Categoria: Approfondimenti

Le ripetizioni sono un business da 950 milioni: «Ma il nero azzoppa tutto il settore»

C'è un intero settore a essere azzoppato dal “nero”: quello delle ripetizioni private, un giro di affari che vale ben 950 milioni di euro. Di questi, «il novanta per cento sono in nero», appunto: lo dicono chiaramente gli ultimi dati Codacons in materia. Mauro Moretto, alla guida insieme al collega Andrea Bertola del sito Ripetizioni.it, conferma alla Repubblica degli Stagisti: «Centri ripetizioni e piattaforme online potrebbero creare posti di lavoro e valorizzare la qualità e la trasparenza». Invece subiscono la concorrenza sleale del sommerso perché questo tipo di prestazioni si svolge per lo più a domicilio, «e sono sia il docente che lo studente a preferire il nero». Moretto non ha però, purtroppo, numeri attendibili: «Ripetizioni.it è no profit, ed è nato sotto l'insegna della share economy, ante litteram: noi non facciamo alcune intermediazione, e non entriamo in alcun modo negli accordi economici tra studenti e tutor». Da qualche anno a pagare un contributo per acquistare visibilità sul sito «sono solo i docenti che vogliono evidenziare le proprie referenze», che rappresentano «una piccola percentuale rispetto ai 10mila utenti reali che registriamo». Su di loro «si basa il fatturato insieme alla promozione di alcuni centri specializzati nelle ripetizioni» perché «non si tratta di una vera e propria impresa, anzi i nostri introiti sono destinati a iniziative a sostegno dell'istruzione dei bambini». Il polso della situazione lo dà però il fatto che «in questi vent'anni abbiamo visto nascere a fianco di  Ripetizioni.it numerose piattaforme, anche internazionali, frutto di ingenti investimenti che di certo si giustificano solo con business plan molti ambiziosi» ragiona, «e che a loro volta non possono che riferirsi ad un mercato ritenuto ricco».  Sarebbe la metà degli studenti delle scuole superiori nel corso dell’anno a ricorrere alle ripetizioni, «con una media di due ore e mezzo di lezione a settimana» rileva ancora il Codacons. Un fenomeno che si osserva anche tra studenti delle medie e universitari. Con costi orari elevatissimi: mediamente, secondo l'istituto, 27 euro. Il Codacons ha anche calcolato i costi totali che hanno gravato sulle famiglie nel 2018 (e per quest'anno non ci sono state variazioni significative, fa sapere l'ufficio stampa). Per un intero anno scolastico si arriva a spendere circa 650 euro. Anzi, secondo i calcoli di Federconsumatori, «con una media di tre ore a settimana per cinque mesi l’anno la spesa a studente oscillerebbe perfino tra i 900 e i 1800 euro».A determinare il peso sul portafogli è il tipo di materia e la città. Greco è la disciplina più costosa, con una media di 30 euro a lezione. A Milano per esempio «per una lezione con un professore universitario di greco o latino si possono sborsare fino a 50 euro» secondo i dati Codacons. A Roma la tariffa oraria media è più contenuta, circa 25 euro, mentre al Sud si scende per esempio a 20 euro per Cagliari e 12 per Napoli.Cifre che evidenziano un mercato in buona salute, e che giustificano il proliferare di piattaforme, siti e gruppi Facebook dedicati alle lezioni private. Anche se, chiarisce Moretto, «funziona senz'altro di più il passaparola». Ed è così che diventa molto semplice evadere il fisco per un servizio che sfugge a qualsiasi controllo e potrebbe invece, se strutturato, dare una spinta all'economia. D'altronde «non esiste neppure una legge che regoli il mercato delle ripetizioni, e questo perché si tratta di un insegnamento che non dà luogo ad un titolo di studio riconosciuto dallo Stato» sottolinea il consulente del lavoro Enzo De Fusco alla Repubblica degli Stagisti.La soluzione per combattere il nero ci sarebbe: basterebbe «permettere alle famiglie di scaricare dalle tasse quanto spendono in lezioni private per i loro figli» prosegue Moretto. Così «in tanti vorrebbero la ricevuta». Anche i docenti poi avrebbero la loro opportunità di mettersi in regola: «Per chi fa ripetizioni saltuarie è sufficiente rilasciare una ricevuta per prestazione occasionale» spiega De Fusco.