Categoria: Approfondimenti

Medici, una categoria privilegiata? Non è sempre così

La professione medica non è più un’isola felice. O almeno non lo è per tutti. I “fortunati” che riescono a superare il primo scoglio della selezione per diventare medici sanno che la strada sarà ancora in salita. Una volta laureati e abilitati, non hanno infatti la certezza di accedere a una borsa di specializzazione e potrebbero gravitare a lungo nel mondo del precariato, tra guardie mediche e turni anche a 3,50 euro l’ora. Nel 2018, nonostante il fabbisogno di medici specialisti stimato dalla Conferenza Stato Regioni ammontasse a 8.569 unità, sono stati finanziati  e messi a bando solo 6.934 contratti per le 54 scuole di specializzazione di area medica, a fronte dei 16.146 concorrenti. Per non parlare del corso di formazione specifica in Medicina generale, dove sono state finanziate 2.128 borse di studio, a fronte del fabbisogno stimato dalla Conferenza Stato Regioni di 10mila unità. Ma come si è arrivati a questa impossibilità da parte di più di un terzo dei medici abilitati di proseguire, almeno fino alla selezione dell’anno successivo, il percorso formativo? «La causa dell’imbuto formativo attuale è in una politica miope» denuncia alla Repubblica degli Stagisti Maria Teresa Petti, specializzanda al secondo anno in Genetica medica, membro del Comitato nazionale aspiranti specializzandi (Cnas) e vice coordinatrice del Dipartimento per l’accesso alla formazione post laurea del Segretariato italiano giovani medici: «Una politica che ha sostenuto negli anni l’incremento dei posti disponibili al test di accesso al corso di laurea in Medicina e chirurgia senza che a questo corrispondesse il finanziamento di un numero adeguato di contratti di formazione post laurea». Come si può rimediare? «Chiediamo una programmazione lungimirante che stimi con precisione chirurgica la quantità, ma anche la tipologia di specialisti necessari per rispondere alle esigenze emergenti della popolazione, quali l’aumento delle patologie croniche, quindi che non si basi soltanto sullo sterile dato dei futuri pensionamenti» risponde Petti: «Per la formazione di ciascuno studente di Medicina vengono spesi dallo Stato circa 120mila euro, pertanto una corretta programmazione permette di non vanificare un investimento così consistente».A tal proposito un segnale positivo è arrivato da un emendamento del Dl Semplificazioni, che ha stabilito che il ministero della Salute dovrà definire una metodogia per determinare il reale fabbisogno di personale da parte degli enti del Servizio sanitario nazionale e quindi le figure necessarie ad assicurare il diritto dei cittadini all'assistenza medica. Da un lato infatti ci sono tanti giovani medici che scalpitano per completare l’iter formativo, dall’altro svariate specialità in forte carenza di personale, come Medicina interna, Pediatria, Anestesia e rianimazione e soprattutto Medicina d'emergenza e d'urgenza. Un’occupazione tra le più usuranti, in cui si arriva anche a otto turni notturni mensili, e alla quale non corrisponde un compenso adeguato.«La soluzione può essere solo una: aumentare le borse di specializzazione e i contratti di formazione riservati ai già dipendenti del Servizio Sanitario nazionale» sostiene Lucilla Crudele, segretaria del Dipartimento Specializzandi del Segretariato italiano giovani medici (Sigm) e specializzanda al II anno in Medicina d’emergenza e urgenza: «Anche perché studi dimostrano che una figura specializzata migliora la gestione dell’emergenza e assicura una degenza post triage con standard molto più elevati». Se il test di specializzazione unico a livello nazionale ha rappresentato un importante passo avanti per gli aspiranti medici, anche in termini di trasparenza delle selezione, ora le associazioni propongono un ulteriore step. «Siamo stati i primi a chiedere al ministero della Salute, attraverso una proposta inviata lo scorso settembre, di unificare il test per le scuole di specializzazione e il test per il corso di formazione specifico in Medicina generale» racconta Giorgio Sessa, vicepresidente del Consiglio esecutivo del Segretariato italiano giovani medici con delega alla medicina generale «evolvendola a disciplina accademica, con l’istituzione della Scuola di specializzazione in Medicina generale, di comunità e cure primarie, sul modello dell’università di Modena». L’unificazione permetterebbe anche di evitare in parte il fenomeno dell’abbandono di borse – ad esempio per chi accede alla specializzazione desiderata al tentativo successivo e abbandona il percorso – e la conseguente perdita di fondi stanziati per la formazione post laurea.Oggi quello in Medicina generale rappresenta infatti un percorso a parte, gestito dalle Regioni e dai sindacati, e con un trattamento economico ben differente. Se uno specializzando percepisce infatti 1.600 euro per i primi due anni e 1.730 per i successivi, chi si indirizza verso la Medicina generale ne riceve circa 900. «La formazione in Medicina generale non forma adeguatamente una figura fondamentale come quella dei medici di famiglia» lamenta Sessa «anche perché a distanza di quasi trent’anni dall’istituzione del corso non esiste un documento in cui sia scritto cosa deve imparare un medico di famiglia». Nella situazione attuale sono tanti i medici italiani che si trasferiscono all’estero: oltre 10mila hanno lasciato il paese tra il 2008 e il 2018. Per dare un punto di riferimento a chi decide di continuare il percorso all’estero un utile riferimento è il sito Doctors in fuga. E intanto la popolazione medica qui invecchia: secondo i dati Eurostat un medico su due ha oltre 55 anni. Chi resta nel “limbo” tra abilitazione e specializzazione è spesso costretto ad accettare condizioni di lavoro mortificanti. Per contrastare questo fenomeno a novembre 2017 è nato il gruppo Facebook “Giovani medici anti sfruttamento”, oggi affiliato all’Associazione liberi specializzandi Fattore 2a. «Tutto è partito dall’esigenza di combattere la solitudine di ogni libero professionista del settore» spiega alla Repubblica degli Stagisti la portavoce Lucrezia Trozzi, 26 anni, specializzanda al II anno in Otorinolaingoiatria, che ha raccontato la sua storia anche in un videoreportage di Riparte il futuro: «Nel nostro settore l’onorario non lo decidiamo noi, ma il soggetto a cui prestiamo servizio: dalla clinica privata alla società sportiva alla ditta di ambulanze. E noi ci adeguiamo per inesperienza e rassegnazione». Tante le testimonianze raccolte in questo primo anno dal gruppo Facebook chiuso, in cui sono ammessi solo i medici: «Parliamo di turni di 12 ore a 3,50 euro lordi in cliniche private che per la degenza chiedono migliaia di euro, o di sette euro l’ora per presidiare competizioni sportive con grandi afflussi di persone e dove può succedere di tutto, o ancora di offerte per un ruolo di direttore sanitario a duecento euro come mero “presta-nome”», prosegue Trozzi: «Anche se questi sono casi limite, la "normalità" per le partite Iva si attesta comunque sui 7-10 euro». Tra le segnalazioni inviate dai giovani medici spicca l'offerta di lavoro per un presidio medico durante un soggiorno estivo per minori in Umbria.  «Richiesta disponibilità di 24 ore, per due settimane. Compenso di circa 3 euro all'ora»: questa la risposta che è stata data a un giovane medico che aveva chiesto maggiori dettagli sull'incarico. Anche se il decreto Bersani nel 2006 ha vietato i tariffari minimi e varie categorie come odontoiatri e avvocati hanno provato inutilmente a introdurlo, il gruppo ha stilato un tariffario “ideale” di riferimento per le prestazioni dei medici. Qualche esempio: 35 euro l’ora per turni automedica e 118, 25 euro l’ora per i turni in cliniche private, tra i 20 e i 30 euro l’ora per i presidi agli eventi e tra i 20 e i 70 per le competizioni sportive. 22 euro l’ora è invece la tariffa indicata da convenzione statale per le sostituzioni di medicina generale e per le guardie mediche.Insomma, c’è urgente bisogno che il passaggio dal mondo della formazione a quello del lavoro sia riorganizzato e razionalizzato per andare incontro sia al diritto alle cure dei pazienti sia all’esigenza di (buona) occupazione dei giovani medici.   Rossella Nocca

Tirocini, con un anno di ritardo la provincia di Bolzano aggiorna la normativa: con alcuni chiaroscuri

