Categoria: Approfondimenti

Diritto al lavoro, il progetto che dice agli studenti: “Seguite le vostre attitudini e avrete successo”

«Che cosa vuoi fare da grande?» si chiede sempre ai bambini. Le risposte sono quelle note: chi da piccolo non fantasticava di diventare calciatore o ballerina, veterinario, pilota o vigile del fuoco? Sia che questi sogni si avverino oppure no, sapere sul serio che cosa si vuol fare da grandi è comunque una consapevolezza a cui «si arriva davvero solo quando si inizia a lavorare» afferma Roberto Vaccani, docente alla Sda Bocconi, consulente organizzativo e coordinatore del progetto “Diritto al lavoro - percorso attitudini” della Fondazione Roberto Franceschi onlus. Il programma, attualmente all’avvio della sua undicesima edizione, coinvolge i ragazzi delle scuole superiori in un percorso alla scoperta delle proprie inclinazioni, offrendo un servizio di orientamento preliminare verso un mondo del lavoro che, oggi più di ieri, richiede flessibilità, intraprendenza e creatività.Da molti anni la Fondazione Franceschi, nata in memoria del giovane Roberto,  ucciso durante una manifestazione studentesca nel 1973, si dedica ad attività di sostegno ai giovani, offrendo finanziamenti di ricerca e borse di studio e organizzando convegni e attività per contrastare l’emarginazione sociale.Il percorso attitudini si rivolge a studenti di terza e quarta superiore nell’area di Milano ed è volto, oltre a fornire loro strumenti di autoanalisi per scoprire i propri punti di forza e le proprie debolezze, anche ad accrescere in loro questa consapevolezza: «oggi è possibile cambiare mestiere molto più che una volta, e in futuro le persone faranno mestieri che ancora non esistono» dichiara Vaccani. «L’ingresso nel mondo del lavoro sta diventando sempre più difficile: non è lui a cercarvi, siete voi a doverlo cercare. Il mercato è più ricco e disordinato, ma questo disordine è vitale», dice ai ragazzi. Se prima la carriera si muoveva su binari ben precisi, quindi, oggi questa linearità non può più essere data per scontata e, se da un lato conduce alla frammentarietà delle esperienze lavorative, dall’altro può - e deve - essere presa come un’occasione di sperimentazione e di acquisizione di competenze trasversali. «La scoperta delle proprie attitudini diventa un aspetto fondamentale della conoscenza di sé e delle proprie potenzialità per non sentirsi esclusi ed emarginati», specifica il testo programmatico del progetto, che inoltre ha l’obiettivo di studiare quali strumenti possano contribuire a contrastare l’abbandono e la dispersione scolastica. Il percorso si sviluppa in moduli laboratoriali di 30 ore (più una sessione formativa di 20 ore destinata agli insegnanti e la possibilità di accedere a sessioni multimediali di auto-formazione) e prevede la realizzazione, da parte degli stessi studenti insieme ai propri compagni e professori, di interviste video (disponibili sul canale YouTube della Fondazione) sul tema delle attitudini. «Perché hai scelto questa scuola? Quali sono i tuoi hobby? Preferisci ragionare con calma o decidere rapidamente? Sei più ordinato o disordinato?», si chiedono l’un l’altro i ragazzi, a cui viene data così la possibilità di acquisire anche nuove competenze tecniche (l’uso delle videocamere e il montaggio delle interviste è realizzato attraverso un approccio di peer education in collaborazione con l’istituto Itsos Albe Steiner di Milano). Ciascuno risponde a modo proprio in tono scherzoso e senza imbarazzo. Hanno tutti ancora uno o due anni di scuola di fronte a sé, ma pensano già in avanti. Molti sono indecisi se, una volta finite le superiori, andare all’università oppure iniziare subito a lavorare. Coscienti delle difficoltà del mondo del lavoro attuale, praticamente tutti condividono però la stessa aspirazione: trovare un lavoro che consenta loro di ottenere la stabilità economica.Alla domanda «quale lavoro vorresti fare?», le risposte sono tra le più diverse. C’è chi desidera fare l’avvocato e chi sogna di aprire un locale underground, chi intende lavorare nel turismo e chi nel marketing, fino a quello che, davanti alla videocamera in completo bianco e papillon, dichiara convinto: «mi sono sempre immaginato a lavorare in un bar al 42esimo piano di un grattacielo a New York». Pensano in grande e dalle interviste emerge come, nell’immaginare il proprio futuro, la questione della piacevolezza del lavoro rimanga per loro preponderante rispetto ad altri aspetti. Un concetto che anche Vaccani tiene a sottolineare: «le attitudini sono la polpa del lavoro, sono inerenti a ciò che piace e sono ciò che dà qualità. Le competenze, invece, sono la buccia, quello su cui è incentrata l’istruzione, che però è variabile e non finisce a scuola». E’ questa consapevolezza a consentire il «deragliamento intelligente», come lo definisce Vaccani, del proprio percorso dalle competenze che non sono attitudinali verso ciò che lo è. Perché, in fondo, «lavoro e vita sono la stessa cosa» e quindi imparare a conoscere se stessi, in modo da individuare le proprie aspirazioni consapevolmente e abbracciarle il prima possibile, è fondamentale.Ai più meritevoli e svantaggiati tra gli studenti partecipanti, la Fondazione riserva la possibilità di accedere ad una borsa di studio del valore di 18mila euro, erogata in collaborazione con la Fondazione Isacchi Samaja onlus e Ubs, in vista dell’iscrizione all’università. Finora sono state assegnate sei borse ad altrettante ragazze che hanno scelto corsi di laurea in Lingue, Ingegneria informatica, Mediazione ed interpretariato, Economia e gestione aziendale, Economia e legislazione d’impresa e Progettazione dell’architettura. «Tutte le borsiste sono seguite e supportate assiduamente dal nostro tutor nel loro percorso universitario» dichiara Cristina Franceschi, presidente della Fondazione. Per tenere traccia dell’impatto qualitativo del progetto, all’inizio del percorso e all’inizio dell’anno scolastico successivo agli studenti viene somministrato un questionario, le cui risposte vengono poi raccolte in un report conoscitivo che dà conto della percezione e delle aspettative dei giovani rispetto a se stessi e al proprio futuro. Inoltre, dichiara la Franceschi, «in tutte e dieci le precedenti edizioni il coinvolgimento degli studenti è aumentato durante lo svolgimento del percorso; il cambiamento è spesso rilevato nei soggetti più fragili, e questo è ciò ci ha spinto a portare avanti il progetto e portarlo nelle scuole dove maggiore è il disagio sociale». Per l’edizione di quest’anno è già confermata la presenza degli istituti Gentileschi, Marconi e Itsos Albe Steiner di Milano, e la Fondazione si sta attivando, in collaborazione con Afol Metropolitana e Randstad, per riuscire a portarlo anche in altre città o regioni. «Il lavoro è il primo diritto sociale alla base di tutti gli altri diritti, alla base della nostra vita, della nostra dignità, del nostro contributo alla società, della nostra realizzazione. Questo spiega perché continuiamo ad andare nelle scuole a parlare di lavoro» conclude la Franceschi. «Niente come il lavoro è una finestra che ci svela chi ci sta vicino. Non è raro che pensavamo di conoscere un amico, un genitore, o anche un figlio finché un giorno ci capita di vederlo lavorare e improvvisamente scopriamo che ci era rimasta nascosta una dimensione essenziale della sua persona». I ragazzi hanno ancora molto da scoprire su di sé, ma sarà soprattutto nel contesto lavorativo che vedranno emergere la propria vera natura. Saper individuare i propri talenti è un compito difficile, ma non c’è da aver paura, rassicura Vaccani: «non è mai tardi per compiere un deragliamento intelligente». Irene Dominioni

