Categoria: Approfondimenti

Pensione integrativa per il mondo della ricerca: con Resaver diventa realtà

La vita del ricercatore è spesso vagabonda, soprattutto all’inizio della carriera. Si comincia presso un’università, si prosegue in qualche centro di ricerca pubblico o privato, poi si risponde a qualche bando che garantisce fondi per continuare il proprio lavoro o si prende parte a una squadra che sta avviando un nuovo progetto. Questo vuol dire lavorare in città diverse e, sempre più spesso, in Paesi diversi. Quindi ricevere lo stipendio e pagare i contributi previdenziali in Italia, ma per alcuni periodi anche all’estero. Con la conseguenza, non senza controindicazioni, di spezzettare in varie casse pensionistiche i propri contributi, cioè la propria “riserva” per la pensione.Per quanto riguarda la quota dei contributi “obbligatoria” – o di primo pilastro – finché i sistemi previdenziali dei singoli Paesi non si mettono d’accordo, non si può fare molto. E al momento, spiega Giuseppe Montalbano, segretario nazionale Adi, i sistemi previdenziali restano sensibilmente diversi. Ma «i regolamenti comunitari consentono di mantenere i diritti previdenziali maturati in ciascun Paese, beneficiare di una quota di pensione proporzionale a tali diritti, ed esportare le prestazioni relative. Questo grazie alla cosidetta totalizzazione in regime comunitario».Ora, però, anche sul fronte delle pensioni integrative si sta muovendo qualcosa. La Commissione europea ha pensato, infatti, a tutti i lavoratori del mondo della ricerca finanziando con un budget di 4 milioni di euro, dal programma Horizon 2020, lo studio e l’avvio di un progetto che dovrebbe aiutare la mobilità. È Resaver, un fondo pensione integrativo che ha preso ufficialmente il via a inizio febbraio di quest’anno. A tre anni dal 2014, quando la Commissione evidenziando la grande frammentarietà del sistema pensionistico in Europa, aveva deciso di coprire i costi per la creazione di questo piano.Prima c’era stato, nel 2009, uno studio di fattibilità. «Nel 2011 sono stati radunati gli interessati al progetto e nel 2014 si è costituito il consorzio Resaver, che detta le regole del fondo costituito l’anno scorso. E recentemente la Covip ha dato l’autorizzazione all’esercizio anche in Italia», spiega alla Repubblica degli Stagisti Andrea Crivelli, attualmente membro del Board of directors di Resaver Consortium, con un’esperienza pluriennale nel settore delle risorse umane in particolare per la mobilità internazionale che l’ha portato dal gruppo Ilva ad Elettra Sincrotone, ente di ricerca attivo nel campo della fisica della materia.Membri fondatori di Resaver sono la Central European University di Budapest e l’associazione delle università nei Paesi Bassi (VSNU) e quattro istituzioni italiane: il Central European research infrastructure consortium, Elettra – Sincrotrone Trieste scpa, la Fondazione Edmund Mach e la Fondazione Istituto italiano di tecnologia. I membri associati al consorzio sono una quindicina, mentre le università aderenti sono quelle di Budapest e dei paesi Bassi e poi l’università di Copenaghen, di Limerick, di Lussembrugo e quella autonoma di Barcellona. Ancora nessun ateneo italiano, anche se si sta lavorando proprio in questo senso.Resaver è quindi una IORP (Institution for occupational retirement provision), un fondo pensione transfrontaliero in grado di accogliere iscrizioni e contributi dai paesi dell’Unione Europea.  È «un fondo integrativo per i dipendenti, che si aggiunge alla pensione obbligatoria. È basato in Belgio e può essere alimentato con versamenti da tutti i paesi dell’Unione e dell’area economica europea». I paesi che vi hanno pienamente aderito sono l’Italia e l’Ungheria. E nel corso dell’anno dovrebbero aggiungersi Irlanda, Spagna e Lussemburgo.Quale sia la platea di riferimento lo spiega Crivelli: «Può aderire chi ha un contratto di dipendenza, così prevede la legge europea. Quindi contratti di tipo subordinato, a tempo determinato, indeterminato o part time».Un dato più preciso lo dà Filip Hemeryck, Senior consulting actuary di Aon Hewitt la società nominata nel gennaio 2015 dalla Commissione europea per fornire supporto tecnico alla creazione del fondo pensionistico. «Nell’Europa a 28 ci sono circa 1 milione e 800mila ricercatori, di questi 120mila in Italia. A questi bisogna però aggiungere tutti i dipendenti del settore della ricerca non inclusi nel dato. Basti pensare che tutto il personale del mondo della ricerca nel 2015 ha rappresentato l’1,2% della forza lavoro europea». Il dato, però, si restringe molto se si analizzano i soli ricercatori con contratti a tempo determinato. Giuseppe Montalbano dell'Adi spiega alla Repubblica degli stagisti che «secondo il rapporto Anvur 2016 il numero totale di ricercatori a tempo determinato, quindi sia quelli junior che senior, è di 4.608 nel 2015. Un numero cresciuto nel 2016 grazie al piano di reclutamento straordinario di RTDb (ndr. Senior) arrivando agli attuali 5.508». Montalbano è però convinto che la creazione di un simile fondo e di schemi previdenziali pensati appositamente per i ricercatori in mobilità sia «da accogliere senz’altro con favore».Questo non significa che non manchino criticità, nel merito e nel metodo. «È stato tutto costruito senza coinvolgere adeguatamente le organizzazioni rappresentative dei ricercatori, come l’associazione europea dei dottorandi e ricercatori in formazione, Eurodoc, di cui Adi è membro e componente del direttivo. Non c’è trasparenza sui meccanismi e sulle scelte di gestione del fondo. E la portata di Resaver appare ancora estremamente limitata», dice Montalbano. Che chiarisce: «L’accesso al fondo integrativo per il ricercatore è vincolato all’iscrizione dell’organizzazione per cui lavora al consorzio Resaver. Ora solo l’Ungheria è full member mentre in Italia gli unici membri sono alcuni centri di ricerca, nemmeno un’università. E poi se un ricercatore non ha un contratto di “employee” non può accedere al fondo pensione ma solo alla insurance».Per la periodicità dei versamenti Filip Hemerick spiega alla Repubblica degli stagisti che il piano è molto flessibile: «i livelli contributivi e la periodicità sono stabiliti nel regolamento del piano con il datore di lavoro. Volendo, però, parlare di un livello contributivo tipico allora si attesta al 4% del salario». Ma se i risultati ottenuti sembrano troppo modesti, Crivelli chiarisce la complessità del fondo, che ha avuto bisogno di varie autorizzazioni e della creazione di un set di regole compatibile con le norme nazionali di ogni Paese. «Un lavoraccio: solo per l’Italia ci abbiamo lavorato un anno e mezzo!»Una volta aderito alla Iorp, le istituzioni «possono ammettere i propri dipendenti ai versamenti», spiega Crivelli, che aggiunge «il fondo non è limitato solo ai ricercatori, ma a tutto il personale della ricerca: tecnici, tecnologi, amministrativi». Per i non dipendenti è prevista la possibilità di aderire a un sistema di terzo pilastro, per iniziare ad accumulare versamenti che una volta dipendenti saranno spostati nelle casse della Iorp. E forse, in futuro, potrebbero iscriversi indipendentemente dall’adesione delle istituzioni.Nel frattempo Resaver ha ottenuto un recente nuovo finanziamento della Commissione europea di 400mila euro. Una cifra che consente, per ora, l’assenza di spese per i membri fondatori del progetto e per quelli aderenti. Ma Crivelli non esclude che con il tempo ci saranno piccole fee a carico dei lavoratori e delle aziende, come in tutti i fondi integrativi.Se un ricercatore fosse interessato al piano per prima cosa deve rivolgersi agli uffici del personale e verificare se il proprio ente abbia aderito. Una “pressione”, quella che i ricercatori potrebbero svolgere in questa fase, molto importante. Perché l’interesse dal basso potrebbe favorire una rapida diffusione del programma.Il vantaggio è avere una pensione che «può essere alimentata nel corso della carriera muovendosi tra istituti di diversa natura nel proprio Paese e dentro l’Unione europea. Senza Resaver ogni volta che si cambia, con ogni probabilità si perde l’iscrizione al fondo integrativo e, a volte, i versamenti». Un problema molto serio visto che, ricorda Crivelli, oggi si va in pensione con circa il 50% dell’ultimo stipendio. Quindi lo scopo del fondo è di costituire una riserva che integri la pensione pubblica. I fondi saranno accantonati su un conto personale per ciascun aderente. Nel caso dell’Italia il lavoratore conferisce il suo Tfr più una percentuale che va dall’1,5 al 2% e il datore di lavoro una percentuale in misura pari. Non c’è però un dato univoco. Infatti Hemeryck, di Aon Hewitt, spiega che «i contributi annui aumentano con il livello dei salari e i rendimenti degli investimenti dipendono dall’assegnazione degli asset e dalle condizioni di mercato».Entro la fine dell’anno il consorzio dovrebbe arrivare ad avere sette paesi aderenti. E in dieci anni coinvolgere tutti e 28. In alcuni casi ci sono dei problemi con la necessità di modificare le singole leggi nazionali. Ma l’interesse per Resaver c’è, anche dagli atenei americani e australiani e dal Regno Unito che pur uscendo dall’Europa rimarrà all’interno del programma.L’obiettivo ora è far iscrivere le aziende, specie private con cui bisogna «solo fare un discorso con il sindacato interno». Ma rispetto ai normali fondi integrativi cambia poco: solo la possibilità di averne uno solo in tutta Europa.«Quindi il ricercatore che aderisce a Resaver in Italia finché è lì segue le regole italiane, se poi dovesse spostarsi in Germania i suoi versamenti e rendimenti seguiranno le regole tedesche. Quando avrà maturato il suo diritto alla pensione integrativa, in base alle singole leggi nazionali, la Iorp farà i suoi conti e verserà la pensione secondo le modalità previste dai vari paesi. Il fondo raccoglie i versamenti in base alle regole di ogni Paese in un unico borsellino per ciascun iscritto e investe i soldi come tutti i fondi pensione». Ora l’importante è far crescere le iscrizioni. Solo quando ci saranno tanti partecipanti il sistema funzionerà a pieno regime. La strada, quindi, è ancora lunga e non mancano le criticità. Ma è un primo passo importante che va in aiuto dei tanti ricercatori abituati a muoversi per lavoro in giro per l’Europa.Marianna Lepore

