Con il boom della cosiddetta gig economy capita sempre più spesso, aggirandosi per le città italiane, di imbattersi nei riders, fattorini in bicicletta o motorino che consegnano cibo su ordinazione per conto di piattaforme popolari come Foodora, Globo, Just Eat o Deliveroo. La Fondazione Debenedetti stima che in Italia ce ne siano circa 10mila.
Si tratta di figure utilizzate spesso come rappresentazione della situazione precaria del mercato del lavoro in cui si muovono le nuove generazioni. In particolare, negli ultimi mesi la questione è stata sotto la luce dei riflettori per via di diversi attacchi da parte di sindacati, prese di posizione di alcuni politici e inchieste giornalistiche che hanno evidenziato l’estrema precarietà di un settore economico –non per niente «gig economy» si traduce con «economia dei lavoretti» – caratterizzato dall’utilizzo di co.co.co. o collaborazioni occasionali con pagamenti – esigui – «a consegna». Il settore è scarsamente regolamentato in quanto diversi principi giuslavoristici si applicano a fatica ai rapporti di lavoro, assai atipici, tra i riders e le piattaforme per cui effettuano le consegne.
Tra le varie iniziative sorte negli ultimi mesi spicca la Carta di Bologna («Carta dei diritti fondamentali del lavoro digitale nel contesto urbano»), in vigore da fine maggio per iniziativa della giunta del sindaco PD Virginio Merola. Si tratta del primo accordo in Europa tra riders, sindacati – oltre al sindacato di base Riders Union, protagonista della trattativa, anche Cgil, Cisl e Uil –, istituzioni e piattaforme digitali. «Abbiamo deciso di non aspettare. Abbiamo chiamato anche i sindacati, e abbiamo chiesto alle società di non mandarci i loro legali ma quelli che avevano potere di firma» ha raccontato di recente l’assessore Marco Lombardo durante un evento dell'associazione Milano In – Innovare x Includere a Milano, ricordando come la scintilla che ha dato avvio all'iniziativa è stato uno sciopero “natalizio” organizzato lo scorso dicembre da Riders Union. Ma dalla parte delle aziende hanno firmato la Carta soltanto Sgnam e MyMenu – start-up emiliane di recente fuse in Meal srl – che insieme rappresentano più o meno duecento lavoratori, sul totale dei cinquecento riders che operano sul territorio bolognese, mentre sono rimasti fuori tutti i big del settore. «Queste due piattaforme sono piccoline a livello nazionale, ma a Bologna rappresentano una rilevante quota sul totale dei riders attivi» spiega Lombardo.
Il documento è molto snello: è composto da dodici articoli in cui sono elencati e disciplinati i «diritti fondamentali» dei riders. La Carta è organizzata in quattro punti programmatici, in cui sono stabiliti «standard minimi di tutela che si applicano a tutti i lavoratori e collaboratori operanti all’interno del territorio della Città metropolitana di Bologna» che lavorano per conto di una o più piattaforme digitali. La Carta si applica ai riders «indipendentemente dalla qualificazione dei rapporti di lavoro» con l’azienda. Tra i primi diritti/obblighi quello per cui le piattaforme devono comunicare informazioni come la propria identità, la data di inizio e la durata prevista il compenso e le modalità di pagamento e la procedura per terminare il rapporto di lavoro. Significativa la specificazione per cui «in mancanza di un luogo di lavoro fisso o predominante, il principio che il lavoratore è impiegato in luoghi diversi o è libero di determinare il proprio luogo di lavoro». La previsione è importante in quanto una delle critiche principali mosse negli ultimi mesi alle piattaforme è quella per cui i riders – pur non essendo inquadrati come dipendenti – siano, di fatto, obbligati a ritrovarsi in determinati luoghi da cui ricevere gli ordini di consegna dalle piattaforme.
