Categoria: Approfondimenti

Rientro degli expat, una legge ad hoc prevede nuovi sconti fiscali

C'è una legge in queste ore al vaglio del Parlamento che prevede un regime fiscale di vantaggio – uno sconto fino a un massimo del 90 per cento dell'Irpef sul reddito da lavoro – per chi dall'estero decide di rientrare in Italia. Non solo ricercatori. A rendere esplicito tale scopo anche il titolo originario del provvedimento, varato nel 2010 come 'Controesodo'. La Repubblica degli Stagisti si è già occupata del tema, e per approfondirlo stavolta ha interpellato alcuni esponenti del mondo del lavoro e della ricerca chiedendo loro un parere nel merito della legge.Per Eleonora Medda [nella foto a destra], responsabile dell'Inca Cgil in Belgio nonché eletta nel Consiglio generale degli italiani all'estero, «gli incentivi fiscali sono i benvenuti», ma c'è un aspetto poco convincente che riguarda la platea dei beneficiari, nella parte in cui si riserva il taglio delle imposte al 50 per cento ai lavoratori qualificati con laurea. «La stragrande maggioranza di coloro che emigrano oggi non sono più solo figure altamente qualificate, ma anche operai, pizzaioli, artigiani, liberi professionisti».Se si concepisce il bonus Irpef come agevolazione per «lavoratori altamente qualificati, il risultato sarà che probabilmente ne usufruiranno solo quei cittadini facoltosi 'paperoni' disposti a trasferire la propria residenza in Italia con la possibilità di optare per una tassazione sostitutiva molto vantaggiosa». Il timore di Medda, che sarà venerdì 9 dicembre tra gli ospiti del Meetalents 2016 (l'evento annuale dell'associazione Italents, che quest'anno avrà luogo a Bruxelles - qui il form per iscriversi, l'ingresso è libero!) è insomma che ben pochi ne saranno favoriti e si continuerà invece a «disperdere capitale umano».D'altro canto, «la legge di Bilancio 2017 prevede tutta una serie di agevolazioni fiscali e finanziarie studiate per attirare investimenti esteri in Italia ma anche incentivi atti a stimolare il rientro di residenti all’estero» ribattono dalla segreteria di Marco Fedi, il deputato Pd tra i promotori della legge. Ed è per questo significato complessivo che Patrizia Fontana [nella foto sotto], head hunter e componente del consiglio direttivo del Forum della meritocrazia, esprime parere favorevole al provvedimento, per cui si è anche personalmente spesa: «Trovo che il 50 per cento sia un'ottima percentuale per attirare i manager all'estero».La detassazione originaria era in realtà più alta: 70%. «Ma adesso la previsione include anche gli stranieri, purché laureati» controbilancia Fontana. L'informazione è confermata anche dalla segreteria di Fedi (il testo di legge non è ancora stato varato dal Senato, ma è disponibile online una scheda sui contentuti della legge di Bilancio). Inoltre «il procedimento è tutto online», assicura Fontana, il che renderebbe l'iter per la richiesta particolarmente semplice, almeno sulla carta. Niente pasticci burocratici o commercialisti, come invece paventa Medda: «Coloro che hanno avuto o che avranno la possibilità di rientrare dovranno cercarsi un buon commercialista dato il solito pasticcio normativo all’italiana»: il riferimento è a quella modifica dei requisiti in corso d'opera che avvenne dopo l'entrata in vigore della prima versione di Controesodo. La conseguenza fu che chi ne stava beneficiando aveva corso il rischio di perdere il diritto.Dal mondo della ricerca invece la bocciatura è più netta, nonostante lo scudo fiscale arrivi in questo caso al 90 per cento del guadagno. Anche per come la legge è materialmente scritta. «Ha buoni propositi e potenzialità se abbinata a altre misure strutturali», ma la stroncatura di Stefano Nardone, [nella foto sotto], trentenne napoletano e PhD student a Tel Aviv alla Bar Ilan University, si focalizza sulla definizione delle condizioni di accesso, in particolare il trasferimento della residenza. «Come si fa a dimostrarlo? Tutti quelli che vanno via hanno la residenza in Italia, nessuno la muove». Per spiegare porta a esempio il suo caso: «Io sono stato due anni e mezzo a Londra e quattro e mezzo in Israele, ma risulto ancora residente a Napoli». E non c'è niente di illegale, perché «si tratta di contratti temporanei». Al massimo il trasferimento si fa «per un visto Usa dopo un tot di anni».  A Nardone non converrebbe in ogni caso trasferirsi: «Tramite qualche contatto ho ricevuto una proposta di lavoro in Italia: 24mila euro lordi all'anno. Qui a Tel Aviv ne guadagno 3.500 al mese, netti, per una scholarship per la ditta farmaceutica per cui lavoro, anche se devo pagarmi i contributi». Negli Stati Uniti si arriva a «90mila euro per un incarico medio». Il confronto non regge. «La legge per come è fatta è inutile, è una goccia nell'oceano».E ancora a monte della retribuzione c'è il problema dei posti disponibili. Per i ricercatori è il lavoro a mancare, quindi è privo di senso emanare una legge che renda la retribuzione esentasse.  «Le agevolazioni fiscali si possono applicare se c'è un posto a cui ambire» dice Gabriele D'Uva, 36enne ricercatore all'Irccs di Milano, salito alle cronache per aver scoperto un gene capace di riparare il cuore mentre faceva ricerca a Tel Aviv.All'estremo opposto di Medda, D'Uva pensa che gli incentivi fiscali dovrebbero essere ancor più mirati: «Bisognerebbe facilitare il rientro di persone con alte potenzialità, che possano in futuro incidere nel mondo della scienza internazionale, chi ha già una posizione all'estero e che ha raggiunto importanti traguardi scientifici» suggerisce. «Una via preferenziale dovrebbe essere destinata a chi ha ottenuto finanziamenti in bandi internazionali: l'aggiudicarsi questi bandi è già prova di qualità». Si tratterebbe di «copiare la ricetta dalle varie eccellenti realtà di ricerca del mondo» perché «ci sono tanti scienziati italiani all'estero che aspettano una opportunità di tornare in Italia e potrebbero fare la differenza». Proprio quelli che questa nuova versione della legge Controesodo si ripropone di attirare.Ilaria Mariotti   

E se da grande facessi l’astronauta?