Aboliti i voucher. E ora?

Sabato scorso migliaia di persone sono scese in piazza contro i cosiddetti «nuovi voucher», in seguito alla manovra correttiva approvata qualche settimana fa, che ha introdotto il Libretto famiglia e una serie di novità nell'utilizzo dei buoni lavoro. Facciamo però un passo indietro. Lo scorso marzo un decreto legge ha abolito i voucher, i buoni lavoro utilizzati fino a quel momento per pagare prestazioni di lavoro accessorio, ossia, come indicato dall’Inps, «svolte fuori da un normale contratto di lavoro in modo discontinuo e saltuario».Sia le tipologie di soggetti beneficiari che il tetto massimo annuale erano stati ampliati nel tempo. I soggetti che potevano essere pagati con i voucher, nati con la legge Biagi, al momento dell'abolizione erano: pensionati, studenti di età inferiore ai 25 anni, destinatari di prestazioni integrative del salario o di sostegno al reddito (ad esempio i cassintegrati), lavoratori part time e altre tipologie, come nel caso degli inoccupati o dei lavoratori autonomi. Il tetto massimo dei compensi annui complessivi era fissato dalle ultime disposizioni contenute nel Jobs Act a 7mila euro, anche se la cifra per prestazioni lavorative a favore di ciascun singolo committente non poteva superare i 2mila. Di fronte al forte incremento dei buoni lavoro, che denotava in effetti un abuso di questo strumento, la Cgil ha attivato una massiccia raccolta firme per chiedere un referendum sull'abolizione: il referendum però non è stato mai fissato, perché il governo ha preferito evitarlo procedendo con l'abolizione in toto dello strumento, attraverso appunto il decreto legge di marzo. E ora? Come verranno inquadrate tutte quelle prestazioni fino a questo momento retribuite con voucher? Esistono al momento delle alternative sul tavolo? Qualche settimana fa è stato presentato in commissione Bilancio alla Camera un testo che riformula alcune proposte già avanzate per sostituire i voucher cancellati dal decreto. Disposizioni che sono state approvate nell'ambito della cosiddetta manovra correttiva.Le novità prevedono l'introduzione del Libretto famiglia, caratterizzato da assegni di 10 euro, cui se ne sommano altri due per i contributi e l'assicurazione, da utilizzare per il pagamento di prestazioni lavorative per piccoli lavori domestici. Il lavoratore non potrà percepire più di 2500 euro l'anno dallo stesso datore di lavoro e le prestazioni non dovrebbero superare le 280 ore annuali, altrimenti il lavoratore dovrà essere assunto a tempo indeterminato. Il Libretto è acquistabile attraverso il portale Inps o presso gli uffici postali, mentre prima era possibile acquistare i voucher anche dal tabaccaio.Le imprese potranno invece ricorrere al contratto di prestazione occasionale ad alcune condizioni: il compenso minimo non deve essere inferiore ai 9 euro orari, rispetto ai 7,5 previsti in precedenza, il tetto massimo di compensi annuali è di 5mila euro e non sono ammesse all'utilizzo aziende con più di 5 dipendenti. Non possono invece ricorrere i contratti di prestazione occasionale, quale che sia la loro dimensione, le aziende del settore edilizio e artigiane.Prima che arrivasse questa proposta, diverse voci si erano espresse sul tema. La deputata Irene Tinagli ad esempio aveva auspicato la soluzione di ampliare l’ambito di applicazione del lavoro intermittente o a chiamata. Si tratta di una tipologia contrattuale utilizzata qualora ci sia necessità di impiegare un lavoratore per prestazioni con frequenza predeterminabile. Al momento questo contratto può essere stipulato con soggetti di età inferiore a 24 anni o superiore a 55. Inoltre, è ammesso per un periodo complessivamente non superiore alle 400 giornate nell’arco di tre anni. Superato questo periodo, il rapporto si trasforma in un rapporto di lavoro «pieno» a tutti gli effetti.  La proposta della Tinagli intenderebbe eliminare i limiti del lavoro intermittente, che a oggi è previsto per i soli lavoratori con meno di 24 o più di 55 anni di età. In entrambi i casi l'obiettivo sarebbe quello di proteggere il lavoratore attraverso una regolamentazione del rapporto di lavoro più «tutelante» ed evitare così che l'abolizione dei voucher porti nuovamente al dilagare di forme di lavoro sommerso. Ora bisognerà attendere le inevitabili reazioni e monitorare con attenzione i numeri dei prossimi mesi per verificare se la novità avrà sortito l'effetto sperato.Chiara Del Priore

Gli anziani tolgono il lavoro ai giovani?