Giovani alle prese con la scelta dell'università, tra dubbi e opportunità

Per tanti giovani neodiplomati, dopo le fatiche estive della maturità, è arrivato il momento di confrontarsi con il futuro, chiamati a decidere sulla prosecuzione o meno degli studi e, in caso di risposta positiva, sulle università e facoltà ritenute più idonee alle proprie aspirazioni. Una scelta di certo non facile, se si tiene conto del fatto che, stando ai dati Almalaurea per il 2016, quasi un ragazzo su otto arriva alla vigilia del diploma ancora disorientato, ossia incerto su cosa fare del proprio futuro formativo e professionale: una percentuale che risulta particolarmente elevata negli istituti tecnici (21%), seguiti dai professionali (19%) e infine dai licei, in cui si riscontra solamente un 7% di “disorientati”. A tale disorientamento sembra doversi attribuire una scelta “errata” e/o poco consapevole dell’università, come testimonia il fatto che, già dopo il primo anno di corsi, il 14% degli studenti si dice pentito della scelta fatta. Una cifra destinata a peggiorare con l’avanzare del percorso universitario; a distanza di tre anni, l'insoddisfazione rispetto alla scelta compiuta riguarda quasi un quarto degli studenti universitari. Così l’8% di loro, a tre anni dal diploma, abbandona gli studi, mentre il 15% prosegue cambiando però ateneo o corso di laurea.Di fronte a tanti ripensamenti sembra allora necessario interrogarsi su come i ragazzi compiano la sceltadell’università, quali siano i fattori che entrano maggiormente in gioco nel momento in cui prendono una decisione così importante e quali possano altresì essere gli “strumenti utili” a compiere una scelta più consapevole. Ad influire particolarmente sulla scelta dell’università e della facoltà, dicono i dati Almalaurea, è il contesto socio-economico e culturale della famiglia: l’iscrizione all’università è infatti nettamente superiore tra i diplomati provenienti da contesti più favoriti (l’83% nel 2015) e quasi un terzo dei laureati ha almeno un genitore in possesso di un titolo universitario. Il contesto familiare non influisce tuttavia solo sul proseguimento degli studi, ma anche sulla scelta del corso di laurea: gli studenti di famiglie con livelli culturali più alti scelgono infatti con più frequenza corsi di laurea a ciclo unico rispetto al cosiddetto 3+2. Si può dunque a buon diritto sostenere che la famiglia sia al primo posto tra i fattori che più influenzano i futuri universitari, affiancata però dalla considerazione degli sbocchi occupazionali che, soprattutto in un momento complicato dal punto di vista lavorativo, non smettono di tormentare i ragazzi. A confermarlo sono i dati secondo cui molti giovani scelgono percorsi universitari differenti da quelli attinenti alle materie di studio preferite. E questo pur di avere qualche opportunità in più per il post-laurea. A riscuotere maggior successo tra le aree scelte seppure non in linea con il settore di studi preferito è in primis l’insegnamento (62%), seguito dall’area politico-sociale (58%), da quella relativa all’educazione fisica (37%) e infine dal settore ingegneristico (36%).Scelte controverse dunque. Ma soprattutto scelte che testimoniano la necessità, per tanti giovani diplomati, di avere qualche “indicatore” a cui affidarsi oltre la passione. Dove reperire queste informazioni utili? L’indagine Almalaurea 2016 può fornire qualche spunto: le lauree che sembrano offrire più opportunità a cinque anni dalla conclusione sono quelle nel settore scientifico, che vede al primo posto medicina, con una percentuale di occupati pari al 95,4%, immediatamente seguita, con il 93,8%, da ingegneria e, al 90,4%, da economia-statistica. Buone ma nettamente inferiori le possibilità per i tanti laureati in lingue, che guadagnano il nono posto con l’80,2% di occupati, seguiti da psicologi e insegnanti, che si fermano al 78-79%. In coda alla classifica i giuristi, con il 72,3% di occupati a cinque anni dal titolo. La classifica varia leggermente se, invece di prendere in considerazione la percentuale di occupati, si guarda alle retribuzioni a cinque anni dalla laurea. A conquistare il primo gradino del podio sono gli ingegneri, con uno stipendio mensile netto pari a 1.705 euro, seguiti dagli occupati in ambito scientifico, che guadagnano circa 1.614 euro mensili. Medicina scende qui in quarta posizione, con un netto di 1.552 euro, mentre migliora di il posizionamento dei giuristi, che salgono alla decima posizione con un guadagno di 1.209 euro. Ultimo posto per gli occupati in psicologia, il cui stipendio netto mensile non sembra raggiungere le quattro cifre, fermandosi a 980 euro.Le indicazioni confermano dunque in gran parte le aspettative: il settore scientifico resta in testa rispetto a quello umanistico sia per sbocchi occupazionali che per retribuzioni, nonostante le cifre di queste ultime restino mediamente basse anche per i primi classificati. Basse ma sempre superiori, mostra l’indagine, a quelle dei non laureati. Se infatti qualche giovane diplomato si stesse domandando, visto la situazione del mercato del lavoro, se vale ancora la pena laurearsi, la risposta che emerge dai dati è «sì»: i laureati continuano infatti ad avere più possibilità di occupazione rispetto ai diplomati e una retribuzione che supera in media del 50% quella di coloro che non possiedono un titolo universitario. Ad aumentare poi ulteriormente le chance di trovare lavoro, se affiancati ad una laurea, sono stage e tirocini (chi ne ha svolto almeno uno ha il 60% in più di possibilità rispetto a chi non l’ha fatto) ed esperienze di studio all’estero, che incrementano le opportunità occupazionali del 31%.Una volta scelta la facoltà tenendo d’occhio i dati occupazionali e le esperienze “collaterali” che possono aumentarne la spendibilità, bisogna però orientarsi anche nella scelta dell’università. Uno degli strumenti più noti sono le classifiche degli atenei che premiano ogni anno le università migliori e peggiori inserendole in una graduatoria generale determinata dai punteggi raggiunti nei vari parametri valutati. Sull’attendibilità di tali classifiche Repubblica degli Stagisti ha interrogato Alfonso Fuggetta, docente di informatica presso il Politecnico di Milano: «Le classifiche universitarie danno indicazioni di massima e devono essere considerate con grande prudenza, esaminando specialmente i criteri sulla base dei quali vengono costruite» ammonisce l'esperto: «Le tendenze che indicano sono ragionevoli ma devono, per l’appunto, essere considerate con attenzione». In generale «i ranking internazionali, come QS, sono più solidi e testati mentre, per quanto riguarda quelli fatti in Italia, anche io rimango a volte sorpreso dai risultati che si vedono». Se le classifiche si configurano quindi come uno strumento da utilizzare con attenzione e intelligenza, unulteriore aiuto nella valutazione dell’ateneo da scegliere può arrivare, secondo Fuggetta, dalle università stesse, la maggior parte delle quali «offre oggi servizi di supporto alla scelta del percorso di studi, sia con uffici dedicati che con strumenti web». Essenziale è dunque cercare di informarsi il più possibile e non lasciarsi influenzare nella scelta da fattori come la distanza, perché «l’università si frequenta, tendenzialmente, una sola volta nella vita e sceglierne una perché vicina è profondamente sbagliato. Se non ci sono vincoli familiari o di altra natura va scelto l’ateneo che garantisce il miglior corso di studi, e relativo sbocco professionale, per l’indirizzo che si desidera seguire». Scegliere l’ateneo migliore, in effetti, sembra sempre ripagare. E, a guardare il report 2015 di Jobpricing (l’osservatorio sulle retribuzioni presieduto da Mario Vavassori), i migliori risultano quelli delle grandi città, dal nome conosciuto e con una tradizione consolidata. Questi infatti, esercitando un buon appeal sul mercato del lavoro, permettono un più rapido inserimento professionale, consentendo così ai giovani di recuperare l’investimento fatto nella formazione universitaria in minor tempo rispetto a quanto accada con le piccole università. Stando ai dati del report, in cima alla classifica degli atenei che garantiscono “maggiori ritorni” si trovano quelli milanesi, con Politecnico, Bocconi e Cattolica che sbaragliano la concorrenza. Bene anche le università di Roma capitanate dalla Luiss, seguita da Tor Vergata e Sapienza, mentre a chiudere la classifica sono le Università di Messina, Cagliari, l’Università della Calabria e quella di Napoli Parthenope.Se, prima di iscriversi, si vuole infine “sondare il terreno” per avere un parere su facoltà e corsi da chi li ha sperimentati in prima persona, è possibile trovare online anche dei veri e propri “tripadvisor” dell’università, come Unishare e Your academic insight, dove studenti ed ex-studenti condividono la loro esperienza ed esprimono un loro personale giudizio su atenei e singoli corsi frequentati. Uno strumento che riduce la distanza tra “interni” ed “esterni” favorendo il contatto con giovani che, essendosi probabilmente posti le medesime domande qualche anno prima, sapranno forse analizzare proprio quei punti interrogativi, come la qualità della didattica, la tipologia di professori e così via, che affollano disordinatamente la mente dei futuri universitari.Giada Scotto

La Fao abolirà il rimborso spese per gli stage? Le organizzazioni a difesa degli stagisti lanciano l'allarme