Se avete appena concluso un percorso di studi di tipo scientifico, conoscete bene l’inglese e godete di buona salute, da grandi potreste fare gli astronauti. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, per trasformare lo spazio nel proprio lavoro non è obbligatorio un percorso universitario e una carriera lavorativa predefiniti. Parola di chi si è trovato a fare l’astronauta ‘quasi per caso’: Roberto Vittori. «Nel 1998 ero a Pratica di Mare come pilota dell’aeronautica e l’Esa, European space agency, pubblicò il bando per la ricerca di due astronauti. Così, insieme a Paolo Nespoli, passai la selezione» racconta Vittori alla Repubblica degli Stagisti.Classe 1964, oggi generale di Brigata aerea e ufficiale dell’aeronautica militare, Roberto Vittori ha all’attivo più di 2000 ore di volo su oltre 40 diversi aeromobili e nella sua carriera ha volato anche tre volte nello spazio: nel 2002 e nel 2005 a bordo della navicella russa Sojuz e nel 2011 con lo Shuttle. «Alcuni miei colleghi, tra cui anche Nespoli, hanno disegnato un percorso pianificando a priori corsi e specializzazioni per arrivare all’obiettivo. Per me invece è stato casuale, certo l’astronauta e il pilota erano figure che mi incuriosivano da bambino, ma non stavo organizzando la vita attorno alla selezione. Sono diventato astronauta quasi per una coincidenza» confessa.La formazione e il percorso professionale che Vittori aveva alle non erano di tipo aerospaziale: aveva frequentato l’Accademia  Aeronautica italiana e lavorava come pilota collaudatore per il Reparto Sperimentale di Volo dell’aeronautica militare. Ma tutto ciò gli è stato molto utile a superare la selezione Esa. In pratica, dopo una prima valutazione del curriculum a garanzia dell’attendibilità e della conoscenza accademica del candidato, per superare il bando Esa ci sono gli esami di inglese  e i candidati sono sottoposti a importanti test psicoattitudinali oltre che fisici, come prove sotto sforzo, test di resistenza anche per verificare la capacità di adattamento in spazi piccoli. «Andare in orbita significa isolamento, tornare sulla Terra, per un'urgenza e in maniera veloce è molto difficile, ecco perché la selezione punta a individuare persone che stanno bene in salute. Poi le navicelle spaziali non sono molto comode, sono strette e le sollecitazioni sono molto forti. Per vivere nel miglior dei modi possibili in una navicella può essere buono per esempio anche un background operativo da sub, sommozzatore, paracadutista».Il brevetto da sub e la qualifica di collaudatore di aerei sono titoli che possono aiutare a superare il concorso dell’Esa. Alla selezione del febbraio del 1998, quella a cui partecipò Vittori, si presentarono più di cento candidati per due posti e i test si conclusero dopo 5 mesi. «Arrivare al volo è un percorso, la fine della selezione è un punto di partenza». Sì, perché il candidato che supera il concorso poi inizia un percorso di preparazione al volo lungo due anni. La principale caratteristica che deve possedere un astronauta è la versatilità: nella selezione si cercano persone che possono passare da un argomento all’altro, dall’elettronica alla chimica ad esempio per condurre esperimenti e studi, e che possano reagire bene a situazioni impreviste, come la rottura di una parte del sistema e la conseguente necessità di ripararlo. «Per quanto si possano studiare i sistemi delle navicelle, fino al più piccolo particolare, e provare in laboratorio gli esperimenti che poi si dovranno fare in orbita, una volta in volo la microgravità rende tutto diverso» spiega Vittori. E solo la versatilità e lo spirito di adattamento che possono far superare al meglio la missione perché «quando arrivi in orbita diventi come i bambini, impacciato nei movimenti: il mondo intorno a te non è adatto al tuo fisico, la microgravità è una variabile che sistematicamente interagisce con qualunque pensiero e logica, ci si inizia a muovere come se si avesse un handicap che si supera solo coordinandosi al meglio».«La laurea in ingegneria aerospaziale prepara nelle discipline legate alla progettazione di velivoli spaziali e aeronautici» aggiunge Maria Vittoria Salvetti, preside della Facoltà di Ingegneria aerospaziale di Pisa: «La carriera di astronauta non richiede necessariamente tutte le competenze di un ingegnere aerospaziale, ma richiede doti psico-fisiche che non possono essere fornite dalla nostra Laurea».Ma prima di partecipare a un bando per diventare astronauta è possibile fare già esperienza nel settore. «Va benissimo frequentare master e fare tirocini» consiglia Vittori. Ad esempio l’Asi, Agenzia Spaziale Italiana, attua programmi di sostegno ai neolaureati e ai giovani ricercatori tramite il finanziamento di borse di studio per la partecipazione a master e a corsi di alta formazione specialistica. L’agenzia inoltre collabora con la Crui, Conferenza dei rettori delle università, per l’organizzazione di stage e tirocini rivolti a laureandi e neolaureati. L’Esa poi, da marzo di quest’anno, ha attivato The Esa Academy: rivolta agli studenti europei in discipline scientifiche, la scuola di formazione ha integrato il già esistente Hands-on Space Projects per acquisire competenze dirette in ambito aerospaziale con il Training and Learning Programme che propone corsi e opportunità di apprendimento ancora più specifici. Entrando nell’Academy si ha la possibilità di lavorare nelle infrastrutture dell’Agenzia spaziale europea e nel Redu centre in Belgio. Anche la Nato, North atlantic treaty organization, dà l’occasione di svolgere tirocini a Bruxelles in ambito aerospaziale. Come è successo a Jessica Volterrani che qualche anno fa partecipò al Nato Internship Programme per il 2013 nell’ Aerospace and armament capabilities directorate: proprio alla Repubblica degli Stagisti la giovane ingegnera toscana, oggi 34enne, aveva raccontato di aver fatto pratica nello staff internazionale lavorando alle guide sulle politiche e i regolamenti vigenti negli spazi aerei.«L’inserimento nel mondo del lavoro dei laureati magistrali in Ingegneria aerospaziale, anche negli ultimi anni di crisi o bassa crescita economica, è molto buono. Da un’indagine statistica a cura di AlmaLaurea risulta che a un anno dalla laurea la percentuale dei laureati che hanno un lavoro oscilla tra il 70-75%, la percentuale di coloro che cercano lavoro è intorno al 10%» dice la preside Salvetti. «I nostri laureati trovano impiego in tutte le industrie aerospaziali italiane e anche in industrie aerospaziali straniere come ad esempio Avio, Thales Alenia Spazio, Alenia Aermacchi, Agusta, Rolls-Royce, Airbus. Trovano inoltre impiego nell’industria meccanica in generale e, in particolare, in quella automobilistica. Un numero significativo di nostri laureati lavora o ha lavorato, ad esempio, in Ferrari produzione e corse. Altri possibili sbocchi sono nel settore navale».«Invito i giovani a guardare allo spazio e oltre l’atmosfera perché è destinata a diventare volano per l’economia mondiale. Lo spazio è una speranza per il pianeta Terra stesso, per risolvere ad esempio il problema del riscaldamento globale, diventerà un ambiente di lavoro nel futuro» consiglia Vittori. Già adesso negli Usa il settore aerospaziale è in crescita e non è “esclusivo” della Nasa: i voli ormai sono organizzati anche da società private, nascono spazioporti e spazioplani. In effetti in Italia, secondo l’ufficio studi di Intesa San Paolo, tra il 2002 e il 2014 il fatturato delle imprese operanti nel settore aerospaziale è passato da 2.879 milioni di euro a 5.315 milioni, con una crescita del 43% dal 2008 in poi. Il polo aeronautico più produttivo è quello di Varese, con un fatturato di 1.765 milioni di euro e 6.262 impiegati. A seguire i distretti di Napoli, 1.094,4 milioni di fatturato e 6.721 addetti, e Torino, 982 milioni di fatturato e 7.135 impiegati. «È nel mondo universo l’opportunità dei giovani, e tutti dovrebbero andare nello spazio una volta nella vita» chiude il generale Vittori: «Non dimenticherò mai la sensazione provata quando, nel mio primo lancio, guardai fuori dall’oblò e vidi la Terra allontanarsi». E da quando Samantha Cristoforetti è salita alla ribalta mondiale, il sogno di fare l'astronauta è aperto a tutti, senza stereotipi di genere.Felicia Mammone

Colloquio in Contactlab, istruzioni per l'uso

Un'azienda giovane, partendo dalle risorse umane fino ad arrivare all'età media dell'intera popolazione aziendale: solo 35 anni. ContactLab è una società che opera nel campo del digital costumer engagement, con una propria piattaforma software per la gestione e l’invio di campagne email, sms e push notification. Ad oggi dà lavoro a oltre 150 persone e dall'inizio del 2015 fa parte dell'RdS network, garantendo ai suoi giovani attenzione e rispetto: a cominciare dal rimborso spese per gli stage (600 o 700 euro a seconda del titolo di studio, più i buoni pasto), passando per la prospettiva di assunzione (degli stage attivati nel 2015, il 70% si sono trasformati in assunzione) fino ad arrivare alle assunzioni dirette (nel 2015 ha assunto una ventina di giovani, di cui 9 direttamente con contratto a tempo indeterminato e 3 in apprendistato). A raccontare le modalità di ricerca e selezione in azienda non una ma due recruiting specialist, Viviana Seduta e Maike Initi, che danno vita qui sotto a una sorta di intervista doppia. Viviana Seduta, 31 anni, è arrivata in Contactlab nel 2013, dopo una laurea in scienze della formazione e un'esperienza di tre anni come head hunter in alcune società di consulenza. Ancor più giovane Maike Initi, che ha studiato Scienze internazionali e istituzioni europee e a soli 23 anni ha cominciato a lavorare come recruitment consultant: oggi ne ha 27 e lavora in Contactlab da poco più di un anno.Quali sono i profili che ricercate maggiormente nella vostra azienda? Viviana: I profili ricercati maggiormente sono di estrazione tecnica, con competenze in ambito sviluppo software, sviluppo web, analisi ed elaborazione dati, etc. Gli altri profili ricercati sono in ambito sales & marketing. Maike: Ricerchiamo sia laureati che diplomati per ricoprire i ruoli middle e senior, mentre per i profili junior diamo la precedenza a neolaureati.Come funziona in generale il vostro iter di selezione?Viviana: Il nostro iter di selezione prevede la pubblicazione degli annunci tramite la nostra pagina “Lavora con noi”, LinkedIn ed altri portali di recruiting online. A seguito della ricezione del cv viene fatto uno screening di tutte le candidature pervenute; se la candidatura risulta in linea con il profilo ricercato, la risorsa viene contattata per un primo colloquio di carattere conoscitivo con l’HR, che andrà a valutare la generale aderenza al ruolo, la motivazione, le soft skill e darà una panoramica dell’azienda e del ruolo che si andrà eventualmente a ricoprire. Se il primo colloquio con l’HR ha esito positivo, si viene ricontattati per un secondo colloquio tecnico con il diretto responsabile della risorsa e se anche questo step risulta positivo si sostiene un colloquio con il direttore di tutta la divisione, in caso contrario nell’arco di venti-trenta giorni si riceve un feedback negativo.Maike: A proposito di feedback, i nostri vengono dati tramite email, a tutti i candidati incontrati. Le tempistiche sono molto variabili, si può andare da appunto da tre settimane a un mese, ad un massimo di due mesi per selezioni lunghe e complicate. In ogni caso però, anche se con ritardo, un feedback arriva!Viviana: Se si conclude positivamente l’iter di selezione, si viene contattati dall’ufficio HR per una presentazione telefonica dell’offerta di assunzione, alla quale – nel caso di feedback positivo – segue una lettera d’impegno. Dal giorno della firma della lettera sino all’ingresso della risorsa, l’ufficio HR prepara un percorso d’induction, che accompagnerà la nuova risorsa durante i suoi primi giorni in azienda, presentandogli la nostra struttura ed i servizi/prodotti core. Il nuovo collega viene presentato infine a tutta l’azienda attraverso una scheda che racconta in breve le sue precedenti esperienze ed i suoi hobby.Preferite i cv nel formato standard “europass” o apprezzate i cv personalizzati?Viviana: Preferiamo sicuramente i cv standard; ma non disprezziamo quelli personalizzati, l’importante è che siano chiari, esaustivi, leggibili, completi dal punto di vista delle esperienze maturate e descrizione delle stesse, e soprattutto devono contenere i riferimenti per un eventuale contatto!Com'è organizzato il vostro ufficio HR per la parte recruiting? Maike: All’interno del nostro ufficio HR ci sono quattro risorse: un HR manager, un Training specialist e due Recruiting specialist. Non ci avvaliamo di società di selezione, tutto viene gestito internamente, attraverso tool e partnership che ci permettono di utilizzare soprattutto strumenti di recruiting on line.Per il recruiting fate assessment o colloqui di gruppo?Viviana: No, abbiamo deciso di utilizzare l’intervista libera. A nostro avviso è la metodologia più idonea per Contactlab, perché per noi le caratteristiche soft ed hard delle risorse sono ugualmente importanti e quindi abbiamo necessità di valutare tante caratteristiche differenti nei candidati.Il primo colloquio che fate com'è? Maike: Il primo colloquio avviene in lingua italiana. Abbiamo necessità sicuramente di avere risorse con competenze di inglese in azienda, ma una buona conoscenza della nostra lingua aiuta la nuova risorsa ad inserirsi più velocemente nel nostro contesto. La durata è di circa un’ora e viene sostenuto da noi recruiting specialist.Quanti colloqui in totale, individuali ed eventualmente di gruppo, di solito deve sostenere un candidato per arrivare alla meta? Viviana: I colloqui previsti prima di un’assunzione sono tre. Oltre al primo con noi recruiting specialist, i successivi saranno con i futuri responsabili della risorse e con i futuri colleghi. Maike: L’obiettivo di questi ulteriori step è quello di approfondire le competenze tecniche della risorsa e il fit valoriale e culturale con il team nel sia andrebbe eventualmente a lavorare.Svolgete parte dei colloqui anche in una lingua straniera? Viviana: Prima dell’offerta economica, viene fatta una call in lingua per valutare il livello di conoscenza della risorsa. Di fondamentale importanza è la conoscenza della lingua inglese, che oramai è diventato un requisito indispensabile per poter lavorare da noi.Apprezzate le autocandidature?Maike: Sì, l’importante è che vengano inviate o tramite gli annunci presenti online o attraverso la nostra pagina “Lavora con noi” in maniera tale da poter avere tutto in database ed essere in grado di poter dare un riscontro a tutti.In particolare, ricercate giovani donne con profili tecnico scientifici?Viviana: Siamo costantemente alla ricerca di profili tecnico scientifici, e statistiche ed esperienza ci dicono che in questo tipo di competenze riceviamo più candidature da profili di sesso maschile. Posto che il sesso dei candidati ovviamente non rientra nei parametri di una ricerca, pensiamo che la diversità, anche di genere, sia una grande ricchezza...Maike:  ...e fortunatamente per essere un’azienda tecnologica abbiamo un buon equilibrio tra uomini e donne nelle nostre persone!Qual è l'errore che non vorreste mai veder fare a un candidato durante un colloquio?Viviana: Distrazione, non ascolto attivo dell’interlocutore, scarsa motivazione e preparazione sul perché si è lì a fare un colloquio. Se lo stage viene attivato e dà esito positivo, qual è poi l'iter contrattuale che solitamente proponete al giovane?Maike: A seguito di uno stage positivo, si propone o un tempo determinato o un apprendistato, dipende naturalmente da tantissimi fattori diversi. Non ci sono differenze tra l'iter di selezione e le modalità di colloquio per selezionare uno stagista e l'iter per selezionare invece una persona da inserire direttamente con contratto, ma le tempistiche potrebbero essere più brevi per l’inserimento della risorsa in stage!