«Coloro che svolgono continuativamente questa attività possono invece aprire la partita Iva applicando il regime speciale agevolato fino a 65mila euro di ricavi». Per i docenti con cattedra esiste poi una norma a parte: «È entrata in vigore il 1° gennaio 2019 ed è riservata agli insegnanti di scuole di ogni ordine e grado» fa sapere De Fusco, inclusi quindi i docenti di scuole pubbliche – sempre e quando non via sia un esplicito divieto in tal senso da parte della scuola o università presso cui si insegna. «Questa norma prevede che sui compensi percepiti dai docenti per le lezioni private si applichi un’aliquota Irpef forfetaria del 15 per cento al posto anche delle addizionali comunali e regionali». Avrebbe senso allora inserire una nuova norma – auspica Moretto – «che fissi in una quota inferiore al 10 per cento la percentuale di spesa detraibile per le famiglie per le ripetizioni». Altrimenti «se i docenti pagassero il 15 per cento di flat tax, lo Stato ci rimetterebbe!».Il punto è però l'assenza totale di controlli e sanzioni. «Il lavoratore privato può svolgere un secondo lavoro a condizione che non sia in contrasto con l’attività del proprio datore di lavoro» commenta Giuseppe Buscema, consulente del lavoro, operando dunque in totale libertà e senza che nessuno possa obiettare alcunché se non attraverso un controllo fiscale. Le persone che danno ripetizione si dividono infatti grossomodo in due grandi tipologie. Vi sono gli studenti – spesso universitari, ma a volte anche semplicemente liceali – che sono particolarmente bravi in qualche materia e si offrono di fare ripetizione, spesso a prezzi bassi, a ragazzi un po' più giovani per poter tirare su qualche soldo: basti pensare allo studente di Ingegneria che per arrotondare si offre di dare ripetizioni di matematica a studenti di scuola media o delle superiori.E poi c'è un'altra tipologia: quella dei professori di scuola media o superiore o di università che danno ripetizioni per arrotondare, e che spesso sono formalmente dipendenti pubblici in quanto insegnano in scuole o università pubbliche. «Ai lavoratori pubblici è vietato di regola lo svolgimento di un secondo lavoro» chiarisce Buscema, a meno che «il rapporto di lavoro pubblico per cui hanno un contratto non sia part time con orario non superiore alla metà di quella a tempo pieno». Per i docenti con un part time le ripetizioni saranno quindi un'attività da portare avanti in parallelo con il lavoro principale, versando tasse e contributi attraverso l'apertura di una partita Iva agevolata. Ma anche qui difficilmente – per non dire mai – potrà  verificarsi che l'incontro tra insegnante di ripetizioni e ragazzo venga intercettato, potendo continuare a svolgersi in piena libertà (e in nero). C'è infine un dettaglio importante: il libero mercato non pone limiti nel privato, «ma nel caso di dipendente pubblico è necessaria anche un'autorizzazione amministrativa, che deve essere acquisita dal discente» fa notare De Fusco. Attenzione quindi, «perché se a svolgere la docenza è un dipendente pubblico non in regola anche gli studenti o le loro famiglie potrebbero potenzialmente incorrere in una sanzione». Che è pari al doppio degli emolumenti corrisposti a tenore del decreto legislativo 165/2001.  Ilaria Mariotti

Diritto allo studio, la legge di Bilancio promette 31 milioni in più: oggi solo uno studente su dieci riceve un supporto

