesi Bassi e poi l’università di Copenaghen, di Limerick, di Lussembrugo e quella autonoma di Barcellona. Ancora nessun ateneo italiano, anche se si sta lavorando proprio in questo senso.Resaver è quindi una IORP (Institution for occupational retirement provision), un fondo pensione transfrontaliero in grado di accogliere iscrizioni e contributi dai paesi dell’Unione Europea.  È «un fondo integrativo per i dipendenti, che si aggiunge alla pensione obbligatoria. È basato in Belgio e può essere alimentato con versamenti da tutti i paesi dell’Unione e dell’area economica europea». I paesi che vi hanno pienamente aderito sono l’Italia e l’Ungheria. E nel corso dell’anno dovrebbero aggiungersi Irlanda, Spagna e Lussemburgo.Quale sia la platea di riferimento lo spiega Crivelli: «Può aderire chi ha un contratto di dipendenza, così prevede la legge europea. Quindi contratti di tipo subordinato, a tempo determinato, indeterminato o part time».Un dato più preciso lo dà Filip Hemeryck, Senior consulting actuary di Aon Hewitt la società nominata nel gennaio 2015 dalla Commissione europea per fornire supporto tecnico alla creazione del fondo pensionistico. «Nell’Europa a 28 ci sono circa 1 milione e 800mila ricercatori, di questi 120mila in Italia. A questi bisogna però aggiungere tutti i dipendenti del settore della ricerca non inclusi nel dato. Basti pensare che tutto il personale del mondo della ricerca nel 2015 ha rappresentato l’1,2% della forza lavoro europea». Il dato, però, si restringe molto se si analizzano i soli ricercatori con contratti a tempo determinato. Giuseppe Montalbano dell'Adi spiega alla Repubblica degli stagisti che «secondo il rapporto Anvur 2016 il numero totale di ricercatori a tempo determinato, quindi sia quelli junior che senior, è di 4.608 nel 2015. Un numero cresciuto nel 2016 grazie al piano di reclutamento straordinario di RTDb (ndr. Senior) arrivando agli attuali 5.508». Montalbano è però convinto che la creazione di un simile fondo e di schemi previdenziali pensati appositamente per i ricercatori in mobilità sia «da accogliere senz’altro con favore».Questo non significa che non manchino criticità, nel merito e nel metodo. «È stato tutto costruito senza coinvolgere adeguatamente le organizzazioni rappresentative dei ricercatori, come l’associazione europea dei dottorandi e ricercatori in formazione, Eurodoc, di cui Adi è membro e componente del direttivo. Non c’è trasparenza sui meccanismi e sulle scelte di gestione del fondo. E la portata di Resaver appare ancora estremamente limitata», dice Montalbano. Che chiarisce: «L’accesso al fondo integrativo per il ricercatore è vincolato all’iscrizione dell’organizzazione per cui lavora al consorzio Resaver. Ora solo l’Ungheria è full member mentre in Italia gli unici membri sono alcuni centri di ricerca, nemmeno un’università. E poi se un ricercatore non ha un contratto di “employee” non può accedere al fondo pensione ma solo alla insurance».Per la periodicità dei versamenti Filip Hemerick spiega alla Repubblica degli stagisti che il piano è molto flessibile: «i livelli contributivi e la periodicità sono stabiliti nel regolamento del piano con il datore di lavoro. Volendo, però, parlare di un livello contributivo tipico allora si attesta al 4% del salario». Ma se i risultati ottenuti sembrano troppo modesti, Crivelli chiarisce la complessità del fondo, che ha avuto bisogno di varie autorizzazioni e della creazione di un set di regole compatibile con le norme nazionali di ogni Paese. «Un lavoraccio: solo per l’Italia ci abbiamo lavorato un anno e mezzo!»Una volta aderito alla Iorp, le istituzioni «possono ammettere i propri dipendenti ai versamenti», spiega Crivelli, che aggiunge «il fondo non è limitato solo ai ricercatori, ma a tutto il personale della ricerca: tecnici, tecnologi, amministrativi». Per i non dipendenti è prevista la possibilità di aderire a un sistema di terzo pilastro, per iniziare ad accumulare versamenti che una volta dipendenti saranno spostati nelle casse della Iorp. E forse, in futuro, potrebbero iscriversi indipendentemente dall’adesione delle istituzioni.Nel frattempo Resaver ha ottenuto un recente nuovo finanziamento della Commissione europea di 400mila euro. Una cifra che consente, per ora, l’assenza di spese per i membri fondatori del progetto e per quelli aderenti. Ma Crivelli non esclude che con il tempo ci saranno piccole fee a carico dei lavoratori e delle aziende, come in tutti i fondi integrativi.Se un ricercatore fosse interessato al piano per prima cosa deve rivolgersi agli uffici del personale e verificare se il proprio ente abbia aderito. Una “pressione”, quella che i ricercatori potrebbero svolgere in questa fase, molto importante. Perché l’interesse dal basso potrebbe favorire una rapida diffusione del programma.Il vantaggio è avere una pensione che «può essere