Incentivi fiscali per riportare i ricercatori in Italia, nuova proposta di legge: ma non tutti sono d'accordo

In principio fu la legge Controesodo, provvedimento varato nel 2010 con l'intento di arrestare l'emorragia di cervelli in fuga e attirarli di nuovo in patria mettendo sul piatto un sostanzioso sconto fiscale sul reddito, di circa l'80 per cento. Più di un lustro dopo – e molte vicissitudini nel mezzo – arriva in legge di stabilità una misura ancora tutta da confermare (il disegno di legge è al momento all'esame della commissione Bilancio alla Camera). L'articolo 22 sancirebbe l'abbattimento quasi totale delle tasse per chi esercita attività di ricerca o docenza all'estero e decide di trasferire la residenza in Italia: nel dettaglio, il 90 per cento dei compensi – derivanti sia da lavoro autonomo che dipendente – verrebbe escluso dal reddito, dal primo anno di trasferimento fino ai tre successivi.L'obiettivo, si legge nel comunicato di Marco Fedi e Fabio Porta – deputati del Pd nella circoscrizione estero – è «rendere permanente la previsione volta a favorire il rientro di docenti e ricercatori». Ma per chiarire il contesto occorre fare un passo indietro. La norma iniziale – frutto sopratutto dell'impegno dei parlamentari Pd Guglielmo Vaccaro e Alessia Mosca – stabiliva che le under 35 laureate che avessero svolto una significativa attività lavorativa all'estero e intendessero rientrare per almeno cinque anni pagassero tasse solo su un quinto dei loro guadagni. Per gli uomini la legge era un po' meno generosa, con uno sconto del 70% (anziché 80). Una nuova regolamentazione che ha avuto un qualche effetto, tanto che dal 2011 alla fine dello scorso anno si contavano almeno diecimila rimpatri. Poi, agli sgoccioli del 2015, il caos. Dopo la proroga delle agevolazioni fino al 2017, a settembre il governo decide di eliminare i limiti di età e ridurre l'obbligo di permanere in Italia da cinque a due anni, ma intaccando pesantemente l'entità dello sconto: gli emolumenti tassabili passano infatti al 70 per cento, questa volta senza distinzione di sesso. Nel contempo si abroga la precedente normativa su cui fino a quel momento aveva contato chi avesse deciso di trasferirsi. Scoppia la protesta, nascono petizioni. Ma a distanza di un anno ecco spuntare un nuovo progetto che potrebbe davvero fare la differenza per chi è occupato all'estero come ricercatore: perché in pratica la promessa è consentire una retribuzione ai limiti dell'esentasse.La misura abbozzata definisce un regime parallelo anche per «i lavoratori con una qualifica per la quale sia richiesta alta qualificazione o specializzazione o con ruoli direttivi e che, non essendo stati in Italia nei cinque periodi di imposta precedenti, trasferiscano la residenza nel territorio dello Stato e si impegnino a rimanervi» è scritto nel comunicato. In questo caso la riduzione Irpef sarebbe del 50 per cento, con «margini per emendamenti che alzino la percentuale visto che precedentemente la quota era arrivata al 70» scrivono i deputati. E cosa succederà a chi sta usufruendo della riduzione del 30 per cento dell'imponibile introdotta con la legge di stabilità 2015? I deputati dem spiegano che chi è rientrato nel 2016 e ha optato per il nuovo regime, «per quattro anni avrà diritto a una riduzione dell’imponibile nella più elevata misura del 50 per cento». Eppure il mondo della ricerca non sembra convinto. «Non credo che gli sgravi fiscali siano lo strumento migliore per incentivare il rimpatrio dei cervelli» commenta con la Repubblica degli Stagisti Giuseppe Montalbano [al centro, nella foto in alto con alcuni colleghi], segretario Adi, associazione dei dottori di ricerca. «La strada degli incentivi ad personas crea disparità con chi lavora e fa ricerca in Italia, e mette in secondo piano la necessità di interventi strutturali». L'accusa è al «sottofinanziamento di università e ricerca» e alle scarse prospettive di carriera delle migliaia di precari della ricerca perché «più del 93 per cento non arriverà a posizioni di ruolo, come mostrato nella VI indagine annuale Adi». Secondo Montalbano serve altro per «rendere attrattivo il rientro da parte di chi ha potuto beneficiare all'estero di risorse, laboratori, condizioni di lavoro serene e prospettive di carriera». Azioni come «un piano straordinario di reclutamento, abolizione degli assegni di ricerca e introduzione di un contratto unico, rifinanziamento dei fondi per la ricerca ai livelli pre-2008 e delle borse di dottorato».Sulla stessa linea Maria Carolina Brandi [nella foto a destra] dell'Istituto di ricerche sulla popolazione e politiche sociali del Consiglio nazionale ricerche. «È una strada già tentata da anni e che non ha dato alcun risultato», prova ne sia che «secondo l'Istat nel 2014 si sono cancellati per emigrazione all’estero circa 20mila laureati, mentre si sono iscritti solo circa 7mila laureati provenienti dall’estero».La Brandi cita altri dati pubblicati sulla rivista Nature nel 2012 secondo cui «nel periodo 1996-2011 per l’Italia i ricercatori in ingresso sono pari al 3 per centro contro il 16 dei flussi in uscita: in Europa le percentuali sono in pareggio o positive, oppure in perdita assai più lieve, come per la Spagna». La decisione di andarsene scatta perché qui «ci sono poche occasioni di lavoro qualificato e gli investimenti in ricerca, sia pubblica che privata, e in alta tecnologia sono troppo pochi». Un peccato perché una volta all'estero «i laureati italiani trovano facilmente lavoro, a testimonianza del fatto che, nonostante la continua riduzione di personale docente e di risorse economiche, il sistema universitario mantiene un buon livello». Si può uscirne solo destinando nuovi fondi alla ricerca, «al momento stabili all’1,29 per cento del Pil». La riduzione delle tasse sarà inutile di fronte a «questo disinteresse dello Stato e delle imprese per la scienza e la tecnologia: dottori di ricerca e laureati italiani continueranno a emigrare e restare all’estero, dove ottengono posti di lavoro e fondi».Ilaria Mariotti