Allarme per i giovani che vorrebbero fare uno stage alla Fao: tra le pochissime agenzie dell'Onu a prevedere finora un congruo rimborso spese – 700 euro al mese – per i propri tirocinanti. A partire dal prossimo anno l'Organizzazione che si occupa di fame nel mondo potrebbe eliminare questo rimborso, se non sopprimere interamente l'internship program. All'inizio del 2017 una mail dall’ufficio OPC ha, infatti, raggiunto vari uffici dell’organizzazione tra cui quello dedicato ai programmi di tirocinio e volontariato.La notizia è che all'Onu non va più bene che le varie agenzie abbiano ognuna una sua policy per quanto riguarda i programmi di stage e di volontariato, e vuole uniformarli. A partire, pare, dal 2018. Il punto è che l'Onu è un caso da manuale di come NON si rispettano gli stagisti: da anni la Repubblica degli Stagisti in Italia, e molte altre organizzazioni in difesa dei tirocinanti nel mondo, denunciano gli stage gratuiti e chiedono all'Onu di introdurre un rimborso spese – finora purtroppo senza risultati. Insomma, il rischio concreto è che uniformare le policy voglia dire cancellare quelle finora positive, come la Fao, e fare un'omogeneizzazione al ribasso.La Fair Internship initiative, coalizione di numerose organizzazioni (tra cui la Geneva Interns Association, la Graduate Institute Students Association e la Conference Universitaire des Associations d’Etudiantes) convinte che i tirocini senza rimborso spese rappresentino una pratica discriminatoria, ha subito alzato le antenne. La Repubblica degli Stagisti dal canto suo (il quartier generale della Fao è proprio a Roma) ha immediatamente fatto partire una verifica, per capire se questa notizia abbia o no fondamento, contattando l'ufficio stampa della Fao e chiedendo una intervista al direttore generale.Ad oggi chi cerca informazioni sui tirocini all’interno della Fao facendo una ricerca sul suo sito si trova davanti a questa pagina dove si apprende che «le informazioni sul nuovo programma saranno a breve disponibili».L’ufficio stampa dice di non avere informazioni più specifiche. La RdS ha dunque provato a contattare altri canali all’interno della Fao, prima scrivendo direttamente alla mail dell’”Internship Programme” e poi al Direttore generale della Fao, José Graziano da Silva.I responsabili dell'Internship program non si sono sbilanciati: hanno eluso la nostra domanda, che riguardava l'annunciata riorganizzazione della policy sui tirocini – e dunque il futuro – fornendo invece una (abbastanza inutile) conferma delle condizioni attuali degli stagisti – parlando cioè del presente. «Non ci sono cambiamenti sul pagamento degli stipendi agli stagisti Fao. E gli stagisti assegnati alla Fao ricevono mensilmente il loro stipendio». Eppure nuovi tirocini non partiranno a breve ed è evidente che i vecchi, partiti con le vecchie regole, prevedano ancora la vecchia policy e dunque i 700 euro al mese di indennità: nessuno aveva dubbi su questo.Nessuna risposta specifica da Nadim Demachlie, che è a capo proprio del team sul programma di volontariato e tirocinio. Per quanto riguarda il direttore generale José Graziano da Silva, il suo staff ha rigettato la richiesta di intervista della Repubblica degli Stagisti «a causa di un fitto calendario di appuntamenti di lavoro e viaggi». Anche l’ufficio stampa del direttore generale ci ha tenuto a precisare che «i nostri tirocinanti ricevono attualmente uno stipendio», riferendosi al presente. Ma almeno ha aggiunto qualche chiarimento sul futuro: «La risposta sulla pagina delle Faq in cui si scrive che la misura è in fase di revisione si riferisce a una revisione di tutto il grande sistema delle Nazioni Unite, che coinvolge 28 agenzie, per valutare come le agenzie gestiscono il compenso per i tirocini». Questa revisione, sottolinea nella sua risposta l’ufficio stampa, «sarà conclusa il prossimo anno e darà dei consigli su come le condizioni di lavoro del tirocinio potrebbero essere standardizzate in tutto il sistema delle Nazioni Unite. Questo potrebbe avere implicazioni su come le agenzie Onu pagheranno i tirocinanti».Dunque la Fao con la frase sulle eventuali implicazioni su come le agenzie delle Nazioni Unite pagheranno i propri stagisti, ammette che un cambiamento ci sarà. E che visto il comportamento crescente delle altre agenzie fa pensare più a una probabile cancellazione dei pagamenti ai tirocinanti nelle poche agenzie Onu che li prevedono, piuttosto che a una loro introduzione nelle molte agenzie che ad oggi offrono solo tirocini gratuiti.L'eventuale cancellazione dell’indennità per gli stagisti andrebbe palesemente contro la mobilitazione internazionale per convincere l’Onu a prevedere un rimborso per i suoi tirocinanti che da anni affiancano dipendenti e funzionari e lo fanno in maniera totalmente gratuita. A febbraio di quest’anno proprio a Bruxelles si è svolta la Global Intern Strike, la manifestazione dei giovani arrivati da ogni parte d’Europa per svolgere tirocini totalmente gratis all’interno delle istituzioni europee. Un problema, quello degli stagisti delle organizzazioni internazionali non pagati, non solo dell'Onu, e affrontato decine di volte dalla nostra testata.Una mobilitazione per convincere a mettere un rimborso per gli stagisti da sempre portata avanti anche da Fair Internship Initiative, ma che ad oggi purtroppo non ha portato frutti positivi. Quello che è più grave ancora è che proprio una delle poche organizzazioni che fino ad oggi era virtuosa e permetteva ai giovani di fare un’esperienza formativa ed entusiasmante in un ambiente internazionale senza dover necessariamente chiedere alla propria famiglia di origine di essere mantenuto all’estero con spese aggiuntive, adesso decida di allinearsi. E prenda come riferimento chi fino ad oggi ha reso difficilissima la vita degli stagisti.Ma cosa prevede questa revisione? In mancanza di risposte ufficiali dalla Fao, alla Repubblica degli Stagisti prova a spiegarlo da Ginevra Matteo De Simone della Fair internship initiative, raccontando che «in realtà l’unica cosa prevista è l’abolizione della borsa di 700 dollari per gli stagisti, lasciando così solo il programma di volontariato che verrebbe a rimpiazzare quello di tirocini con un semplice cambio di nome». Un vero brutto colpo per gli stagisti che ambiscono a partecipare ai tirocini delle organizzazioni delle Nazioni Unite che ormai, per la gran parte, sono gratuiti. «Il fatto che invece di andare avanti ci sia un’organizzazione che va indietro rappresenta una grande sconfitta per il movimento contro i tirocini senza compenso. Un pericoloso precedente che rischierebbe di generare un devastante effetto domino».Per questo motivo Repubblica degli Stagisti e FII scendono in campo puntando a una campagna che coinvolga quante più organizzazioni possibili. Innanzitutto con una lettera da inviare al direttore generale Da Silva, il cui testo la Repubblica degli Stagisti ha potuto leggere in anteprima, per esprimere il proprio rammarico e preoccupazione per questa decisione e per la mancanza di trasparenza e consultazione che ha accompagnato questa scelta. Ma il punto sottolineato da FII è anche un altro: «Come dimostrato dalla Joint Inspection Unit delle Nazioni Unite e da altre indagini, la maggior barriera che limita l’accesso agli stage è il costo associato alle spese di soggiorno. Limitando l’accessibilità solo ai pochi che possono permettersi di lavorare gratuitamente aumentando le disparità sia all’interno sia tra i vari paesi. Un problema confermato dal Report Mondiale della gioventù 2016 delle Nazioni Unite, secondo cui “la mancanza di un pagamento rende de facto esclusivi i tirocini non retribuiti istituzionalizzando efficacemente disparità socioeconomiche”».Per questo l'appello al direttore Da Silva di non deludere i giovani, di non deludere i meno privilegiati e di fermare immediatamente i piani per la riduzione delle indennità degli stagisti ma anzi, lavorare con la comunità degli stagisti per assicurare un adeguato stipendio in linea con il costo della vita a tutti gli stagisti della Fao - e magari un giorno anche di tutte le altre agenzie dell'Onu.La protesta è partita. Ora dovrà essere la Fao, con i suoi rappresentanti, a decidere se accoglierla o lasciare le proprie porte aperte a pochi fortunati.  Marianna Lepore

Letture per l'estate: quattro romanzi che parlano di giovani e lavoro selezionati per voi dalla Repubblica degli Stagisti

Che vi stiate ancora godendo il relax delle vacanze, che siate già tornati al lavoro o che ancora dobbiate partire per mete lontane, l’estate rimane l’occasione perfetta per immergersi tra le pagine di un buon libro. Magari che parli anche dei temi che più si sentono vicini, come i giovani e il lavoro. Non potevano allora che arrivare dalla Repubblica degli Stagisti i consigli di lettura su questi argomenti. Abbiamo scelto quattro romanzi, storie spesso personali, scritte da autori che sono essi stessi giovani e che inquadrano, ciascuno a suo modo, la condizione di un’intera generazione. Lavorativa, ma soprattutto esistenziale: tra lavori precari, i tanti compromessi a cui bisogna scendere per trovare stabilità e un senso di disillusione e di insoddisfazione verso il futuro, i giovani di oggi si trovano spesso in un vicolo cieco. Può esserci però una via di fuga, letteraria e non solo: l’aspetto comune e più interessante a tutti è la comicità nell'affrontare queste tematiche; pur ritraendo il panorama sconfortante che si prospetta ai giovani, questi titoli riflettono con spirito sulle difficoltà che i ragazzi di oggi devono affrontare, offrendo un’importante chiave di lettura della realtà e un appiglio per intraprendere con più spensieratezza le sfide che si prospettano a ciascuno.Cronache dalla ditta, di Andrea Cisi (2008), ed. MondadoriLa classica storia di precariato del protagonista delle Cronache dalla ditta di Andrea Cisi inizia sullo sfondo della industriale pianura Padana, dove un giovane nemmeno trentenne e con diploma di ragioniere è alla ricerca di lavoro. Dopo aver saltellato di tre mesi in tre mesi da un contratto all’altro, finalmente trova l’agognato posto fisso come operaio non specializzato in una piccola ditta familiare. Un impiego umile, ma anche l’unico che gli consenta di affittare un piccolo appartamento e di iniziare finalmente una vita autonoma insieme alla fidanzata e al gatto, cercando di sottrarsi con tutte le forze alla miserabile etichetta di “bamboccione”. Tra gesti ripetitivi, compiuti fino all’esaurimento all’interno dello stesso stanzone, il protagonista dialoga con coloro che condividono la sua realtà per buona parte della giornata, personaggi stravaganti con cui cerca di evadere dalla monotonia del lavoro. Ne emerge una riflessione un po’ amara, ma anche estremamente comica, sui compromessi cui il lavoro costringe oggigiorno. La questione più che altro, di Ginevra Lamberti (2015), ed. NottetempoGaia si annoia, segregata nella valle dove vive. Questa, più che altro, è la questione. Tra familiari strambi e un po’ scomodi - mamma divorziata e padre tabagista all’estremo, nonno meridionale star di un programma tv pomeridiano e nonna del Nord devota a santa Rita, Gaia aspetta nell’ordine Natale, Capodanno e l’ultimo esame. Si annoia e vorrebbe fare il giro del mondo in orizzontale, tagliandolo in due, nella speranza di trovarci dentro ciò che le manca, ma le sue tasche sono troppo vuote. Può solo trasferirsi nella laguna più bella del mondo, quella veneziana, ma anche lì fatica a trovare quel che sta cercando. Il lavoro è sempre e solo un “lavoretto”, Venezia non è più di un fondale di cartone per i selfie dei turisti, e intanto la sua famiglia invecchia e si ammala. Romanzo d’esordio di Ginevra Lamberti, La questione più che altro ritrae con stile brillante una generazione alla ricerca di un futuro che sia il più possibile lontano dal presente, finendo per inquadrarlo come il premio di una caccia al tesoro.Perciò veniamo bene nelle fotografie, di Francesco Targhetta (2012), ed. IsbnÈ attraverso la forma poetica che questo romanzo, sapientemente costruito da Francesco Targhetta, giovane dottorando, arriva a svelare l’essenza di un’intera generazione. Se veniamo bene nelle fotografie è perché nessuno si muove: questa è l’immagine con cui l’autore ritrae i suoi personaggi e disarma il lettore. Non si muove il protagonista, un dottorando in storia quasi trentenne (personaggio semi-autobiografico), né i suoi coinquilini - universitari, operatori di call center e neo manager di multinazionali, nell’appartamento della Padova popolare che condividono. La vita pare scorrere solo per ammazzare il tempo, aspettando la resa. E il tempo è l’elemento centrale, il filo rosso che collega l’esistenza di ciascuno: talmente confuso che sembra quasi di rivivere sempre lo stesso momento. “Ma poi si aggiusteranno, no?, le cose,/e girerà la ruota”. Nel frattempo, il protagonista riflette sulle questioni esistenziali più profonde di fronte ad una bottiglia di prosecco di sottomarca. Tutto sembra fatalmente immobile, ma pian piano emerge una verità: l’importanza di guardarsi con tenerezza, imparando anche a ridere di sé. Il mondo deve sapere, di Michela Murgia (2010), ed. IsbnNon è molto diversa la realtà di oggi rispetto a quella del 2006, anno in cui l’autrice e protagonista del libro viene assunta nel call center della Kirby, multinazionale produttrice del “mostro”, un aspirapolvere da tremila euro “brevettato dalla NASA” intorno al quale girano le vite di un centinaio di persone, tra telefoniste e venditori. Per Michela questo è il primo contatto con l’assurdo mondo del telemarketing e dei suoi subdoli metodi di persuasione, un mondo ancora più assurdo se si lavora alla Kirby, dove il modello lavorativo prevede metodi motivazionali poco credibili, ricatti psicologici e castighi aziendali di ogni sorta. Michela scrive tutto quel che succede in trenta interminabili giorni in un blog, raccontando il mondo del precariato e dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo con un tono ironico ed una punta di sarcasmo. Un racconto che a tratti lascia increduli e fa arrabbiare, ma anche tanto ridere. Il libro, il primo dell’autrice sarda, ha ispirato il film di Paolo Virzì Tutta la vita davanti. Irene Dominioni