alimentata nel corso della carriera muovendosi tra istituti di diversa natura nel proprio Paese e dentro l’Unione europea. Senza Resaver ogni volta che si cambia, con ogni probabilità si perde l’iscrizione al fondo integrativo e, a volte, i versamenti». Un problema molto serio visto che, ricorda Crivelli, oggi si va in pensione con circa il 50% dell’ultimo stipendio. Quindi lo scopo del fondo è di costituire una riserva che integri la pensione pubblica. I fondi saranno accantonati su un conto personale per ciascun aderente. Nel caso dell’Italia il lavoratore conferisce il suo Tfr più una percentuale che va dall’1,5 al 2% e il datore di lavoro una percentuale in misura pari. Non c’è però un dato univoco. Infatti Hemeryck, di Aon Hewitt, spiega che «i contributi annui aumentano con il livello dei salari e i rendimenti degli investimenti dipendono dall’assegnazione degli asset e dalle condizioni di mercato».Entro la fine dell’anno il consorzio dovrebbe arrivare ad avere sette paesi aderenti. E in dieci anni coinvolgere tutti e 28. In alcuni casi ci sono dei problemi con la necessità di modificare le singole leggi nazionali. Ma l’interesse per Resaver c’è, anche dagli atenei americani e australiani e dal Regno Unito che pur uscendo dall’Europa rimarrà all’interno del programma.L’obiettivo ora è far iscrivere le aziende, specie private con cui bisogna «solo fare un discorso con il sindacato interno». Ma rispetto ai normali fondi integrativi cambia poco: solo la possibilità di averne uno solo in tutta Europa.«Quindi il ricercatore che aderisce a Resaver in Italia finché è lì segue le regole italiane, se poi dovesse spostarsi in Germania i suoi versamenti e rendimenti seguiranno le regole tedesche. Quando avrà maturato il suo diritto alla pensione integrativa, in base alle singole leggi nazionali, la Iorp farà i suoi conti e verserà la pensione secondo le modalità previste dai vari paesi. Il fondo raccoglie i versamenti in base alle regole di ogni Paese in un unico borsellino per ciascun iscritto e investe i soldi come tutti i fondi pensione». Ora l’importante è far crescere le iscrizioni. Solo quando ci saranno tanti partecipanti il sistema funzionerà a pieno regime. La strada, quindi, è ancora lunga e non mancano le criticità. Ma è un primo passo importante che va in aiuto dei tanti ricercatori abituati a muoversi per lavoro in giro per l’Europa.Marianna Lepore

Aboliti i voucher. E ora?

Sabato scorso migliaia di persone sono scese in piazza contro i cosiddetti «nuovi voucher», in seguito alla manovra correttiva approvata qualche settimana fa, che ha introdotto il Libretto famiglia e una serie di novità nell'utilizzo dei buoni lavoro. Facciamo però un passo indietro. Lo scorso marzo un decreto legge ha abolito i voucher, i buoni lavoro utilizzati fino a quel momento per pagare prestazioni di lavoro accessorio, ossia, come indicato dall’Inps, «svolte fuori da un normale contratto di lavoro in modo discontinuo e saltuario».Sia le tipologie di soggetti beneficiari che il tetto massimo annuale erano stati ampliati nel tempo. I soggetti che potevano essere pagati con i voucher, nati con la legge Biagi, al momento dell'abolizione erano: pensionati, studenti di età inferiore ai 25 anni, destinatari di prestazioni integrative del salario o di sostegno al reddito (ad esempio i cassintegrati), lavoratori part time e altre tipologie, come nel caso degli inoccupati o dei lavoratori autonomi. Il tetto massimo dei compensi annui complessivi era fissato dalle ultime disposizioni contenute nel Jobs Act a 7mila euro, anche se la cifra per prestazioni lavorative a favore di ciascun singolo committente non poteva superare i 2mila. Di fronte al forte incremento dei buoni lavoro, che denotava in effetti un abuso di questo strumento, la Cgil ha attivato una massiccia raccolta firme per chiedere un referendum sull'abolizione: il referendum però non è stato mai fissato, perché il governo ha preferito evitarlo procedendo con l'abolizione in toto dello strumento, attraverso appunto il decreto legge di marzo. E ora? Come verranno inquadrate tutte quelle prestazioni fino a questo momento retribuite con voucher? Esistono al momento delle alternative sul tavolo? Qualche settimana fa è stato presentato in commissione Bilancio alla Camera un testo che riformula alcune proposte già avanzate per sostituire i voucher cancellati dal decreto. Disposizioni che sono state approvate nell'ambito della cosiddetta manovra correttiva.Le novità prevedono l'introduzione del Libretto famiglia, caratterizzato da assegni di 10 euro, cui se ne sommano altri due per i contributi e l'assicurazione, da utilizzare per il pagamento di prestazioni lavorative per piccoli lavori domestici. Il lavoratore non potrà percepire più di 2500 euro l'anno dallo stesso datore di lavoro e le prestazioni non dovrebbero superare le 