Foto pubblicitarie su Facebook, quattro "Friendz" creano una start up che oggi dà lavoro a 17 giovani

Hanno fondato la società nell’agosto 2015 e oggi, 15 mesi dopo, da tre quasi sconosciuti sono diventati grandi amici, ma sopratutto hanno quattordici dipendenti – con un’età media di 23 anni e mezzo. Cecilia Nostro, Daniele Scaglia, Alessandro Cadoni sono gli ideatori di Friendz.La loro start up è in piena crescita, ha vinto il Web Marketing Festival 2015 ricevendo un primo finanziamento da 60mila euro – e fattura dal primo giorno. Oggi, grazie all’ultimo investimento ricevuto nel giugno di quest’anno di 300mila euro da parte di Triboo, la start up ha assunto altre sei persone, che si sono aggiunte al nucleo iniziale di undici, e stanno consentendo al team di essere più efficiente. «Fino a luglio c’erano solo due persone che sviluppavano sia l’app per gli utenti che la piattaforma per i clienti. Mentre oggi grazie a queste nuove assunzioni abbiamo fatto un bel salto in avanti. Tre dei nuovi assunti fanno parte del team tecnico e questo ci consente di essere più veloci e dare più qualità sia agli utenti che ai clienti», spiega Cecilia Nostro alla Repubblica degli Stagisti.L’avvio dell'avventura si ha dall’incontro di Nostro, laurea in economia e master all’estero, con Cadoni e Scaglia, entrambi laureati in ingegneria. I tre, tutti under 30, con il tempo sono diventati rispettivamente, direttrice marketing, amministratore delegato e direttore operativo (CMO, CEO, COO). «Le aziende cercano in tutti i modi di comunicare in modo differente sui social e cercano l’ingaggio delle persone, puntando a coinvolgere le community e far sostenere i marchi di brand» continua la Nostro: «E ogni giorno vengono pubblicate su Facebook 800 milioni di foto. Significa che le persone hanno una gran voglia di creare contenuti e grazie alla tecnologia e a un po’ di senso creativo le loro foto possono essere molto interessanti anche per le aziende». Così i tre giovani, diventati dopo poco tempo quattro con l'arrivo di Andrea Mascheroni, hanno deciso di unire questi due aspetti e dare alle aziende la possibilità di intercettare in poco tempo migliaia di persone che «grazie a un brief molto specifico possono scattare e pubblicare sui propri profili social delle fotografie legate alla comunicazione di un’azienda. In pratica si usano le persone come publisher e si riesce ad arrivare a tutti i loro amici servendosi della fiducia che hanno tra loro, avendo quindi una comunicazione molto più efficace». Il successo non se lo aspettavano, per lo meno non così velocemente, anche se «lavoravamo 24 ore al giorno per realizzare il nostro sogno!».Sono una ventina i brand che ad oggi hanno deciso di affidarsi a Friendz proprio per farsi pubblicità. E che hanno fatto crescere la startup consentendo ai soci anche di trasferirsi da Varese, dove tutto è partito, a Milano, dove ora vivono e hanno sede. Basta dare un'occhiata all’elenco delle aziende clienti per rendersi conto che tra queste ci sono anche grandi multinazionali, da Vodafone ad Asus, passando per Philips, Wind o Sector. Aziende che il più delle volte sono andate direttamente a contattare i quattro giovani, attirate dalla loro idea innovativa.Ma come funziona Friendz in concreto? «Partiamo dalla nostra app, che è gratuita e può essere scaricata da tutti» illustra Nostro. «Appena viene scaricata, noi cominciamo a profilare gli utenti, perché è logico che non offriamo alle aziende una community indistinta di persone con le quali interagire, ma abbiamo target diversi a seconda delle esigenze delle singole imprese. A questo punto ogni giorno le persone vanno sul loro profilo dove ricevono dei brief dalle aziende che possono decidere di interpretare e, di conseguenza, pubblicare una foto sul loro profilo Facebook. O in alternativa di non partecipare e aspettare una campagna che gli piace di più». Ma gli utenti non fanno solo pubblicità alle aziende. «Alterniamo alle campagne dei clienti, campagne di puro engagement che ideiamo noi con l’obiettivo di rendere i loro profili più carini e abituare i loro amici a seguirli perché pubblicano contenuti sempre molto creativi e interessanti». Non tutte le foto sono pubblicate, perché prima passano al vaglio dello staff: un centinaio di approvatori. «Per essere pubblicata sul profilo di una persona la foto deve ricevere l’approvazione di almeno 10 persone, così siamo certi che rispetti tutti i canoni. E per l’azienda diventa un modo molto sicuro per intercettare migliaia di persone».Il modello di business di Friendz è semplice: «Vendiamo alle aziende campagne pubblicitarie. Parte degli introiti li giriamo agli utenti, che ogni volta che hanno una foto approvata guadagnano dei crediti spendibili nei nostri store, mentre un’altra parte diventa tutto margine di guadagno per noi». In pratica i soggetti scaricano la app, iniziano ad essere profilati dal team, a quel punto iniziano a ricevere sul proprio profilo le varie campagne dalle aziende e decidere se parteciparvi. Se lo fanno, scattano e pubblicano le foto seguendo le indicazioni e, una volta pubblicata la foto, ricevono dei crediti – da 0 a 250 – che variano in base a dei parametri come il numero di like, di amici, la qualità della foto e così via. I crediti alla fine vengono trasformati in buoni e-commerce – con un'equivalenza diretta di 1 credito = 1 euro – spendibili su Amazon, Feltrinelli, Ryanair, TicketOne e altri shop online.Ad oggi il meccanismo non va decisamente male visto che l’azienda pensa di arrivare nei prossimi mesi a 20, in totale, tra dipendenti e soci e aspira a raggiungere il milione di euro di fatturato nel 2017. «Il motivo per cui Friendz piace tanto alle aziende è certamente la community, la reattività e la genuinità che gli utenti che usano la nostra app riescono a mettere nelle campagne che fanno per i nostri clienti» aggiunge Cecilia Nostro: «Si è sviluppata una community con un forte ingaggio, per cui le aziende riconoscono nel community management che facciamo sulle nostre frequenze un gran valore, completamente diverso dall’affezione ai brand che vedono per loro. È un po’ come se ci chiedessero di prestare la nostra community per attivare la loro».Per il futuro pensano a lanciare nuove linee di business, fare progetti più strutturati e rivoluzionare un po’ anche la user experience dell’app e il modo in cui si intrattengono gli utenti. Cecilia Nostro e gli altri del team vivono tutti (o quasi) in una «friends business». «Siamo in nove a vivere insieme in questa casa molto grande, che è anche la sede dell’ufficio: una scelta che ha sicuramente portato valore aggiunto alla nostra azienda. In fin dei conti il nostro è un modo proprio di concepire le giornate che va oltre al momento lavorativo: è un’avventura e vivere insieme permette un confronto continuo. Non c’è una linea retta tra quando lavoriamo o prendiamo una birra, spesso ideando nuovi prodotti». Un difetto di questa startup? La scarsa parità di genere, con 14 uomini e 3 donne nel team totale. «Dal lato tecnico effettivamente le figure maschili sono molte di più. Però le nostre tre donne valgono almeno il doppio! Ma in quanto unica donna tra i fondatori, non mi sono mai sentita diversa dagli altri. Siamo quattro grandissimi amici con una fiducia incredibile nella persona e nelle competenze degli altri e questo prescinde dal sesso». Marianna Lepore

Neet, i Peter Pan ai margini del mondo del lavoro: come farli uscire dall'immobilità?