Il diritto allo studio è un diritto garantito dalla Costituzione, che all’art. 34 individua nella borsa di studio lo strumento principale per il sostegno economico agli studenti  “meritevoli e privi di mezzi”. Questo diritto, tuttavia, è messo oggi continuamente in discussione. L’Italia si colloca secondo il Rapporto annuale Almalaurea – insieme a Belgio, Francia, Spagna e Irlanda –  tra i paesi europei in cui è molto elevata la quota di studenti che pagano le tasse universitarie e contemporaneamente è molto ridotta la quota di chi riceve una borsa di studio (Eurydice Commissione europea, 2018). I dati più recenti dell’Osservatorio Regionale del Piemonte per l’università e per il diritto allo studio universitario, riferiti all’anno accademico 2016/17, evidenziano che in Italia solo il 10,9 per cento degli iscritti risulta idoneo a usufruire della borsa di studio. Vale a dire più o meno 185mila studenti sul totale di 1 milione e 696mila iscritti alle università italiane.La scarsa erogazione di borse di studio rende gli studenti dipendenti dal supporto economico familiare e limita di fatto l’accesso all’educazione terziaria, in particolar modo alle categorie più svantaggiate. Ma le borse di studio rappresentano solo una parte del problema. Come sottolinea il documento “Università del futuro”, proposta di modello universitario sottoscritta dall’associazione nazionale studentesca Link, «investiamo lo 0,1 per cento del nostro Pil in diritto allo studio universitario e siamo l’unico paese ad avere la vergognosa figura dell’idoneo non beneficiario, lo studente che pur avendo pienamente diritto a una borsa o un alloggio non ne usufruisce per carenza di fondi». Gli “idonei non beneficiari” per l'anno accademico 2018/2019 sono stati 7.500. Negli ultimi anni innegabilmente la situazione è migliorata – nel 2013/2014 erano ben 46mila! – tuttavia non è ancora accettabile che chi è idoneo a un servizio al pari di qualcun altro non possa usufruirne.In particolare, esistono due tipologie di idonei non beneficiari: quelli che usufruiscono della borsa di studio e non dell'alloggio, per l'indisponibilità di strutture, e quelli che per assenza di fondi non ricevono né la borsa di studio né l'alloggio. I primi ricevono una borsa più alta se sono fuorisede e hanno firmato un contratto di affitto, più bassa se sono pendolari. Quanto alla parte non usufruita, se non erogata al momento “giusto” viene persa per sempre – lo studente idoneo non beneficiario non può nemmeno sperare, quindi, di ricevere la somma dovuta anni dopo a mò di risarcimento.Secondo l’indagine Almalaurea, in questo caso limitata ai laureati nel 2018, in Italia i servizi utilizzati (almeno una volta) sono stati: il prestito libri (38,7 per cento), la  ristorazione (36,6 per cento), le borse di studio (23,4 per cento) e l’alloggio (4,8 per cento). La ripartizione è differenziata geograficamente, ad esempio a beneficiare maggiormente delle borse di studio sono i laureati del Mezzogiorno (30 per cento). I laureati con borsa si dimostrano leggermente più intenzionati a proseguire gli studi, intraprendendo nuovi percorsi formativi di vario genere, rispetto ai non borsisti (67,1 contro 63,6 per cento). «Sono tante le regioni che non garantiscono la copertura totale delle borse. Tra le situazioni più drammatiche quelle della Sicilia e della Lombardia» riferisce alla Repubblica degli Stagisti Camilla Guarino, 26 anni, coordinatrice di Link e studentessa all'ultimo anno di Sociologia alla Sapienza «nonché del Piemonte, dove con il cambio di giunta [dal giugno del 2019 è diventato governatore della Regione Alberto Cirio di Forza Italia, subentrando a Sergio Chiamparino del Partito democratico, ndr] sono stati tagliati dieci milioni al diritto allo studio».L’alloggio rappresenta ad oggi il servizio meno erogato, oltre che la voce di spesa più ingente per una famiglia. «Nell’ultimo anno accademico, dei quasi 36mila aventi diritto, 21mila – ovvero il 57 per cento! – risultano idonei non beneficiari di alloggio» afferma Guarino «con picchi in città universitarie come Roma, Milano, Torino, Bologna, Palermo, Bari». La questione degli alloggi è particolarmente complessa, in quanto alla carenza di finanziamenti si aggiunge l’insufficienza degli alloggi disponibili per il diritto allo studio e nei collegi universitari. I posti a disposizione sono solo 48mila.In tutto questo, secondo l’analisi dell’Ufficio studi di Immobiliare.it, tutte le principali città universitarie italiane, a eccezione di Bari, quest’anno hanno registrato un rincaro. Il