Lo scorso 18 dicembre, con più di un anno di ritardo rispetto al limite fissato dalla Conferenza Stato-Regioni, la giunta provinciale di Bolzano-Alto Adige si è adeguata alle “Linee guida in materia di tirocini formativi e di orientamento”, con la delibera n.1405/2018 intitolata “Criteri per la promozione di tirocini di formazione ed orientamento da parte della Ripartizione Lavoro e delle Aree alla Formazione professionale tedesca e italiana”. Come la precedente, la nuova normativa fa una differenza fra i tirocini formativi e di orientamento, attivati dalle Direzioni provinciali della formazione professionale, e quelli di inserimento o reinserimento lavorativo, promossi dalla Ripartizione lavoro.I primi sono destinati a persone in età lavorativa, inoccupate o disoccupate e socialmente svantaggiate, giovani che abbandonano la scuola dal secondo ciclo di istruzione o formazione e persone in situazione di svantaggio con riferimento al mercato del lavoro. I secondi sono rivolti invece a persone disoccupate da almeno 6 mesi, migranti, minoranza etniche e altre categorie svantaggiate. Anche le condizioni fissate per i tirocini, come era stato anticipato alla Repubblica degli Stagisti da Georg Ambach, responsabile questioni giuridiche della provincia autonoma, sono rimaste più o meno le stesse. Per i tirocini formativi e di orientamento la durata minima è di due mesi − uno, se i soggetti ospitanti operano stagionalmente − e la massima è di 500 ore. Il limite massimo dunque equivale a soli tre mesi e mezzo full time! Si tratta di un "unicum" in Italia, che si discosta fortemente dai dodici mesi previsti come durata massima dalle linee guida nazionali  e anche dai sei mesi fissati, nella stessa regione, dalla provincia di Trento. Ma attenzione, perché l'unicità non finisce qui. Allo stesso tempo, la Provincia offre infatti la possibilità all'azienda ospitante di rinnovare il tirocinio fino a due volte, per un totale di 24 mesi. Ovvero il doppio rispetto a quanto previsto dalle linee guida nazionali (12 mesi), ad eccezione dei tirocini rivolti a soggetti disabili, che possono durare fino a due anni. La Repubblica degli Stagisti ha chiesto conto alla Provincia della singolarità di questa scelta, ma una risposta nel merito purtroppo non è arrivata. «Dall'introduzione di questa regola è trascorso molto tempo» risponde Maurizio Prescianotto del Centro di coordinamento formazione continua sul lavoro e orientamento professionale della Provincia di Bolzano: «Non ritengo siano ancora operativi i tecnici e responsabili politici che l'hanno stabilita».  Insomma, la Provincia autonoma ha deciso semplicemente di trascinarsi una norma del passato, senza metterla in discussione nè tenere conto dell'orientamento dato dalle linee guida nazionali: e apparentemente non c'è nessuno che oggi si voglia prendere la responsabilità di spiegare questa decisione, che pone Bolzano al di fuori del perimetro indicato dalle linee guida e dalle normative di tutte le altre Regioni d'Italia in tema di durata massima dei tirocini.Quanto al rimborso, ai tirocinanti che abbiano maturato almeno 40 ore di effettiva presenza verranno corrisposti, per ogni ora, 3 euro se minori di 18 anni e 4 euro se maggiorenni. Confermata anche la maggiorazione di 1,50 euro l’ora se la sede del tirocinio si trova al di fuori del comune di residenza/domicilio o se la distanza all’interno dello stesso comune supera i cinque chilometri. Ciò vuol dire che per un tirocinio full time, di 40 ore a settimana, i tirocinanti della provincia autonoma dovranno percepire un minimo di 480 mensili, che diventano 880 euro con la maggiorazione prevista per i fuori sede. Per i tirocini di inserimento o reinserimento lavorativo la durata minima è sempre di due mesi − solo uno se i soggetti ospitanti operano stagionalmente – mentre la massima è di sei mesi per le persone disoccupate da almeno sei mesi, di dodici per alcune categorie svantaggiate come migranti, minoranze etniche e persone inattive da almeno due anni, e di due anni per invalidi del lavoro (dal 34%), invalidi civili (dal 46%) e persone affette da menomazione psichica o mentale. L’indennità da garantire non deve essere inferiore a 450 euro. È previsto un contributo ai soggetti ospitanti fino all’80% dell’indennità di partecipazione pagata al tirocinante e fino a un importo massimo di 400 euro mensili, che viene però erogato dalla Provincia solo in caso di assunzione del tirocinante al termine del percorso formativo. Sebbene le cifre restino superiori rispetto al minimo indicato dalle linee guida – pari a 300 euro, i sindacati avrebbero auspicato qualcosa di più. «Altre Regioni hanno fatto di meglio» è il commento piuttosto netto di  Doriana Pavanello, presidente del direttivo provinciale della Cgil Bolzano-Alto Adige: «Inoltre sarebbe stato più corretto e dignitoso se la norma avesse contemplato il rimando al costo orario previsto dai singoli contratti collettivi applicati al settore d'impiego del tirocinante».    Una delle poche novità del testo riguarda il fatto che per ospitare un tirocinante è sufficiente avere tra zero e cinque dipendenti assunti con contratto di lavoro subordinato, non solo a tempo indeterminato ma anche a tempo determinato. Le proporzioni restano le stesse: massimo due tirocinanti alla volta per le aziende tra sei e venti dipendenti e, oltre i ventuno dipendenti, un numero pari e non superiore al 10% dei soli dipendenti a tempo indeterminato. Esclusi da questi limiti i tirocini rivolti a persone disabili e appartenenti a categorie svantaggiate. Anche sul meccanismo delle assegnazioni la sindacalista manifesta alcune perplessità: «Il fatto che a ospitare un tirocinante possa essere un soggetto ospitante con meno di cinque dipendenti aumenta il rischio che il tirocinante venga adibito a sopperire alle esigenze organizzative del soggetto ospitante. Se poi i controlli sulla genuinità dei rapporti formativi sono carenti o non previsti, come ad esempio  nella delibera della giunta provinciale, si può ipotizzare il verificarsi di  condizioni di vero sfruttamento.» È proprio l’aspetto sanzionatorio una delle maggiori preoccupazioni. «L'accordo tra Stato, Regioni e province autonome del 2017 ha previsto un piano mirato di ispezioni da eseguirsi a cura dell'Ispettorato Nazionale del lavoro, ma ho forti dubbi che la Provincia di Bolzano attivi il suo servizio ispettivo a questo fine» aggiunge Pavanello: «Come denunciato dallo stesso Direttore dell'Ispettorato del lavoro provinciale, il servizio ispettivo è infatti gravemente carente di personale e già due concorsi per cinque posti per ispettori sono andati deserti. Il controllo non è attivato a campione ma solo su iniziativa dell'ufficio o su richiesta di intervento. Grazie ad esso, dopo la nuova normativa, sono stati annullati due tirocini, uno per insussistenza delle condizioni minime di sicurezza e uno per formalizzazione ex post». Comunque nella delibera non si fa riferimento a nessuna misura sanzionatoria, tranne che nel caso in cui il soggetto ospitante non trasformi il tirocinio in un contratto di lavoro a tempo subordinato per la durata di almeno sei mesi senza valido motivo. In questo frangente, egli potrà essere escluso per 24 mesi dall'attivazione di nuovi tirocini.In conclusione, la provincia autonoma di Bolzano-Alto Adige ha impiegato un anno e mezzo per recepire le linee guida nazionali, ma alla fine ha sostanzialmente confermato la normativa precedente.Intanto nel periodo di transizione il Rapporto annuale sulle comunicazioni obbligatorie 2018 ha registrato un rilevante aumento dei tirocini extracurriculari nella provincia autonoma, passati da 2.530 a 3.156, su una popolazione di 89mila soggetti tra i 15 e i 29 anni. Il tasso di disoccupazione è rimasto comunque tra i più bassi d’Europa, ovvero al 3,1 per cento per la popolazione totale e al 10,2 per cento per i giovani. Rossella Nocca  

Due di denari, ogni mercoledì Radio 24 racconta dov'è - e com'è cambiato - il lavoro in Italia