L'innalzamento dell'età pensionabile è una delle cause della disoccupazione giovanile? Se gli anziani vanno in pensione più tardi, cioè, sottraggono opportunità di lavoro ai giovani? No, almeno secondo Alessandra Del Boca e Antonietta Mundo, autrici del libro L'inganno generazionale, di cui si è discusso a Generare Futuro, il festival organizzato qualche settimana fa a Lodi da Linkiesta sui temi del cambiamento e dell'innovazione.Quando si parla di futuro, infatti, si parla anche di giovani e del quadro che va delineandosi per loro in termini lavorativi, economici e sociali. Attraverso le domande di Eleonora Voltolina, direttore della Repubblica degli Stagisti, il dibattito con le autrici ha ripreso alcuni dei temi centrali del libro, dall'avanzamento tecnologico e le nuove professioni digitali all'istruzione e al sistema previdenziale, sottolineando le criticità e le peculiarità del mondo del lavoro italiano ed avanzando alcune istanze cruciali per il successo dei giovani.Secondo Del Boca e Mundo la teoria dell'alta disoccupazione giovanile come conseguenza della lunga permanenza degli anziani sul posto di lavoro corrisponderebbe ad un'interpretazione errata: non solo questo non è vero, ma anzi l'occupazione degli anziani andrebbe incentivata per il benessere di tutta la società. Tanto che Alessandra Del Boca ha affermato di aver «spolpato come un piraña» Tito Boeri, presidente dell'Inps ed economista della Bocconi di Milano, il quale sosteneva che, per ogni posto occupato da un anziano, c'è un giovane che rimane disoccupato. «Non è così: non emerge alcuna prova dell'esistenza di questo spiazzamento, semmai il contrario», cita il libro: «dalla letteratura economica sappiamo che in ogni momento avviene una creazione e distruzione di posti di lavoro simultanea ed enorme». In altre parole, l'economia è regolata da una buona dose di dinamismo che non conduce mai ad una somma zero dei posti di lavoro, e le opportunità, piuttosto, aumentano al crescere della popolazione attiva, vale a dire non solo i giovani, ma anche gli immigrati e le donne. Inoltre, sottolineano le esperte, giovani e degli anziani sono destinatari di domande di lavoro diverse e non sostituibili tra loro, una differenza che sarà sempre più pervasiva con l'avanzare della tecnologia: i mestieri e le competenze dei nativi digitali sono già molto diversi rispetto a quelli dei loro genitori. Ridurre l'occupazione degli anziani, quindi, non aumenterebbe le opportunità dei giovani e anzi, dovrebbe essere incoraggiata: un ritiro anticipato, infatti, sarebbe destinato ad aumentare il peso contributivo sulle generazioni più giovani, complicando ulteriormente la loro condizione, e a rendere i genitori più dipendenti dai figli, i quali però non potrebbero prendersi cura di loro.La responsabilità della crisi del lavoro giovanile, insomma, non è tanto da attribuire alle politiche contributive che riguardano le generazioni più anziane, quanto piuttosto alla povertà degli stipendi di oggi e alla difficoltà di incontro tra domanda e offerta: nonostante una laurea paghi di più nel lungo periodo, sostengono le autrici, gli studi in ambito umanistico sono poco spendibili sul mercato del lavoro, mentre un ingegnere neolaureato, ad esempio, «rimane senza lavoro per due mesi, il tempo di valutare tutte le offerte». Così il problema vocazionale e la scarsità di competenze digitali (in ambito ICT l'Italia è ultima in Europa per numero di laureati) vanno a incidere sulla disoccupazione giovanile.E sul fronte della politica? Del Boca e Mundo sono sostenitrici delle riforme attuate dagli ultimi governi, in particolare del Jobs Act; ma una delle critiche mosse dalle autrici al governo è la decisione di investire attenzione e risorse in ambito lavorativo sulla fascia dei 15-24enni, molti dei quali sono però ancora studenti, piuttosto che destinarle ai Millennials, quei 25-34enni che si ritrovano a soffrire di più, avendo ormai concluso gli studi e senza però riuscire a mettere in piedi un progetto di vita in tempi ragionevoli.Le due esperte denunciano anche una mistificazione, sui giornali e in tv, dei dati sulla disoccupazione giovanile, elaborati in modo errato: l'attuale stima, divulgata come “il 40%”, comprende una grossa quota di giovani che ancora studiano, la quale finisce per distorcere il quadro. Se calcolata opportunamente, invece, la quota di disoccupazione giovanile si fermerebbe intorno al 10%. Una sottigliezza che effettivamente a più riprese abbiamo cercato di spiegare qui sulla Repubblica degli Stagisti.Ma del Boca e Mundo mettono in guardia dal cadere nel tranello del conflitto generazionale, giovani disoccupati contro pensionati privilegiati. Certo, è vero che il retaggio di ancora precedenti decisioni sbagliate ha pesato fino a qui. Un esempio su tutti: le baby pensioni, che qualche decina di anni fa avevano consentito ai lavoratori di ritirarsi dal posto dopo aver versato appena 10 o 15 anni di contributi. Ma applicare dei correttivi alle pensioni come queste potrebbe essere una soluzione? La proposta era stata avanzata già nel 2013, ma era stata subito accantonata per la sua impopolarità e perché «modificare l'importo di pensioni già in pagamento non sarebbe stato costituzionale». In altre parole, secondo le due autrici le pensioni non si devono toccare: anche quelle non sorrette da contribuzione adeguata (pensioni calcolate con il metodo retributivo, complessivamente più alte della somma dei contributi versati durante gli anni di lavoro), perché uno Stato non può tradire il patto stipulato con i suoi cittadini. Insomma, se in passato ha permesso a 500mila persone di andare in pensione a 40 anni, ora quelle pensioni non può ridurle per ovviare all'incontestabile errore. «Allora due generazioni di giovani dovrebbero pagare lo scotto di decisioni sbagliate prese quarant'anni fa?» chiede un ragazzo dalla platea. «Non necessariamente», rispondono le esperte: il punto è di focalizzarsi su politiche che aiutino chi davvero ne ha bisogno. In questo senso, secondo loro, si dimostra l'inutilità del bonus ai 18enni, risorse che avrebbero potuto essere meglio spese all'interno delle politiche giovanili.L'inganno generazionale porta sostanzialmente un messaggio positivo, che punta ad incoraggiare un patto tra le generazioni guardando insieme al futuro, piuttosto che focalizzandosi sugli squilibri del passato. Le raccomandazioni sono in linea con quelle proposte da più parti: il collocamento efficace dei giovani nella fascia 25-34 verso le opportunità esistenti, l'agevolazione del training on the job e gli investimenti in istruzione e ricerca, che dovrebbero aumentare l'occupabilità del capitale umano nel nostro paese, invece che spingere le persone, come ormai sempre più frequentemente accade, a spostarsi altrove. L'ennesimo richiamo a investire sui giovani per aiutarli ad investire su se stessi: speriamo che qualcuno ascolti, perché in gioco c'è il futuro di tutti, non solo il loro.Irene Dominioni