280 ore annuali, altrimenti il lavoratore dovrà essere assunto a tempo indeterminato. Il Libretto è acquistabile attraverso il portale Inps o presso gli uffici postali, mentre prima era possibile acquistare i voucher anche dal tabaccaio.Le imprese potranno invece ricorrere al contratto di prestazione occasionale ad alcune condizioni: il compenso minimo non deve essere inferiore ai 9 euro orari, rispetto ai 7,5 previsti in precedenza, il tetto massimo di compensi annuali è di 5mila euro e non sono ammesse all'utilizzo aziende con più di 5 dipendenti. Non possono invece ricorrere i contratti di prestazione occasionale, quale che sia la loro dimensione, le aziende del settore edilizio e artigiane.Prima che arrivasse questa proposta, diverse voci si erano espresse sul tema. La deputata Irene Tinagli ad esempio aveva auspicato la soluzione di ampliare l’ambito di applicazione del lavoro intermittente o a chiamata. Si tratta di una tipologia contrattuale utilizzata qualora ci sia necessità di impiegare un lavoratore per prestazioni con frequenza predeterminabile. Al momento questo contratto può essere stipulato con soggetti di età inferiore a 24 anni o superiore a 55. Inoltre, è ammesso per un periodo complessivamente non superiore alle 400 giornate nell’arco di tre anni. Superato questo periodo, il rapporto si trasforma in un rapporto di lavoro «pieno» a tutti gli effetti.  La proposta della Tinagli intenderebbe eliminare i limiti del lavoro intermittente, che a oggi è previsto per i soli lavoratori con meno di 24 o più di 55 anni di età. In entrambi i casi l'obiettivo sarebbe quello di proteggere il lavoratore attraverso una regolamentazione del rapporto di lavoro più «tutelante» ed evitare così che l'abolizione dei voucher porti nuovamente al dilagare di forme di lavoro sommerso. Ora bisognerà attendere le inevitabili reazioni e monitorare con attenzione i numeri dei prossimi mesi per verificare se la novità avrà sortito l'effetto sperato.Chiara Del Priore

Gli anziani tolgono il lavoro ai giovani?

L'innalzamento dell'età pensionabile è una delle cause della disoccupazione giovanile? Se gli anziani vanno in pensione più tardi, cioè, sottraggono opportunità di lavoro ai giovani? No, almeno secondo Alessandra Del Boca e Antonietta Mundo, autrici del libro L'inganno generazionale, di cui si è discusso a Generare Futuro, il festival organizzato qualche settimana fa a Lodi da Linkiesta sui temi del cambiamento e dell'innovazione.Quando si parla di futuro, infatti, si parla anche di giovani e del quadro che va delineandosi per loro in termini lavorativi, economici e sociali. Attraverso le domande di Eleonora Voltolina, direttore della Repubblica degli Stagisti, il dibattito con le autrici ha ripreso alcuni dei temi centrali del libro, dall'avanzamento tecnologico e le nuove professioni digitali all'istruzione e al sistema previdenziale, sottolineando le criticità e le peculiarità del mondo del lavoro italiano ed avanzando alcune istanze cruciali per il successo dei giovani.Secondo Del Boca e Mundo la teoria dell'alta disoccupazione giovanile come conseguenza della lunga permanenza degli anziani sul posto di lavoro corrisponderebbe ad un'interpretazione errata: non solo questo non è vero, ma anzi l'occupazione degli anziani andrebbe incentivata per il benessere di tutta la società. Tanto che Alessandra Del Boca ha affermato di aver «spolpato come un piraña» Tito Boeri, presidente dell'Inps ed economista della Bocconi di Milano, il quale sosteneva che, per ogni posto occupato da un anziano, c'è un giovane che rimane disoccupato. «Non è così: non emerge alcuna prova dell'esistenza di questo spiazzamento, semmai il contrario», cita il libro: «dalla letteratura economica sappiamo che in ogni momento avviene una creazione e distruzione di posti di lavoro simultanea ed enorme». In altre parole, l'economia è regolata da una buona dose di dinamismo che non conduce mai ad una somma zero dei posti di lavoro, e le opportunità, piuttosto, aumentano al crescere della popolazione attiva, vale a dire non solo i giovani, ma anche gli immigrati e le donne. Inoltre, sottolineano le esperte, giovani e degli anziani sono destinatari di domande di lavoro diverse e non sostituibili tra loro, una differenza che sarà sempre più pervasiva con l'avanzare della tecnologia: i mestieri e le competenze dei nativi digitali sono già molto diversi rispetto a quelli dei loro genitori. Ridurre l'occupazione degli anziani, quindi, non aumenterebbe le opportunità dei giovani e anzi, dovrebbe essere incoraggiata: un ritiro anticipato, infatti, sarebbe destinato ad aumentare il peso contributivo sulle generazioni più giovani, complicando ulteriormente la loro condizione, e a rendere i genitori più dipendenti dai figli, i quali però non potrebbero prendersi cura di loro.La responsabilità della crisi del lavoro