costo medio più alto per un alloggio è a Milano: 573 euro per una singola e 372 per una doppia. Seguono Roma (448 e 311), Bologna (447 e 268) e Firenze (433 e 260). A Bologna, in particolare, si è registrato un aumento record del costo medio di una stanza singola, pari al 12 per cento. «Ad oggi né lo Stato né le regioni hanno saputo fornire l’ombra di una soluzione» aggiunge la coordinatrice Link: «Servirebbero, tanto per cominciare, una normativa seria per recuperare gli edifici pubblici inutilizzati e l’erogazione del contributo affitto per gli idonei non beneficiari, che esiste già in alcune regioni ma con tempistiche troppo complicate perché serva davvero». Ma quanto costano oggi gli studi a uno studente universitario? Secondo i dati Almalaurea, la tassazione media annua si attesta sui 1.345 euro per le lauree di primo livello e sui 1.520 euro per quelle di secondo livello. L’ultimo rapporto di Federconsumatori sui costi degli atenei italiani evidenzia che, a confronto con gli anni precedenti, le tasse sono diminuite fra il 3,7 e il 6,9 per cento a seconda delle fasce di reddito. Nella I fascia (Isee fino a 6mila euro) il costo medio annuo è di 302,48 euro. Aumentati solo gli importi massimi: la media per la quinta fascia di reddito è di 2523,45 euro. A influenzare le statistiche è stata tuttavia anche la rimodulazione della tassa regionale per il diritto allo studio. La Regione Campania, per esempio, ha deciso di determinarla sulla base del reddito, mentre in precedenza ammontava a 140 euro per tutti gli studenti. Vale la pena ricordare che la legge di Bilancio del 2016 ha modificato la contribuzione universitaria, prevedendo consistenti agevolazioni per gli studenti a basso reddito e per gli studenti meritevoli. Gli iscritti al primo anno dei corsi di laurea triennali e magistrali con reddito Isee inferiore a 13mila euro sono tenuti solo al pagamento della tassa regionale e dell’imposta di bollo – a cui si aggiungono eventuali altri importi per l’assicurazione, se previsti dall’ateneo – quindi non devono corrispondere i contributi universitari, quindi le tasse. Esenzione parziale, invece, per i redditi fra i 13mila e i 30mila. Gli atenei del Meridione risultano più cari rispetto a quelli del Nord Italia. Ad esempio al Sud gli importi medi per la prima fascia superano del 22,83 per cento quelli delle università settentrionali e addirittura del 49,73 per cento se si prende in considerazione la terza fascia di reddito (Isee fino a 20mila euro). La tendenza si inverte solo per gli importi massimi, superiori al Nord. L’ateneo più caro risulta La Sapienza di Roma, seguito dall’Università di Bari e dalla Federico II di Napoli. Insomma, al momento la mancata copertura totale dei servizi per il diritto allo studio rappresenta un forte ostacolo a un accesso all’università che sia davvero “per tutti”. Un piccolo passo avanti si è fatto nei giorni scorsi. «Dopo un autunno di mobilitazione degli studenti e delle studentesse, nella Legge di Bilancio 2020 sono stati stanziati 31 milioni in più rispetto allo scorso anno sul fondo nazionale per il diritto allo studio» spiega la coordinatrice Link «ma questa è solo una prima vittoria. Servono ulteriori finanziamenti per dare risposte ai 21mila studenti idonei senza alloggio, inoltre le Regioni devono fare la loro parte e stanziare i finanziamenti necessari per la copertura totale». Altrimenti saremmo punto e da capo. Ma davvero ci vuole così tanto a capire che per il diritto allo studio vanno finanziati fondi sufficienti a coprire almeno l'ammontare delle borse di studio per gli aventi diritto?Rossella Nocca

Jobber, in un nuovo libro Matteo Fini torna a raccontare il mondo del lavoro da “Fantozzi moderno”