«In fondo qui nessuno ci ha promesso nulla» è una frase emblematica e rappresentativa di una generazione di giovani scoraggiati, che faticano a trovare lavoro e non hanno fiducia verso il futuro. Una presa di coscienza nei confronti di istituzioni che non danno strumenti per costruirsi un progetto di vita. La frase è vera e l'ha pronunciata una neolaureata in procinto di partire per cercare lavoro all'estero rivolgendosi a un suo professore, Francesco Botturi, prorettore dell'università Cattolica. In essa in cui si racchiude in gran parte il senso della questione dei Neet: per definizione, giovani che non studiano, non lavorano e non hanno partecipato a nessun corso di formazione nell'arco delle ultime 4 settimane. Eurofound, la Fondazione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, segmenta questo enorme bacino in re-entrants, ovvero quelli che hanno appena concluso gli studi e stanno cercando lavoro, i disoccupati di breve e lungo periodo, gli inoccupati per ragioni familiari e quelli affetti da disabilità o problemi di salute. Per i media e l'opinione pubblica, sono più spesso semplicemente identificati come “bamboccioni”. Ma, a parte qualche caso, è improbabile che si possa raggruppare sotto un'unica etichetta 2,2 milioni di giovani in Italia, il 22% della popolazione tra i 15 e i 29 anni. Sono i Peter Pan del lavoro, destinati a rimanere per sempre ragazzi e mai a crescere? Sono questi i temi trattati al primo convegno italiano sui Neet, svoltosi qualche giorno fa all'Università Cattolica di Milano con il coinvolgimento di esponenti del governo, del mondo accademico e di quello imprenditoriale.Secondo qualcuno il rischio di un'adolescenza infinita c'è: «Abbiamo creato una generazione seduta», dice Valentina Aprea, assessore all'Istruzione della Regione Lombardia durante il suo intervento. Poiché la stabilità economica e l'autonomia fuori dal nido arrivano sempre più tardi, i ragazzi trovano rifugio nel nucleo familiare. E se la prima ragione di un così alto numero di Neet è strutturale, legata alla mancanza di posti di lavoro, all'inefficienza del sistema scolastico nel fornire competenze professionalizzanti e all'incapacità delle aziende di valorizzare i giovani talenti, è possibile che nella vita di un giovane Neet giochi un ruolo anche l'autocommiserazione. Innescata ovviamente da cause esterne, pone il rischio che l'assenza prolungata di un'opportunità lavorativa spinga a interrompere la ricerca e isolarsi dalla società. Comportando la perdita sia di un elemento di forza lavoro, sia di un cittadino, poiché lo sconforto spesso intacca anche la partecipazione civica (dalla fiducia nelle istituzioni al voto).In questo senso si parla di costi sociali del fenomeno dei Neet. Dal versante economico, i numeri parlano chiaro: l'impatto dell'inoccupazione pesa per il 2% del Pil nazionale, una delle percentuali più alte in Europa. Soprattutto qui si focalizzano i media: «Non lavorano né studiano: i Neet costano 36 miliardi di euro» titolava il Corriere della Sera il 2 novembre; «Senza i 'Neet' il Pil italiano crescerebbe di 8 punti percentuali» (AdnKronos, 31 ottobre); «I Neet (giovani non occupati e non scolarizzati) valgono mille miliardi di dollari» (Il Sole 24 Ore, 1 novembre). Il senso che se ne coglie è che la colpa sia quasi loro, ed è benzina sul fuoco: i Neet registrano minori livelli di autostima, soddisfazione di vita e felicità rispetto ai coetanei che studiano o lavorano e gli “scoraggiati”, che ormai hanno smesso di cercare, sono il 15%. Di più, per fortuna, quelli propensi a lavorare, al punto da essere disposti ad accettare qualsiasi impiego, se gli venisse offerto subito: oltre la metà degli uomini e quasi un terzo delle donne. Nonostante il nostro primato per numero di Neet, gli “attivabili” in Italia sono uno su cinque, il doppio rispetto alla media europea.Ma le strategie giuste per impiegarli non prendono ancora piede. Secondo Alessandro Rosina, demografo dell'Università Cattolica e curatore del Rapporto Giovani nonché autore del libro Neet. Giovani che non studiano e non lavorano, nella questione ci sono due grandi ordini di problemi: da un lato, le carenze su tutto il percorso di transizione tra la scuola e il lavoro; dall'altro, una serie di fattori culturali, come la grande estensione del lavoro sommerso e la disponibilità di protezione dei genitori, che spingono i giovani a rimanere a casa per un tempo molto più lungo rispetto, per esempio, ai Paesi nordeuropei. «La Garanzia Giovani ha dato principalmente due risultati positivi: ha posto il tema della disoccupazione giovanile fortemente al centro dell'attenzione mediatica e governativa, e ha promosso la collaborazione tra il settore pubblico e quello privato» prosegue Rosina, sottolineando come però il programma non abbia dato finora i risultati sperati. «Garanzia Giovani ha intercettato 1 milione di Neet, ma ne restano fuori ancora tanti». Moltissimi passano le giornate a casa, davanti al computer e sui social network. Il programma Neetwork di Fondazione Cariplo ha cercato così di rintracciarli attraverso il sito e due campagne Facebook. Il progetto, attualmente in corso d'opera, propone a ragazzi tra i 18 e i 24 anni con licenza media e disoccupati da almeno 6 mesi un tirocinio remunerato presso organizzazioni no profit sul territorio lombardo e punta a coinvolgere 1000 giovani. «Occorre attivarli per valorizzarli e consentire loro di rendersi forza di crescita per il Paese» aggiunge Rosina: pena la totale invisibilità e l'impossibilità di recuperarli e impiegarli. La rassegnazione ha diversi volti, è quel “in fondo qui nessuno ci ha promesso nulla” in cui molti sicuramente si riconoscono. C'è chi va all'estero per cercare lavoro, altri si chiudono in casa, mentre qualcuno invia il curriculum a tappeto, in una “iperattività disorientata” che serve più come alibi per gli altri che come strumento efficace per trovare un impiego, sottolinea Walter Nanni di Caritas.Oltre alle misure per incentivare l'occupazione, ne occorrono di preventive. La transizione tra la scuola e il lavoro è poco fluida, il mondo dell'istruzione non è in grado di fornire competenze professionali specifiche e manca una corrispondenza fra le capacità e le richieste. «Abbiamo giovani preparatissimi dal punto di vista delle conoscenze teoriche, ma assolutamente scarsi da quello delle competenze pratiche» osserva Roberto Proietto, responsabile dell'ufficio scolastico regionale lombardo. Tant'è che molti non sono capaci di valorizzarsi e 'vendersi bene' quando fanno una domanda di lavoro: ben il 74% non sa definire la propria competenza professionale, e questo vale soprattutto nel caso di chi ha profili di studio migliori. «Il nostro sistema scolastico è rigido e vecchio, legato a discipline che vengono impartite in modo uguale a tutti, in percorsi blindati verso cui gli studenti si trovano a dover adattare le proprie aspirazioni», aggiunge Proietto. «Bisogna introdurre la cultura del lavoro già nella scuola per insegnare ai ragazzi che alcune capacità si sviluppano meglio nel lavoro che non sui banchi. La legge 107, che ha reso l'alternanza scuola-lavoro obbligatoria, è un provvedimento rivoluzionario, poiché inserisce finalmente il tema delle competenze nel mondo dell'istruzione. E, a patto di un organico potenziato, in futuro si potranno anche introdurre le materie opzionali». «Nella selezione del personale, le competenze trasversali sono tanto importanti quanto quelle tecniche» osserva Tommaso Valle, direttore della comunicazione di McDonald's Italia. Il progetto di alternanza dell'azienda coinvolgerà fino a 10mila giovani nei suoi 500 e più ristoranti in Italia tra il 2016 e il 2017, con estensione fino al 2019, per insegnare quelle “soft skills” che a scuola non si apprendono, come la disciplina, la costanza, la relazione con gli altri e la capacità di lavorare in gruppo, il problem solving e il desiderio di imparare, per preparare meglio i giovani ad entrare nel mondo del lavoro. E non solo a metterci piede, ma ad avere successo. «I nostri giovani sono in panchina», chiude Rosina attingendo a una metafora calcistica: «Ma non possiamo metterli in campo come raccattapalle. Dobbiamo allenarli bene per farli diventare giocatori e attaccanti, per far capire loro di essere risorse, non vittime». E se è vero che il governo, la scuola e l'università non possono promettere nulla, sono questi stessi attori però ad avere la responsabilità di creare almeno un'aspettativa nei giovani, la stessa che tanti, oggi, hanno verso l'estero e che li spinge ad emigrare pur senza certezze. Per stimolarli a rialzarsi da soli e convincerli che Peter Pan è solamente il protagonista di una storia per bambini. Irene Dominioni