giovanile, insomma, non è tanto da attribuire alle politiche contributive che riguardano le generazioni più anziane, quanto piuttosto alla povertà degli stipendi di oggi e alla difficoltà di incontro tra domanda e offerta: nonostante una laurea paghi di più nel lungo periodo, sostengono le autrici, gli studi in ambito umanistico sono poco spendibili sul mercato del lavoro, mentre un ingegnere neolaureato, ad esempio, «rimane senza lavoro per due mesi, il tempo di valutare tutte le offerte». Così il problema vocazionale e la scarsità di competenze digitali (in ambito ICT l'Italia è ultima in Europa per numero di laureati) vanno a incidere sulla disoccupazione giovanile.E sul fronte della politica? Del Boca e Mundo sono sostenitrici delle riforme attuate dagli ultimi governi, in particolare del Jobs Act; ma una delle critiche mosse dalle autrici al governo è la decisione di investire attenzione e risorse in ambito lavorativo sulla fascia dei 15-24enni, molti dei quali sono però ancora studenti, piuttosto che destinarle ai Millennials, quei 25-34enni che si ritrovano a soffrire di più, avendo ormai concluso gli studi e senza però riuscire a mettere in piedi un progetto di vita in tempi ragionevoli.Le due esperte denunciano anche una mistificazione, sui giornali e in tv, dei dati sulla disoccupazione giovanile, elaborati in modo errato: l'attuale stima, divulgata come “il 40%”, comprende una grossa quota di giovani che ancora studiano, la quale finisce per distorcere il quadro. Se calcolata opportunamente, invece, la quota di disoccupazione giovanile si fermerebbe intorno al 10%. Una sottigliezza che effettivamente a più riprese abbiamo cercato di spiegare qui sulla Repubblica degli Stagisti.Ma del Boca e Mundo mettono in guardia dal cadere nel tranello del conflitto generazionale, giovani disoccupati contro pensionati privilegiati. Certo, è vero che il retaggio di ancora precedenti decisioni sbagliate ha pesato fino a qui. Un esempio su tutti: le baby pensioni, che qualche decina di anni fa avevano consentito ai lavoratori di ritirarsi dal posto dopo aver versato appena 10 o 15 anni di contributi. Ma applicare dei correttivi alle pensioni come queste potrebbe essere una soluzione? La proposta era stata avanzata già nel 2013, ma era stata subito accantonata per la sua impopolarità e perché «modificare l'importo di pensioni già in pagamento non sarebbe stato costituzionale». In altre parole, secondo le due autrici le pensioni non si devono toccare: anche quelle non sorrette da contribuzione adeguata (pensioni calcolate con il metodo retributivo, complessivamente più alte della somma dei contributi versati durante gli anni di lavoro), perché uno Stato non può tradire il patto stipulato con i suoi cittadini. Insomma, se in passato ha permesso a 500mila persone di andare in pensione a 40 anni, ora quelle pensioni non può ridurle per ovviare all'incontestabile errore. «Allora due generazioni di giovani dovrebbero pagare lo scotto di decisioni sbagliate prese quarant'anni fa?» chiede un ragazzo dalla platea. «Non necessariamente», rispondono le esperte: il punto è di focalizzarsi su politiche che aiutino chi davvero ne ha bisogno. In questo senso, secondo loro, si dimostra l'inutilità del bonus ai 18enni, risorse che avrebbero potuto essere meglio spese all'interno delle politiche giovanili.L'inganno generazionale porta sostanzialmente un messaggio positivo, che punta ad incoraggiare un patto tra le generazioni guardando insieme al futuro, piuttosto che focalizzandosi sugli squilibri del passato. Le raccomandazioni sono in linea con quelle proposte da più parti: il collocamento efficace dei giovani nella fascia 25-34 verso le opportunità esistenti, l'agevolazione del training on the job e gli investimenti in istruzione e ricerca, che dovrebbero aumentare l'occupabilità del capitale umano nel nostro paese, invece che spingere le persone, come ormai sempre più frequentemente accade, a spostarsi altrove. L'ennesimo richiamo a investire sui giovani per aiutarli ad investire su se stessi: speriamo che qualcuno ascolti, perché in gioco c'è il futuro di tutti, non solo il loro.Irene Dominioni

Colloquio in Everis, istruzioni per l'uso