Se c'è un buon motivo per parlare di lavoro in radio «è approfondire e, se necessario, sfatare qualche luogo comune». Ne è convinta Debora Rosciani, al timone insieme a Mauro Meazza di Due di denari, programma di Radio 24 in onda tutti i giorni alle 11 e dedicato ai temi 'quotidiani' dell'economia: «una legge che cambia, un rovescio di borsa, una richiesta incomprensibile del fisco» esemplifica il sito. Giocoforza che anche il lavoro sia al centro del dibattito, tanto da far spuntare una rubrica fissa del mercoledì, dal titolo 'Dov'è il nuovo lavoro'. «Si è voluto dare un ulteriore appuntamento agli ascoltatori, puntando soprattutto sulle informazioni di servizio» sintetizza Rosciani. Lo spirito è quello di «spiegare il meglio possibile questioni che interessano al pubblico e novità che vanno capite», attraverso le risposte degli esperti che partecipano al programma in qualità di ospiti, e che sono quasi sempre addetti ai lavori (e quasi mai politici). Ogni volta si sceglie una professione e «di questa si esplorano le necessità formative, le possibilità di trovare occupazione e le retribuzioni». Si parla di tutti i profili, dal commercialista al panettiere e allo stilista. Ultimo caso analizzato il metalmeccanico, molto cambiato da quello di un tempo, spiega la giornalista: «Non è più come prima, non ti devi immergere nell'acido o stare lì con il tornio: il metalmeccanico 4.0 è oggi un operaio che guida i macchinari da remoto». Lo stesso vale per il panettiere: «Ormai è tutto automatizzato» prosegue Rosciani, «non bisogna impastare tutta la notte». Resta «il nodo dell'orario notturno», motivo che – come salito alle cronache di recente con la vicenda del panettiere del padovano che sostiene di non riuscire a trovare dipendenti – spiega il no di tanti alle offerte di lavoro nel settore. Proprio per questo però il tema del lavoro deve essere affrontato dai media perché «molte delle attività, anche e soprattutto le più tradizionali, stanno evolvendo rapidamente ed è utile saperlo». Le storie che arrivano in redazione dagli ascoltatori – con cui il contatto è costante, «via mail, whatsapp o telefono» – sono tutte diverse tra loro e aiutano a farsi un'idea a 360 gradi delle questioni al di là delle singole circostanze personali: «C'è chi chiama e racconta che non vuole far studiare il figlio per farlo poi finire operaio» racconta la conduttrice «ma anche chi ha portato la testimonianza opposta di un ragazzo che ha fatto lo stage e poi è passato a dirigente di cantiere grazie a un'azienda che lo ha fatto crescere e ha investito sulle sue capacità». Di tirocini tra l'altro si parla spesso, intesi «come canali primari di accesso: noi andiamo a indagare come li fanno e con quali ricadute interne». Altro motivo di fondo alla base di trasmissioni come Due di denari è il bisogno di «indirizzare i giovani e i genitori verso i percorsi formativi più promettenti e adatti alle capacità individuali». A fare in sostanza orientamento, perché «se brancoli nel buio devono insegnarti a scovare la tua attitudine». A farsi vivi sono quasi sempre non i diretti interessati – i giovani in cerca di lavoro – bensì le loro famiglie, quelle che una posizione ce l'hanno già. Un paradosso riscontrato anche in altre trasmissioni dedicate al lavoro. Nel caso di Due di denari, ragiona Rosciani, «dipende anche dalla messa in onda, alle 11, che è quando i ragazzi stanno a scuola ed è difficile interagire con loro». Ci sono però i podcast, che vanno a «intercettare, dal sito di Radio 24 o dai social network, anche i giovani». Ma non solo: la giornalista racconta di come ci siano diversi giovani lavoratori che li contattano per chiedere un parere agli ospiti sui loro dubbi, perché la trasmissione non si ferma dopo la messa in onda, ma va avanti con una sorta di bottega pomeridiana, una specie di sportello lavoro che fa un servizio di consulenza a chi scrive. Certo, «l'approfondimento è faticoso», sottolinea la giornalista, che prepara il programma in coppia con Meazza, senza il supporto di una redazione numerosa. Ed è per questo che sono tutto sommato pochi gli spazi sui media dedicati al lavoro, o comunque «non sufficienti». E poi «non tutti i mezzi si prestano allo stesso modo: la radio ha il vantaggio di poter sviluppare il discorso con maggiore profondità rispetto alla televisione». Vero anche che sul gruppo editoriale di Radio 24 «abbiamo sempre dato la massima attenzione ai temi del lavoro e questo forse ci rende anche più credibili». Del resto, come radio di Confindustria, l'emittente può contare su una platea di ascoltatori composta in larga parte anche da imprenditori e professionisti, su cui il tema del lavoro fa certamente più presa. Gli ascolti sembrano confermare: «Non abbiamo ancora il dato sul nostro segmento, ma Radio 24 ha registrato nel secondo semestre 2018 il record storico di 2 milioni e 350mila ascoltatori, con una crescita del 3% sull'anno precedente» [mentre la quasi totalità delle altre emittenti è in calo, ndr].Anche il linguaggio verso il pubblico va tarato nel modo giusto, deve «aiutare a uscire dai pregiudizi e dagli stereotipi». Perché la realtà va raccontata per quella che è: «Che il lavoro non si trovi facilmente è un dato di fatto, ma che domanda e offerta di lavoro non si incontrino è un altro dato di fatto» argomenta.Qualcosa però si può fare. Basta non essere troppo esigenti. Il che non significa che «non si debba seguire una vocazione, perché chi ce l'ha molto chiara spesso persegue anche con ostinazione degli obiettivi e li raggiunge». Ma il consiglio ai giovani in cerca della loro strada è di essere «curiosi, perché ogni lavoro ha dei lati interessanti». E poi disponibili, «anche a svolgere mansioni che non siano esattamente in linea con quelle assegnate, senza arroccarsi sulle proprie posizioni». E infine «essere pazienti, perché non si impara e non si guadagna tutto subito». Ilaria Mariotti 