Colloquio in Everis, istruzioni per l'uso

Everis, società spagnola di consulenza e outsourcing nei maggiori settori di business, vanta un fatturato di oltre 800 milioni di euro e 18mila dipendenti tra Europa, Stati Uniti e America Latina. Prima azienda in assoluto ad entrare nel network virtuoso della Repubblica degli Stagisti nel 2009, si distingue in particolare per il tasso di trasformazione di stage in contratti di lavoro (superiore al 90%) e per la generosità del rimborso spese offerto ai tirocinanti (1000 euro mensili), per cui ha ricevuto diversi RdS award negli ultimi anni [nella prima foto qui sotto, De Bartolomeo riceve da Eleonora Voltolina, direttore della Repubblica degli Stagisti, l'AwaRdS 2016 per il miglior tasso di assunzione post stage]. A raccontarne il percorso di recruiting, in questa nuova puntata della rubrica “Colloquio, istruzioni per l’uso!”, ci sono le recruiting specialist Fabiola De Bartolomeo e Claudia Bassanelli per le sedi di Milano e Roma. De Bartolomeo, laureata in lettere moderne e con un master in human resources management, dopo aver lavorato in un'azienda farmaceutica è approdata in Everis nel 2015, dove svolge attività di recruiting e comunicazione con un particolare focus sui profili junior. Bassanelli invece, laureata in psicologia, è arrivata in azienda lo scorso giugno, dopo un periodo maturato nel settore dell’orientamento al lavoro e della ricollocazione professionale. In Everis si occupa soprattutto di selezione di profili IT. Quali profili ricercate maggiormente nella vostra azienda?FDB: Consulenti IT junior, laureandi o neo laureati in informatica o ingegneria informatica, ingegneria gestionale e delle telecomunicazioni, matematica e fisica.Come funziona in generale il vostro iter di selezione? CB: Di solito selezioniamo i CV dai diversi portali delle università o da Almalaurea, oppure facciamo uno screening dei candidati a partire dalla pubblicazione di un annuncio. Valutiamo anche tutti i curriculum che ci arrivano all’indirizzo italy.cv.milan [chiocciola] everis.com o italy.cv.roma [chiocciola] everis.com. L’iter prevede una breve intervista telefonica iniziale per valutare gli elementi di base – è indispensabile che venga dimostrato un interesse per il mondo della consulenza IT –  e soprattutto le soft skill dei candidati. Lo step successivo prevede un colloquio in azienda in tre fasi: prima un colloquio conoscitivo e motivazionale con un HR, poi con un tecnico per valutare le competenze logiche e di ragionamento e, infine, con il manager di progetto, sempre a livello conoscitivo e di valutazione tecnica. Se positivo, al candidato viene fatta una proposta, cui segue l’eventuale inserimento. Per il recruiting fate assessment o colloqui di gruppo?CB: Per i giovani neo laureati, in particolare, abbiamo implementato un format standard che prevede l’Assessment Center. Dopo il prescreening dei CV ed un colloquio telefonico per valutare la capacità linguistica e la motivazione dei candidati, di cui ci occupiamo internamente noi recruiter, si viene convocati a gruppi nella stessa giornata, dove si affrontano colloqui individuali e test logici e di problem-solving al fine di valutare le dinamiche di interazione con gli altri. I colloqui individuali generalmente durano 30/40 minuti con l’HR e un’ora con il leader di unità, mentre quelli di gruppo hanno una durata di circa tre ore, più un’ora individualmente. FDB: In una società di consulenza il lavoro in team è fondamentale; per questo, generalmente, il colloquio si organizza con una classe di almeno 15 candidati. Al mattino c’è un primo momento di presentazione dell’azienda e dei ragazzi, cui partecipa anche un manager o un leader delle unità interne e si fa un gioco di gruppo per valutare la capacità di lavorare in squadra. Nel corso del pomeriggio, invece, i ragazzi che risultano idonei e che hanno superato il test di inglese passano al secondo colloquio individuale con il manager o il leader delle unità.Svolgete parte dei colloqui anche in una lingua straniera? CB: Tutti i colloqui sono in italiano, ma viene somministrato un test di inglese della durata di una ventina di minuti, dove la conoscenza della lingua è indispensabile per il successo della selezione. A prescindere dalla certificazione, che è secondaria, chiediamo che l’inglese sia fluente e di avere una buona capacità di conversazione, anche a partire dallo stage. FDB: La conoscenza della lingua spagnola è un plus, soprattutto nei progetti dove si collabora con i colleghi spagnoli o nelle riunioni. Una lingua straniera è utile anche per le trasferte, perché ci sono progetti aperti in tutto il mondo e chi non parla inglese potrebbe perdersi l'opportunità di partecipare. Apprezzate le autocandidature?CB: Apprezziamo i giovani di talento, quelli particolarmente motivati ad intraprendere un percorso di carriera nella consulenza in ambito IT e che sposino la filosofia e i valori di Everis, sia che si candidino volontariamente o che vengano chiamati da noi. Apprezziamo anche i curriculum personalizzati, purché il candidato fornisca tutte le informazioni utili a ricostruire il proprio percorso.FDB: Utilizziamo abitualmente LinkedIn e Facebook per il recruiting e da qualche tempo abbiamo anche una pagina Instagram dove postiamo le offerte disponibili. Inoltre, sul sito c’è una sezione “Lavora con noi” attraverso cui i giovani possono inviare il proprio curriculum, ma valutiamo le candidature provenienti da qualsiasi canale, che sia il sito, la posta elettronica o un annuncio.Ricercate anche giovani donne con profili tecnico scientifici?CB: Sicuramente ci piacerebbe aumentare le quote rosa, ma, ai fini della selezione, valutiamo innanzitutto le competenze tecniche e le soft skill utili all’azienda. Vi sono competenze che ricercate nei candidati ma che faticate a trovare? FDB: A volte riscontriamo una mancanza di adeguate basi tecniche di conoscenza dei linguaggi di programmazione e scarse capacità di ragionamento, che portano il selezionatore a dedurre che si è studiato a memoria. Nell'ambito dello stage, guardiamo in particolar modo al percorso universitario: apprezziamo chi ha fatto un Erasmus, un’esperienza all’estero e corsi extra-universitari per la conoscenza delle lingue straniere. Per i profili senior, invece, prestiamo molta attenzione all’esperienza maturata nell’ambito della consulenza e delle diverse tecnologie che usiamo: DWH, Business Intelligence, .NET, Java e SQL.CB: Anche sotto il profilo della conoscenza della lingua, l’inglese generalmente va migliorato, soprattutto quello parlato!Qual è l'errore che non vorreste mai veder fare a un candidato durante un colloquio?FDB: Sicuramente non fa buona impressione un candidato che non sa nulla riguardo a Everis e al suo ambito di attività, mentre invece apprezziamo un precedente approfondimento verso l’azienda. Anche screditare esperienze precedenti non è un comportamento che vediamo di buon occhio. Come date i vostri feedback?CB: I tempi di invio del feedback sono abbastanza variabili, generalmente entro 15 o 20 giorno al massimo, e un riscontro viene dato sempre, anche se negativo.Se lo stage viene attivato e dà esito positivo, qual è poi l'iter contrattuale che solitamente proponete?FDB: La nostra percentuale di assunzione post stage è molto alta, intorno al 97%. Il nostro obiettivo, infatti, è quello di crescere insieme ai nuovi talenti. Il primo ingresso in azienda solitamente avviene attraverso lo stage, della durata di sei mesi al massimo, con indennità mensile e con buoni pasto. Successivamente il neo laureato viene assunto con contratto a tempo indeterminato, con un livello di retribuzione variabile in base al tipo di studi conseguito e con i benefit che Everis riconosce ad ogni dipendente.Ci sono differenze tra l'iter di selezione per selezionare uno stagista e l'iter per selezionare invece una persona da inserire direttamente con contratto?CB: Tendenzialmente l’iter è lo stesso, anche se le figure senior affrontano un maggior numero di colloqui e tempistiche più lunghe. Nei colloqui con i senior vengono affrontate in maniera approfondita le competenze tecniche, ma la procedura si può articolare in modo diverso in base alla posizione e al livello che il candidato andrà a ricoprire all’interno dell’organizzazione.testo raccolto da Irene Dominioni

In vigore il 'Jobs act' del lavoro autonomo, una «rivoluzione culturale» ma con alcune criticità

Da qualche giorno i lavoratori autonomi italiani – circa 5 milioni – possono finalmente contare su una legge che regolamenta il loro settore. È il ddl sul lavoro autonomo e agile, approvato in Senato il 10 maggio con 158 sì, 9 no e 45 astenuti, dopo una gestazione di oltre un anno. «A breve uscirà anche in Gazzetta Ufficiale», conferma alla Repubblica degli Stagisti Andrea Dili, membro della rete di giovani, studenti e precari Alta Partecipazione, «perché ogni provvedimento può tardare al massimo quindici giorni prima di essere pubblicato», e a quel punto l'operatività sarà piena. Tutti i potenziali beneficiari potranno cioè cominciare a usufruirne perché, sottolinea Dili, «non sono richiesti decreti attuativi».Scatteranno così da subito tutte le importanti novità che dovrebbero – almeno nelle intenzioni – rafforzare le tutele dei freelance. Solo per citarne alcune: le donne in gravidanza iscritte alla Gestione Separata dell'Inps potranno richiedere il sussidio di maternità senza la condizione dell'astensione obbligatoria dal lavoro, e accedere all’estensione del congedo parentale da tre a sei mesi; in caso di malattia si applicherà  la  sospensione del versamento  dei contributi previdenziali e dei premi assicurativi se l'attività lavorativa viene meno per oltre sessanta giorni; dal primo luglio entrerà poi a regime la Dis-Coll, ovvero l'indennità di disoccupazione per i cosiddetti cococo, anche in favore di collaboratori, assegnisti e dottorandi di ricerca. E infine – per l'asse smart working – partirà l'equiparazione di trattamento economico rispetto ai colleghi per chi lavora fuori dalle mura dell'ufficio.Per quanto riguarda le norme di natura fiscale che consentono di dedurre fino a 10mila euro le spese di aggiornamento professionale sostenute la validità è retroattiva, ossia «sono applicabili a far data dal primo gennaio 2017» specifica Dili. «Se quindi hai svolto un corso di formazione a febbraio 2017 per esempio, potrai scaricarti i costi già dalla dichiarazione dei redditi del prossimo anno». Nel 2018, quando si rendiconteranno al fisco le spese del 2017.Fanno eccezione però due norme per cui, spiega Dili, «è prevista la delega al Governo». La prima all'articolo 5 del testo di legge che «Delega al Governo in materia di atti pubblici rimessi alle professioni ordinistiche». «Il Governo è delegato ad adottare, entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o più decreti legislativi in materia di rimessione di atti pubblici alle professioni ordinistiche». In pratica un ampliamento delle competenze normalmente in capo alla Pubblica amministrazione per chi esercita professioni regolamentate. E ancora l'articolo 6, dove la delega si riferisce «alla materia di sicurezza e protezione sociale delle professioni ordinistiche». Tempo sempre un anno, l'esecutivo «su proposta del Ministro del lavoro e delle politiche sociali di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze» dovrà legiferare sulla «abilitazione degli enti di previdenza di diritto privato, anche in forma associata, ove autorizzati dagli organi di vigilanza, ad attivare, oltre a prestazioni complementari di tipo previdenziale e socio-sanitario, anche altre prestazioni sociali, finanziate da apposita contribuzione». Lo scopo sarebbe qui incrementare le indennità associate alla previdenza aggiuntiva per i titolari di posizioni presso la Gestione separata non pensionati e senza altre casse. Nel complesso il testo fa sperare in un cambiamento in positivo per il mondo dei freelance. «Una rivoluzione culturale» la descrive Giorgia D'Errico, assistente parlamentare di Cesare Damiano, presidente della Commissione Lavoro alla Camera  «che ricomprende nella cultura del lavoro anche chi non è dipendente e chi non appartiene a nessun ordine professionale». Ma non mancano le criticità. In primis c'è la norma che prevede una stretta sui tempi di pagamenti da parte del committente. Le regole per i pagamenti tra imprese e Pubblica amministrazione si estendono infatti ai professionisti, che potranno esigere il saldo della fattura emessa entro 60 giorni, pena lo scattare di interessi di mora e sanzioni. Funzionerà davvero? «È come chiedere se la legge che vieta le rapine in banca sia nei fatti davvero efficace» ragiona Dili, «Come si fa a assicurarlo?». Però di buono c'è che si fissa un principio molto importante, e cioè «si dà ai freelance la possibilità di «far valere in via giudiziale gli interessi».Dopodiché quello su cui si dovrebbe agire è «l'efficienza della giustizia: si dovrebbe fare una riforma che preveda un filone a parte solo per la giustizia commerciale, quella dei pagamenti» osserva. D'accordo anche la presidente del Coordinamento libere associazioni professionali Colap Emiliana Alessandrucci [nella foto a sinistra]: «Chi non vuole pagare potrà farlo comunque, la norma non sarà risolutiva in tal senso». La vera soluzione sarebbe stata quella di «ampliare l'applicabilità dei decreti ingiuntivi anche sotto certe cifre». Per chi svolge qualunque servizio, da quelli alla persona a prestazioni di ogni tipo, il problema è non poter disporre di strumenti di recupero crediti per importi piccoli, di poche centinaia di euro. Anche per le penali, «la reale efficacia riguarderà solo le commesse di grandi opere».L'altro grande errore secondo Alessandrucci è l'aver ricompreso in un unico provvedimento materie di per sé distanti come il lavoro autonomo e agile, lo smart working. «Storicamente e culturalmente si è sempre fatto coincidere le false partite Iva con quelle vere, che invece non hanno nulla in comune». Lo smart working andrebbe insomma regolamentato a parte, colmando anche alcune lacune: «Se devo cucire dei jeans, chi mi coordina se sono inquadrato come smart worker?». E ancora, «chi mi mette in sicurezza?». E qui il riferimento è all'articolo 20 della nuova legge, che parla di copertura Inail per gli infortuni quando «la scelta del luogo della prestazione sia dettata da esigenze connesse alla prestazione stessa o dalla necessità del lavoratore di conciliare le esigenze di vita con quelle lavorative e risponda a criteri di ragionevolezza» recita l'articolo. Un passaggio che, dice Alessandrucci, potrebbe dar luogo a situazioni dubbie e probabilmente richiederà ulteriori aggiustamenti normativi.  Ci si dovrà tornare sopra perché anche questa «come ogni norma non è perfetta». Fuori dal ddl c'è per esempio il tema dell'equo compenso, «un argomento vastissimo su cui è richiesta l'intesa di tutte le parti in gioco» ricorda D'Errico. Per ora, aggiunge, «è come se fosse iniziata una sperimentazione: aspettiamo i dati e i feedback per capire se ciò che è stato approvato porterà i suoi frutti». Ilaria Mariotti   