Everis, società spagnola di consulenza e outsourcing nei maggiori settori di business, vanta un fatturato di oltre 800 milioni di euro e 18mila dipendenti tra Europa, Stati Uniti e America Latina. Prima azienda in assoluto ad entrare nel network virtuoso della Repubblica degli Stagisti nel 2009, si distingue in particolare per il tasso di trasformazione di stage in contratti di lavoro (superiore al 90%) e per la generosità del rimborso spese offerto ai tirocinanti (1000 euro mensili), per cui ha ricevuto diversi RdS award negli ultimi anni [nella prima foto qui sotto, De Bartolomeo riceve da Eleonora Voltolina, direttore della Repubblica degli Stagisti, l'AwaRdS 2016 per il miglior tasso di assunzione post stage]. A raccontarne il percorso di recruiting, in questa nuova puntata della rubrica “Colloquio, istruzioni per l’uso!”, ci sono le recruiting specialist Fabiola De Bartolomeo e Claudia Bassanelli per le sedi di Milano e Roma. De Bartolomeo, laureata in lettere moderne e con un master in human resources management, dopo aver lavorato in un'azienda farmaceutica è approdata in Everis nel 2015, dove svolge attività di recruiting e comunicazione con un particolare focus sui profili junior. Bassanelli invece, laureata in psicologia, è arrivata in azienda lo scorso giugno, dopo un periodo maturato nel settore dell’orientamento al lavoro e della ricollocazione professionale. In Everis si occupa soprattutto di selezione di profili IT. Quali profili ricercate maggiormente nella vostra azienda?FDB: Consulenti IT junior, laureandi o neo laureati in informatica o ingegneria informatica, ingegneria gestionale e delle telecomunicazioni, matematica e fisica.Come funziona in generale il vostro iter di selezione? CB: Di solito selezioniamo i CV dai diversi portali delle università o da Almalaurea, oppure facciamo uno screening dei candidati a partire dalla pubblicazione di un annuncio. Valutiamo anche tutti i curriculum che ci arrivano all’indirizzo italy.cv.milan [chiocciola] everis.com o italy.cv.roma [chiocciola] everis.com. L’iter prevede una breve intervista telefonica iniziale per valutare gli elementi di base – è indispensabile che venga dimostrato un interesse per il mondo della consulenza IT –  e soprattutto le soft skill dei candidati. Lo step successivo prevede un colloquio in azienda in tre fasi: prima un colloquio conoscitivo e motivazionale con un HR, poi con un tecnico per valutare le competenze logiche e di ragionamento e, infine, con il manager di progetto, sempre a livello conoscitivo e di valutazione tecnica. Se positivo, al candidato viene fatta una proposta, cui segue l’eventuale inserimento. Per il recruiting fate assessment o colloqui di gruppo?CB: Per i giovani neo laureati, in particolare, abbiamo implementato un format standard che prevede l’Assessment Center. Dopo il prescreening dei CV ed un colloquio telefonico per valutare la capacità linguistica e la motivazione dei candidati, di cui ci occupiamo internamente noi recruiter, si viene convocati a gruppi nella stessa giornata, dove si affrontano colloqui individuali e test logici e di problem-solving al fine di valutare le dinamiche di interazione con gli altri. I colloqui individuali generalmente durano 30/40 minuti con l’HR e un’ora con il leader di unità, mentre quelli di gruppo hanno una durata di circa tre ore, più un’ora individualmente. FDB: In una società di consulenza il lavoro in team è fondamentale; per questo, generalmente, il colloquio si organizza con una classe di almeno 15 candidati. Al mattino c’è un primo momento di presentazione dell’azienda e dei ragazzi, cui partecipa anche un manager o un leader delle unità interne e si fa un gioco di gruppo per valutare la capacità di lavorare in squadra. Nel corso del pomeriggio, invece, i ragazzi che risultano idonei e che hanno superato il test di inglese passano al secondo colloquio individuale con il manager o il leader delle unità.Svolgete parte dei colloqui anche in una lingua straniera? CB: Tutti i colloqui sono in italiano, ma viene somministrato un test di inglese della durata di una ventina di minuti, dove la conoscenza della lingua è indispensabile per il successo della selezione. A prescindere dalla certificazione, che è secondaria, chiediamo che l’inglese sia fluente e di avere una buona capacità di conversazione, anche a partire dallo stage. FDB: La conoscenza della lingua spagnola è un plus, soprattutto nei progetti dove si collabora con i colleghi spagnoli o nelle riunioni. Una lingua straniera è utile anche per le trasferte, perché ci sono progetti aperti in tutto il mondo e chi non parla inglese potrebbe perdersi l'opportunità di partecipare. Apprezzate le autocandidature?CB: Apprezziamo i giovani di talento, quelli particolarmente motivati ad intraprendere un percorso di carriera nella consulenza in ambito IT e che sposino la filosofia e i valori di Everis, sia che si candidino volontariamente o che vengano chiamati da noi. Apprezziamo anche i curriculum personalizzati, purché il candidato fornisca tutte le informazioni utili a ricostruire il proprio percorso.FDB: Utilizziamo abitualmente LinkedIn e Facebook per il recruiting e da qualche tempo abbiamo anche una pagina Instagram dove postiamo le offerte disponibili. Inoltre, sul sito c’è una sezione “Lavora con noi” attraverso cui i giovani possono inviare il proprio curriculum, ma valutiamo le candidature provenienti da qualsiasi canale, che sia il sito, la posta elettronica o un annuncio.Ricercate anche giovani