Donne italiane ai margini dell'occupazione: pochi servizi per l'infanzia e troppo lavoro domestico
Le donne italiane annaspano nel tentativo, a volte impossibile, di conciliare lavoro e vita familiare. Lascia poco spazio all'ottimismo la fotografia della condizione femminile nel nostro Paese scattata dalla rivista accademica Economia italiana nel numero monografico 'Gender gaps in Italy and the role of public policy' presentata un paio di settimane fa a Roma nella sede di Bankitalia. A farne le spese è l'occupazione, scarsa, della popolazione femminile: «Nel 2018 il tasso di occupazione europeo era pari al 73,8 per cento per gli uomini contro il 63,3 per cento delle donne» si legge nella sezione curata da Francesca Barigozzi, ricercatrice di Scienze economiche dell'università di Bologna. Ma in Italia il tasso di impiego delle donne è fermo al 49,5 per cento, non raggiungendo neppure la metà del totale, «contro il 67,6 per cento degli uomini e con uno scarto di ben diciotto punti». Per Barigozzi la controprova dell'esclusione delle donne dal mercato del lavoro è data dal numero di chi ha sì un lavoro part time, ma non per scelta bensì «involontario». Vi rientra «il 60,8 per cento delle donne occupate, quasi tre volte il 22 per cento della media europea». Allo stato di emarginazione delle donne contribuisce un certo tipo di mentalità tutta nostrana, che delega loro tutte le incombenze riguardanti casa e famiglia. Anche qui i dati sono inequivocabili perché è proprio 'l'altra metà del cielo' a curare, quasi per intero, la casa, «dedicandogli un lavoro extra quantificabile in circa 30 ore settimanali, contro le sole otto degli uomini». E sono sempre le donne, in linea di massima, a convogliare più tempo anche sull'accudimento dei figli. Con un dislivello tra uomini e donne che decresce – per fortuna ma è una magra consolazione – con l'aumentare del grado di istruzione. A permanere è invece il gender gap «sui ruoli in famiglia e sulle opportunità che si presentano nel mercato del lavoro» conclude lo studio. Centrale è poi il tema dei figli, proprio perché la fase di fertilità delle donne coincide grossomodo con il momento di potenziale affaccio sul mercato del lavoro e l'inizio della crescita professionale. Come evidenzia Francesca Carta, ricercatrice della Banca d'Italia [nella foto a destra], da rilevare è l'esistenza di un fenomeno conosciuto come 'child penalty', vale a dire una penalizzazione dal punto di vista professionale che per le donne deriva dalla maternità. E che arriva su un doppio fronte: il primo è successivo all'arrivo di un figlio, «e gli effetti si misurano in termini di riduzione di ore lavorate, salario e tasso di occupazione in generale come conseguenza dell'impegno domestico scaturito dalla presenza di un figlio». Ma la 'penalità' è addirittura precedente alla decisione di mettere su famiglia, «perché le donne sono spinte a preferire tipologie di carriere che consentano di conciliare più facilmente la vita lavorativa con quella familiare». A peggiorare il quadro è la mancanza di servizi o la loro inefficace erogazione. «Nel nostro Paese nonostante la spesa pubblica sia elevata e non abbia niente da invidiare ai Paesi nordici più avanzati» sottolinea Carta, «la sua destinazione è per lo più indirizzata su pensioni e programmi per l'età avanzata». C'è poco per le famiglie, «solo il 7 per cento». Di qui la scarsa copertura di asili nido, e «quei bonus monetari frammentari, talvolta iniqui», in definitiva poco risolutivi. Ora la legge di Stabilità ha previsto uno stanziamento ulteriore a favore dei nidi che garantirà, a partire da gennaio, un rimborso delle rette fino a 3mila euro annui per Isee inferiori ai 25mila euro: purtroppo non la completa gratuità per tutti i nuclei familiari, come ventilato in un primo momento: un piccolo passo, ma non ancora sufficiente. Tra le donne disoccupate, rileva ancora lo studio di Carta, «ben il 15 per cento dichiara di non aver neppure cercato