La professione medica non è più un’isola felice. O almeno non lo è per tutti. I “fortunati” che riescono a superare il primo scoglio della selezione per diventare medici sanno che la strada sarà ancora in salita. Una volta laureati e abilitati, non hanno infatti la certezza di accedere a una borsa di specializzazione e potrebbero gravitare a lungo nel mondo del precariato, tra guardie mediche e turni anche a 3,50 euro l’ora.
Nel 2018, nonostante il fabbisogno di medici specialisti stimato dalla Conferenza Stato Regioni ammontasse a 8.569 unità, sono stati finanziati e messi a bando solo 6.934 contratti per le 54 scuole di specializzazione di area medica, a fronte dei 16.146 concorrenti. Per non parlare del corso di formazione specifica in Medicina generale, dove sono state finanziate 2.128 borse di studio, a fronte del fabbisogno stimato dalla Conferenza Stato Regioni di 10mila unità.
Ma come si è arrivati a questa impossibilità da parte di più di un terzo dei medici abilitati di proseguire, almeno fino alla selezione dell’anno successivo, il percorso formativo? «La causa dell’imbuto formativo attuale è in una politica miope» denuncia alla Repubblica degli Stagisti Maria Teresa Petti, specializzanda al secondo anno in Genetica medica, membro del Comitato nazionale aspiranti specializzandi (Cnas) e vice coordinatrice del Dipartimento per l’accesso alla formazione post laurea del Segretariato italiano giovani medici: «Una politica che ha sostenuto negli anni l’incremento dei posti disponibili al test di accesso al corso di laurea in Medicina e chirurgia senza che a questo corrispondesse il finanziamento di un numero adeguato di contratti di formazione post laurea».
Come si può rimediare? «Chiediamo una programmazione lungimirante che stimi con precisione chirurgica la quantità, ma anche la tipologia di specialisti necessari per rispondere alle esigenze emergenti della popolazione, quali l’aumento delle patologie croniche, quindi che non si basi soltanto sullo sterile dato dei futuri pensionamenti» risponde Petti: «Per la formazione di ciascuno studente di Medicina vengono spesi dallo Stato circa 120mila euro, pertanto una corretta programmazione permette di non vanificare un investimento così consistente».
A tal proposito un segnale positivo è arrivato da un emendamento del Dl Semplificazioni, che ha stabilito che il ministero della Salute dovrà definire una metodogia per determinare il reale fabbisogno di personale da parte degli enti del Servizio sanitario nazionale e quindi le figure necessarie ad assicurare il diritto dei cittadini all'assistenza medica. Da un lato infatti ci sono tanti giovani medici che scalpitano per completare l’iter formativo, dall’altro svariate specialità in forte carenza di personale, come Medicina interna, Pediatria, Anestesia e rianimazione e soprattutto Medicina d'emergenza e d'urgenza. Un’occupazione tra le più usuranti, in cui si arriva anche a otto turni notturni mensili, e alla quale non corrisponde un compenso adeguato.
«La soluzione può essere solo una: aumentare le borse di specializzazione e i contratti di formazione riservati ai già dipendenti del Servizio Sanitario nazionale» sostiene Lucilla Crudele, segretaria del Dipartimento Specializzandi del Segretariato italiano giovani medici (Sigm) e specializzanda al II anno in Medicina d’emergenza e urgenza: «Anche perché studi dimostrano che una figura specializzata migliora la gestione dell’emergenza e assicura una degenza post triage con standard molto più elevati».
Se il test di specializzazione unico a livello nazionale ha rappresentato un importante passo avanti per gli aspiranti medici, anche in termini di trasparenza delle selezione, ora le associazioni propongono un ulteriore step.
«Siamo stati i primi a chiedere al ministero della Salute, attraverso una proposta inviata lo scorso settembre, di unificare il test per le scuole di specializzazione e il test per il corso di formazione specifico in Medicina generale» racconta Giorgio Sessa, vicepresidente del Consiglio esecutivo del Segretariato italiano giovani medici con delega alla medicina generale «evolvendola a disciplina accademica, con l’istituzione della Scuola di specializzazione in Medicina generale, di comunità e cure primarie, sul modello dell’università di Modena».