Specchio specchio delle mie brame, qual è l'ateneo migliore di tutto il reame?

Siamo ormai a metà estate e, come ogni anno, sono iniziate a uscire le prime note quanto criticate classifiche che valutano gli atenei al fine di stilare una graduatoria che elegga i migliori e i peggiori per l’anno accademico appena trascorso. Uno strumento che nasce con l’intento di fornire agli studenti e alle loro famiglie un canale d’orientamento nella scelta del corso di studi più adatto e al quale viene data sempre più rilevanza, non tanto però – sembra – da parte dei giovani, quanto piuttosto dalle agenzie che se ne occupano e dalle università stesse.«L’utilizzo delle classifiche da parte degli studenti è limitato, se si tiene anche conto che la mobilità territoriale in Italia per motivi di studio è contenuta» conferma alla Repubblica degli Stagisti Ferruccio Biolcati Rinaldi, docente di Sociologia generale all’università di Milano, che qualche anno fa ha preso parte a uno studio proprio sui ranking universitari: «A consultare maggiormente queste classifiche sono gli studenti che provengono da famiglie di ceto sociale medio-alto, che hanno quindi probabilmente già esperienza del sistema accademico – perché qualcuno in famiglia è già laureato – e possono sfruttare l’insieme delle proprie relazioni sociali per ottenere informazioni di prima mano. Gli studenti provenienti dai ceti medio-bassi, che sono più poveri di informazioni, sono invece quelli che meno le consultano». Non si può dire certo la stessa cosa degli atenei che ottengono un buon piazzamento, i quali si affrettano a rendere noti i risultati delle classifiche pubblicandoli sulle home page dei propri siti. Ma quali sono e, soprattutto, quanto è lecito fidarsi di tali graduatorie, affidando ai loro risultati una scelta così importante come quella dell’università? Secondo Biolcati la cosa migliore è «utilizzarle con consapevolezza, cercando di capire cosa stanno classificando – università nel loro complesso, dipartimenti, facoltà ecc. – e su quali parametri si basa la classifica nell’ambito della ricerca e/o didattica, considerandone l’estensione territoriale – più è ampia più si rischia di confrontare situazioni molto diverse – e tenendone presente sia il ranking, cioè la posizione in classifica, sia il rating, il punteggio ottenuto, poiché spesso le differenti posizioni in classifica enfatizzano differenze di punteggio anche minimali».L’universo delle classifiche si mostra in effetti molto articolato. Se, per quanto riguarda l’Italia, se ne possono contare tre, all’estero il numero sale notevolmente, offrendo ai giovani un panorama di risultati ampio ma spesso così diversificato da indurre in confusione.Le classifiche italiane di riferimento sono quelle stilate da Censis, istituto di ricerca socio-economica che opera prevalentemente su incarico di enti pubblici, Il Sole24Ore, società privata che stila da vari anni una propria graduatoria, e Anvur, l’Agenzia nazionale pubblica di valutazione del sistema universitario e della ricerca la cui classifica (che prende in analisi la ricerca nelle università per cicli di 4 anni) è utilizzata dal Miur per stabilire la quota di finanziamenti da destinare a ciascun ateneo.A saltare all’occhio, non appena si prova a confrontare le graduatorie 2016 di Censis e Il Sole24Ore e la VQR 2011-2014 di Anvur, è la grande differenza nel posizionamento degli atenei, soprattutto per quanto riguarda Il Sole24Ore. Fatta eccezione, infatti, per le università di Padova e Bologna, che occupano le prime posizioni in tutte e tre le classifiche guadagnandosi un riconoscimento condiviso, le università premiate da Censis e Anvur come quelle di Firenze, Torino e Milano, si trovano in gran parte, nella graduatoria de Il Sole24Ore, oltre il 15esimo posto. A occupare la testa della classifica del quotidiano economico è invece l’università di Verona, assente nella top 5 di Censis e Anvur così come nella parte alta delle classifiche internazionali.Differenze del genere possono a prima vista sorprendere. Ma tutto appare più chiaro se si dà un’occhiata alla metodologia e ai parametri valutativi scelti da ciascuna agenzia: la classifica Censis valuta infatti gli atenei dopo averli suddivisi in base alla dimensione – mega, grandi, medi e piccoli – e allo “status” – statali, politecnici, non statali –, mentre Anvur propone una graduatoria specifica per aree di ricerca. Il Sole24Ore, infine, pubblica un’unica classifica per tutte le università, distinguendo solamente tra statali e non statali. Se già questo lascia intuire la difficoltà nel raffrontare le graduatorie, la distanza nei parametri adottati sancisce chiaramente la loro incomparabilità: si passa infatti da criteri come il «giudizio dei laureandi sui corsi di studio», preso in considerazione da Il Sole24Ore, alla «funzionalità dei siti web d’ateneo» del Censis, per terminare con la bibliometria anvuriana che valuta l’«impatto» della ricerca in base alla rilevanza della rivista di pubblicazione.Il panorama che si trova davanti uno studente alle prese con la scelta dell’università è dunque già abbastanza vario in base alle classifiche nazionali, e le cose non migliorano spostando lo sguardo su quelle internazionali: la speranza è infatti quella di chiarirsi le idee sembra destinata a rimanere delusa. Le principali classifiche a livello internazionale sono cinque: la più nota è forse l’Arwu stilata dall’università di Shanghai, seguita da QS, pubblicata dalla compagnia inglese specializzata in educazione Quacquarelli Symonds, Times Higher Education – settimanale britannico che si occupa di istruzione superiore –, Cwur che è un Centro di studi per le classifiche universitarie mondiali con sede negli Emirati Arabi Uniti, e l’ultima arrivata U-Multirank, istituita dalla Commissione Europea e finanziata dal programma Erasmus+.I risultati sono anche qui contrastanti e le poche conclusioni tratte dalle classifiche italiane vanno a scontrarsi con risultati internazionali per la maggior parte differenti. Le sole “certezze” restano l’università di Padova e l’Alma Mater di Bologna, che si piazzano tra le prime università italiane in 4 classifiche su 5. Neanche loro, però, sembrano riuscire a “metter tutti d’accordo”: nessuna delle due rientra infatti neanche nella top 10 di U-Multirank, la cui graduatoria risulta in molti casi, data la metodologia utilizzata, molto distante dalle altre: la classifica europea prevede infatti che, qualora non sia possibile per un’università valutare uno dei parametri considerati, essa venga automaticamente declassata all’interno della classifica generale. Ciò conduce a una differenza con le altre graduatorie che non può non dare da pensare, visto che questa classifica è nata proprio con l’intento di contrastare le critiche rivolte alle altre proponendo criteri – come la percentuale dei laureati, il tempo per completare il percorso di studi e l’occupazione dei laureati nella regione in cui si trova l’università – che accertino le effettive condizioni di vita e di studio degli studenti. Viene dunque da chiedersi a chi dare ragione. Le differenze proseguono infatti su tanti nomi. Ad ottenere un buon piazzamento in tutte le graduatorie internazionali tranne che in quella di U-Multirank sono sia l’università La Sapienza di Roma che la Statale di Milano; riesce invece a strappare una buona posizione in tutte le classifiche, compresa U-Multirank - dove è al terzo posto -, il Politecnico di Milano, che subisce tuttavia in quest'ultima l’inaspettato sorpasso del Politecnico di Bari, assente nella top 10 di tutte le classifiche e ultimo nella sezione “Politecnici” del Censis. A scatenare anche qui l’enigma delle incongruenze nei risultati sono i parametri adottati: emblematico il caso Arwu, che affida il 30% della valutazione degli atenei alla «qualità dell’educazione» misurata in base al numero di premi Nobel e medaglie Fields vinti da allievi ed ex-allievi anche decenni fa.  Per QS, invece, il 40% della valutazione complessiva è data dalla «reputazione accademica» ottenuta tramite l’interrogazione di specialisti. Anche Times inserisce tra i criteri la «reputazione», ma il risultato finale è diverso da quello di QS proprio in virtù dei differenti pareri venuti dagli specialisti interrogati. Su quale fare più affidamento, dunque? Se è vero che parametri come l’opinione degli specialisti sono soggettivi e parzialmente verificabili, siamo sicuri che gli oggettivi premi Nobel e medaglie Fields siano realmente i migliori criteri da prendere in considerazione per valutare un’università? Forse, per uno studente disorientato, sarebbe più importante vedere la qualità dell’insegnamento, le possibilità di occupazione e l’internazionalizzazione.Eppure queste classifiche continuano a moltiplicarsi e a suscitare interesse, sollevando così il dubbio che nascondano altri vantaggi.  «Si tratta di benefici molto diversi, impossibili da confrontare» sostiene Biolcati: «Le università che ottengono dei buoni piazzamenti possono derivarne certamente grandi vantaggi economici, anche se qui la questione è il peso che la politica dà a questi strumenti di valutazione e come decide di applicarli. Anche le imprese private coinvolte in questo tipo di operazioni cercano ovviamente di trarne un vantaggio economico, come dimostra anche il fatto che spesso le classifiche sono solo un pezzo di una più ampia offerta di servizi nel campo dell’higher education. Tuttavia si spera che anche gli studenti possano trarre vantaggio da questa offerta di informazioni. L’importante è che non si creino collusioni a danno di qualcuno degli attori coinvolti, e su questo deve vigilare prima di tutto la comunità accademica nel suo complesso». Giada Scotto