occupazione per mancanza di servizi per l'infanzia, o per la loro costosità o inadeguatezza». Una soluzione per riequilibrare la condizione delle donne, secondo l'analisi, è quella di allungare il congedo parentale maschile, «ancora troppo corto rispetto a Paesi come la Spagna per esempio, dove arriva a quattro settimane», e che «consentirebbe agli uomini di cambiare abitudini». Passare «da cinque a dieci giorni» si scrive, «potrebbe contribuire a sradicare gli stereotipi di genere e per le donne a liberare tempo da dedicare al lavoro». C'è anche una concreta proposta politica sul tema al momento ed è quella lanciata dalla parlamentare Lia Quartapelle del Pd, insieme a altri politici di diversi partiti, e cioè Erasmo Palazzotto e Rossella Muroni di Leu, Paolo Lattanzio del M5S e Alessandro Fusacchia del Gruppo Misto. L'idea è estendere il congedo dei padri fino a tre mesi, coinvolgendo anche i dipendenti pubblici (oggi vale solo per i lavoratori delle aziende private). I cinque promettono di battersi sia in Parlamento che fuori, a partire da gennaio, affinché questa proposta si tramuti in legge. C'è poi un doppio paradosso a corollario della questione femminile italiana. Innanzi tutto, pur essendo le meno occupate, sono le più istruite («le laureate sono il 60 per cento del totale», afferma Ignazio Visco, governatore della Banca d'Italia [nella foto sotto] intervenuto in apertura del convegno). E poi, oltre a non potersi affermare come lavoratrici, le donne italiane faticano anche a diventare madri, con un tasso di fecondità pari a 1,29 figli per donna, così basso solo in Spagna e Malta. Per Visco la possibile spiegazione è «nell’asimmetria nella ripartizione dei compiti di cura, e nel conseguente peso del lavoro domestico». Perché è evidente che, come sottolineato da Paola Profeta, professoressa di Scienza delle Finanze all'università Bocconi ed editor della rivista, «dove gli uomini collaborano di più ci sono maggiori probabilità di avere un secondo figlio», un fatto essenziale per la questione demografica, altro tassello nero della nostra economia. Va cambiata la visione culturale, è il parere di Laura Cioli, ad del gruppo editoriale Gedi, secondo cui «occorre stipulare un patto familiare affinché tutto sia ripartito nella coppia non per generi ma per compatibilità con le tipologie di lavoro a seconda dei diversi momenti della vita». E soprattutto deve essere la politica a farsi carico della questione, è il grido di allarme lanciato da Profeta nell'editoriale della rivista, perché finora «le azioni concrete sono state poche e le risorse limitate». Alcune aziende stanno facendo da apripista: la società di consulenza Mercer, una delle aziende virtuose dell'RdS network, come spiega l'ad Marco Valerio Morelli «ha un meccanismo di bilanciamento interno per cui deve essere garantita una spartizione di ruoli al 50 per cento tra donne e uomini, altrimenti si risponde del perché non avvenga». Il merito e il talento delle donne vanno insomma finalmente riconosciuti, «il che pone anche un problema di chi valuta il merito stesso, che è quasi sempre costituito da una platea tutta al maschile» argomenta Fabiano Schivardi, professore di Economia alla Luiss: e per questo, a suo dire, «la migliore soluzione resta quella delle garanzia delle quote rosa». La partita da giocare per il futuro dell'economia italiana sta tutto nella partecipazione delle donne. Lo ha ricordato Visco nel suo intervento: «Per l’Italia la crescita potenziale prevista per i prossimi anni dipende fortemente dalle ipotesi circa la partecipazione femminile, che ne risulta un motore fondamentale». E le donne inattive sono attualmente in Italia oltre 8 milioni. Basta pensare che «secondo recenti stime la rimozione delle barriere all’accesso all’istruzione e al mercato del lavoro per le donne» ha suggerito Visco, «spiegherebbe oltre un terzo della crescita del reddito pro capite registrata tra il 1960 e il 2010 negli Stati Uniti».Ilaria Mariotti