Esperienza all'estero anche per gli apprendisti, la proposta degli eurodeputati socialisti

Sarà come un Erasmus, ma invece di essere combinato al periodo di studi, il progetto all'estero partirà nel mezzo di un contratto di apprendistato. Con l'idea di sviluppare le competenze – specie le soft skills – dei giovani impegnati in percorsi da apprendisti, un gruppo di eurodeputati ha lanciato un progetto pilota che promuova la mobilità transnazionale a lungo termine. Solo così si miglioreranno «le possibilità di inserimento nel mercato del lavoro e si rafforzerà il senso di cittadinanza europea». «Molte imprese si aspettano che i ragazzi imparino tutto in azienda, e non sempre capiscono l'importanza di una formazione maturata altrove» dice alla Repubblica degli Stagisti Brando Benifei, trentenne europarlamentare del Partito socialista europeo. Il modello è di nuovo la Germania, «dove esistono modelli simili in ambito interregionale, che stanno dando buoni risultati». Quello che ci si aspetta con un progetto simile è produrre risorse umane «migliori, più in gamba, più dinamiche, che abbiano appreso una nuova lingua». Inoltre «la proposta comprende anche i tirocini». Ma come funzionerà nel concreto questa sorta di Erasmus dell'apprendistato? La dote finanziaria del progetto messa a disposizione dalla Commissione europea è per ora piuttosto modesta, 2 milioni e 841mila euro. E a ogni percorso che riceva l'ok andrà un contributo «indicativo» – si legge nel comunicato – dai 300 ai 500mila euro, con cui finanziare l'intero soggiorno di più giovani, incluso lo stipendio del lavoratore espatriato. Ovviamente si tratta di un contributo che non sarà erogato ai singoli destinatari finali, cioè gli apprendisti, ma a organizzazioni intermedie riunite in consorzi internazionali di almeno due partner in due stati membri, le stesse che andranno poi a gestire gli scambi.La Commissione conta di finanziare da sei a nove progetti. Le aziende non dovranno infatti farsi carico dell'operazione (del tutto irrealistica sarebbe del resto una loro partecipazione finanziaria). Ma avranno l'obbligo – questo sì – di reinserire la risorsa una volta rientrata, come garantisce Benifei. A essere coinvolti nelle pratiche burocratiche saranno «centri per l'impiego o anche associazioni e società private già impegnati in attività di formazione professionale» chiarisce lui. Ma trattandosi di un progetto pilota, «non è quantificabile al momento quanti saranno gli apprendisti coinvolti: l'iniziativa parte proprio per testare la domanda sul campo». Si parte però dal dato di una rilevazione, in base alla quale «il 74% degli apprendisti vorrebbe svolgere un'esperienza all'estero di lungo termine». E lo scopo è arrivare a aprire l'accesso a quanti più possibile. Per questi soggetti è stata aperta una call – chiusa a fine marzo – con la richiesta di inviare proposte. Ancora non si conosce l'esito: «Adesso che sono state raccolte tutte le domande attendiamo che la Commissione selezioni i centri che hanno risposto in modo migliore». Per gli incaricati – che dovranno occuparsi di «identificare i candidati e la corrispondenza dei loro profili con le aziende ospitanti, oltre a curare gli aspetti concreti legati al soggiorno» – è prevista l'applicazione di un regime di cofinanziamento. La copertura dei fondi Ue arriva infatti fino all'85% mentre il restante 15 è a carico dell'intermediario, «che a sua volta potrà avere un accordo con l'azienda ospitante di compartecipazione» specifica Benifei. E inoltre la Commissione si riserva il diritto di non erogare l'intero fondo disponibile. Un compito non facile quello di chi opererà da mediatore, con aziende mediamente restie «a mandare i propri apprendisti all'estero per lunghi periodi, in particolare le pmi, che molto investono su di loro» si legge nel comunicato. Una scarsa fiducia che l'iniziativa del gruppo di eurodeputati vorrebbe invece invertire, puntando soprattutto su quei giovani impegnati in percorsi di Istruzione e formazione professionale tra cui – è scritto ancora – «è stato individuato un 'collo di bottiglia' proprio nella scarsa mobilità transnazionale». A differenza del programma Erasmus, che invece «ha rappresentato un fattore cruciale per l’inserimento nel mercato del lavoro (e per lo sviluppo della cittadinanza europea) per milioni di studenti universitari europei».Quanto agli ambiti interessati, «saranno soprattutto quello con un certo grado di creatività come il mondo della moda, della produzione oggettistica o le aziende del comparto digitale» esemplifica Benifei. Tutti settori in cui «possa tornare utile l'esperienza del lavoratore all'estero». Per ora però il progetto è solo ai blocchi di partenza. La road map prevede che la valutazione delle proposte provenienti dai vari centri da parte della Commissione vada avanti fino a fine maggio. A giugno inizieranno poi le comunicazioni con i soggetti vincitori, ma non sarà prima di luglio che la sperimentazione partirà davvero. Ilaria Mariotti 

Dalla parte degli artisti (e non solo): lavorare con tutele e garanzie è possibile