A caccia di competenze digitali nei fab lab di Milano

In un’economia in cui il successo si gioca sui temi dell’innovazione e delle nuove forme di imprenditorialità, la padronanza dei processi digitali diventa un elemento sempre più cruciale sia per le imprese che per gli individui. Eppure da uno studio del 2016 condotto da University2Business nelle università italiane emerge che la maggior parte degli studenti si affaccia al mondo del lavoro con una scarsa consapevolezza della trasformazione digitale in atto nell’economia, poca esperienza concreta nella gestione di progetti digitali e ancora meno conoscenze teoriche sull’innovazione digitale applicata al business. Secondo la ricerca quelli che hanno intuito la rilevanza del saper sviluppare un software o lanciare una startup, spendendosi nell’acquisire queste competenze anche al di fuori dei corsi universitari, sono pari a circa il 30%. Una percentuale ancora troppo bassa rispetto alle potenzialità che il mercato offre. Se si vuole colmare il cronico ritardo italiano in fatto di innovazione, la necessità di stimolare i giovani ad avvicinarsi a questi temi si fa quindi sempre più impellente.Alcune opportunità per avvicinarsi a conoscenze e processi digitali già esistono; tra queste, i percorsi formativi di Crescere in Digitale, il progetto promosso dal Ministero del Lavoro, Google e Unioncamere che promuove inoltre l’inserimento in azienda dei giovani, e Fastweb Digital Academy. A Milano, inoltre, MiGeneration Lab ha offerto nel 2016 ai giovani disoccupati o precari tra i 18 e i 35 anni corsi gratuiti sulle nuove tecnologie e l’imprenditorialità, con la collaborazione di 18 partner tra makerspace, enti del privato sociale, associazioni giovanili e università. Alcuni di questi corsi, dalla grafica allo sviluppo di app, la progettazione e la comunicazione digitale, sono proseguiti con tre fab lab milanesi, WeMake, Yatta! e OpenDotLab. La Repubblica degli Stagisti li ha sentiti per capire qual è attualmente la loro offerta formativa per i giovani.Cos’è un fab lab? Abbreviazione di fabrication laboratory e detto anche makerspace, si tratta di un’officina digitale dove è possibile sviluppare progetti innovativi e un'ampia gamma di oggetti grazie a stampanti 3D, frese a controllo numerico, laser cutter, macchine per il taglio vinilico e postazioni di lavorazione. Il fab lab è frequentato dai maker, figure a cavallo tra gli inventori e gli artigiani, concretizzate nelle professionalità più diverse, dai designer agli sviluppatori, progettisti, ingegneri e creativi di ogni genere. Ma, soprattutto, il fab lab è una comunità «caratterizzata da persone diverse e da relazioni leggere, è un luogo che si frequenta per piacere» sottolinea Cristina Martellosio, responsabile del settore educational e politiche giovanili di WeMake. I fab lab possono avere focus e offrire attività diversi, ma sono accomunati dagli stessi principi di fondo: sono spazi accessibili a tutti; la tecnologia è qualcosa che si capisce davvero solo mettendoci le mani; e la curiosità e la voglia di imparare sono aspetti centrali per chiunque si avvicini a questo tipo di realtà.WeMake è nata nel 2014 per mano di Zoe Romano e Costantino Bongiorno e si occupa principalmente di Electronic, Textile e Fabrication, oltre che di formazione e ricerca. Yatta!, che in giapponese significa “Ce l’ho fatta!”, invece, incentra la propria attività formativa intorno agli ambiti dell’elettronica, dell’informatica e del design, offrendo serate divulgative e anche uno spazio di coworking. Opendot, infine, è stato fondato nel 2014 da Dotdotdot, studio di progettazione multidisciplinare milanese, e offre una formazione di stampo progettistico, oltre a svolgere attività consulenziale.Le tipologie di corsi offerti sono diverse a seconda del fab lab. A WeMake, per esempio, si possono frequentare corsi brevi di 5 o 6 ore per imparare ad utilizzare uno specifico software o hardware, utili allo stesso tempo per capire se si è interessati o meno ad approfondire quelle tecnologie. Altri, invece, sono più lunghi, fino a 80 o 90 ore, erogati per la maggior parte gratuitamente, sulla falsariga dei corsi di MiGeneration Lab, il progetto promosso e co-finanziato dal Comune di Milano in favore dei Neet per lo sviluppo di nuove competenze e idee imprenditoriali: pur non ricadendo sui fruitori, il valore monetario dei corsi rappresenta un investimento su di loro. L’obiettivo di questo tipo di formazione è anche motivazionale: «molte persone si mettono a cercare lavoro o riprendono il corso degli studi» sottolinea la Martellosio. Per quanto riguarda i temi, WeMake sviluppa, in partnership con Fastweb Digital Academy, corsi professionalizzanti di digital fabrication, robotica, user experience & interface, wearable e digital fashion. Un’eccezione è composta dal corso “Dall’idea al progetto” che ha un carattere più orientativo ed è volto non solo a sviluppare competenze, ma soprattutto a fornire gli strumenti per costruire un proprio progetto dalle fondamenta, partendo dallo sviluppo di un piano di fattibilità e di un business plan fino alla stesura di un programma di comunicazione. Infine, WeMake è impegnata nelle scuole, dove conduce laboratori digitali puntando a realizzare percorsi di innovazione tecnologica, collaborando con gli insegnanti sul lungo periodo. «Le tecnologie non sono fini a se stesse, ma sono utili proprio per le materie di base che si imparano a scuola. Solo in questo modo si riesce a fornire agli studenti competenze che possono essere utili in ambiti differenti» aggiunge la Martellosio. Con gli studenti più grandi, infine, organizza anche attività di alternanza scuola-lavoro, con la possibilità per i ragazzi di sviluppare un progetto personale.Yatta! ha due filoni di attività: il primo comprende percorsi di educazione digitale indirizzati alle scuole e programmi di formazione più verticali di informatica, elettronica e digital fabrication, mentre il secondo è incentrato su servizi di programmazione, progettazione e stampa 3D. Sono ormai iniziati i corsi della summer school, che prevedono una formazione di base nel format “senza segreti” applicato a stampa 3D, Arduino e programmazione, in corsi serali di 3 ore. Mentre da settembre ripartono i corsi per maker, per progettare e realizzare un’idea, insieme a corsi “pro” più verticali. Yatta! offre anche serate divulgative gratuite su diversi temi come Smar3D, dedicato alla stampa 3D, TEaCH, pensato per l’insegnamento con strumenti digitali, Smart, che tocca tutte le tecnologie intelligenti di oggi, e infine Onboard, dedicato all’elettronica e in particolare all’hardware. Inoltre, sono disponibili corsi di coding di base per i giovanissimi (8-18 anni), in alcuni casi anche gratuiti.Opendot, infine, svolge formazione in diverse modalità: forte della collaborazione con le università, propone workshop e corsi brevi di un paio di giorni, i cosiddetti “user group” (gratuiti) su temi come il food design, grafica e mobilità, adottando la modalità della peer-to-peer education. Ci sono inoltre corsi più avanzati e verticali su tecnologie che non fanno parte nemmeno dei programmi universitari, come quelli sul machine learning, e corsi di progettazione volti a costruire una professionalità propria, apprendendo le tecniche del crowdfunding, la progettazione di un business model e lo sviluppo di un prodotto. Imprescindibili anche i corsi più lunghi nel format di MiGeneration Lab, e in più dall’anno prossimo inizieranno anche le attività con le scuole. Opendot, inoltre, eroga un corso particolare della durata di 6 mesi chiamato Fab Academy, che consiste in un’infarinatura generale di tutte le tecnologie utilizzate in un fab lab. I requisiti per partecipare sono «un sacco di voglia e sapere l’inglese», puntualizza Enrico Bassi, design engineer e co-fondatore di OpenDot, poiché metà delle sessioni si svolge in videoconferenza contemporaneamente in tutto il mondo. Anche qui, c’è di tutto un po’. Uno degli studenti, racconta Bassi, «era direttore della fotografia per le produzioni cinematografiche, si è appassionato allo spirito e al funzionamento delle tecnologie, e adesso gestisce un laboratorio vicino a Milano». Le selezioni per la quarta edizione inizieranno a settembre e il corso a gennaio, con incontri bisettimanali in una classe volutamente molto ristretta di 8 persone, per permettere a tutti i partecipanti di usufruire al meglio dei contenuti e delle tecnologie a disposizione. Finora la Fab Academy ha coinvolto venti partecipanti direttamente in OpenDot, più 9 seguiti in remoto. La quota di partecipazione è di 5mila euro, comprensiva di attestato finale e portfolio dei propri progetti, e sono disponibili borse di studio. In più, OpenDot è alla ricerca di aziende interessate a giovani talentuosi e preparati alla trasformazione digitale per instaurare delle partnership.Secondo quanto riportato dall’Osservatorio delle Competenze Digitali 2017, «quasi la metà dei lavori svolti attualmente da persone fisiche, nel mondo, potrà essere automatizzato quando le tecnologie si saranno diffuse su scala globale». Solo in Italia si stima che quasi 12 milioni di lavoratori saranno interessati da un processo di automatizzazione progressiva fino ad almeno il 50% dei loro compiti. Molti impieghi si trasformeranno, alcuni (quelli a bassa qualificazione) saranno rimpiazzati completamente da processi automatizzati, ma il digitale contribuirà anche alla creazione di nuovi posti di lavoro basati su nuove competenze e ad alto livello di qualificazione. Si tratterà di competenze non soltanto di natura tecnologica, ma un mix complesso comprendente soft skill e abilità sociali, come «la capacità di risolvere problemi complessi, di gestire il cambiamento, di collaborare e relazionarsi, di adattarsi con flessibilità e di comunicare». Perciò acquisire esperienza in un ambiente come quello di un fab lab, dove questi processi sono centrali, può fornire un vantaggio importante nell’accrescere tutti questi aspetti ed essere più competitivi nel mondo del lavoro. Se le tecnologie, come sostiene Neil Gershenfeld del MIT di Boston, «ci consentono di costruire praticamente qualsiasi cosa», non potranno che essere utili anche a dare forma e valore alla propria professionalità. Irene Dominioni