Non si considera uno scrittore, più un «cantastorie» e il suo non è tanto un libro, quanto piuttosto un «bigino». Già dalle prime risposte si comprende come Jobber, uscito lo scorso giugno per la casa Educationflow, e il suo autore Matteo Fini si stiano già ritagliando un posto a sé nel mondo dell’editoria, in particolare quella che parla di lavoro.Fini ha quarantuno anni, e alle spalle esperienze nel mondo dell’università e delle aziende. Oggi si occupa di formazione e risorse umane e gestisce una realtà chiamata Flowbox, che fa formazione e consulenza per professionisti.Jobber più che un libro è, come lo definisce lo stesso autore, un non-libro, che nasce «perché sono matto. È il mio terzo libro pop, dopo «Università e puttane» [casa editrice Priuli e Verlucca] e «Non è un paese per bamboccioni» [Cairo Publishing], escludendo  i libri accademici,  ma non mi considero uno scrittore: sono più un cantastorie. Io racconto quello che vedo e vivo. È sempre stato così per tutti i miei libri. Elaboro a modo mio e regalo al lettore delle storie e degli spunti, poi ognuno ci vede quello che vuole. Infatti anche Jobber nasce da quello che ho visto e vissuto in tanti anni nel mondo del lavoro e delle aziende, rielaborato in modo che faccia sorridere, pensare, incavolare.... in un commento uno ha scritto che è un “Fantozzi moderno” e per me che sono cresciuto nel mito di Villaggio è solo un onore, quasi blasfemo!», racconta.E infatti, leggendo le prime pagine del libro risulta subito chiaro al lettore quale delle due strade verrà battuta tra riflessione e rabbia: Jobber è assimilabile a un aforismario, con pagine di riflessioni che, a ben vedere, avrebbero potuto essere sintetizzate in almeno la metà dello spazio.Da qui si comprende perché Fini lo definisce un non-libro: «Jobber è un libro di spunti. Però ogni spunto aveva bisogno di un suo spazio e di una sua dignità. Mi piaceva l’idea del bigino, del manabile, quasi del rosario... volevo che fosse bello. Bello da leggere ma anche da tenere sul comodino. Per questo ha il formato di un libro vero, ha una copertina con un’illustrazione originale del grande Daniele Mantellato e ha una storia. È come un libro di poesie. Inizialmente pensavo di venderlo a tre euro, proprio perché sono poche pagine e poche parole». In effetti, solo centotrenta pagine: «Però poi ho pensato che ogni forma d’arte ha una sua dignità che non ha nulla a che vedere con la lunghezza o la durata. E allora ho deciso di dargli un costo da libro vero. Non è che November Rain dei Guns ‘n’ Roses costa più di Imagine dei Beatles perché dura nove minuti anziché tre. Sono entrambe fuori a 0,99 su Spotify poi ognuno gode come vuole. Jobber è come andare al cinema. Spendi nove euro, leggi, poi se non ti piace è come aver visto un brutto film. Capita. Ma per ora per fortuna non è capitato tanto!».Sfogliando le pagine si susseguono massime che potrebbero essere prese dalla vita lavorativa di ciascuno di noi. Si può intravedere il collega o il proprio capo nei personaggi di cui si (s)parla in modo sempre ironico, spesso addirittura sarcastico, ad esempio, l'abitudine di restare fino a tardi in ufficio o di riempire discorsi e presentazioni di inglesismi. L’impressione è quella di una presa di distanza da due mondi, l’università e le aziende, di cui l’autore ha fatto e continua a fare parte. «Io scrivo quello che vedo. E se vivi il mondo accademico o quello aziendale non puoi evitare di parlare di certi costumi e certe usanze davvero intollerabili. Io racconto, poi ognuno si fa la propria idea».Ma come si fa a trovare una strada e a innescare processi positivi? «Investendo sulle persone. Sullo studio, la competenza. Valorizzando le storie personali e uscendo dalle logiche incellofanate, impolverate e impomatate e tremendamente lente tipiche della piccola media impresa italiana che tutto omologa e livella verso il basso».Per i più scettici qualche spiraglio, alla fine, c’è: «Le eccezioni esistono, come in tutte le cose. Ma quando ho scritto Jobber ero sicuro che tutti rivedessero se stessi e che soprattutto rivedessero il proprio collega o il proprio capo, specie come protagonista negativo. Ma del resto il bello è che, parafrasando Eminem, “There’s a Jobber in all of us”».Chiara Del Priore

Test Ocse Pisa, se i giovani italiani sono davvero ignoranti dovremmo chiederci: perché?