In aumento gli italiani nel mondo, sempre più giovani

La scelta di emigrare è sempre più diffusa nel nostro Paese, soprattutto tra i giovani. Ad oggi, i cittadini italiani registrati all’estero sono quasi 5 milioni e il trend aumenta di anno in anno. Che siano forse Wanderlust? Questa parola, composta da wander (in inglese, vagabondare) e lust (ossessione, desiderio) – in italiano dromomania – indica il desiderio di viaggiare e di fare esperienze nuove. Una insopprimibile voglia che a detta di alcuni recenti studi scientifici avrebbe un'origine genetica: risiederebbe infatti in un gene del nostro Dna – il Drd4-7r.Una visione suggestiva: peccato che secondo la Fondazione Migrantes, organismo pastorale della Cei autore del rapporto “Italiani nel mondo 2016”, poco si riconduca alle reali motivazioni che spingono le persone a spostarsi da un Paese ad un altro. Resta comunque una forte inclinazione per l’avventura e forse la ragione per cui molti degli attuali migranti, piuttosto che vedersi come tali, preferiscano identificarsi come “viaggiatori”.I numeri degli italiani all’estero: lo studio della Fondazione analizza il fenomeno dell’espatrio da parte degli italiani verso l’estero nell’arco del 2015. I numeri sono notevoli: al 1° gennaio 2016 si contano 4 milioni 811mila expat, in aumento complessivo del 54,9% negli ultimi dieci anni. Nel 2015 quasi 108mila persone hanno lasciato il Bel Paese, ovvero il 6,2% in più tra gli iscritti all’Aire, l’Anagrafe degli italiani residenti all’estero (che vanno ad aggiungersi al +3,8% dell'anno precedente e al +7,6% dell'anno ancora prima). Oltre la metà di questi vive in Europa (circa 2 milioni e mezzo di persone) ed è originaria del Sud Italia (50,8%). Se l’espatrio è in aumento per tutte le classi di età, la tendenza è particolarmente accentuata per i giovani: il 36,7% degli expat ha tra i 18 e i 34 anni. E la cifra reale è con tutta probabilità  ancora maggiore, considerando che moltissimi non si iscrivono all’elenco dei residenti all’estero, nonostante sia un obbligo di legge. Le ragioni, qui, vanno dalla non informazione alle nuove e diverse esigenze rispetto a quelle elencate nel regolamento di iscrizione all’Aire, che esonera, oltre ai lavoratori stagionali, i dipendenti statati di ruolo e i militari in servizio all'estero, anche i cittadini che si recano all'estero per un periodo inferiore ad un anno. Qui è presumibile pensare che chi va all'estero per cercare fortuna, oppure parte per un programma di studio o lavoro di breve durata, possa decidere solo successivamente di fermarsi all'estero per un periodo superiore ai 12 mesi, ignorando a quel punto l'obbligo di iscrizione, poiché va assolto entro 90 giorni dall'espatrio. Chi sono i giovani che emigrano e perché lo fanno? Le situazioni in cui si trovano coloro che si trasferiscono all’estero sono molteplici, e vanno dalla scoperta dell’ambiente internazionale già durante gli anni dell'università alla decisione, invece, di emigrare a studi conclusi sia per ragioni di inadeguatezza del mercato del lavoro nel Paese, sia perché si pensa che un periodo di studio e/o lavoro all’estero possa migliorare la propria condizione. Sono i cosiddetti “Millennials”, una generazione istruita, in possesso di titoli di studio post-laurea – corsi di specializzazione, master, dottorati di ricerca e molto altro, ma al contempo, e paradossalmente, anche il gruppo sociale più penalizzato dal punto di vista delle possibilità lavorative e più esposto alla disoccupazione. Le statistiche dello Youth Monitor dell’Unione Europea riportano infatti come i giovani siano il gruppo sociale a maggior rischio di povertà ed esclusione sociale in Europa. Secondo un recente sondaggio di Eurobarometer, il 78% dei giovani italiani tra i 16 e i 30 anni si sente emarginato a causa della crisi, a fronte del 57% della media giovanile europea. I giovani italiani, inoltre, sono in media più propensi rispetto agli altri a lasciare il proprio Paese (26% contro il 15% degli europei) ma comunque oltre la metà non ha intenzione di studiare, formarsi o lavorare in un altro Stato dell'Unione, a fronte del 61% nel resto d'Europa. Infine, un’altissima percentuale (95%) di giovani italiani non ha mai trascorso un periodo all’estero per studio o lavoro, ben sette punti percentuali in più rispetto alla – già non buona – media UE (88%). Il che suggerisce un'interpretazione: gli italiani sono restii ad andare all'estero, forse per questioni culturali, forse per scarsa conoscenza delle lingue straniere – secondo l'Eurobarometro, solo il 38% degli italiani parla una lingua straniera, contro il 54% della media europea, il 34% parla inglese e ben il 62% non parla nessun'altra lingua: tra le percentuali più alte in Europa. Insomma: finché possono gli italiani restano a casa loro, poi quando escono dai percorsi di istruzione e formazione, e la frustrazione per la difficoltà di trovare buone opportunità di impiego si fa troppo forte, alcuni (sempre più numerosi) scelgono di fare fagotto e andare a vivere altrove.Eppure i giovani italiani non vedrebbero tanto l’emigrazione come fuga, si legge nel rapporto della Fondazione Migrantes, ma piuttosto come mezzo per soddisfare ambizioni e curiosità: la mobilità è vissuta come un modo per sfruttare le opportunità che si presentano, senza basarsi su un progetto già determinato. Secondo i dati del Rapporto Giovani 2016, i tre quarti dei 18-32enni italiani sono molto d’accordo nel ritenere l’emigrazione un confronto tra culture, e il 45,4% la percepisce come una opportunità di vita e di lavoro. L’espatrio, dunque, oggi è «definibile come un percorso, e non più come un progetto definito aprioristicamente, dal quale scaturisce la composizione di un più ampio progetto di vita non determinato», evidenzia la Fondazione, «la cui evoluzione dipende molto dalle opportunità incontrate durante il cammino, dove vita lavorativa e affettiva spesso si intrecciano e si innestano nella traiettoria migratoria». Che sia legata alla ricerca di nuove e migliori condizioni lavorative, al desiderio di mettersi alla prova in ambienti internazionali e meritocratici, o semplicemente alla voglia di scoprire il diverso, la possibilità di spostarsi in un altro Paese è una tendenza che va tutelata e che non può essere intesa a senso unico, poiché è positiva solo se comporta uno scambio, un flusso continuo di conoscenze legate al contatto con l’“altro”. «La mobilità dei giovani italiani verso altri Paesi dell’Europa e del mondo è una grande opportunità che dobbiamo favorire, e anzi rendere sempre più proficua. Che le porte siano aperte è condizione di sviluppo, di cooperazione, di pace, di giustizia. Dobbiamo fare in modo che ci sia equilibrio e circolarità», dichiara il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella in una nota inviata al direttore della Fondazione Migrantes. E raccomanda: «I nostri giovani devono poter andare liberamente all’estero, così come devono poter tornare a lavorare in Italia, se lo desiderano, e riportare nella nostra società le conoscenze e le professionalità maturate». Irene Dominioni

Garanzia Giovani: a tre anni dall'avvio dati positivi, ma non tutto è rose e fiori