«Perché tanti insegnanti accettano di lavorare gratis nella scuola? Per il punteggio»

Insegnanti che per un intero anno scolastico vanno a scuola, svolgono le loro lezioni ma alla fine del mese non ricevono alcun bonifico. O, peggio, dopo averlo ricevuto sono costretti a prelevare la somma e a ridarla in contanti negli istituti privati in cui hanno svolto le lezioni.Il malcostume delle false buste paga non sembra fermarsi. Continua a verificarsi, soprattutto al Sud, nelle scuole primarie e in particolare in quelle confessionali. «Al nord pagano, di meno, ma pagano; e alla fine si prende uno stipendio, magari facendo 36 ore invece delle 24 previste. Però lì sono più frequenti anomalie nel contesto del titolo di studio» spiega Paolo Latella, membro del direttivo nazionale Unicobas e segretario regionale per la Lombardia alla Repubblica degli Stagisti. «A Bologna, per esempio, qualche anno fa nelle scuole confessionali c’erano persone che non avevano titolo per insegnare e invece gestivano le classi delle scuole primarie» aggiunge il segretario regionale, che nel 2014 aveva pubblicato un dossier, diventato poi un libro, in cui denunciava apertamente questo problema.Il suo racconto, però, non si ferma qui: come dimenticare lo scandalo a Lesina in Puglia, dove una vigilessa stampava titoli e lauree false? Titoli fasulli grazie ai quali «gente con la terza media si è trovata a insegnare in tutta Italia». E non conoscendo la situazione drammatica a cui sono sottoposti questi insegnanti si è poi lamentata per l’assenza di guadagno. «È il caso di una signora che in precedenza faceva la donna delle pulizie e si è lamentata perché per pulire guadagnava 15 euro l’ora mentre presentando il titolo da laureata in una scuola paritaria alla fine riceveva solo il punteggio»Ma perché in tanti accettano di lavorare gratis e sottostare alle minacce dei propri dirigenti? «Il problema è sempre il punteggio. A breve dovrebbe partire il nuovo sistema di reclutamento ma per le supplenze si farà comunque riferimento alle graduatorie di istituto e lì il punteggio serve ancora» spiega Gianluca Vacca, deputato del Movimento 5 Stelle, membro alla Camera dei deputati della VII commissione, Cultura scienza e istruzione.  «Non solo, il punteggio delle paritarie è lo stesso per la scuola pubblica. Ecco perché come M5S abbiamo proprio qualche settimana fa votato il nostro programma scuola per le prossime elezioni e uno dei punti messi al voto è stata la revisione della parità scolastica. Bisognerà chiarire se non convenga eliminare o ridurre il punteggio dato a chi insegna in queste scuole».Si insegna gratis, quindi, per fare punteggio, aspirare poi a qualche supplenza in scuole statali ed entrare nel giro degli incarichi. C’è però una novità, introdotta dalla legge 107, che non è molto conosciuta. «La Buona scuola ha in parte bloccato tutto questo. Se, infatti, entro tre anni di supplenze in scuole pubbliche con incarichi annuali non riesci a vincere il concorso ordinario, allora non puoi più insegnare nella scuola. Quindi resterai in terza fascia per le supplenze, ma non otterrai più l’incarico annuale» spiega Latella: «Già dal 2019 ci saranno i primi verdetti, e gente che ha insegnato per anni come precario nel pubblico o nel privato rimarrà senza lavoro». Il sindacalista spiega meglio la questione: «Fatta la riforma, pendevano tantissimi ricorsi al Tar o al giudice del lavoro perché i nuovi docenti di ruolo chiedevano la ricostruzione economica per tutti gli anni di precariato. C’era stata, infatti, una sentenza della Corte europea che diceva che l’Italia era in difetto perché faceva lavorare illegalmente da molti anni i precari della scuola. E allora il ministero, per salvaguardare se stesso, ha messo questo vincolo di tre anni per bloccare i ricorsi. Non tutti però sono informati sul tema e continuano a fare le supplentine».Resta da chiedersi se esista un modo per eliminare questa prassi delle supplenze non retribuite. Secondo Vacca e Latella l’unica soluzione è quella di verificare puntualmente i pagamenti. Non solo, però, sui conti correnti dei docenti, bensì «facendo un controllo incrociato tra i dipendenti della scuola e il bilancio dell’azienda che fornisce il servizio di istruzione. Una scuola paritaria ha dei bilanci» spiega il sindacalista Unicobas «e quei bilanci devono essere pubblici. A quel punto basta fare il controllo sulle entrate delle rette degli studenti e le uscite per pagare gli insegnanti. E quei versamenti devono sì apparire sui conti correnti dei docenti ma non deve esserci un prelievo per la stessa cifra, come ora accade. Il gioco ora è questo: firmano lettere di licenziamento senza data, gli fanno il versamento e poi le scuole pretendono di riavere in contanti la stessa cifra».Certo, fare i controlli non è facile anche perché «dove ci sono finanziamenti pubblici e scuole che fanno business, dietro c’è tutta la malavita organizzata. E ci sono ispettori che in alcune situazioni territoriali hanno anche paura di andare a fare i controlli. Per far capire il business che c’è dietro, basta questo dato: solo a Caserta ci sono 404 scuole paritarie a fronte di 210 pubbliche».Un'altra difficoltà è che il dato completo dei docenti non retribuiti nelle scuole paritarie non esiste. «La stima è difficile» dice Vacca: «Non c’è una contezza esatta dei numeri. L’anno scorso ho raccolto le segnalazioni di abusi in Abruzzo e molti docenti mi hanno raccontato dei contratti falsi, delle ore inferiori dichiarate rispetto a quelle fatte, dell’assenza di pagamento. In totale avrò ricevuto una 40ina di segnalazioni. Ma per avere un numero esatto probabilmente bisognerà aspettare i due anni di piena operatività della legge».Il ministero della pubblica istruzione non ha un dato più recente di quello legato al report delle ispezioni svolte dal giugno 2016, dove peraltro non si fa menzione di eventuali problemi nei pagamenti. Dopo quella data nessun nuovo monitoraggio. La Repubblica degli Stagisti ha provato a reperire questi dati contattando diverse direzioni territoriali del lavoro, purtroppo senza successo. Resta quindi sullo sfondo una domanda: come sia possibile arginare il fenomeno e riportare tutto nella legalità se non sono conosciuti nemmeno i numeri del problema. Marianna Lepore