«Cosa fai nella vita?», «Sono un musicista». «Ah, e di lavoro cosa fai?». Questo scambio di battute forse a qualcuno non suonerà nuovo: gli artisti fanno spesso fatica a vedersi riconosciuti come lavoratori, spesso indotti in una spirale di lavoro nero e sottopagato, senza garanzie né inquadramenti, e soprattutto senza sapere come gestirsi dal punto di vista contributivo, assicurativo e burocratico. SMart – acronimo di Società mutualistica per artisti – è nata per rispondere ai loro bisogni, offrendo servizi per aiutarli a strutturare meglio il proprio lavoro ed evitare di trovarsi in una condizione di fragilità costante rispetto ai committenti. Il progetto ha preso vita a Bruxelles nel 1998 e, da cooperativa rivolta inizialmente ad artisti, ha presto abbracciato anche altre categorie: oggi, oltre a musicisti, attori, acrobati e tecnici, SMart tutela anche tutti quei “nuovi” lavoratori come traduttori, giornalisti, informatici, consulenti, formatori e altri freelance che sempre più costellano il mondo del lavoro e per i quali un'assunzione come lavoratori dipendenti è impraticabile, ma che nemmeno appartengono alla categoria degli "imprenditori" così come è stata pensata dal legislatore. SMart offre servizi e figure specializzate per l’inquadramento da un punto di vista contrattuale, basato su un modello flessibile di fatturazione e assunzione con tutela dei tempi di pagamento; in Belgio conta ormai più di 70mila soci. Dal 2015 è attiva anche in Italia, con sedi  a Milano e a Roma e 600 affiliati; l'anno scorso ha fatturato 800mila euro. SMart propone così una terza soluzione rispetto al sistema del lavoro dipendente o a partita Iva, poiché assume il lavoratore per i giorni relativi alla prestazione e assicura il pagamento a 30 giorni, ogni 10 del mese. Attraverso la partita Iva di SMart il lavoratore può fatturare al committente, versando tutti i contributi del caso e potendo così usufruire di tutte le tutele previdenziali, di maternità, pensione e disoccupazione del lavoratore dipendente, unendo flessibilità e autonomia. SMart si occupa di tutte le dichiarazioni fiscali, previdenziali e assicurative, fornisce assistenza e tutela ai soci sotto qualsiasi aspetto, compreso quello legale, e offre servizi secondari come eventi, formazione, leasing per artisti, microcredito, spazi di coworking e anche una collezione d’arte contemporanea.In termini di costi, SMart preleva una percentuale pari all’8,5% del fatturato di ogni socio per coprire i costi di gestione e per tutelare i tempi di pagamento, e ciò che avanza dal contributo è reinvestito in progetti a sostegno di tutti. Per iscriversi è sufficiente compilare un modulo via email, il costo dell'iscrizione è di 50 euro (scalabili dalla prima retribuzione), e da quel momento per ogni ingaggio basta contattare SMart, comunicando i dati del committente per poter fatturare e i giorni in cui si lavora. Il socio ha la garanzia di essere regolarmente  assunto con fattura al committente, di avere tutte le dichiarazioni del caso e di essere pagato al netto, senza bisogno di occuparsi di altro e senza necessità di ingaggiare un commercialista.Cosa ne dicono i soci? «Io mi trovo molto bene» dice alla Repubblica degli Stagisti il 27enne torinese Andrea Cerrato, acrobata di circo contemporaneo, socio di SMart da settembre. «Mi sarei aperto una partita Iva oppure mi sarei messo in cerca una cooperativa, e chiedendo in giro mi è stato fatto il nome di SMart. Li ho chiamati, abbiamo fatto un colloquio su Skype per capire bene come funzionava e poi ho iniziato. Loro sono disponibili, quando ho un problema o non capisco qualcosa mi rispondono subito, è più conveniente rispetto ad altre cooperative e ho anche portato degli amici che fanno il mio stesso lavoro.» Anche Dario Garofalo, 42 anni, attore siciliano trapiantato a Roma, si dichiara soddisfatto: «Ho conosciuto SMart in Sicilia grazie a qualcuno che la conosceva, mi sono informato ed dall'anno scorso lavoro con loro, con buonissimi risultati e una grande libertà. Nel 2016 mi sono messo in proprio e cercavo qualcuno a cui appoggiarmi, non avendo registrato la mia sigla come società o altro. Ho trovato persone molto competenti che mi hanno aiutato sempre, sono molto disponibili e un investimento dell'8,5% che loro trattengono sul fatturato è veramente una cosa minima, perché per esperienze pregresse con altre compagnie so quanto costa una busta paga, un commercialista e tutto il resto.» L'aspetto migliore? «Mi hanno sgravato di tutti gli aspetti che appesantiscono chi si occupa di teatro e simili, perché sono gravosi, prendono molto tempo e in genere si è restii ad occuparsene, quindi si finisce per lavorare male e a nero. Così si riscopre il buon costume di lavorare con coperture assicurative e con le carte sempre in ordine, anche spendendo qualcosa in più, ma con la certezza che si sta lavorando per bene.»Per il momento, SMart non collabora con chi svolge professioni ad alto rischio e pericolosità, come ad esempio i tecnici delle luci, che lavorano in altezza, poiché queste prevedono accorgimenti formativi e assicurativi specifici, diversi quelli offerti tramite la formazione di sicurezza di base che ogni socio è obbligato a seguire. La flessibilità del modello, però, potrebbe consentire in futuro, in caso di richieste specifiche e in numero sufficiente, di prendere in carico anche categorie particolari. Per crescere e offrire servizi sempre più variegati ed efficienti ai suoi soci, SMart si avvale di numerose collaborazioni con altre organizzazioni legate al mondo dello spettacolo e del lavoro autonomo, dalle associazioni dedicate alla formazione, all'organizzazioni di eventi e al booking a quelle di tutela dei diritti a diverso titolo, organizzando formazioni ed eventi, come quelle sul crowdfunding e di comunicazione. Tra maggio e giugno la sede di Milano si trasferirà alla Fabbrica del Vapore dove, oltre al normale sportello informativo per rispondere alle domande dei soci,  verranno organizzate giornate di incontro con associazioni per freelance come Acta, agenzie di booking, esperti di comunicazione e altri.In Italia SMart sta crescendo a ritmi positivi, mentre in altri Paesi è già bene affermata: oltre al Belgio (72mila iscritti) è presente anche in Francia (10mila) e in Spagna, dove il progetto è nato contemporaneamente all'Italia e dove i soci sono già 2.500. Seppur in forma embrionale, il progetto ha raggiunto anche Svezia, Ungheria, Austria, Germania e Olanda. Inoltre, sempre più progetti sono internazionali sia nella composizione che nell’ambizione, contribuendo ad accelerare la crescita nei vari Paesi.Infine, tra le opportunità offerte da SMart è stata appena lanciata la seconda edizione del bando "SMart it up!" di sostegno alla produzione di progetti creativi. Dieci progetti saranno selezionati  da una commissione di esperti e avranno a disposizione 3mila euro ciascuno, di cui 1000 euro a fondo perduto e 2mila euro di anticipo in fase di produzione di un progetto creativo. Il bando, che riceve il sostegno della fondazione Cariplo, è aperto fino alle ore 24 del 29 aprile negli ambiti di teatro, danza, circo, performance, musica, video e fotografia (reportage) e le attività potranno realizzarsi in Italia e/o all’estero. Per maggiori informazioni, si può inviare una mail a info [at] SMart-it.org.Irene Dominioni

Pensioni ai superstiti: possono esserne beneficiari anche gli universitari under 26 fino alla laurea, ma solo se in corso