È stato pubblicato poche settimane fa dalla Commissione Europea il tanto atteso report sulla Garanzia Giovani, a tre anni dal suo avvio. Atteso perché con i numeri cerca di dare una risposta sul funzionamento o meno di questo programma. Un report che evidenzia l’aspetto positivo della Garanzia con la Commissaria per l’occupazione, Marianne Thyssen, che dichiara che questo programma ha fatto la differenza nella vita di più di 9 milioni di giovani. Elemento che, unito alla spinta all’attuazione di riforme importanti nei sistemi educativi dei vari paesi, sembra aver convinto la Commissione a incrementare le risorse per la Youth Employment Initiative  fino al 2020. La Repubblica degli Stagisti ha chiesto a due esperti che già in passato avevano focalizzato la loro attenzione sulla Garanzia Giovani di commentare i punti chiave di questo report.«Sarei cauta nel dire che la Garanzia Giovani e i soldi della YEI hanno veramente cambiato la vita dei giovani europei. Hanno sicuramente stimolato una riflessione. Ma non tutto è rose e fiori» dice Margherita Bussi, 32 anni, ricercatrice presso l'università di Brighton (UK) e ricercatrice associata presso Etui (Belgio). «E bisogna ricordare che nonostante la lettura globale, alla fine i fondi arrivano a livello regionale e non nazionale e ci sono anche alcuni Paesi, come l’Inghilterra, in cui la Garanzia non è stata attuata. Anche perché la Youth Employment Initiative non finanzia solo la GG, ma tutte quelle misure che hanno un’attinenza con la riduzione del passaggio dalla scuola al mercato del lavoro. Quindi più che aver cambiato la vita, direi che se ci sono le competenze istituzionali per attuare questo piano e i soldi che arrivano dalla YEI, allora sì i risultati possono essere positivi, altrimenti i soldi vengono gestiti sempre nei soliti sistemi».Anche Francesco Pastore, 50enne professore associato di Economia presso la Seconda università di Napoli e research fellow dell’Iza di Bonn, è convinto che la lettura data non sia totalmente aderente alla realtà. «In Italia non si può certo dire che la Garanzia Giovani sia stato un successo: le risposte sono state di gran lunga inferiori alle aspettative. Spesso per impreparazione dei nostri centri per l’impiego, oltre che di una difficoltà a creare posti non solo di lavoro ma anche di formazione e di stage. Però, come notava la stessa Thyssen, ha attivato dei meccanismi virtuosi di cambiamento sia culturale che istituzionale. In Italia, per esempio servono politiche attive e soggetti in grado di attuarle. Erano la gamba mancante del libro bianco di Marco Biagi. E finalmente il decreto 150 del Jobs Act ha messo mano alla riforma dei centri per l’impiego, introducendo un’organizzazione di “quasi mercato” che dovrebbe riuscire a farli funzionare in modo più efficiente. L'idea alla base della riforma è che ci deve essere complementarietà nel campo dell’organizzazione fra centri pubblici e privati per l'impiego e concorrenza nell'esecuzione dei servizi di collocamento e di formazione professionale». In pratica, continua a spiegare Pastore, «i centri pubblici coordinano il processo, profilando i disoccupati, assegnandoli a una fascia di bisogno secondo le difficoltà che hanno nel trovare un lavoro e poi dandogli un voucher pari al loro bisogno. E in competizione con i centri privati possono offrire servizi di collocamento e di formazione professionale per riuscire ad assicurarsi i vouchers. Una riforma che dà ai disoccupati la libertà di scelta e spinge tutti a migliorarsi».Il report della Commissione parla di 1,4 milioni di giovani disoccupati in meno in Europa dal 2013 e 900mila Neet in meno, che secondo Pastore è «un trend positivo, ma più debole di quello che potrebbe. Sia in Italia che in Europa pesa la politica dell’austerità che sta piegando l’azione di molti governi. Certo occorre ridurre la spesa e avviare processi virtuosi. E pensare finalmente a politiche espansive europee accrescendo il grado di innovazione tecnologica delle nostre produzioni. Occorrerebbe qualcosa come un grande Piano di investimenti europei come quello pensato da Jacques Delors, allora presidente della Commissione Europea, ma restato inattuato. I nostri giovani hanno bisogno di un’Europa che investa in modo massiccio su infrastrutture e ricerca e sviluppo».Anche per Bussi è un trend positivo, ma «è più che altro dovuto alla situazione economica che ai fondi che sono stati erogati. Non ci vedrei una conseguenza diretta tra Garanzia Giovani e diminuzione della disoccupazione giovanile, primo perché è difficile stabilire un legame diretto tra le due cose e poi perché i soldi sono arrivati in ritardo. E se anche la YEI ha aiutato in maniera marginale questo trend positivo bisogna tener conto che i risultati non è detto durino nel tempo. Non solo per mancanza di risorse ma anche perché se non c’è una ripresa economica i giovani che sono entrati nel mercato del lavoro non riceveranno proposte di contratti duraturi e si tornerà alla casella di partenza. Quindi certo, la diminuzione dipende dalle risorse ma soprattutto dal fatto che l’economia deve riprendersi. Non si può andare avanti a furia di bonus occupazionali e tirocini, come nel caso dell’Italia». E soprattutto, come scrive la Commissione europea, è necessario supportare proprio quei giovani che non sono stati coinvolti in nessuna politica di avvicinamento al lavoro.«Sono fiducioso che l’assegno di ricollocamento funzionerà se attuato in modo appieno perché darà nuovo slancio non solo ai cpi pubblici ma anche a quelli privati e noprofit» aggiunge Pastore: «Ma, naturalmente, occorrerà avere un’economia che cresce. Finalmente in Italia, ora, c’è un mercato del lavoro organizzato alla maniera europea che dovrebbe combattere anche lo scoraggiamento dei più isolati fra i giovani. Ma occorre tempo e crescita economica».Per Bussi però bisognerebbe definire meglio il segmento dei Neet  e poi attivare le strategie più adatte. Per evitare che a fruire dei fondi di Garanzia Giovani siano persone che solo sulla carta sono “Neet”: la maggior parte di quelli che hanno partecipato al progetto in Italia, infatti, «hanno un diploma superiore o una laurea e quindi sono inseriti nella società. Facendo invece un profiling di tutti i Neet si capirebbe meglio chi sono. E andando molto sul locale si potrebbero dare altre alternative diverse da un tirocinio mal pagato o dal tornare a scuola senza guadagni. Ma considerando il giovane proprio nel contesto sociale e urbano in cui vive».Un discorso per Bussi legato anche all’età di applicazione della Garanzia, estesa in Italia fino ai 29 anni. Scelta non necessariamente sbagliata, a suo avviso, ma mal applicata, visto che tra i 15 e i 25 si potrebbe avere un problema di formazione, ma dopo quell’età ce ne sono altri, magari anche servizi che mancano come quelli diretti alle giovani madri. Per Pastore, invece, nel caso italiano bisognava includere anche i 30-35enni, ancora più deboli, perché «per loro c’è poco e non è giusto considerando che il fuoricorsismo universitario è fenomeno più diffuso di quanto si creda».C’è poi un tema cruciale su cui la Repubblica degli Stagisti ha posto più volte l’accento e che viene affrontato anche nel report della Commissione: la qualità delle offerte. L’Europa sottolinea che è fondamentale introdurre dei meccanismi sia a livello nazionale che sovranazionale per essere sicuri che le offerte proposte ai giovani siano di buona qualità. Un problema non solo italiano, ma che riguarda tutti gli Stati membri. «L'unico monitoraggio valido che si avvicina all'idea di qualità del posto di lavoro è la valutazione a 6 e 12 mesi dalla fine dell'intervento. Gli Stati sono stati invitati ad estendere oltre queste due istantanee temporali», spiega Bussi. «Ma nonostante sia stato sollevato il dubbio dalla Corte dei Conti europea e la Commissione abbia incluso nelle indicazioni per la valutazione della YEI l'aspetto qualitativo, è stata la stessa Commissione ad ammettere, poi, che sta alla buona volontà degli stati fare rapporto sulla qualità delle offerte». Come a dire quindi che non è compito dell'Europa controllare quello che fanno i singoli stati.   Di strada, quindi, c'è ancora da farne tanta. «La Garanzia Giovani non è stata quel successo che alcuni pensavano, ma sta mettendo in circolo idee nuove, una cultura diversa del mercato del lavoro. Stiamo mettendo il paese in condizione di offrire ai giovani lo stesso degli altri paesi europei. In sintesi sull’Italia si può dire che, considerato il punto di partenza, si stanno facendo passi da gigante, ma certo non mancano le ombre e i rallentamenti», spiega Pastore. Che sui dati del report - circa la metà dei partecipanti a un intervento della YEI al lavoro sei mesi dopo la loro conclusione - osserva: «Meno della metà non è poco. Il termine di confronto dovrebbe essere quello del job finding dei disoccupati e dei Neet. Se pensiamo che il tasso di ritrovamento di un posto di lavoro per un disoccupato è in Italia attualmente intorno al 20-25%, raggiungere quasi il 50% per chi ha fatto un’esperienza di GG è un grande successo. Mostra come i giovani italiani hanno una gran fame di esperienza lavorativa visto che attualmente sono preparatissimi in termini di conoscenze teoriche ma spesso molto carenti sul piano delle competenze lavorative». Dato che anche Bussi considera positivo soprattutto se confrontato con altri dati e altri anni. Ma ribadendo l'importanza di valutare cosa succede poi nel tempo. «Quello che dà idea della sostenibilità della misura è sapere se un anno e mezzo dopo la persona è riuscita a stabilizzarsi sul mercato del lavoro».Quello che sicuramente c’è di buono è il fenomeno che si è creato intorno alla dialettica sulla Garanzia Giovani e che l’ha preceduta con riforme che hanno riguardato il mercato del lavoro degli Stati membri. «Anche in Italia la Garanzia si è inserita in un contesto di cambiamento, basti pensare alla legge sull’apprendistato che è del 2012. Ma bisognerà vedere nel tempo se si riusciranno a razionalizzare tutte queste tendenze», spiega Bussi, sicura che per invertire la rotta nelle percentuali di Neet che, in Italia, non tendono a diminuire sia necessario «investire nella scuola e nelle misure di transizione al lavoro. Ma se la ripresa è lenta i giovani con poca esperienza competeranno con gli adulti e quindi il tempo di riassorbimento dei Neet sarà probabilmente più lungo. Per questo sarebbe importante investire nel nocciolo duro di questa categoria, quelli che non ricevono alcun tipo di finanziamento e avvicinarli a varie attività anche di volontariato per ri-immetterli nel sistema». Della stessa idea anche Pastore: «a dispetto del nome, purtroppo le politiche del lavoro non creano lavoro di per se. Non funziona tutto ancora al 100% perché le politiche sono più efficaci quando l’economia cresce. Ma se mancano i posti di lavoro non andiamo lontano».Marianna Lepore

Italia terzultima in Ue per occupazione femminile, l'opportunità adesso è l'industria 4.0