Manovra finanziaria 2019, tutte le novità su lavoro e giovani

È entrata in vigore dal primo gennaio la nuova Legge di Bilancio, che contiene diverse novità in tema di lavoro, universo giovanile e sostegno alla genitorialità e alla famiglia.Partiamo da queste ultime. Uno dei provvedimenti che ha fatto discutere di più è l'introduzione della possibilità per le donne in gravidanza di lavorare fino al nono mese, previo ovviamente assenso da parte del ginecologo e del medico competente ai fini della prevenzione della salute e sicurezza sul lavoro. In questo modo è possibile utilizzare i cinque mesi di astensione obbligatoria dal lavoro interamente dopo il parto. Finora le lavoratrici dipendenti potevano scegliere se prendere due mesi o un mese prima della data presunta del parto e tre o quattro dopo, percependo l’80% della retribuzione (in alcuni casi anche di più, fino al 100%, grazie alla contrattazione di secondo livello).La disposizione contenuta nella legge di Bilancio riguarda solo le lavoratrici dipendenti; sulla carta dovrebbe avere l’obiettivo di garantire maggiore libertà e flessibilità nell’utilizzo del congedo di maternità. «Si tratta di vera libertà?» si chiede Titti Di Salvo, ex parlamentare e sindacalista esperta di queste tematiche: «È antica la discussione sui confini tra libertà e tutele in generale e, in particolare, nel mondo del lavoro in cui non esiste parità di poteri tra lavoratori e datori di lavoro. In questo caso ci viene in aiuto l'osservazione della realtà. Da un lato già oggi la facoltà di lavorare durante l'ottavo mese di gravidanza con un bambino nella pancia è poco utilizzata e poco autorizzata dai medici nell'ambito del lavoro dipendente, perché di questo stiamo parlando».Attualmente la stragrande maggioranza delle donne va in maternità nella modalità “standard”, a partire dal settimo mese di gravidanza: secondo i dati che l'Inps ha fornito alla Repubblica degli Stagisti, delle 210mila lavoratrici dipendenti che sono andate in maternità nel 2018 oltre 194mila hanno scelto questa opzione, rispetto alle circa 6.900 che sono andate in congedo dall'ottavo. Solo il 3% delle future mamme dunque sceglie di lavorare di più prima del parto per poter avere più congedo dopo: insomma, la propensione a sospendere il lavoro molto a ridosso del parto è gi bassissima. Pertanto si può ragionevolmente presumere che la percentuale di donne incinte che sceglierà di lavorare non solo all'ottavo mese ma persino al nono sarà, di fatto, pressoché inesistente.La scelta di arrivare addirittura al nono per la Di Salvo «dipende naturalmente dal tipo di lavoro e dalle condizioni di lavoro, oltre che di salute. In secondo luogo, la nuova norma rischia di essere il manifesto di una maggiore libertà teorica in un mondo del lavoro dipendente ostile alla maternità. In cui la maternità è spesso un ostacolo per entrare nel mondo del lavoro, per progredire nel mondo del lavoro, per non esserne respinta». La strada, secondo la Di Salvo, è differente: «per consentire maggiore libertà alle donne nella scelta della maternità la strada è un'altra: incentivare la condivisione delle responsabilità genitoriali e, dunque, incentivare la presenza dei padri».A proposito di padri, un altro tema oggetto della manovra è il congedo di paternità, di cui più volte anche la Repubblica degli Stagisti ha parlato, sensibilizzando sull’importanza di un provvedimento che rischiava di scomparire, sul quale anche Titti Di Salvo si era attivata in prima persona, promuovendo una petizione insieme ad altri firmatari per salvarlo e ampliarlo.«È stato scongiurato il pericolo molto concreto che non venisse rinnovato il congedo di paternità obbligatorio, una misura la cui sperimentazione era finanziata fino al 31 dicembre 2018. Grazie alla petizione popolare promossa a settembre e a un emendamento parzialmente accolto del Partito Democratico, il congedo viene portato a cinque giorni obbligatori più uno in alternativa alla madre, un giorno in più rispetto al 2018, ma solo per il 2019. Un passo avanti positivo, ma insufficiente. In un Paese in crisi di denatalità le misure da prevedere sono tante e riguardano il lavoro e il sostegno economico alle famiglie. Ma su tutte  la condivisione delle responsabilità nella cura dei figli è quella più efficace come dimostra il suo impatto nei paesi in cui è prevista. La petizione popolare consegnata al Presidente della Camera  e alla Presidente del Senato è arrivata in Parlamento ed è stata iscritta ai lavori della Commissione lavoro della Camera: la richiesta è quella di estendere il congedo obbligatorio di paternità ad almeno 10 giorni. Bisognerà riprendere la mobilitazione per chiedere che venga esaminata dal Parlamento».Passando alle misure di sostegno all’occupazione giovanile, un’altra novità è rappresentata dal bonus “giovani eccellenze”, che prevede sgravi contributivi per 12 mesi e nel limite di 8mila euro annui per le aziende che assumano nel corso di quest’anno neolaureati under 25 con una laurea magistrale conseguita nei tempi previsti tra il primo gennaio 2018 e il 30 giugno 2019 con voto di 110 e lode e media ponderata di 108/110, e dottori di ricerca sotto i 34 anni che abbiano conseguito il dottorato tra il primo gennaio 2018 e il 30 giugno 2019.È stato infine prorogato per il 2019 e 2020 il bonus Mezzogiorno per i datori di lavoro che assumono a tempo indeterminato under 35 o soggetti con almeno 35 anni d’età e privi di impiego regolarmente retribuito da almeno sei mesi. Però il governo ha dato una sforbiciata ai fondi per l'alternanza scuola lavoro: «La legge di Bilancio 2019 riduce gli stanziamenti per i contratti di apprendistato e l’alternanza scuola-lavoro, stanziando solamente 50 milioni di euro, a fronte dei 125 milioni nel Bilancio 2018» conferma alla Repubblica degli Stagisti l'avvocato Francesco Rotondi, socio fondatore dello studio legale LABLAW: «L’istituto dell’alternanza scuola-lavoro cambia ora nome in “percorsi per le competenze trasversali”, subendo una secca riduzione delle ore destinate alla formazione in azienda» che vengono più che dimezzate nei licei «e, cosa ben più grave, anche negli istituti tecnici e professionali». Rotondi ritiene che eliminare l’alternanza scuola-lavoro dai requisiti d’accesso per l’esame di maturità «sia un grosso passo indietro rispetto alla precedente normativa: viene infatti intaccato uno strumento di formazione che avrebbe potuto fungere da primo importante canale di ingresso dei giovani nel mondo del lavoro, soprattutto con riguardo alle forme di apprendistato di primo livello in alternanza scuola-lavoro che solo negli ultimi anni hanno ricevuto adeguato slancio, ora di fatto vanificato».Con Rotondi la Repubblica degli Stagisti ha anche affrontato le novità più rilevanti e più discusse, il reddito di cittadinanza e “Quota 100”, in particolare in rapporto alle ripercussioni sui più giovani. Il reddito di cittadinanza dovrebbe partire dal mese di aprile 2019. Sul tema l'avvocato si mostra abbastanza critico: «Si basa sulla stessa impostazione del reddito di inclusione, non si tratta di una misura di reddito slegato dal lavoro come nei paesi del nord Europa, bensì di un sostegno orientato alla reintroduzione nel mondo del lavoro. Cambia però, e di parecchio, la platea, così come lo stanziamento, che era di poco meno di due miliardi, mentre adesso sarà di circa sei, per una durata massima di 36 mesi, contro i 18 del reddito di inclusione. Per poterlo richiedere resta indispensabile presentare il modello Isee. Questa misura riguarderà circa cinque milioni di persone, che si trovano al di sotto della soglia di povertà assoluta: il 47% dei potenziali beneficiari sarà al Centro-Nord e il 53% al Sud e Isole. Il reddito di cittadinanza»  prosegue Rotondi «è vero che è vincolato a una accettazione di un’offerta di lavoro e a un incentivo di tipo economico per le aziende che assumono disoccupati che hanno diritto a ricevere l’indennizzo, ma questo automatismo si fonda su un evidente punto di debolezza: il non funzionamento dei centri per l’impiego, rispetto all’incontro tra domanda e offerto del lavoro ed all’idea velleitaria che 10mila giovani e inesperti navigator possano risolvere, non si capisce bene come, un problema strutturale che attanaglia il paese da decenni».E “Quota 100”? «Non è una misura per giovani» chiarisce subito Rotondi: «La riforma pensionistica messa in campo dal governo forse libererà dei posti di lavoro, ma non risolverà il mismatch tra offerta formativa e domanda delle imprese. Saranno 20mila in più le uscite dalle industrie nei settore chiave del made in Italy. Si creeranno più opportunità di lavoro, ma non ci saranno abbastanza giovani pronti a coglierle. Manca una formazione in linea con le esigenze dell’industria.». Quali le conseguenze? «Il rischio è di lasciare un vuoto di competenze, fin quando non avremo un sistema educativo che permetterà una rapida professionalizzazione. Non esiste una correlazione esplicita tra l’abbassamento dell’età pensionistica e nuove assunzioni. Ad impedire la staffetta generazionale subentra la mancanza di know-how dei giovani: non ci si inventa una professionalità da un giorno all’altro, occorrono esperienze e conoscenze che il mondo dell’istruzione e della formazione al lavoro hanno il dovere di contribuire a creare».Resta quindi da attendere un po’ di tempo per capire le effettive conseguenze di questi provvedimenti sul mercato occupazionale, soprattutto per chi vi è presente da meno tempo o vorrebbe entrarvi ma ancora non ne ha avuto modo.Chiara Del Priore

Scuole di giornalismo: oggi costano meno di un tempo, ma la crisi del settore riduce le prospettive di lavoro