L’unificazione permetterebbe anche di evitare in parte il fenomeno dell’abbandono di borse – ad esempio per chi accede alla specializzazione desiderata al tentativo successivo e abbandona il percorso – e la conseguente perdita di fondi stanziati per la formazione post laurea.
Oggi quello in Medicina generale rappresenta infatti un percorso a parte, gestito dalle Regioni e dai sindacati, e con un trattamento economico ben differente. Se uno specializzando percepisce infatti 1.600 euro per i primi due anni e 1.730 per i successivi, chi si indirizza verso la Medicina generale ne riceve circa 900. «La formazione in Medicina generale non forma adeguatamente una figura fondamentale come quella dei medici di famiglia» lamenta Sessa «anche perché a distanza di quasi trent’anni dall’istituzione del corso non esiste un documento in cui sia scritto cosa deve imparare un medico di famiglia».
Nella situazione attuale sono tanti i medici italiani che si trasferiscono all’estero: oltre 10mila hanno lasciato il paese tra il 2008 e il 2018. Per dare un punto di riferimento a chi decide di continuare il percorso all’estero un utile riferimento è il sito Doctors in fuga. E intanto la popolazione medica qui invecchia: secondo i dati Eurostat un medico su due ha oltre 55 anni.
Chi resta nel “limbo” tra abilitazione e specializzazione è spesso costretto ad accettare condizioni di lavoro mortificanti. Per contrastare questo fenomeno a novembre 2017 è nato il gruppo Facebook “Giovani medici anti sfruttamento”, oggi affiliato all’Associazione liberi specializzandi Fattore 2a.
«Tutto è partito dall’esigenza di combattere la solitudine di ogni libero professionista del settore» spiega alla Repubblica degli Stagisti la portavoce Lucrezia Trozzi, 26 anni, specializzanda al II anno in Otorinolaingoiatria, che ha raccontato la sua storia anche in un videoreportage di Riparte il futuro: «Nel nostro settore l’onorario non lo decidiamo noi, ma il soggetto a cui prestiamo servizio: dalla clinica privata alla società sportiva alla ditta di ambulanze. E noi ci adeguiamo per inesperienza e rassegnazione».
Tante le testimonianze raccolte in questo primo anno dal gruppo Facebook chiuso, in cui sono ammessi solo i medici: «Parliamo di turni di 12 ore a 3,50 euro lordi in cliniche private che per la degenza chiedono migliaia di euro, o di sette euro l’ora per presidiare competizioni sportive con grandi afflussi di persone e dove può succedere di tutto, o ancora di offerte per un ruolo di direttore sanitario a duecento euro come mero “presta-nome”», prosegue Trozzi: «Anche se questi sono casi limite, la "normalità" per le partite Iva si attesta comunque sui 7-10 euro».
Tra le segnalazioni inviate dai giovani medici spicca l'offerta di lavoro per un presidio medico durante un soggiorno estivo per minori in Umbria. «Richiesta disponibilità di 24 ore, per due settimane. Compenso di circa 3 euro all'ora»: questa la risposta che è stata data a un giovane medico che aveva chiesto maggiori dettagli sull'incarico.
Anche se il decreto Bersani nel 2006 ha vietato i tariffari minimi e varie categorie come odontoiatri e avvocati hanno provato inutilmente a introdurlo, il gruppo ha stilato un tariffario “ideale” di riferimento per le prestazioni dei medici. Qualche esempio: 35 euro l’ora per turni automedica e 118, 25 euro l’ora per i turni in cliniche private, tra i 20 e i 30 euro l’ora per i presidi agli eventi e tra i 20 e i 70 per le competizioni sportive. 22 euro l’ora è invece la tariffa indicata da convenzione statale per le sostituzioni di medicina generale e per le guardie mediche.
Insomma, c’è urgente bisogno che il passaggio dal mondo della formazione a quello del lavoro sia riorganizzato e razionalizzato per andare incontro sia al diritto alle cure dei pazienti sia all’esigenza di (buona) occupazione dei giovani medici.
Rossella Nocca
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