Nella malaugurata ipotesi che un giovane dovesse perdere un genitore in età da pensione oppure ancora lavoratore scatterebbe per lui una indennità previdenziale: la cosiddetta pensione ai superstiti – che diventa invece di reversibilità, qualora il soggetto deceduto stesse già percependo la pensione. La riconosce l'Inps (che però nella circolare che tratta la questione commette un errore, dando adito a problemi interpretativi); e insieme al principale istituto di previdenza italiano anche una lunga serie di casse professionali. Tra loro per esempio l'Inpgi, riservata ai giornalisti, la Cassa forense, la Cassa del Notariato, l'Enasarco dei rappresentanti di commercio. Esistono paletti ben precisi per l'accesso al beneficio e la Repubblica degli Stagisti ha voluto vederci chiaro a seguito della richiesta di un lettore tramite il forum. Scrive Nicolò: «Ho un dubbio che mi assilla da qualche tempo e vorrei risolverlo al fine di poter organizzare al meglio il mio stage curriculare, 450 ore obbligatorie secondo il mio piano di studi». Lui, beneficiario di una pensione di reversibilità, teme che l'inizio di un tirocinio possa farlo decadere dal diritto. La confusione nasce da una circolare Inps (la 185 del 2015), in cui si legge che «il tirocinio formativo e di orientamento non consente il mantenimento dello status di studente, con conseguente impossibilità di riconoscimento o proroga del diritto alla quota di reversibilità». Nicolò chiede quindi preoccupato: «Quando farò lo stage curriculare previsto e imposto dal mio piano di studi perderò il mio diritto alla pensione di reversibilità? Anche se dovesse essere a titolo gratuito?». La premessa è che quella di Nicolò è una situazione tutt'altro che isolata. Solo per l'Inps i titolari di un sussidio pensionistico – causato dalla morte di un genitore o di un altro parente di cui risultassero a carico – nella fascia dai 20 ai 29 anni sono stati nel 2015 circa 30mila (su un totale nello stesso anno di 4,4 milioni di percettori di redditi da pensioni ai superstiti secondo l'Istat). Se si guarda ai minori tra i 10 e i 19 anni si arriva a oltre 70mila casi. Cifre che poi com'è ovvio salgono esponenzialmente a partire dai 55 anni, quando i beneficiari dell'indennità saranno con più probabilità i coniugi (e non i figli) superstiti. Con importi variabili a seconda di come è composto il nucleo familiare: la pensione sarà pari al «70 per cento se è presente solo un figlio; all'80 in caso di coniuge e un figlio oppure due figli senza coniuge; al 100 per cento se oltre al coniuge vi sono più di due figli» spiegano sul sito Inps. Decisamente meno - il 15 per cento - andrà agli altri parenti per cui subentri il diritto. Ma quali sono i requisiti per essere ammessi al beneficio? Come specificato, questa tipologia di prestazione «è erogata, a domanda, in favore dei familiari del pensionato (pensione di reversibilità) o del lavoratore (pensione indiretta)». Oltre al coniuge, o altri parenti come i nipoti (nel caso fossero a carico di un nonno deceduto), il sussidio scatta anche per i figli che «alla data della morte del genitore siano minori, inabili di qualunque età, studenti entro il 21esimo o 26esimo anno di età se universitari e siano a carico dello stesso». E si è a carico – chiarisce ancora l'Inps – quando si è in condizione di insufficienza economica «e il reddito individuale del superstite non supera l’importo minimo della pensione maggiorato del 30 per cento». Particolare rilevanza assume l'eventualità che il superstite convivesse con la persona deceduta, che a sua volta, per garantire la quota a chi sopravvive, deve aver versato un minimo di «780 contributi settimanali di cui almeno 156 nel quinquennio antecedente la data di decesso». E per Nicolò, assicurano dall'ufficio stampa dell'Inps, nessun problema. La circolare restringe l'effetto della sospensione del beneficio agli stagisti solo per chi è già laureato. Il criterio non è infatti la presenza o meno di un rimborso spese nel corso del tirocinio, «ma il fatto che avvenga prima o dopo la laurea» chiarisce Emanuele Dose, addetto stampa dell'istituto. Insomma, i tirocini curriculari sono ok, quelli extracurriculari no. Peccato però che questo aspetto non venga ben specificato nella circolare Inps, in cui al punto 4.6 si parla di "Studenti laureati che accedono a un tirocinio", salvo poi all'interno paragrafo fare riferimento alla generica dicitura "Tirocini formativi e di orientamento", che ricomprende entrambe le tipologie di stage, sia quelli inclusi nel percorso di studi che quelli successivi. Un'inesattezza da parte dell'Inps che potrebbe essere costata cara a qualche studente, che magari - leggendo la circolare - può aver pensato bene di rinunciare a un tirocinio curriculare per timore di perdere la pensione a cui aveva diritto.  E invece «Tutto quello che viene fatto prima non rileva ai fini della continuità della pensione ai superstiti» aggiunge Dose; con un'unica eccezione: «Sarebbe diverso il caso per esempio di quei tirocini propedeutici all'iscrizione a un albo professionale. Quelli determinano la fine del beneficio perché sono finalizzati al lavoro». Ma qui si sconfinerebbe in un ulteriore diverso tipo di tirocini, quelli per l'accesso alle professioni regolamentate - i cosiddetti praticantati. L'importante, invece, per continuare a percepire il sussidio è «essere in corso con gli esami». Ilaria Mariotti  

Wannabe expat? Vademecum dei siti utili per chi vuole trasferirsi all'estero

Sono sempre di più i giovani italiani che decidono di trasferirsi all’estero per intraprendere esperienze di studio o di lavoro, per periodi più o meno lunghi. Secondo un recente studio, su quasi 5 milioni di connazionali registrati all'estero, il 36,7% ha tra i 18 e i 34 anni. L'esodo giovanile avviene per i più svariati motivi, ma una cosa è certa: per farlo ci vogliono coraggio, testa sulle spalle, apertura mentale e, idealmente, un po’ di conoscenza della lingua e della cultura locali. Internet è una grande risorsa per reperire le giuste informazioni in previsione della partenza, dell’arrivo e della permanenza, così da rendere l’esperienza all’estero una scelta positiva per il proprio percorso personale e professionale. Ecco una piccola guida su alcune delle principali risorse disponibili online per orientarsi nel mondo degli expat, tenendo a mente che non tutte le mete sono necessariamente a misura di un giovane “viaggiatore” in cerca di un contesto che valorizzi la sua identità e le sue competenze.La prima, importante distinzione va fatta sulla destinazione: fra la scelta di trasferirsi all'interno dell'Unione Europea oppure in un Paese extraeuropeo intercorrono una serie di questioni burocratiche su cui è bene informarsi con cura. I visti, per esempio, non sono tutti uguali: alcune nazioni rilasciano visti a specifiche categorie di viaggiatori (come quelli turistici o d'affari), alcuni sono validi solo per pochi giorni, altri invece per diversi mesi, per un solo ingresso o per ingressi multipli. Anche i costi e la procedura sono variabili: per le informazioni più affidabili e aggiornate, è bene prima di tutto consultare il sito dell'ambasciata del Paese di destinazione. Anche il portale Viaggiare Sicuri del Ministero degli Affari Esteri italiano è una buona risorsa per ottenere informazioni di carattere generale sui documenti da ottenere, mentre il sito del Ministero della Salute offre una guida per l'assicurazione sanitaria all'estero. Infine, sul sito Dove siamo nel mondo è possibile comunicare alla Farnesina la propria destinazione in modo da pianificare meglio eventuali interventi di soccorso.  Per chi rimane in Europa, una buona prima mossa è quella di consultare la normativa e i propri diritti nell’ambito della mobilità nella pagina dedicata sul sito dell’Unione Europea, così come quella sui documenti di viaggio. A chi è ancora indeciso sul tipo di esperienza da intraprendere, il programma Erasmus Plus offre opportunità sia di formazione che di lavoro ed è estensivo e ben strutturato: basti pensare che ben 57.832 italiani ne hanno usufruito nel 2014. Inoltre, Finanziamentidiretti è un progetto del Dipartimento di Politiche Europee in collaborazione con l’Istituto Europeo di Pubblica Amministrazione (EIPA) attraverso cui si possono identificare programmi per studiare o svolgere tirocini all’estero, ma anche iniziative per favorire la mobilità dei giovani che vogliono creare un’impresa o che ne dirigono una. I fondi sono disponibili nei settori di Formazione, istruzione e mobilità (Erasmus Plus), Cittadinanza (Europa per i cittadini), Ambiente (Life Plus) e Cultura (Europa Creativa). Se siete alla ricerca di lavoro, il Dipartimento Politiche Europee può essere utile per approfondire il discorso del riconoscimento delle qualifiche professionali all’estero attraverso strumenti come la Tessera Professionale Europea. Oltre alle risorse strettamente Ue, esistono altri siti molto validi per cercare opportunità all’estero. Studyineurope.eu, Mastersportal.eu e Scholarship-positions.com sono siti per la ricerca di programmi di studio, così come borse per master e dottorati. Su Mladiinfo.eu si possono trovare conferenze e corsi di formazione, offerte di lavoro e stage, borse di studio e concorsi, mentre Euractiv Jobs propone posizioni aperte e tirocini nell’ambito dell’Unione Europea. A livello anche extra-continentale, Graduateland.com consente di impostare una ricerca per parola chiave e per destinazione. Se invece vi interessa più semplicemente un’esperienza internazionale, Scambi Europei è particolarmente incentrato sugli scambi interculturali, il Servizio Volontario Europeo (Sve) e l’au pair. Infine, sul sito dell'Agenzia Nazionale Giovani si trovano notizie su opportunità, bandi, concorsi ed eventi vari per i giovani. Per ottenere informazioni specifiche su un dato Paese o città in termini culturali, sul costo della vita e altro, di solito i portali di informazione turistica locali offrono un buon numero di informazioni, ma esistono anche siti dove trovare risorse più generali. Expatinfodesk è ideale per le mete anche fuori dall’Europa e offre vere e proprie guide sulle destinazioni con tutte le informazioni sul trasferimento all’estero, oltre ad un forum per condividere dubbi e richieste. Su Expatica è possibile trovare notizie locali e informazioni di base sulla vita e il lavoro in alcuni Paesi europei (Belgio, Francia, Germania, Portogallo, Spagna, Paesi Bassi, Regno Unito), mentre con Internations si entra a far parte di un network di expat nella città estera, con eventi organizzati per conoscere altri internazionali in 390 città del mondo e l’aggiunta di informazioni e consigli sulla destinazione. Fra i siti in italiano, Mollotutto propone perfino seminari sul trasferimento e Voglio Vivere Così, disponibile anche in versione World, offre una visione dell’estero attraverso racconti di expat in tutti i continenti e guide e-book. Suddiviso per regioni e Paesi, Mollare Tutto può essere utile se si cercano informazioni generali sulla cultura della destinazione prescelta, mentre su Italians In Fuga si segnala in particolare la pagina contenente un elenco di agenzie governative per il lavoro in un buon numero di Paesi. Per assicurazioni e siti web dove cercare casa all’estero, Cambiare Vita è essenziale e ben costruito.Tra le pagine Facebook dedicate agli italiani all'estero si trova di tutto sia per città che per Paese. I gruppi possono essere pubblici o chiusi e rappresentano una ricca fonte di informazioni, anche se purtroppo spesso disordinata. L’aspetto più degno di nota è l’opportunità di aggregazione con altri italiani all’estero, ma occorre fare attenzione, poiché il rischio di truffe è alto: per offerte di vario genere, dal lavoro alle case in affitto, meglio fare riferimento ad altri siti. Tra le pagine più popolose, Italiani a Londra, con oltre 34milamembri, Italiani a Bruxelles (20mila) e Italiani a Parigi (13mila). Irene Dominioni