In Italia esistono dodici scuole di giornalismo, che nell’ultimo biennio hanno messo a disposizione trecento posti per aspiranti giornalisti: in media arrivano un migliaio di candidature per biennio (l'ultimo dato è 800), anche se poi i posti effettivamente assegnati sono poco più del 75% di quelli disponibili (235, per esempio, l'anno scorso). Un business che vale quasi un milione e 800mila euro all'anno.Le scuole sono diventate, per molti, l’unico accesso possibile alla professione. Anche se qualcosa in futuro potrebbe cambiare. Il Consiglio nazionale dell’ordine dei giornalisti ha, infatti, dato il via libera il 16 ottobre dello scorso anno alla propria riforma e inviato al dipartimento per l’editoria della Presidenza del Consiglio il testo approvato. Il progetto di riforma, fortemente sostenuto dal presidente Carlo Verna, in carica dal 2017, introduce tra le altre cose modifiche alla pratica giornalistica, riconosciuta anche all’interno di un corso universitario annuale.Le scuole potrebbero avere le ore contate? Non proprio, ma se la pratica venisse riconosciuta anche all’università i master sarebbero costretti almeno in parte a modificarsi. E probabilmente, per motivi di mercato, anche dal punto di vista economico.Sette anni fa la Repubblica degli stagisti aveva fatto un'inchiesta approfondita sulla professione per capire se le scuole fossero solo per i figli dei ricchi. E il quadro emerso aveva dimostrato come l’accesso al mondo giornalistico costasse alle famiglie italiane cifre dagli otto ai 20mila euro solo per la retta di iscrizione.Oggi le scuole di giornalismo riconosciute dall’Ordine nazionale sono dodici, dopo la riapertura di una scuola simbolo come quella di Bologna, in passato chiusa per carenza di domande. E chi decidesse di tentare questa carta per diventare professionista, non sconfortato dagli esiti occupazionali, dovrà mettere in conto di spendere cifre che vanno dagli 8mila ai 21mila euro solo per la retta, a cui si aggiungono tutti i costi connessi: vitto e alloggio per i fuori sede e durante i mesi di stage (spesso lontani dalla sede della scuola), oltre alle spese per partecipare all’esame di Stato. La scuola in assoluto più costosa è la Luiss, con una richiesta di 21mila euro per il biennio in corso. Segue la Lumsa a 20mila: qui l’ultimo biennio è partito nell’ottobre scorso. Si passa poi ai 19mila euro per la Iulm e 18mila per il master a Torino, entrambi fermi al costo di sette anni fa, seguiti dall’università Cattolica a Milano a 17mila.A questo punto le cifre iniziano a diventare un po’ più abbordabili, con il master del Suor Orsola Benincasa a Napoli che per il biennio iniziato nel 2017 chiedeva 14.400 euro, seguito a ruota a 14mila dalla scuola di giornalismo Walter Tobagi dell’università di Milano, nata nel 2009 in seguito a un accordo tra il master dell’università Statale di Milano e l’Ifg Carlo De Martino, che era la più antica scuola di giornalismo italiana e fino al biennio 2005-2007 anche l'unica ancora completamente gratuita: poi la Regione Lombardia ha chiuso i rubinetti dei fondi, e si è resa opportuna la “incorporazione” dell'IFG all'interno della Statale.A quota 12mila euro si assestano, invece, tre scuole: il master in giornalismo dell’università di Bologna, la scuola di giornalismo radiotelevisivo di Perugia e l’Istituto per la formazione al giornalismo di Urbino, fondato nel lontano 1990. Chiudono la classifica due scuole del sud, entrambe con una retta di 8mila euro: Salerno, dove nel 2012 si spendevano per il biennio 15mila euro, e Bari.  I guadagni delle scuole, però, non si fermano solo alle rette per i due anni, perché a queste si aggiungono anche le spese relative alle varie fasi della selezione e che coinvolgono una platea più ampia di soggetti. Si va dai 50 euro a candidato della scuola Walter Tobagi ai 100 di Torino, dai 150 euro del master di Bari e della Luiss fino ai 250 per i test di Perugia, suddivisi tra domanda di ammissione e successivo pagamento per la selezione.E le borse di studio? In questo campo la situazione è decisamente migliorata rispetto al passato, quando ad esempio il Suor Orsola aveva solo tre borse di studio ognuna da 5mila euro e il master a Salerno non ne prevedeva. E il merito va al Quadro di indirizzi per il riconoscimento, la regolamentazione e il controllo delle scuole di formazione al giornalismo, approvato dal Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti nel dicembre 2016 e riconfermato anche nel nuovo quadro di indirizzi del settembre 2018. Il documento prevede, infatti, all’articolo 5 che «ciascuna scuola garantisce un numero di borse di studio pari come minimo al 15 per cento delle somme versate a qualsiasi titolo dagli allievi». E infatti, leggendo i bandi, tutte le scuole si sono adeguate prevedendo borse di studio e, in alcuni casi, introducendo anche delle convenzioni con alcune banche in modo da consentire l’accesso al prestito d’onore a copertura parziale o totale della retta, come per la scuola di Perugia e di Urbino.Ma se i soldi investiti dai praticanti giornalisti creano per le scuole un introito non indifferente, il tempo e il denaro investiti non sempre valgono la candela. Già una ricerca effettuata nel 2010 mostrava come i collaboratori di testate nazionali e locali venissero pagati anche meno di 3 euro a pezzo. A dimostrazione che una volta raggiunto l’agognato titolo di “professionista”, il mercato non era più così esaltante. Adesso ci sono dati aggiornati che danno un quadro ancora più fosco.Secondo il Rapporto sulle dinamiche occupazionali nel settore giornalistico: confronto con il sistema paese e l’ambito comunitario dell’Inpgi, presentato lo scorso maggio in Commissione lavoro e tutela occupazionale, «negli ultimi cinque anni sono andati persi 2.704 posti di lavoro nel mondo giornalistico, un calo di oltre il 15%». Un dato giudicato in controtendenza sia rispetto alla crescita dell’occupazione registrata in Europa che in Italia. E i giovani sembrano averlo imparato. Prova ne sia che, nonostante in molti tentino la carta di quello che Albert Camus definiva il mestiere più bello del mondo, le domande di ammissione nelle scuole diminuiscono. Tanto che più di un master si è trovato ad avere meno studenti di quanti previsti dal bando nell’ultimo biennio, costretto a rispettare un’altra regola imposta dall’Ordine dei giornalisti, e specificata all’articolo 22 del quadro di indirizzi già del 2016, quella secondo cui «Il numero di allievi ammessi al corso non può essere superiore alla metà di coloro che hanno completato le prove di selezione». Alcuni esempi: il master a Torino prevedeva un massimo di venti posti e alla fine gli studenti sono 15, la Lumsa aveva il target massimo a 30 e si ritrova con 24 praticanti, stesso limite da bando anche per il Suor Orsola a Napoli che alla fine ha solo 11 studenti, mentre Bari ne ha addirittura uno in meno.Scuole, quindi, un po’ meno mangiasoldi, visto il maggior numero di borse di studio e le rette in molti casi abbassate. Ma che, visti i numeri della crisi editoriale, possono garantire sempre meno l’ingresso sul mercato del lavoro. Marianna Lepore

Formazione, giovani e lavoro in tv: su Rai3 la trasmissione Il Posto giusto parla alle famiglie

È alla quinta edizione e va in onda tutte le domenica alle 13 (presto anche in replica in tarda serata) il programma di Rai Tre Il posto giusto condotto da Federico Ruffo e dedicato ai temi del lavoro. Testimonianza di come negli ultimi tempi si stia facendo largo una maggiore presenza in radio e tv di dibattiti collegati alla questione occupazionale, anche se non è la prima volta che un programma televisivo è dedicato all'argomento: «In passato per moltissimi anni, dal 1998 al 2000 circa, c'è stato 'Okkupati', format storico da me ideato e realizzato insieme a Maurizio Sorcioni, che oggi è dirigente all'Agenzia nazionale per il lavoro Anpal» racconta alla Repubblica degli Stagisti l'autore del programma Romano Benini [nella foto sotto], 53 anni, docente di Politiche per il lavoro alla facoltà di Sociologia alla Sapienza e consulente in materia di occupazione. Questi temi insomma piaccono al pubblico: anche se in realtà più le famiglie che i diretti interessati, ovvero i giovani. «A quell'ora di domenica i neet dormono» scherza l'autore, ma è «normale che lo share sia composto soprattutto dalle famiglie, quindi mamme e nonne, perché è il format che è pensato in questo modo ed è anche un orario in cui il pubblico è di quella tipologia». E poi non c'è solo approfondimento in trasmissione, bensì «alterniamo fasi di informazione tecnica con momenti di svago per creare un contesto più godibile».Oltretutto «le famiglie cominciano a capire – con dieci anni di ritardo – che il lavoro ha a che vedere con la realtà delle aziende, che cercano competenze più che titoli di studio». Nel nostro paese «c'è un generale disorientamento verso strumenti e regole per avvicinarsi al mercato del lavoro» argomenta Benini. E allora Il Posto Giusto «in un'ora a settimana prova a fare da bussola, sopperendo a quella mancanza di orientamento colpa della scuola e verso cui le famiglie sono impreparate». Il filo conduttore del programma «è dare le linee guida su quello che richiede il mercato del lavoro e sulla promozione dell'autoimpiego, con attenzione particolare al mismatch tra offerta e domanda di lavoro». Operiamo come «servizio pubblico, fornendo istruzioni per l'uso: a ogni puntata mostriamo per esempio video di colloqui reali, per poi analizzarli con l'aiuto di tutor e consulenti». Sono tantissimi gli errori in cui si cade in queste occasioni, «ci si presenta spesso dalle aziende senza conoscerne il profilo» evidenzia l'autore, e così noi «diamo trucchi e dritte per essere più apprezzati».Ospiti politici non ce ne sono e nemmeno storie di denuncia, bensì «storie esemplari e che funzionano» spiega Benini, «proprio in ragione del fatto che noi illustriamo quanto va bene per far emergere quello che non va». Ad esempio la prima puntata, «in cui abbiamo festeggiato l'acquisizione di un'azienda casertana uscita così dalla crisi, o i racconti di giovani stabilizzati dopo l'apprendistato, e ancora facciamo vedere attorno a ogni attività quanti mestieri ruotino». Si parla anche di stage, «che non ha una buona fama ma che per noi deve essere fatto in un certo modo per portare ad assunzioni». Per non restare vittime del mercato e di certe distorsioni, i ragazzi  dovrebbero imparare a individuare «dove sono le opportunità, non pensando al lavoro solo dopo aver conseguito il titolo di studio, ma scegliendo un percorso che sia in grado di portare a un rapporto con le imprese». Bisogna pensare che «mancano ogni anno centinaia di migliaia di figure tecniche, perché di fatto siamo il settimo paese manufatturiero al mondo».I telespettatori del Posto giusto «sono intorno a quota 450mila, oltre ai 150mila che si aggiungono alla replica serale, con contatti [chi finisce sul canale facendo zapping, ndr], che vanno oltre i 200mila» chiarisce Benini. «Circa il 2,6% di share, una percentuale che supera la media della rete» fa sapere, «e che è salita rispetto alle prime edizioni, quando si registravano circa 380mila spettatori a puntata». Numeri che peraltro non tengono conto dei dati dei social network collegati al programma. Ma «i segnali sono buoni: dalla pagina Facebook riusciamo a capire quante visualizzazioni ci sono su Rai Play». Risultati che consentono di dire che «la trasmissione è cresciuta: contiamo di arrivare a 700mila contatti» auspica Benini.Per il momento tuttavia di lavoro sui mass media non si parla molto. Il motivo è secondo l'autore che «in Italia manca un giornalismo specializzato in questo ambito, ci sono solo giornalisti economici o con conoscenze in ambito statistico». Nella redazione de Il Posto Giusto «lavorano una ventina di persone tra cui circa sette giornalisti e sei videomaker, oltre a tutto il personale tecnico e la struttura dello studio in cui registriamo che è a Torino». Il programma conta poi su un finanziamento proveniente da stanziamenti europei: «si tratta del Fondo sociale europeo, destinato anche alla comunicazione per la promozione del lavoro, inclusi programmi come il nostro». La sovvenzione  ricevuta dalla trasmissione per quest'anno «è circa 8-900mila euro per venti puntate» (ne mancano undici alla fine) e che vengono pilotati tramite l'Anpal. «Con questa e con la Rai costruiamo il programma in una sorta di triangolazione». Per offrire ai telespettatori una trasmissione di vero "servizio pubblico", nella migliore tradizione Rai, focalizzata sull'impegnativo tema dell'occupazione giovanile.Ilaria Mariotti