donne con profili tecnico scientifici?CB: Sicuramente ci piacerebbe aumentare le quote rosa, ma, ai fini della selezione, valutiamo innanzitutto le competenze tecniche e le soft skill utili all’azienda. Vi sono competenze che ricercate nei candidati ma che faticate a trovare? FDB: A volte riscontriamo una mancanza di adeguate basi tecniche di conoscenza dei linguaggi di programmazione e scarse capacità di ragionamento, che portano il selezionatore a dedurre che si è studiato a memoria. Nell'ambito dello stage, guardiamo in particolar modo al percorso universitario: apprezziamo chi ha fatto un Erasmus, un’esperienza all’estero e corsi extra-universitari per la conoscenza delle lingue straniere. Per i profili senior, invece, prestiamo molta attenzione all’esperienza maturata nell’ambito della consulenza e delle diverse tecnologie che usiamo: DWH, Business Intelligence, .NET, Java e SQL.CB: Anche sotto il profilo della conoscenza della lingua, l’inglese generalmente va migliorato, soprattutto quello parlato!Qual è l'errore che non vorreste mai veder fare a un candidato durante un colloquio?FDB: Sicuramente non fa buona impressione un candidato che non sa nulla riguardo a Everis e al suo ambito di attività, mentre invece apprezziamo un precedente approfondimento verso l’azienda. Anche screditare esperienze precedenti non è un comportamento che vediamo di buon occhio. Come date i vostri feedback?CB: I tempi di invio del feedback sono abbastanza variabili, generalmente entro 15 o 20 giorno al massimo, e un riscontro viene dato sempre, anche se negativo.Se lo stage viene attivato e dà esito positivo, qual è poi l'iter contrattuale che solitamente proponete?FDB: La nostra percentuale di assunzione post stage è molto alta, intorno al 97%. Il nostro obiettivo, infatti, è quello di crescere insieme ai nuovi talenti. Il primo ingresso in azienda solitamente avviene attraverso lo stage, della durata di sei mesi al massimo, con indennità mensile e con buoni pasto. Successivamente il neo laureato viene assunto con contratto a tempo indeterminato, con un livello di retribuzione variabile in base al tipo di studi conseguito e con i benefit che Everis riconosce ad ogni dipendente.Ci sono differenze tra l'iter di selezione per selezionare uno stagista e l'iter per selezionare invece una persona da inserire direttamente con contratto?CB: Tendenzialmente l’iter è lo stesso, anche se le figure senior affrontano un maggior numero di colloqui e tempistiche più lunghe. Nei colloqui con i senior vengono affrontate in maniera approfondita le competenze tecniche, ma la procedura si può articolare in modo diverso in base alla posizione e al livello che il candidato andrà a ricoprire all’interno dell’organizzazione.testo raccolto da Irene Dominioni

In vigore il 'Jobs act' del lavoro autonomo, una «rivoluzione culturale» ma con alcune criticità

Da qualche giorno i lavoratori autonomi italiani – circa 5 milioni – possono finalmente contare su una legge che regolamenta il loro settore. È il ddl sul lavoro autonomo e agile, approvato in Senato il 10 maggio con 158 sì, 9 no e 45 astenuti, dopo una gestazione di oltre un anno. «A breve uscirà anche in Gazzetta Ufficiale», conferma alla Repubblica degli Stagisti Andrea Dili, membro della rete di giovani, studenti e precari Alta Partecipazione, «perché ogni provvedimento può tardare al massimo quindici giorni prima di essere pubblicato», e a quel punto l'operatività sarà piena. Tutti i potenziali beneficiari potranno cioè cominciare a usufruirne perché, sottolinea Dili, «non sono richiesti decreti attuativi».Scatteranno così da subito tutte le importanti novità che dovrebbero – almeno nelle intenzioni – rafforzare le tutele dei freelance. Solo per citarne alcune: le donne in gravidanza iscritte alla Gestione Separata dell'Inps potranno richiedere il sussidio di maternità senza la condizione dell'astensione obbligatoria dal lavoro, e accedere all’estensione del congedo parentale da tre a sei mesi; in caso di malattia si applicherà  la  sospensione del versamento  dei contributi previdenziali e dei premi assicurativi se l'attività lavorativa viene meno per oltre sessanta giorni; dal primo luglio entrerà poi a regime la Dis-Coll, ovvero l'indennità di disoccupazione per i cosiddetti cococo, anche in favore di collaboratori, assegnisti e dottorandi di ricerca. E infine – per l'asse smart working – partirà l'equiparazione di trattamento economico rispetto ai colleghi per chi lavora fuori dalle mura dell'ufficio.Per quanto riguarda le norme di natura fiscale che consentono di dedurre fino a 10mila euro le spese di aggiornamento professionale sostenute la validità è retroattiva, ossia «sono applicabili a far data dal primo gennaio 2017» specifica Dili. «Se quindi hai svolto un corso di formazione a febbraio 2017 per esempio, potrai scaricarti i costi già