Sarà l'industria 4.0 – quella della sharing economy – a risollevare le sorti dell'occupazione femminile? Al convegno 'Donne nella quarta rivoluzione industriale' organizzato qualche giorno fa da Pari o Dispare, comitato per la parità di genere presieduto da Emma Bonino, ne hanno discusso esponenti della politica e delle istituzioni come Valeria Fedeli, vicepresidente del Senato e Beatrice Covassi, rappresentante italiana della Commissione Ue, del mondo accademico come l'economista della Stanford University Veronica De Romanis, e dei media, tra cui Eva Giovannini, giornalista Rai, e Eleonora Voltolina, direttrice della Repubblica degli Stagisti. Si parte dal dato rilanciato da Fedeli: «L'Italia è terzultima a livello internazionale per occupazione giovanile e femminile, dopo Grecia e Macedonia». Ma a sollevare non poche perplessità rispetto alla possibilità che questi dati sconfortanti possano essere migliorati da una maggiore partecipazione femminile ai lavori dell'Industria 4.0 è Riccardo Staglianò, giornalista di Repubblica, illustrando i numeri raccolti nel suo libro Al posto tuo, così web e robot ci stanno rubando il lavoro, edito da Einaudi.«È stato calcolato che da qui al 2033 il 47% dei lavori esistenti saranno a rischio automazione». Calcoli magari troppo allarmistici (McKinsey parla addirittura di 5 milioni di posti che scompariranno nel nulla), eppure i dati dimostrano come «Amazon avesse 13 dipendenti nel 2012, contro i 140mila di Kodak nel suo periodo di fulgore», prima di fallire. E come «nel 2014 Airbnb abbia pagato all'erario francese 84mila euro di tasse contro i 3 miliardi e mezzo del settore alberghiero». Solo «lo 0,5 per cento dei lavoratori americani sono stati occupati nelle aziende nate dopo il Duemila».«Nel prossimissimo futuro tutta una serie di professioni è destinata a scomparire» conferma Emma Bonino: «il che vuol dire anche adeguare la scuola e l'università. Noi sforniamo avvocati, ma se ho capito bene questa professione è destinata a ridimensionarsi in modo notevole. Se sappiamo che interi settori, anche di professioni autonome, sono destinati nel breve tempo a scomparire, non solo il ministero del Lavoro ma anche quello dell'Istruzione si devono adeguare, e anche i giovani devono prendere consapevolezza degli sbocchi occupazionali».Scenari quasi apocalittici, con cui dovrà vedersela l'occupazione in generale e quella femminile in particolare (in Italia al 50 per cento contro una media Ue del 64), già fiaccata dai «vecchi problemi che ci portiamo dietro» ricorda Bonino: la difficile conciliazione tra tempi di vita e lavoro all'origine dei picchi di denatalità registrata in questi ultimi anni e le discriminazioni retributive, «per cui serviranno 70 anni» perché donne e uomini ricevano, a parità di mansioni, un uguale salario. Per la precisione «le donne guadagnano in media il 16 per cento in meno» le fa eco Covassi, nonostante siano in media più istruite «rappresentando l'83 per centro dei diplomati e il 60 dei laureati». In spregio anche «alla direttiva Ue contro il divario retributivo». Va ancora peggio quando si tratta di donne in posizioni apicali. Anche in Europa i dati non sono incoraggianti: «In Ue sono appena il 3,6 per cento, e i consigli di amministrazione sono frequentati per l'80 per cento da uomini». E pensare che l'occupazione femminile in Italia, ma anche altrove, «ha tenuto meglio di fronte a una crisi che ha visto scemare un milione di posti di lavoro» calcola Linda Laura Sabbadini dell'Istat. Lo scotto è stato però pagato in termini qualitativi, facendo convergere le donne sul part time involontario, modalità che è invece scelta «solo dall'8 per cento degli uomini». Spesso dietro c'è la maternità, evidenzia Antonella Marsala di Italia Lavoro: «Sono 22mila all'anno le donne che abbandonano il posto di lavoro nel primo anno di vita del bambino». Dal parterre anche diverse proposte per cogliere le opportunità in arrivo dalla nuova fase industriale. Un'economia inedita che andrà regolamentata dalla politica: «Non si può fermare il vento della sharing e gig economy ma queste non devono ridursi a lavoretti, a secondary income» ragiona Giovannini. «Vanno messi dei paletti: una app come Amelia, centralinista meccanica, risponde a 60mila telefonata al mese e ha sostituito eserciti di lavoratrici». Per Eleonora Voltolina la prima idea per rendere le ragazze protagoniste dell'industria 4.0 è coinvolgerle «già da prestissimo nello studio delle materie Stem, convincendole che sono in grado di farlo, contro gli stereotipi che le allontanano invece da questi percorsi formativi». Poi la rappresentazione mediatica, dalla quale le donne sono troppo spesso escluse: per cominciare a «scardinare il sistema bisogna impegnarsi verso un riequilibrio dei panel dei dibattiti pubblici e dei talk show. Io ho deciso di darmi una policy: accetto di partecipare solo se è garantito un equilibrio di genere» afferma Voltolina, citando la denuncia della scrittrice Michela Murgia contro il sistema culturale italiano tutto sbilanciato a favore gli uomini. Quanto alla maternità, bisogna guardare ai progetti innovativi come Maam di Riccarda Zezza ma anche pensare a interventi pubblici: qui l'idea forte è quella di «introdurre un congedo di paternità obbligatorio uguale a quello di maternità, con un costo certamente enorme per le casse dello Stato, ma dal valore culturale dirompente».La maternità «va vista come un plus, dà vita a soft skills nelle donne, che diventano più creative e multitasking» rilancia Veronica De Romanis. Una possibile strada è la tassazione di genere: «Facciamo pagare meno tasse alle donne: ne conseguirebbe anche a un miglioramento del potere negoziale all'interno della coppia». Sono “distorsioni temporanee” che potrebbero funzionare: «Le quote rosa introdotte nel 2012 hanno fatto sì che si passasse dal 5 al 27 per cento di presenze femminili nei cda». Al pari dei «minijobs tedeschi dal salario di 450 euro, pensati proprio per le donne: sarebbero utili come chiave di accesso al lavoro in un paese come il nostro che conta con il 45 per cento di inattività femminile». Non sono chiacchiere o una moda del momento: donne più inserite nel mondo del lavoro «farebbero aumentare la ricchezza pro capite di un punto». Ilaria Mariotti 

Buchi contributivi, quali problemi per la pensione?

Durante la carriera lavorativa, soprattutto all’inizio, capita spesso di avere dei periodi di stop. Guardando oltre al problema economico del breve periodo, bisogna anche fare i conti sul lungo periodo: verificare cioè come incideranno i periodi in cui, non lavorando, non si versano contributi per la pensione.Per chi ha iniziato a lavorare dal 1° gennaio 1996 il calcolo della pensione è basato sul modello contributivo, strettamente legato a quanti contributi si versano. Quando non si lavora che cosa succede alla posizione contributiva? Una delle risposte sono i ‘contributi figurativi’. In pratica la legge prevede dei casi in cui si ha diritto all'accredito dei contributi anche se non c'è l'effettivo versamento all'Inps, l’Istituto nazionale di previdenza sociale, o ad altre casse previdenziali né da parte di un datore di lavoro né da parte del lavoratore: per esempio per periodi di disoccupazione, cassa integrazione, malattia e maternità.  Ma attenzione perché i contributi figurativi non sempre sono considerati allo stesso modo: a volte nel calcolo delle pensione valgono “di meno”. «Capire quali contributi vanno bene e quali devono essere esclusi per raggiungere il ‘diritto’ ad una pensione è complesso» ammette Remo Guerrini, responsabile del Patronato Inas Cisl di Milano: «I contributi figurativi vanno bene per ottenere la pensione di vecchiaia, invalidità, inabilità, reversibilità. Ma per la pensione anticipata invece ci sono delle limitazioni e bisogna fare i conti in maniera attenta». Per andare in maniera anticipata in pensione nel 2016 bisogna avere 42 anni e 10 mesi di contributi per gli uomini e 41 anni e 10 mesi per le donne, indipendentemente dall'età anagrafica, ma «si devono raggiungere almeno 35 anni senza contribuzione figurativa per disoccupazione e malattia». Per quanto riguarda la pensione di vecchiaia, che si può ottenere con meno contributi al compimento di 66 anni servono «almeno 20 anni ‘effettivi’ di contributi versati al netto della contribuzione figurativa» spiega il responsabile del patronato.Non è tutto. «Ogni cassa previdenziale distinta dall’Inps ha un proprio regolamento e pertanto modalità diverse per il riconoscimento dei periodo coperti da contribuzione figurativa» aggiunge Pietro Manzari, esperto della Fondazione Studi Consulenti del lavoro. Prendiamo infatti la situazione di lavoratori autonomi, artigiani e commercianti e coloro che versano in gestione separata come collaboratori, liberi professionisti e partite Iva: i contributi figurativi vengono accreditati nella gestione di riferimento ma ad esempio ai commercianti e gli artigiani non sono riconosciuti per i periodi di disoccupazione. Il problema dei buchi, in assenza di contributi figurativi, si può risolvere ricorrendo alla contribuzione volontaria: il lavoratore si fa carico di tutta la sua previdenza. Ma quanto potrebbe costare a chi guadagna 1000 euro lordi al mese? La risposta arriva da Pietro Manzari: «76 euro a settimana, perché per i lavoratori dipendenti l'aliquota di finanziamento per il 2016 è pari al 32,87% per gli autorizzati ai volontari successivamente al 1° gennaio 1996». Esiste comunque un importo minimo di retribuzione settimanale, «il così detto minimale» conferma l'esperto, «che per i lavoratori dipendenti nel 2016 è di 200,76 euro». Una cifra che non tutti possono permettersi, specialmente nei periodi in cui non ci sono entrate. E comunque questa possibilità è di fatto preclusa ai giovani, perché una delle condizioni imprescindibili per potersi versare i contributi volontari è quella di avere almeno 5 anni pieni di contributi già versati.«Il consiglio è quello di fare la domanda di disoccupazione immediatamente, quasi tutti i lavoratori oggi ne hanno diritto» suggerisce Guerrini. Basti considerare che nel solo mese di maggio 2016 sono state presentate 89.787 domande di Naspi e 386 domande di disoccupazione, si legge sul sito dell'Inps. Viene spontaneo chiedersi in quanti ogni anno ottengono i contributi figurativi. La Repubblica degli Stagisti ha provato a chiederlo all'Inps, ma la risposta ricevuta è che... la domanda è “sbagliata”. L'Istituto nazionale di previdenza sociale non sa infatti quanti lavoratori beneficiano dei contributi figurativi nel momento in cui vanno in pensione perchè questo tipo di contributi non sono erogati materialmente ma semplicemente 'conteggiati'. Anche considerando quanti contributi figurativi siano stati 'conteggiati' secondo i dati dell'ultimo rapporto Inps del 2014, il calcolo è impossibile dato che le unità di misura considerate variano a seconda della prestazione a cui si ha diritto, ad esempio il numero dei lavoratori per la disoccupazione e le ore per la cassa integrazione. L'Inps si limita a sottolineare, un po' lapalissianamente, che se nell'estratto conto contributivo si hanno avuti contributi figurativi, vuol dire che se ne aveva diritto.Poi capita anche che pur lavorando ci sia un buco contributivo perché il datore di lavoro magari dimentica di pagare qualche tranche di contributi. Succede a lavoratori pubblici e privati ma soprattutto ai precari. E la cosa più grave è che si hanno solo 5 anni di tempo per accorgersi del buco, poi i contributi ‘scadono’.«Non bisogna perdere tempo, è necessario ‘curare’ il proprio estratto contributivo man mano che ci sono i periodi di sospensione e ogni tanto, anche se si lavora, fare un controllo» conclude Remo Guerrini: «Perché una volta vicini alla pensione accorgersi di un buco di contributi allontana ancora di più il traguardo, una notizia non certo bella soprattutto per i più giovani che, se andrà bene, in base alla norma attuale, smetteranno di lavorare non prima dei 70 anni».Felicia Mammone