Blue Book Traineeship, aperte fino al 4 febbraio le selezioni per i tirocini da 1200 euro al mese alla Commissione UE

Con l’anno nuovo tornano le selezioni per i tirocini per laureati alla Commissione Europea. Come ogni anno, infatti, anche nel 2019 l’esecutivo europeo organizza – nell’ambito del programma Blue Book Traineeship – due sessioni di stage da cinque mesi ciascuna, rivolte a 1.300 laureati complessivamente. Come sempre le sessioni si terranno a partire da marzo e da ottobre. Se per marzo le selezioni si sono già svolte lo scorso autunno, mentre quelle per ottobre saranno aperte sino al 4 febbraio.Si tratta di selezioni che si riferiscono a 665 posizioni, tra cui vi sono incarichi nell’amministrazione o come interpreti/traduttori. I tirocini potranno avere luogo sia presso le sedi di Bruxelles e Lussemburgo sia presso le rappresentanze della Commissione dislocate in giro per l’Europa.Possono presentare la propria candidatura i laureati in tutte le discipline. La Commissione selezionerà poi i trainne in base alle proprie necessità. Aspetti interessanti ed apprezzati del Blue Book Program sono il fatto che non esistano limiti di età per potersi candidare e il generoso rimborso spese garantito ai tirocinanti. Rimborso spese che, per il 2019, è stato aumentato dai 1.175 euro mensili degli scorsi anni a 1.196 euro. Sono previste anche coperture per le spese mediche e per quelle di viaggio, oltre che degli eventuali costi necessari per ottenere i visti (benefit previsto soprattutto a vantaggio degli extra-comunitari, i quali possono prendere alle selezioni). Per quanto riguarda il paese di provenienza, come spesso succede con i tirocini nelle istituzioni internazionali e in particolare in quelle europee, la nazione più rappresentata è l'Italia. La Repubblica degli Stagisti ha chiesto e ottenuto i dati specifici sulle candidature, perché il sito riporta solo quelli aggregati 2015-2017 – quasi 100mila candidature, 98.589 per la precisione – di cui poco meno di 10mila per posti da interprete e le altre per l’amministrazione, e senza dettagli sulle nazionalità dei candidati.Dalle informazioni ottenute, emerge come nelle ultime selezioni di agosto 2018,  sono arrivate alla Commissione 8.668 application  per 665 posti. Di questi, i candidati italiani sono stati 1.569, ossia poco più del 18%. Dato che conferma l'Italia al primo posto tra le nazioni da cui provengono le candidature. Staccata, e di molto, la seconda, ossia la Francia con 558 candidati. Si tratta di un dato estremamente significativo, che denota ancora una volta la “fame” dei giovani laureati italiani di esperienze all'estero. Soprattutto, a pesare è l’aspetto del compenso, di gran lunga al di sopra degli standard del nostro paese.Un simile gradimento agevola anche le probabilità - comunque non altissime data la concorrenza agguerrita - di essere selezionati. Dalla Commissione, infatti, spiegano che le posizioni sono ripartite tra i vari Stati membri UE a seconda della popolazione e del numero di candidature ricevute da ciascuno di essi. Le selezioni iniziate ad agosto sono ancora in corso, ma dalla Commissione hanno assicurato che per gli stage - che inizieranno il prossimo 1° marzo - gli italiani avranno riservati 188 posti nel settore dell'amministrazione e 3 come traduttori/interpreti.Come detto, non vi sono limiti di età per potersi candidare. Caratteristica che, se denota una maggiore inclusività rispetto ad altri tirocini, rende le selezioni più dure in quanto ad età più avanzate corrispondono spesso curriculum più ricchi. La fascia anagrafica più rappresentata è quella tra i 25 e i 30 anni, con 59mila candidati negli ultimi due anni. Seguono gli over 30 con 23mila e, in fondo, i ragazzi tra 20 e 25 anni, che si fermano a poco più di 16mila. Tra i candidati interpreti, il 2,48% è stato selezionato, mentre i tirocinanti ammessi nell’amministrazione sono stati il 3,90%. Di seguito qualche spiegazione sul processo di selezione. Si inizia con l’application attraverso il sito internet della Commissione, a cui è necessario registrarsi. Prima di presentare la propria candidatura, gli aspiranti stagisti possono completare un questionario di dodici domande finalizzato a fornire una valutazione delle possibilità che ciascuno ha di superare la prima fase di screening. Una volta creato il proprio account e, eventualmente, compilato il questionario di self-assessment, gli interessati dovranno quindi presentare la candidatura attraverso la loro pagina personale. Da notare come l’application debba essere per forza presentata in una delle tre lingue procedurali dell’UE: inglese, francese o tedesco.Prima di tutto, il candidato deve indicare l’area di interesse per il tirocinio (se amministrativo o da interprete) e, quindi, la lingua procedurale scelta per l’application. Le prime informazioni personali richieste attengono ai pre-requisiti necessari per l’application, ossia una laurea (almeno triennale), una certificazione di livello C1 o C2 di una delle tre lingue lavorative UE e il non aver già lavorato o svolto stage presso altre istituzioni o agenzie europee. Superato questo step, occorre inserire i propri dati anagrafici e di contatto prima di caricare le informazioni relative al curriculum. Nello specifico, è richiesto di riempire dei campi relativi alla formazione universitaria già completata, ad eventuali seminari o corsi di durata superiore a quattro settimane, a programmi exchange/erasmus e a studi ancora in via di completamento. Per quanto riguarda le esperienze lavorative, bisogna indicarne tre al massimo, che abbiano avuto una durata superiore a 43 giorni. Tra le esperienze è possibile citare volontariato, attività nelle ONG o in partiti politici, tirocini con o senza compenso slegati dalla formazione universitaria.Ai candidati UE è richiesta la conoscenza avanzata (C1 o C2) di una delle 24 lingue ufficiali dell’Unione e di una delle tre procedurali. Per i cittadini di stati terzi è sufficiente conoscerne una tra inglese, francese e tedesco. Alla  pagina skills, invece, si devono indicare le proprie competenze informatiche, abilità comunicative ed organizzative (da descrivere in 250 parole) più eventuali paper o pubblicazioni rilevanti.Nell’ultima pagina del form va inserita una breve lettera di motivazione. Per i candidati a tirocini amministrativi la lettera deve essere scritta nella lingua selezionata all'inizio della procedura e deve avere una lunghezza massima di mille caratteri. Bisogna inoltre scegliere tre sedi preferite per svolgere lo stage – direttorati generali, agenzie, servizi – e la propria area disciplinare di interesse, spiegando le motivazioni di tali scelte in duemila caratteri. I candidati per un tirocinio da interprete, invece, devono scrivere una lettera motivazionale nella propria lingua madre (che deve però essere una delle 24 lingue ufficiali UE).Come detto, il termine ultimo per presentare la propria application è il 4 febbraio. Dopo  inizierà la selezione vera e propria. I candidati che passeranno il primo screening saranno chiamati per dei colloqui conoscitivi. È possibile che un candidato venga contattato da recruiter di più di un ufficio e, in quel caso, si seguiranno le preferenze espresse durante l’application. In questa fase il candidato dovrà fornire tutta la documentazione necessaria, ossia copia di un documento d’identità valido e il certificato di laurea, nonché dei documenti che siano in grado di provare quanto dichiarato nella compilazione del form per le candidature. L’esito positivo della candidatura si ha unicamente con l’offerta ufficiale, che può essere una sola per sessione di stage e che il candidato può anche decidere di rifiutare. Per i candidati selezionati i tirocini inizieranno dal 1° ottobre 2019 e termineranno il 29 febbraio 2020.Giulio Monga