dalla dichiarazione dei redditi del prossimo anno». Nel 2018, quando si rendiconteranno al fisco le spese del 2017.Fanno eccezione però due norme per cui, spiega Dili, «è prevista la delega al Governo». La prima all'articolo 5 del testo di legge che «Delega al Governo in materia di atti pubblici rimessi alle professioni ordinistiche». «Il Governo è delegato ad adottare, entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o più decreti legislativi in materia di rimessione di atti pubblici alle professioni ordinistiche». In pratica un ampliamento delle competenze normalmente in capo alla Pubblica amministrazione per chi esercita professioni regolamentate. E ancora l'articolo 6, dove la delega si riferisce «alla materia di sicurezza e protezione sociale delle professioni ordinistiche». Tempo sempre un anno, l'esecutivo «su proposta del Ministro del lavoro e delle politiche sociali di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze» dovrà legiferare sulla «abilitazione degli enti di previdenza di diritto privato, anche in forma associata, ove autorizzati dagli organi di vigilanza, ad attivare, oltre a prestazioni complementari di tipo previdenziale e socio-sanitario, anche altre prestazioni sociali, finanziate da apposita contribuzione». Lo scopo sarebbe qui incrementare le indennità associate alla previdenza aggiuntiva per i titolari di posizioni presso la Gestione separata non pensionati e senza altre casse. Nel complesso il testo fa sperare in un cambiamento in positivo per il mondo dei freelance. «Una rivoluzione culturale» la descrive Giorgia D'Errico, assistente parlamentare di Cesare Damiano, presidente della Commissione Lavoro alla Camera  «che ricomprende nella cultura del lavoro anche chi non è dipendente e chi non appartiene a nessun ordine professionale». Ma non mancano le criticità. In primis c'è la norma che prevede una stretta sui tempi di pagamenti da parte del committente. Le regole per i pagamenti tra imprese e Pubblica amministrazione si estendono infatti ai professionisti, che potranno esigere il saldo della fattura emessa entro 60 giorni, pena lo scattare di interessi di mora e sanzioni. Funzionerà davvero? «È come chiedere se la legge che vieta le rapine in banca sia nei fatti davvero efficace» ragiona Dili, «Come si fa a assicurarlo?». Però di buono c'è che si fissa un principio molto importante, e cioè «si dà ai freelance la possibilità di «far valere in via giudiziale gli interessi».Dopodiché quello su cui si dovrebbe agire è «l'efficienza della giustizia: si dovrebbe fare una riforma che preveda un filone a parte solo per la giustizia commerciale, quella dei pagamenti» osserva. D'accordo anche la presidente del Coordinamento libere associazioni professionali Colap Emiliana Alessandrucci [nella foto a sinistra]: «Chi non vuole pagare potrà farlo comunque, la norma non sarà risolutiva in tal senso». La vera soluzione sarebbe stata quella di «ampliare l'applicabilità dei decreti ingiuntivi anche sotto certe cifre». Per chi svolge qualunque servizio, da quelli alla persona a prestazioni di ogni tipo, il problema è non poter disporre di strumenti di recupero crediti per importi piccoli, di poche centinaia di euro. Anche per le penali, «la reale efficacia riguarderà solo le commesse di grandi opere».L'altro grande errore secondo Alessandrucci è l'aver ricompreso in un unico provvedimento materie di per sé distanti come il lavoro autonomo e agile, lo smart working. «Storicamente e culturalmente si è sempre fatto coincidere le false partite Iva con quelle vere, che invece non hanno nulla in comune». Lo smart working andrebbe insomma regolamentato a parte, colmando anche alcune lacune: «Se devo cucire dei jeans, chi mi coordina se sono inquadrato come smart worker?». E ancora, «chi mi mette in sicurezza?». E qui il riferimento è all'articolo 20 della nuova legge, che parla di copertura Inail per gli infortuni quando «la scelta del luogo della prestazione sia dettata da esigenze connesse alla prestazione stessa o dalla necessità del lavoratore di conciliare le esigenze di vita con quelle lavorative e risponda a criteri di ragionevolezza» recita l'articolo. Un passaggio che, dice Alessandrucci, potrebbe dar luogo a situazioni dubbie e probabilmente richiederà ulteriori aggiustamenti normativi.  Ci si dovrà tornare sopra perché anche questa «come ogni norma non è perfetta». Fuori dal ddl c'è per esempio il tema dell'equo compenso, «un argomento vastissimo su cui è richiesta l'intesa di tutte le parti in gioco» ricorda D'Errico. Per ora, aggiunge, «è come se fosse iniziata una sperimentazione: aspettiamo i dati e i feedback per capire se ciò che è stato approvato porterà i suoi frutti». Ilaria Mariotti   

Esperienza all'estero anche per gli apprendisti, la proposta degli eurodeputati socialisti