Fab lab, l’officina dove il futuro (anche professionale) si plasma in 3D

Il futuro del mondo del lavoro è, e sempre più sarà, nel digitale. Già da qualche anno, infatti, nelle classifiche dei mestieri più ricercati, in Italia e non solo, svettano figure come il programmatore, lo sviluppatore, il data scientist e il digital designer. Ma le competenze digitali sono davvero così necessarie? La risposta è sì. Se per ora alcuni di questi mestieri rimangono emergenti e rari, ancora separati dal normale universo delle discipline professionali, inevitabilmente le nuove tecnologie si inseriranno sempre più in ogni contesto, sia lavorativo che di normale vita quotidiana. E la loro padronanza, che oggi rappresenta semplicemente una carta in più da giocare a livello lavorativo, è destinata a diventare la normalità. Personalità come Alessandra Stella, direttore scientifico del Parco Tecnologico Padano a Lodi, hanno rimarcato la necessità universale di imparare il coding e la programmazione, non soltanto per chi intende lavorare in questo campo. Mentre Carlo Pietrassanta, AD di Microsoft Italia, sostiene che le aziende non dovrebbero limitarsi ad assumere giovani, ma affidare loro la primaria responsabilità di digitalizzarle, inserendoli nel board direttivo e rendendoli protagonisti del cambiamento.Un ideale certamente positivo, ma ancora si fatica a ingranare: basti pensare a episodi come quello avvenuto soltanto qualche tempo fa all’università Statale di Milano, dove era sorta una polemica per l’intenzione del rettorato di introdurre il numero chiuso in diverse facoltà, ad esclusione dei soli dipartimenti di Matematica, Fisica, Giurisprudenza e Geologia. La ragione? Il numero di immatricolazioni a corsi come Filosofia, Storia e Beni Culturali continua a crescere in percentuali a doppia cifra, il tasso di abbandono dopo il primo anno rimane alto e l’inoccupazione dei neo-laureati a tre anni di conseguimento dal titolo non è meno preoccupante.Che fare per invertire il trend? Diverse sono le proposte destinate ai giovani per quantomeno iniziare ad avvicinarsi ai temi della tecnologia e del digitale. A Milano, dopo l’esperienza di MiGeneration Lab, programma di formazione digitale gratuito destinato a giovani Neet, diversi fab lab hanno proseguito le attività di formazione, offrendo corsi su diversi temi aperti a tutti. Questi laboratori di fabbricazione digitale rappresentano un buon punto di partenza, perché il loro carattere fortemente locale e ad alto concentrato di tecnologia è ideale per imparare ad utilizzare software e hardware e arricchire il curriculum di competenze tecniche. Per saperne di più la Repubblica degli Stagisti ha parlato con Yatta!, Opendot Lab e WeMake della rilevanza che corsi di coding, fashion design, IoT, realtà virtuale e così via ricoprono per fornire ai giovani le competenze necessarie per competere nel mondo del lavoro di domani.Nonostante il livello di scolarizzazione di coloro che partecipano alle formazioni dei fab lab sia tendenzialmente alto, la categoria sociale che descrive meglio i frequentatori di questi spazi è quella dei “curiosi”. Si può infatti partire anche da zero e, spesso e volentieri, per intraprendere un corso è sufficiente possedere un po’ di dimestichezza con il pc. «La trasversalità è fondamentale» conferma Enrico Bassi, design engineer e co-fondatore di OpenDot, riferendosi a quante persone diverse un makerspace può arrivare a coinvolgere. Perché, in fondo, il punto di forza del fab lab è proprio l’accessibilità della tecnologia. «Non vuol dire che non si fa fatica ad impararla, ma che è semplificata il più possibile. Quando impari a fare qualcosa che non credevi di poter fare, qualsiasi sia il livello di complessità, questo ti dà fiducia e ti aiuta a tirare fuori il tuo potenziale». Quello della capability, ovvero la consapevolezza e l'accrescimento delle proprie capacità, viene riconosciuto da tutti come il maggior valore che le attività del fab lab sanno trasmettere. Bassi racconta che, grazie a questi stimoli, qualcuno è anche riuscito a trovare lavoro: «una ragazza, per esempio, aveva la passione per gli orecchini e ha capito che poteva costruirseli utilizzando una stampante 3D piuttosto che costruirli a mano, trovando così una serie di soluzioni che hanno reso i suoi prodotti più competitivi; un altro aveva immaginato un accessorio per la bicicletta, un tavolino da picnic per le gite fuori porta montato direttamente sulla bici; mentre altre ragazze hanno iniziato insieme a Save the Children attività rieducative per bambini con dei pupazzi costruiti con una ricamatrice a controllo numerico».Anche per chi non ha svolto un percorso di studi strettamente legato alle nuove tecnologie, quindi, un corso in un fab lab può contribuire allo sviluppo di nuove competenze, scoperte ed energie. «Lo scopo dell’associazione è quello di fornire degli strumenti per lavorare» dice Marco Lanza, che si occupa di coordinare Yatta! e la sua parte di laboratorio. «La formazione è imprescindibile dall’aspetto tecnico, e anche l’aspetto motivazionale è centrale nel far scattare la scintilla dell’interesse e della passione per portare avanti la conoscenza e l’applicazione delle nuove tecnologie». I fab lab sono luoghi dove si incontrano le professionalità più diverse, ma spesso sono popolati anche da studenti. In particolare, alcuni arrivano dall’università proprio per incrementare certi tipi di competenze che in aula non possono apprendere. «Gli atenei ti forniscono un titolo ad esempio da fashion designer, senza preoccuparsi minimamente del fatto che poi tu in realtà non sai progettare digitalmente un cartamodello» puntualizza Cristina Martellosio, responsabile del settore educational e delle politiche giovanili di WeMake. «All’interno delle facoltà c’è molta, troppa teoria, e gli studenti arrivano qui per imparare a fare. L’apprendimento, in fondo, passa soprattutto attraverso l’esperienza. E così piuttosto che presentare un curriculum è quasi più importante mostrare un book dei propri progetti». Dimostrando così che le competenze sono acquisite, non solo sulla carta. Se è vero che, intraprendendo certi corsi, le persone cercano la professionalizzazione e modi per affinare le proprie competenze, come per la modellazione 3D oppure il digital fashion o la robotica, altri, come quello sui wearable (i dispositivi indossabili come smartwatch e action cam) sono scelti semplicemente per curiosare un po’. Nel mondo del digitale, nessuna competenza viene appresa a vuoto.In un fab lab c’è quindi anche molta libertà e occasione di sperimentare. «Più che sulle tecnologie, noi lavoriamo sulla forma mentis» afferma di nuovo Bassi. «In una fase storica dettata dal cambiamento, nessuno ti può dire come affrontarlo nel modo migliore. Non ha senso focalizzarsi tanto sulle tecnologie in sé, perché oggi, ad esempio, le stampanti 3D di cinque anni fa sono roba da antiquariato. È un po’ come costruire l’aereo mentre ci stai viaggiando, sono queste le skill che servono per sopravvivere nel mondo di oggi. Ciò che uno fa in un fab lab è imparare ad imparare». Per questo la filosofia di fondo è quella di valorizzare anche gli sbagli. «Anche quando i progetti dei ragazzi sono troppo ambiziosi, non gli diremo mai che non potranno farcela», dice Martellosio. «Perché noi crediamo molto nell’errore. E anche se uno non riesce a trovare la soluzione scattano comunque motivazione, interesse, incremento delle competenze digitali e quindi una serie di competenze trasversali».Frequentare un fab lab costituisce dunque un’esperienza positiva per tutti, non solo per chi già vive di pane e tecnologia. In un mondo in continuo mutamento, acquisire le basi per cavalcarlo non potrà che essere di aiuto. «La fabbricazione digitale oggi è esattamente quello che era, negli anni ‘90, imparare ad usare il computer» conclude Bassi. «In futuro sempre più attività, anche le più creative, artigianali e manuali, avranno una componente tecnologica. Se uno fa il ceramista e ad un certo punto inizia a progettare le proprie stampe con una stampante 3D, scoprendo così che può risparmiare considerevolmente, piuttosto che mandarle allo studio che gliele ha prodotte fino a quel momento, non smette di essere ceramista per diventare un modellatore 3D, ma la tecnologia lo aiuta nel suo lavoro. Le tecnologie sono abilitanti ad altre cose, non sono fini a se stesse».Insomma, accrescere le proprie competenze digitali non significa diventare programmatori o scienziati dei dati. Ma in vista dell’uso sempre più quotidiano che ne faremo, sul lavoro e non solo, è proprio il caso che tutti iniziamo a masticare un po’ più di tecnologia. Esperienze come quelle nei fab lab suggeriscono che la nostra è un’epoca di grandi opportunità per chiunque abbia voglia di mettersi alla scoperta di queste innovazioni, fosse anche solo per hobby o per curiosità. I vantaggi vanno ben oltre il solo punto di vista tecnico, e le possibilità sono infinite, esattamente come le combinazioni di una macchina a controllo numerico. Il programma (di vita) di ciascuno, invece, non ha il livello di predeterminazione di un software, ma non si può certo dire che questo sia un male.Irene Dominioni

Quarto anno di superiori all'estero fra luci e ombre, il parere dei dirigenti scolastici

In un paese dove la “fuga dei cervelli” prosegue senza soluzione di continuità e la possibilità di aprirsi a nuovi orizzonti già durante gli studi superiori fa gola a sempre più ragazzi, il sistema scolastico si divide fra aperture e resistenze, buone pratiche e ostacoli tecnici.È quanto emerso dal Rapporto 2016 dell’Osservatorio Nazionale sull’internazionalizzazione delle scuole e la mobilità studentesca della Fondazione Intercultura, basato su un campione di 400 dirigenti scolastici delle scuole secondarie superiori. Se l’indice di internazionalizzazione delle scuole è rimasto costante rispetto all’ultima rilevazione del 2014, è invece diminuita di 5 punti la percentuale di scuole che hanno aderito a progetti internazionali (63%). In particolare, hanno aderito ad almeno un progetto internazionale il 70% dei licei e poco più del 50% degli istituti tecnici e professionali.Perché questa battuta d’arresto nella spinta all’internazionalizzazione? I motivi principali, secondo i dirigenti scolastici intervistati, sono sopratutto tre: la carenza di budget, la mancanza di interesse degli alunni, l’inadeguatezza dei programmi proposti rispetto al profilo dell’istituto scolastico, soprattutto per quanto riguarda tecnici e professionali. E ancora, un sesto dei dirigenti hanno attribuito la “colpa” alla scarsa adesione da parte degli insegnanti e alle procedure complicate per partecipare o alla mancata accettazione della loro richiesta di adesione. Altri fattori critici sono la mancata proposta di adesione, l’insufficienza di informazioni, le problematiche organizzative e la resistenza da parte delle famiglie.«La diffidenza è spesso dovuta a difficoltà organizzative, come il reinserimento di chi ritorna o l’ospitalità degli studenti stranieri, con la necessità di fare orari personalizzati e di costruire attività specifiche», spiega alla Repubblica degli Stagisti Grazia Fassorra, responsabile Formazione dell’Associazione nazionale dirigenti e alte professionalità della scuola (Anp). Limiti che rischiano di privare i ragazzi di «un’esperienza estremamente formativa, in cui mettersi alla prova con coraggio in un ambiente totalmente estraneo, di cui spesso non conoscono la lingua, e acquisire competenze avanzate che in un itinerario normale non è possibile acquisire», aggiunge Fassorra.«Il sistema scolastico italiano è molto rigido e qualsiasi elemento di novità può destabilizzare. Vedersi mancare un alunno da tre mesi a un anno può comportare un elemento di disturbo» aggiunge Marina Imperato, dirigente scolastico del liceo scientifico statale “Leon Battista Alberti” di Napoli. Il suo istituto è un esempio virtuoso di internazionalizzazione e interculturalità: «Sono in questa scuola da 7 anni e ho raccolto un’eredità favorevole, che ho implementato. La mia scuola è impegnata sul versante interculturale a 360 gradi. Basti pensare al corso di filosofia comparata occidentale/islamica attivato con il supporto dell’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”» racconta.Il freno all’internazionalizzazione è spesso rappresentato dai docenti, probabilmente anche perché quelli da profilo internazionale, ovvero con almeno un’esperienza internazionale (collaborazioni con docenti stranieri, insegnamento all’estero, corsi di lingua o di aggiornamento etc.) sono ancora troppo pochi: solo uno su cinque. E così talvolta agli studenti capita di incontrare l’ostruzionismo del corpo docenti, sia nel pre partenza che al ritorno, nella eventuale verifica dell’idoneità all’anno successivo, a discrezione delle singole scuole. «Da noi non è previsto alcun esame» spiega Marina Imperato «perché ci teniamo al risconto valutativo da parte delle scuole ospitanti e perché i nostri alunni si mantengono in costante contatto con la classe e con i docenti».Una nota positiva è che, pur interessando meno scuole rispetto ad altri paesi europei, in Italia i programmi internazionali vantano una percentuale maggiore di studenti coinvolti, pari al 72%, come la Francia, e inferiore solo a quella della Germania (84%). Un dato che fa ben sperare sulla crescita del fenomeno dell’internazionalizzazione, a cui oggi – secondo Fassorra – va data un’accezione più ampia, «perché nelle scuole stanno arrivando sempre più studenti stranieri e, se le scuole avranno già fatto esperienza, avranno imparato anche l’approccio». Che sia una delle chiavi per l’integrazione?Rossella Nocca