Altro che abolita, l'alternanza scuola lavoro andrebbe potenziata: le buone pratiche lo dimostrano

Nel 2018 l'alternanza scuola lavoro ha coinvolto un milione e mezzo di ragazzi. «Se, come risulta dai sondaggi, sono 100mila quelli che si sono trovati male» calcola Antonello Giannelli, presidente dell'associazione nazionale presidi Anp [nella foto a destra] a un convegno romano ospitato dal Cnel, «allora vuol dire che oltre il novanta per cento si è trovato bene». Ma il governo in carica sembra pensarla diversamente, e nella legge di bilancio appena approvata i fondi destinati a questa attività sono stati più che dimezzati, scendendo da 125 milioni a 50 per l'intero pacchetto. Stessa sorte per il monte ore complessivo, passato da 400 a 210 per gli istituti professionali, da 400 a 150 per i tecnici e da 200 a 90 per i licei. Una scelta che secondo Giannelli riflette un «modo non corretto di approcciare ai problemi» perché a rigor di logica «se ci basassimo sull'esito nefasto delle ore di matematica in Italia, allora anche lì dovremmo dimezzare il numero!». Le esperienze positive di alternanza sono invece per Giannelli di gran lunga superiori ai casi negativi: «Ci sono studenti mandati nella Valle dei Templi di Agrigento a spazzolare cocci di reperti greci insieme agli archeologi» esemplifica. «Per me questo non è sfruttamento: io avrei pagato per maneggiare materiale risalente a 2500 anni fa!». E le opinioni degli ospiti alla conferenza sono tutte un coro unanime in tal senso. All'obiezione per esempio che il tessuto imprenditoriale italiano sia composto per lo più da piccole e medie imprese, in cui si fatica a inserire uno studente, Giannelli ribatte: «La legge 107 ha ampliato il numero di aziende presso cui si può svolgere l'alternanza: oggi sono inclusi anche musei e studi professionali» più adatti al percorso di un liceale. E dove «possono svilupparsi quelle famose competenze trasversali fondamentali al lavoro». Pensare che un tempo si diceva «se non studi ti mando a lavorare» ironizza Caterina Cantaloni di Unioncamere. E invece «è dalla fine degli anni Novanta che non si ragiona più di scuola e apprendimento come cose separate, e noi come Camere di commercio siamo facilitatori di questo dialogo». L'alternanza, oltre a «rendere consapevoli delle proprie difficoltà e a rafforzare le capacità per entrare nel mondo del lavoro», funge anche «come orientamento» afferma. E «consente, come dimostrano alcuni studi, di trovare un lavoro migliore» fa eco Tiziano Treu, presidente del Cnel. Per Angela Nava di Genitori democratici quello contro cui bisogna combattere «è un pregiudizio che alberga nell'animo dei docenti e connota la nostra cultura, e cioè l'idea che la funzione dell'istruzione sia quella del sapere come valore assoluto, con una separazione netta tra l'otium e il negotium latini». Non va dimenticato come la prima risposta all'introduzione dell'alternanza «da parte di moltissime scuole sia stata una alzata di scudi: questa è la pancia profonda della scuola italiana, con cui bisogna fare i conti». Le best practice a cui guardare invece sono diverse. Lo racconta il dirigente scolastico dell'Iti Severi di Gioia Tauro Giuseppe Gelardi [nella foto a sinistra]: «Noi calabresi abbiamo un territorio particolare, dove la piccola e media impresa è molto presente ma il tasso di disoccupazione è al 55 per cento» racconta. Nel timore di continuare a sfornare disoccupati, Gelardi decise di mettersi all'opera molto prima della legge sulla Buona scuola. «Andai a bussare alle porte delle aziende, mi misi a fare file, bisognava convincere tutti» ricorda. Oggi sono 450 gli studenti impegnati nei percorsi di alternanza per un totale di 300 ore all'anno (contro le 400 a triennio previste in precedenza dalla 107). E i risultati in termini occupazionali ci sono perché «stiamo riuscendo a ottenere anche contratti a tempo indeterminato». E ancora l'Istituto tecnico Mita di Scandicci, i cui studenti seguono ogni anno appositi corsi di formazione pensati con aziende «socie come Fendi, Prada, Ferragamo» spiega Massimiliano Guerrini, presidente dell'omonima fondazione. «Loro ci chiedono un determinato corso e noi in cambio prendiamo una loro risorsa da usare come tutor». I ragazzi «dopo un biennio, di cui un anno e mezzo in laboratorio, iniziano stage in cui non si va a fare fotocopie» sottolinea, «perché si sono investiti un sacco di soldi e si è studiato un iter sulla base di quello che serve». Così, nelle ultime due edizioni, si è raggiunto «il 100 per cento di occupati». E poi le aziende, come Almaviva Group, gruppo da 42mila risorse che utilizza l'alternanza dal 2015. «Gli studenti vengono inseriti nel nostro secondo filone di business, relativo alle tecnologie di frontiera per istituti bancari e amministrativi» racconta il direttore Risorse umane Marina Irace. E vengono messi al lavoro «sui droni e sulla realtà aumentata, non come sui banchi di scuola dove si studiano programmi spesso vetusti».Eppure il destino dell'alternanza scuola lavoro sembra segnato. Nel Def, come detto, i fondi stanziati sono stati più che dimezzati, così come il monte ore minimo. Certo, «le scuole se vorranno potranno introdurre più ore» specifica alla Repubblica degli Stagisti Andrea Marchetti dell'Anp. Ma attingendo a fondi interni, e affrontando prevedibilmente bordate dalla rumorosa minoranza di studenti ostili al progetto. Qualcuna riuscirà davvero a farlo?Ilaria Mariotti 

Tirocini e dichiarazione dei redditi, ecco quali sono gli obblighi degli stagisti