Sarà come un Erasmus, ma invece di essere combinato al periodo di studi, il progetto all'estero partirà nel mezzo di un contratto di apprendistato. Con l'idea di sviluppare le competenze – specie le soft skills – dei giovani impegnati in percorsi da apprendisti, un gruppo di eurodeputati ha lanciato un progetto pilota che promuova la mobilità transnazionale a lungo termine. Solo così si miglioreranno «le possibilità di inserimento nel mercato del lavoro e si rafforzerà il senso di cittadinanza europea». «Molte imprese si aspettano che i ragazzi imparino tutto in azienda, e non sempre capiscono l'importanza di una formazione maturata altrove» dice alla Repubblica degli Stagisti Brando Benifei, trentenne europarlamentare del Partito socialista europeo. Il modello è di nuovo la Germania, «dove esistono modelli simili in ambito interregionale, che stanno dando buoni risultati». Quello che ci si aspetta con un progetto simile è produrre risorse umane «migliori, più in gamba, più dinamiche, che abbiano appreso una nuova lingua». Inoltre «la proposta comprende anche i tirocini». Ma come funzionerà nel concreto questa sorta di Erasmus dell'apprendistato? La dote finanziaria del progetto messa a disposizione dalla Commissione europea è per ora piuttosto modesta, 2 milioni e 841mila euro. E a ogni percorso che riceva l'ok andrà un contributo «indicativo» – si legge nel comunicato – dai 300 ai 500mila euro, con cui finanziare l'intero soggiorno di più giovani, incluso lo stipendio del lavoratore espatriato. Ovviamente si tratta di un contributo che non sarà erogato ai singoli destinatari finali, cioè gli apprendisti, ma a organizzazioni intermedie riunite in consorzi internazionali di almeno due partner in due stati membri, le stesse che andranno poi a gestire gli scambi.La Commissione conta di finanziare da sei a nove progetti. Le aziende non dovranno infatti farsi carico dell'operazione (del tutto irrealistica sarebbe del resto una loro partecipazione finanziaria). Ma avranno l'obbligo – questo sì – di reinserire la risorsa una volta rientrata, come garantisce Benifei. A essere coinvolti nelle pratiche burocratiche saranno «centri per l'impiego o anche associazioni e società private già impegnati in attività di formazione professionale» chiarisce lui. Ma trattandosi di un progetto pilota, «non è quantificabile al momento quanti saranno gli apprendisti coinvolti: l'iniziativa parte proprio per testare la domanda sul campo». Si parte però dal dato di una rilevazione, in base alla quale «il 74% degli apprendisti vorrebbe svolgere un'esperienza all'estero di lungo termine». E lo scopo è arrivare a aprire l'accesso a quanti più possibile. Per questi soggetti è stata aperta una call – chiusa a fine marzo – con la richiesta di inviare proposte. Ancora non si conosce l'esito: «Adesso che sono state raccolte tutte le domande attendiamo che la Commissione selezioni i centri che hanno risposto in modo migliore». Per gli incaricati – che dovranno occuparsi di «identificare i candidati e la corrispondenza dei loro profili con le aziende ospitanti, oltre a curare gli aspetti concreti legati al soggiorno» – è prevista l'applicazione di un regime di cofinanziamento. La copertura dei fondi Ue arriva infatti fino all'85% mentre il restante 15 è a carico dell'intermediario, «che a sua volta potrà avere un accordo con l'azienda ospitante di compartecipazione» specifica Benifei. E inoltre la Commissione si riserva il diritto di non erogare l'intero fondo disponibile. Un compito non facile quello di chi opererà da mediatore, con aziende mediamente restie «a mandare i propri apprendisti all'estero per lunghi periodi, in particolare le pmi, che molto investono su di loro» si legge nel comunicato. Una scarsa fiducia che l'iniziativa del gruppo di eurodeputati vorrebbe invece invertire, puntando soprattutto su quei giovani impegnati in percorsi di Istruzione e formazione professionale tra cui – è scritto ancora – «è stato individuato un 'collo di bottiglia' proprio nella scarsa mobilità transnazionale». A differenza del programma Erasmus, che invece «ha rappresentato un fattore cruciale per l’inserimento nel mercato del lavoro (e per lo sviluppo della cittadinanza europea) per milioni di studenti universitari europei».Quanto agli ambiti interessati, «saranno soprattutto quello con un certo grado di creatività come il mondo della moda, della produzione oggettistica o le aziende del comparto digitale» esemplifica Benifei. Tutti settori in cui «possa tornare utile l'esperienza del lavoratore all'estero». Per ora però il progetto è solo ai blocchi di partenza. La road map prevede che la valutazione delle proposte provenienti dai vari centri da parte della Commissione vada avanti fino a fine maggio. A giugno inizieranno poi le comunicazioni con i soggetti vincitori, ma non sarà prima di luglio che la sperimentazione partirà davvero. Ilaria Mariotti