«Diamo voce ai papà», ma il congedo di paternità è ancora troppo breve

Mancano pochi giorni alla festa del papà e per l'occasione c'è chi ha fatto il punto sul suo ruolo nell'ambito della conciliazione vita-lavoro attraverso la campagna nazionale «Diamo voce ai papà», i cui risultati sono stati presentati l'altroieri a Montecitorio. La campagna – condotta da Piano C, importante spazio di coworking in Italia, su abitudini, modelli, gestione della famiglia e dell'attività professionale di oltre 1.500 padri e caratterizzata anche da un sondaggio – ha restituito una fotografia tutto sommato serena: 6 papà su 10 ritengono che la paternità non abbia comportato un ridimensionamento delle proprie carriere e ambizioni professionali, e che in qualche modo gli abbia aperto la mente.Uno degli elementi centrali è un tema tornato di recente al centro del dibattito sulla legislazione legata alle politiche a sostegno della famiglia: il congedo di paternità, ossia i giorni di astensione obbligatoria dal lavoro stabiliti dalla legge Fornero nel 2012 – uno obbligatorio e due facoltativi. Il congedo ha riscosso un enorme consenso: il 70% dei papà, anche come futuri papà di altri figli, trova molto apprezzabile che esista questa possibilità, e addirittura 8 su 10 sceglierebbero la possibilità di un congedo di paternità obbligatorio di almeno 15 giorni. Che cosa prevede la situazione in materia? Il nuovo anno si è aperto con qualche passo in avanti. La legge di Bilancio 2016 ha confermato i due i giorni di astensione obbligatoria dal lavoro già stabiliti per il 2016, cui se ne aggiungono due facoltativi in sostituzione della madre, da fruire entro i cinque mesi dalla nascita del figlio.La vera novità prevista dalla legge di bilancio è che a partire dal prossimo anno i giorni obbligatori di astensione dal lavoro per i padri passeranno da due a quattro. I giorni di congedo sia obbligatorio che facoltativo sono retribuiti al 100%. Il congedo, come specifica l'Inps, vale per i padri lavoratori dipendenti, anche adottivi o affidatari, e può essere richiesto via web attraverso i servizi online del sito dell'Istituto di Previdenza, tramite il contact center dedicato o i servizi offerti dai patronati.Una novità che va in continuità con il percorso avviato nel 2012. Si trattava di un passaggio non di poco conto: se il congedo parentale già esiste da tempo e consiste nell'astensione facoltativa dal lavoro fino all'ottavo anno di età del bambino per un periodo di tempo continuativo o frazionato e una retribuzione al 30% dello stipendio, l'introduzione di quello di paternità ha permesso in qualche modo al nostro Paese di recuperare rispetto ad altri paesi d'Europa, dove era già presente. Non solo quelli scandinavi, ma anche realtà come quella francese o spagnola dimostrano di essere più avanti rispetto a noi. In Spagna, ad esempio, sono 15 i giorni di congedo di paternità, completamente retribuiti. Non esiste al momento invece una legislazione comune in ambito europeo sul tema.I dati tra l'altro dimostrano che, dal 2013, anno successivo alla sua introduzione, i congedi sia obbligatori che facoltativi sono progressivamente aumentati: nel primo caso si va dai circa 50mila del 2013 agli oltre 72mila del 2015. Nel secondo dai circa 5.400 del 2013 ai circa 9.500 del 2015. Al contrario la somma dei congedi di maternità e paternità obbligatori per lavoratori dipendenti del settore privato è scesa dai circa 216mila del 2012 ai circa 195mila del 2015 (dati Inps).Oltre un terzo del totale dei congedi obbligatori è stato quindi fruito dai padri. Sul sito dell’Inps non sono ancora disponibili i dati relativi al 2016 per cui non è possibile fare un confronto con l’anno che ha introdotto l’aumento a due giorni obbligatori.Quali sono i costi? Titti Di Salvo, parlamentare ed ex sindacalista, da tempo si occupa di questi temi: «Ogni giorno obbligatorio di congedo di paternità costa 10 milioni di euro alle casse dello Stato, mentre quello facoltativo 1,3. Il congedo di maternità obbligatorio è previsto per un periodo decisamente più lungo, 5 mesi, e alla lavoratrice viene corrisposta un'indennità dell'80% dello stipendio che, a seconda dei contratti, può arrivare al 100%». I dati Inps relativi al 2015 parlano di una spesa complessiva di 2 miliardi e 523 milioni di euro per tutti i trattamenti economici di maternità.Il gap va ancora recuperato rispetto al resto d'Europa. Non a caso il presidente dell'Inps Tito Boeri ha lanciato qualche mese fa la proposta di portare a 15 i giorni di congedo di paternità obbligatori, in un'ottica di maggiore uguaglianza tra uomo e donna nella gestione della vita familiare. Questa proposta è stata anche oggetto di un disegno di legge a firma, tra gli altri, della Di Salvo. La parlamentare PD ha commentato positivamente le nuove disposizioni: «Penso che la prospettiva del 2018 dia stabilità e consolidi la norma. Fino ad ora infatti ogni anno bisognava, nella legge di bilancio, ripartire da zero perché i giorni di congedo di paternità erano previsti solo in via sperimentale. La presenza invece di quattro giorni obbligatori nel 2018 più uno facoltativo da una prospettiva di lungo termine alla norma e ci da la possibilità di non ripartire sempre da zero». A proposito della proposta di legge, spiega che «insieme a Valeria Fedeli abbiamo depositato, alla Camera e al Senato, una proposta di legge che punta ad ottenere 15 giorni di congedo di paternità obbligatorio remunerato al 100%. La proposta prende spunto dagli esempi virtuosi che ci arrivano da molti Paesi europei, in cui le responsabilità delle cura dei figli spettano tanto alle mamme quanto ai papà. Crediamo che questa misura possa avere molte ricadute positive: una divisione più equa del lavoro di cura all'interno della famiglia può dare ai papà la possibilità di essere più presenti, migliorando il rapporto padre-figlio anche in prospettiva distribuire più equamente le responsabilità familiari e quindi liberare tempo per le donne che possono, ad esempio, rientrare nel mondo del lavoro con più facilità; dare un segnale al mondo del lavoro stesso, per cui le responsabilità familiari non saranno più un fattore discriminante nel momento in cui si deve scegliere fra assumere una donna o un uomo, perché entrambi prenderanno in carico equamente quelle responsabilità. Inoltre è anche una misura che favorisce la crescita economica e l'uscita dalla crisi poiché favorisce l'occupazione femminile che a sua volta stimola ulteriore domanda di lavoro - servizi, ristorazione e così via. La Banca d'Italia ad esempio stima che questo processo potrebbe portare ad un aumento del 7% del Pil». Al momento si tratta però solo di una proposta. La realtà è che siamo ancora parecchio indietro «rispetto ai Paesi nordici, all'avanguardia in tema di politiche di condivisione delle responsabilità genitoriali. Abbiamo anche un grande gap rispetto al tema dell'occupazione femminile», conclude Di Salvo, «per cui siamo maglia nera in Europa ma che proprio in questi anni ha registrato, invece, un'inversione di tendenza. C'è ancora tanto da fare, per noi questa è una priorità».Chiara Del Priore