Anche gli stagisti sono tenuti alla presentazione della dichiarazione dei redditi. Infatti il reddito derivante da stage e borse di studio è un reddito assimilato a quello di lavoro dipendente. Categoria nella quale rientrano «le somme da chiunque corrisposte a titolo di borsa di studio o di assegno, premio o sussidio per fini di studio o di addestramento professionale, se il beneficiario non è legato da rapporti di lavoro dipendente nei confronti del soggetto erogante», come stabilito dall’art. 50 del Testo unico delle imposte sui redditi (il cosiddetto “Tuir”). Al pari del lavoratore dipendente, quindi, lo stagista deve presentare la dichiarazione dei redditi se il reddito complessivo da lui percepito è superiore agli 8.145 euro l’anno, ovvero a circa 678 euro al mese. A differenza dei redditi da lavoro subordinato, i rimborsi spese non sono invece soggetti a contribuzione previdenziale.L’Irpef prevista fino a 15mila euro è anche per i tirocinanti al 23%. Ad esempio, su un rimborso spese complessivo di 5mila euro per uno stage della durata di dodici mesi, l’Irpef al 23% dovrebbe decurtare 1.150 euro, ma grazie alle detrazioni previste dal Tuir, la somma rimane invariata, dunque non vengono attuate trattenute fiscali.«La soglia di esenzione dipende dai mesi lavorati» spiega Benedetta Rizzi, ricercatrice di diritto tributario presso la Fondazione nazionale commercialisti: «Se ad esempio lo stage dura sei mesi la “no tax area” si riduce a 6mila euro». La base imponibile è costituita da tutti gli importi, in denaro o in natura, a qualsiasi titolo corrisposti, in relazione all'erogazione delle borse e dei premi di studio anche sotto forma di rimborso spese. Pertanto rientrano nell'ammontare le spese di viaggio, di alloggio, di vitto etc. – tranne che nell'ipotesi in cui siano collegate ad una trasferta – o il valore normale e/o "convenzionale" delle prestazioni in natura qualora offerte gratuitamente dal soggetto erogante. Possono essere riconosciute anche le detrazioni per familiari a carico, ove richieste dal tirocinante.Sono esenti dall’obbligo di dichiarazione gli studenti universitari percettori di borse di studio erogate dalle Regioni e dalle università per dottorati di ricerca, ricerca post dottorato ed Erasmus Plus.Ma come si fa a presentare la dichiarazione? Le opzioni per compilare il modello 730 sono varie. «Nel caso in cui il “datore di lavoro” presti assistenza fiscale, ci si può rivolgere a quest’ultimo per la presentazione della dichiarazione. In alternativa» illustra Rizzi: «lo stagista può rivolgersi a un professionista abilitato – tra cui, i commercialisti –  o a un Caf-dipendenti o ancora, nel solo caso del 730 precompilato, può presentare la dichiarazione autonomamente tramite il sito internet dell’Agenzia delle entrate».Molto spesso agli stagisti capita di percepire altri redditi. «Nel caso dei redditi da lavoro autonomo occasionale oppure dei redditi derivanti dal possesso di fabbricati lo stagista in linea generale può presentare il 730 precompilato compilando gli appositi quadri del modello, come il quadro D per le prestazioni occasionali, inserendo i dati contenuti nella Certificazione unica rilasciata dal sostituto d’imposta, e il quadro B per i redditi da fabbricati». Per quanto riguarda i giorni di lavoro, in presenza di più redditi da lavoro dipendente o assimilati, va indicato il numero totale dei giorni compresi nei vari periodi, tenendo conto che quelli compresi in periodi contemporanei devono essere considerati una volta sola. Va poi indicato l'ammontare delle ritenute Irpef subite. E, dato che sullo stage non ci sono imposte alla fonte, ci si affiderà al Caf o un professionista per effettuare i conteggi sull'eventuale conguaglio da pagare. Il modello 730 per il 2018 dovrà essere presentato al proprio sostituto d’imposta entro il 7 luglio del 2019 oppure entro il 23 luglio al Caf, al professionista abilitato o direttamente all’Agenzia delle entrate nel caso del modello precompilato. Insomma, anche se lo stagista non è considerato un lavoratore e il suo rimborso spese non è equiparato a uno stipendio, non bisogna dimenticare che egli è ugualmente tenuto ad adempiere agli obblighi fiscali.Rossella Nocca

Due milioni e mezzo di euro contro la disoccupazione giovanile, ma il progetto Drop'pin non è mai decollato

Circa tre anni fa è stato lanciato il progetto pilota Drop’pin, la piattaforma di job matching voluta da Eures, la rete europea dei servizi per l’impiego, per aiutare i giovani di età compresa tra i 18 e i 29 anni a muovere i primi passi nel mercato del lavoro. Il nome è il contrario di drop out, espressione associata a chi non completa il percorso di studi, ma è anche un gioco di parole. L’obiettivo era infatti quello di invitare i giovani a “saltar su”, a salire (mentre to drop significa “scendere, far cadere”) sul carro delle opportunità e allo stesso tempo le aziende a mettere in vetrina le proprie offerte, fissandole idealmente con uno spillo (to pin).A tre anni dalla presentazione del progetto, la Repubblica degli Stagisti ha chiesto ai promotori un resoconto dell’attività svolta. E, a dispetto di due milioni e mezzo di euro investiti dall’Unione europea, i numeri sono fallimentari. «Ad oggi sono registrate 814 aziende», è la risposta di Lidija Globokar, responsabile del progetto Drop’pin, «e attualmente sono pubblicate 2.318 opportunità. A settembre 2018 le visite sono state 5.600, a ottobre 7.200». Impossibile, invece, sapere quanti incroci tra giovani e aziende sono stati finalizzati.Le cifre raggiunte sono ben lontane da quelle prospettate nel dicembre 2015, dopo i primi mesi di “rodaggio”. «Entro giugno prossimo speriamo di avere almeno mille aziende registrate, 10mila offerte e almeno 100mila visite mensili al sito», aveva dichiarato infatti Pascale Woodruff, consulente per la comunicazione del portale Eures, all’interno della Direzione generale Occupazione della Commissione Ue. Dunque i risultati raggiunti sono meno di un decimo di quelli auspicati.«In totale, tra il 2013 e il 2018, sono stati assegnati a Drop’pin 2,5 milioni di euro» conferma Sara Soumillion dell’Ufficio stampa per l'occupazione, gli affari sociali, le competenze e la mobilità del lavoro della Commissione «che sostengono il personale che lavora sulla piattaforma, la diffusione e i vari progetti di sensibilizzazione, come i nuovi tirocini per opportunità digitali». La Repubblica degli Stagisti avrebbe voluto sapere in che modo e quante persone hanno lavorato alla piattaforma in questi anni e se, alla luce di un bilancio oggettivamente negativo, è stato previsto un nuovo budget, ad esempio per la comunicazione o per nuove risorse umane. Ma le domande sono rimaste senza risposta: nessuna disponibilità da parte dei responsabili a fornire queste informazioni. «Non sono previsti ulteriori investimenti, fino a quando non sarà stata effettuata un’analisi più approfondita del funzionamento del progetto», si limita a dichiarare Lambert Kleinmann, vice capo unità della Direzione generale Occupazione della Commissione europea. Kleinmann comunica inoltre che – ufficialmente per migliorare il servizio – dal 2017 Drop’pin è stato integrato nel portale Eures, dove i giovani in cerca di occupazione possono reperire in unico spazio tutte le offerte disponibili e le aziende contare su un database unico, accedendo dallo stesso account. Eures conta su una rete di 1.000 consulenti ai servizi di mobilità professionale e raccoglie oltre 3 milioni di offerte, e alla luce di questi numeri dovrebbe “trainare” anche Drop’pin.Per il periodo 2018-2020 a Drop’pin si accompagnerà inoltre l’iniziativa Digital Opportunity traineeships, progetto pilota destinato a creare fino a 6mila tirocini transfrontalieri per studenti e neo-laureati. Finanziati da Orizzonte 2020 e messi in atto tramite Erasmus+, i tirocini in questione permettono ai giovani selezionati – a fronte di un’indennità mensile di 500 euro – di migliorare le proprie competenze informatiche in campi quali sicurezza informatica, big data, tecnologia quantistica, apprendimento automatico, marketing digitale e sviluppo di software. Anche qui la sensazione è che si tenti di camuffare il fallimento della piattaforma associandola a nuovi progetti.Ma come funziona il portale oggi? Gli annunci delle aziende, per essere pubblicati, devono rispettare alcuni requisiti. «Devono essere opportunità formative e non offerte di lavoro, provenire da società stabilite nell’Unione europea» precisa Globokar «e nello Spazio economico europeo, essere scritte in una delle lingue dell’area Ue, fornire informazioni sullo scopo e sulla durata dell’esperienza e non comportare alcun costo per il candidato, se non in casi eccezionali e comunque con importi bassi».«Facciamo tutto il possibile per verificare che le organizzazioni registrate su Drop’pin siano serie» si legge nel messaggio che appare all’apertura della pagina di ogni offerta «e che le opportunità da loro offerte ai giovani siano reali e sicure. Tuttavia, non possiamo garantire che l’integrità del sito web non sarà mai compromessa da possibili truffatori, che potrebbero persino riuscire a pubblicare sul sito web false opportunità». I gestori invitano quindi a segnalare i casi di contenuti inappropriati rispetto alle finalità del portale. Le principali categorie sono: apprendistati, tirocini, programmi di formazione, corsi di apprendimento online, formazione linguistica, sostegno alla mobilità, affiancamento, tutoraggio. I campi vanno da tecnologie dell’informazione e della comunicazione a business e amministrazione, da scienze sociali e comportamentali a matematica e statistica, passando per ingegneria e lingue.I paesi sono tutti quelli dell’area Ue, ma a prevalere sono al momento gli annunci provenienti da: Regno Unito, Spagna, Francia e Italia. Guardando ad esempio alle offerte per il nostro paese, l’annuncio più recente propone un tirocinio come digital consumer behavior analyst intern presso la multinazionale Nielsen, a Milano. La posizione è ben esplicata, ma resta l’interrogativo sul rimborso spese erogato. La trasparenza degli annunci non è tuttavia l’unica perplessità legata alla gestione della piattaforma. Ad esempio si nota facilmente che il portale conserva offerte di lavoro scadute, per cui non tutti gli annunci al momento disponibili si traducono in altrettante opportunità.A tre anni e mezzo dal lancio, la sensazione è che il progetto – mosso dalla sfida sin troppo ambiziosa di contrastare la disoccupazione giovanile in Europa – non sia mai realmente decollato e che il ri-assorbimento nel portale Eures sia solo un malcelato tentativo di nasconderne il fallimento. Rossella Nocca