La parte principale della Carta è il Capo III, dedicato ai diritti della persona, tra cui quello ad un compenso orario fisso «equo e dignitoso», che ogni piattaforma deve garantire ai rider. Il compenso in questione, in particolare, non deve essere inferiore ai minimi tabellari «sanciti dai contratti collettivi di settore» sottoscritti dalle organizzazioni sindacali (al momento sono in corso negoziazioni in questo senso a livello nazionale). Inoltre, la Carta prescrive che ai lavoratori debbano essere garantite indennità per il lavoro notturno, nei giorni festivi o in «condizioni metereologiche sfavorevoli». Figurano nel documento anche il divieto di qualsiasi discriminazione e l’obbligo di comunicare con congruo preavviso e per iscritto il recesso dal rapporto di lavoro. Ai riders è riconosciuto anche il diritto di connessione e di disconnessione – il che non è banale, trattandosi di lavoratori «digitali» – oltre che ai diritti a formare organizzazioni sindacali, di sciopero (definito «diritto al conflitto») e alla tutela dei dati personali.
Fondamentale è il riconoscimento di un diritto alla salute e alla sicurezza, da proteggere «indipendentemente dalla qualificazione giuridica» del rapporto di lavoro. Si tratta di una delle questioni più controverse di tutta la materia in quanto diverse inchieste giornalistiche hanno stimato come l’ottanta per cento circa dei riders, essendo inquadrati come collaboratori occasionali, non ha assicurazioni pagate dalle aziende. A questo proposito, la Carta prescrive invece che le piattaforme si facciano carico di «un’assicurazione che copra i lavoratori dal rischio di infortuni e di malattie sul lavoro», oltre che dai danni causati in caso di incidenti stradali – anche nei confronti dei terzi. Eventualità, quest’ultima, assai comune dal momento che i riders sfrecciano in bicicletta o in moto nelle città. Sempre a proposito di sicurezza, le piattaforme che hanno sottoscritto la Carta si impegnano, inoltre, a fornire ai riders «strumenti idonei e dispositivi di sicurezza obbligatori», oltre che a rimborsare in tutto o in parte le spese di manutenzione degli strumenti di lavoro, come ad esempio le biciclette.
Gli ultimi due articoli della Carta riguardano gli impegni programmatici del comune di Bologna per promuovere il documento. Emblematico, a questo proposito, il fatto che Merola abbia chiesto pubblicamente di boicottare le piattaforme che non hanno aderito all’iniziativa. Come detto, queste ultime sono in realtà tutte le big del settore. Gianluca Cocco, ceo di Foodora Italy – società che recentemente ha annunciato il proprio addio dall’Italia – si è giustificato sostenendo che ci sarebbe il rischio di una «geopardizzazione» delle regole: «Pensiamo che il tavolo su cui articolare questa discussione sia a livello nazionale», e anche Deliveroo si è allineata.
A livello nazionale, come noto, la situazione è in evoluzione. Nel suo primo appuntamento da ministro del lavoro, Luigi Di Maio – incontrando una delegazione di riders – aveva definito la categoria come «il simbolo di una generazione abbandonata» e aveva garantito l’impegno del governo sulla questione. Dopo vari incontri con le piattaforme, Di Maio aveva quindi annunciato l’apertura di una concertazione per scrivere un contratto collettivo in materia (che sarebbe il primo in Europa). Annuncio che, di riflesso, ha però portato all’esclusione dei riders dal decreto dignità.
Nel frattempo, a metà luglio Filt-Cgil, Fit-Cisl e Uiltrasporti hanno annunciato il riconoscimento dei riders come lavoratori subordinati nel contratto collettivo nazionale della logistica. Una dichiarazione però «unilaterale», che non ha soddisfatto gli attivisti di Riders Union Bologna, per cui il problema permarrà a prescindere, non essendo i riders assunti dalle piattaforme come lavoratori subordinati. E a fine luglio alcuni giornali hanno riportato la notizia del licenziamento per motivi «disciplinari» di Tommaso Falchi – portavoce di Riders Union che ha fatto parte della delegazione incontrata da Di Maio – che, a quanto riferito dai media, è stato sanzionato dall’impresa per cui lavorava per aver usato il furgone aziendale per lo sciopero.
La situazione a livello nazionale è ancora in divenire e assai incerta; e per questo la Carta di Bologna può rappresentare un importante modello cui far riferimento.
Giulio Monga
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