Se capisci questo articolo, allora probabilmente non ti riguarda. È questa una prima paradossale conclusione che deriva dall’analisi dei nuovi test Pisa dell’Ocse, riferiti al 2018, sul grado di alfabetizzazione letteraria, scientifica e matematica dei giovani italiani. Una conclusione appunto paradossale, tristemente ironica – ma anche tutto sommato fasulla. Perché forse non sarai tu il giovane con problemi di alfabetizzazione; ma è innegabile che la diffusione di queste mancanze, specialmente tra le persone più giovani, crea quella che gli economisti chiamano un’esternalità negativa per tutta la società. Insomma, le conseguenze di questo problema non sono solo personali ma si ripercuotono su tutti. E sì, anche su di te, che stai ancora leggendo questo articolo – e che già stavi davvero pensando che il problema non ti riguardasse...Ma cosa sono i test Pisa? Si tratta di una serie di questionari standardizzati (“Pisa” è l’acronimo di sta per “Programme for International Student Assessment”), rivolta ogni tre anni agli studenti di quindici anni dei paesi Ocse – l'Organizzazione per la Cooperazione e lo sviluppo economico – e che dovrebbe stabilire il grado di conoscenze e di abilità acquisite nel corso degli studi. Il test, non esente da limitazione e che pure è stato in passato criticato per la sua impostazione e omogeneità, è però ormai somministrato sin dal 2000, e si focalizza sui risultati ottenuti dagli studenti rispetto alla comprensione di testi, alla matematica e infine ai temi scientifici. In Italia, la ricerca ha riguardato quasi 12mila studenti – poco più del 2% del totale – e 550 scuole (i partecipanti all'indagine a livello mondiale sono stati oltre 500mila in 79 Paesi).I risultati sono piuttosto impressionanti. L’Italia si classifica ben sotto la media dei paesi Ocse in lettura e scienze, mentre è solo appena sotto la media per matematica. Peraltro i risultati per lettura e scienza segnano un peggioramento rispetto al 2012. Analisi più settoriali permettono di evidenziare alcune differenze piuttosto interessanti rispetto al genere e al territorio di residenza. In generale, in Italia e negli altri paesi, le femmine ottengono risultati migliori dei maschi in lettura e peggiori in matematica, mentre ottengono risultati simili, specialmente in Italia, in scienze. Tuttavia, il peggioramento nella capacità di comprensione dei testi, in Italia, è dovuto proprio al calo di questa competenza tra le femmine. Queste differenze non cancellano molti stereotipi di genere rispetto alle professioni. Tra gli studenti migliori al test, il un quarto dei maschi prevede di lavorare in campo scientifico mentre un quarto delle femmine prevede di lavorare in professioni sanitarie; solo il 12% delle femmine crede che lavorerà in campo scientifico. Dal punto di vista geografico, solamente un numero molto limitato di regioni e province costituisce un campione sufficientemente ampio da permettere un’analisi specifica. Da ciò, emerge come i giovani nelle province autonome di Trento e Bolzano abbiano conseguito risultati paragonabili a quelli dei migliori paesi della classifica, i giovani toscani risultati simili alla media nazionale e invece quelli sardi risultati peggiori.Vale la pena di sottolineare come le mancanze evidenziate da questi test Pisa non siano le uniche che caratterizzano i giovani italiani nello specifico e la popolazione italiana più in generale. Per esempio, scarsa è anche la conoscenza dei temi economici e politici. L’educazione civica non entra ormai da tempo – o lo fa solo formalmente - nei curricula delle scuole superiori. E in test simili la performance del nostro paese per quanto riguarda l’educazione finanziaria è ancora al di sotto della media. Ma non è un problema solo di giovani: performance anche peggiori sono infatti documentate rispetto all’intera popolazione.Di chi è la responsabilità? Degli studenti, certo. Del resto, lo sappiamo tutti: i giovani sono pigri, non rispettano più i valori. E nemmeno gli anziani. O... no? Troppo comodo scaricare come al solito le responsabilità di un fallimento sulle persone più deboli, e incolpare quelle che invece sono le vittime. Proviamo piuttosto a guardare quanto il paese ha deciso di investire sul capitale umano dei suoi giovani. In fondo non ci vorrebbero neppure troppe risorse, in termini assoluti. L’Italia è un paese anziano, la quota di giovani è inferiore rispetto a quella di altri paese. Proprio per questo, potrebbero essere maggiormente valorizzati. E invece i dati raccontano una storia ben diversa: innanzitutto, secondo la ricerca Pisa, i presidi italiani denunciano maggior carenza di staff e di materiale rispetto alla media degli altri paesi.  