Docenti non pagati negli istituti paritari, la soluzione? «Assumere almeno mille ispettori ministeriali»

Andare a lavoro tutte le mattine, svolgere le proprie ore, tornare a casa e sapere che tutta la fatica prestata sarà poi ripagata alla fine del mese con lo stipendio. Sembrerà una banalità a quelli che da sempre sono stati ripagati per il proprio lavoro. Non lo è per quanti, invece, alla fine del mese ricevono a stento i contributi. Non è il caso solo di freelance, giornalisti, o giovani alle prime armi con il mondo del lavoro. Ma è quello che capita, in alcuni casi da molti anni, a centinaia di docenti che insegnano nelle scuole paritarie. E che il “ricatto” del lavoro non pagato lo accettano per fare l’agognato punteggio e riuscire poi a superare qualcuno nelle graduatorie di istituto ed essere quindi chiamati per qualche supplenza annuale.Una storia vecchia, già descritta nel 2014 da Paolo Latella, membro del direttivo nazionale Unicobas e segretario regionale per la Lombardia, in un dossier, diventato poi un libro, mandato ai ministri Carrozza e Giannini, che ad oggi non ha avuto ancora alcun riscontro. All’epoca Latella raccolse oltre 500 storie di illegalità dietro gli istituti parificati. Da allora sono passati tre anni ma la situazione non è migliorata. Anzi, «è peggiorata. Anche perché il numero di iscritti nelle paritarie, sia pubbliche sia private, è aumentato. E quindi è aumentato anche il business. E poi non esistono controlli tanto che a tutt’oggi non c’è una mappatura reale a livello regionale in tutta Italia con i controlli effettuati», spiega il segretario regionale Unicobas alla Repubblica degli Stagisti. «L’anno scorso c’è stato un comunicato stampa che diceva che erano state riscontrate una percentuale di scuole non in regola, ma non si capisce dal comunicato qual è la scuola. Addirittura in Sicilia non sappiamo nemmeno quante siano state controllate!».Il riferimento di Latella è al comunicato stampa del ministero dell’istruzione del novembre 2016, in cui si raccontavano i risultati delle 288 ispezioni effettuate nei primi sei mesi dell’anno che avevano portato a 27 revoche della parità. Con picchi di otto chiusure in Abruzzo, quattro in Lombardia e tre in Campania e Basilicata e l’assenza di qualsiasi dato per la Sicilia. Un numero che a prima vista potrebbe far pensare a maggiori violazioni al centro nord piuttosto che al sud, ma che Latella semplicemente motiva dicendo che «in Lombardia ci sono ispettori serissimi che non lasciano passare nulla». Il vero punto è che gli ispettori ministeriali non si occupano di controllare la regolarità dei contratti di lavoro e quindi l’eventuale mancanza di retribuzione per i docenti. «Quello è un discorso che dovrebbe fare la guardia di finanza o il ministero del lavoro quando l’ispettore trova e segnala delle anomalie».Ma per gli ispettori è comunque un compito arduo visto che sono molte altre le cose che devono verificare. E poi perché, anche se il loro numero è passato da 56 a 104 negli ultimi tre anni, sono sempre pochissimi: «Basti pensare che in Francia ci sono 600 ispettori in una singola città. I 104 in Italia non bastano per verificare tutto: i loro compiti spaziano dall’aiuto delle risorse economiche statali fino al monitoraggio e valutazione fino alla verifica dei requisiti delle scuole paritarie. Perciò è fortemente insufficiente e andrebbe rivisto», spiega Gianluca Vacca, deputato del Movimento 5 Stelle, membro alla Camera dei deputati della commissione Istruzione.Ma anche sui dati pubblici dei controlli al momento disponibili, fermi al giugno 2016, non c’è nessuna specifica sulle violazioni. Non è dato sapere, quindi, se c’era qualcosa riguardo ai pagamenti degli insegnanti. «È tutto nascosto. Poi siamo già quasi in periodo pre elezioni politiche: figuriamoci se vanno a colpire le scuole che sono portatrici di bacini di voti. Ricordiamolo: le paritarie hanno contributi dallo Stato e dalle regioni e dai comuni. Perché dare 20-30mila euro alle strutture confessionali del territorio? Per tradurli in voti elettorali». Non c’è quindi nessuno, e Latella ci tiene a sottolinearlo più volte, che raccolga questi numeri.Nel frattempo la politica non è stata totalmente inerme. Dalla consegna del libro di denuncia di Latella nel 2014 ad oggi il Movimento 5 stelle si è occupato a più riprese del problema dei docenti non retribuiti nelle paritarie. L’ha fatto presentando nel giugno 2014 una prima interrogazione a risposta immediata all’allora ministra dell’istruzione, Stefania Giannini. Interrogazione in cui il deputato Silvia Chimienti proprio sul tema delle scuole paritarie e del dossier del professor Latella, che raccoglieva oltre 500 testimonianze di docenti non pagati, chiedeva come mai nessuno «abbia mosso un dito per approfondire la vicenda» e «quali iniziative il ministero intende adottare per porre fine a questo gravissimo scandalo, che non può più essere ignorato». Richiesta a cui l’ex ministra Giannini rispondeva ricordando che la vigilanza nelle paritarie è esercitata dagli uffici scolastici regionali che predispongono annualmente le ispezioni e che il ministero in più occasioni ha richiamato l’attenzione ad approfondire questa vigilanza, «con particolare riferimento al tema delicatissimo dei contratti di lavoro dei docenti». Il ministero in pratica non è competente sul controllo e in quella risposta ammetteva che le misure messe in atto fino a quel momento non erano state efficaci visto che «hanno potuto solamente superare alcune criticità anche a causa dell’impugnazione continua di questi atti». Ma l'ex ministra era convinta che i 55 nuovi ispettori reclutati avrebbero contribuito in modo concreto ad un miglior controllo che, in base al nuovo regolamento del 2013 doveva riguardare anche l’utilizzo del personale e quindi la legittimità o meno di certe procedure. Ipotesi che in realtà non si è realizzata visto che in tre anni la situazione non è cambiata.Il Movimento 5 Stelle ha continuato ad occuparsi del problema presentando due proposte di legge. La prima nel febbraio 2014 con Vacca primo firmatario, che proponeva un piano di monitoraggio continuo, in parte recepito dalla Buona scuola, e chiedeva come requisito necessario per il riconoscimento della parità scolastica l’obbligo di presentare la documentazione che attesti i pagamenti degli stipendi dei docenti. La seconda proposta di legge, invece, è stata presentata nel febbraio 2015 e chiedeva l’istituzione di una commissione parlamentare di inchiesta sulla condizione dei docenti nelle scuole private. «C’è stata da parte nostra un’azione continua per portare l’attenzione in commissione e qualcosa è stato fatto. Ma il vero problema è che deve diventare un controllo strutturale, periodico e continuo, altrimenti si risolve in un’azione mediatica che serve alla maggioranza per dire che qualcosa è stato fatto, ma in realtà gli istituti si reciclano e continuano a fiorire i diplomifici».Le proposte di legge del M5S, però, non sono mai state nemmeno calendarizzate. E ora che le elezioni anticipate sembrano essere state messe da parte, è comunque molto probabile, secondo Vacca, che il tutto venga rimandato alla prossima legislatura. Sottostando nuovamente ai giochi di forza delle maggioranze ed alleanze in Parlamento. Ma nel frattempo, mentre la politica posticipa il problema, il malcostume resta. Il pentastellato racconta come per esempio nella sua regione, l’Abruzzo, tra il 2015 e il 2016 siano state revocate molte parità scolastiche a vari istituti. «Il problema però è che spesso si riciclano. Rinascono con un sistema di passaggi di proprietà, sotto mentite spoglie. Perciò servirebbe un monitoraggio continuo, con controlli mirati insieme alla guardia di finanza. Non ci vuole poi tanto per verificare se gli stipendi sono pagati regolarmente o se i docenti sono abilitati. Manca però il personale per fare i controlli e la volontà di fare un’azione continua nel tempo».Un punto, quello del maggior controllo, su cui è d’accordo anche Latella che spiega «La soluzione è assumere almeno mille ispettori ministeriali che vadano a controllare i pagamenti degli insegnanti, i finanziamenti delle scuole e la preparazione dei docenti. Soprattutto di quelli che a 27 anni si trovano con 7-8 anni di servizio contro chi in età matura continua a vivere al nord in un appartamento con quattro colleghi per farsi uno spezzone di supplenza». Marianna LeporeFoto rettangolare: da Pixabay in modalità Creative Commons