Un’ulteriore ricerca dell’Ocse indica che il corpo docente in Italia è il più anziano tra i paesi dell’Ocse; addirittura, nei prossimi dieci anni l’Italia dovrà prepararsi a sostituire circa il cinquanta per cento dei propri docenti. Gli stipendi di partenza sono inferiori alla media, così pure come quelli massimi raggiungibili a fine carriera. In Italia si spendono 66,1 miliardi di euro per l’istruzione (Eurostat, 2017), l’8% della spesa pubblica totale: poco meno della spesa per gli interessi passivi sull’enorme debito pubblico e meno di un terzo di quella pagata per le pensioni. Si tratta di una percentuale inferiore al 4% del PIL, quando la media europea è di oltre il 4,5%. Comunque la si misuri, la spesa per istruzione è in calo ormai da oltre dieci anni.Seppure coi loro limiti, i risultati del test Pisa sollevano quindi giuste preoccupazioni. Stupisce in effetti chi si stupisce: se da decenni ormai il paese ha smesso di investire nella scuola, nella valorizzazione degli insegnanti, nell'aggiornamento dei curricula, nella sicurezza degli edifici, nella lotta agli ancora troppo numerosi abbandoni scolastici, è inutile poi dichiararsi sorpresi da questi risultati. Le conseguenze di questo disastro sono sia individuali che sociali. Dal punto di vista individuale, giovani di oggi (e adulti di domani) senza adeguate conoscenze avranno maggiori difficoltà a trovare un lavoro e ad effettuare scelte strategiche per la propria vita. Dal punto di vista sociale, invece, l’incapacità di comprendere la complessità dei fenomeni si accompagna necessariamente con l’accontentarsi di spiegazioni semplici e semplicistiche. In ultima analisi, un vero e proprio rischio: non solo per i rapporti economici e di lavoro ma anche per la qualità della nostra democrazia.  

Pensionati tartassati? La verità è che sono i giovani i più penalizzati

Chi comincia a lavorare oggi dovrà farlo fino a settantuno anni. È questa una delle conclusioni dell’ “Oecd Pensions at a glance 2019”, l’attesissimo – perlomeno per gli addetti ai lavori – rapporto dell’Ocse sulle pensioni. L’Italia si caratterizza come uno dei paesi dove più bassa è attualmente l’età di pensionamento effettiva ma anche quello in cui, al contrario, i giovani risultano maggiormente penalizzati. Come è possibile quindi che nel nostro paese le ultime riforme in questo campo siano andate esattamente nella direzione opposta, vale a dire quella di congelare l’adeguamento automatico dell’aspettativa di vita e di anticipare il pensionamento con “Quota 100”?Non solo: se si guarda a come è distribuita la povertà all’interno della popolazione (dati Istat 2018), si scopre che le famiglie con figli minori sono quelle per cui l’incidenza di povertà assoluta è massima (11,3%, su una media nazionale del 7%); questa poi via via decresce al 10% per la classe 18-34enni e all’8% per la classe 35-64enni; fino ad arrivare al suo minimo (4,5%) tra coloro che hanno più di 65 anni. Dunque in media quelli che più spesso sono i poveri sono i giovani adulti con figli minorenni; quelli che meno spesso sono poveri sono i pensionati. Tuttavia, il leit motiv di politici, di molti sindacalisti e anche di parecchi giornalisti è che le pensioni in Italia sono troppo basse.Come si spiega questo paradosso? Per capirci davvero qualcosa bisogna scoprire come funzionano le pensioni in Italia,  anche leggendo direttamente le fonti statistiche. I documenti sintetici più utili sono forniti dall’“Osservatorio sulle prestazioni pensionistiche e beneficiari” dell’Inps, dal focus “Condizioni di vita dei pensionati” dell’Istat e dal più impegnativo “Rapporto sulle tendenze di medio-lungo periodo del sistema pensionistico e socio-sanitario” della Ragioneria Generale dello Stato (RGS).Una prima importante osservazione è che il totale della spesa pensionistica, quasi 290 miliardi nel 2017, riguarda sia le pensioni previdenziali o cosiddette IVS (Invalidità, Vecchiaia – e anzianità – e Superstiti) sia le pensioni assistenziali. Le prime costituiscono quasi l’80% del totale (il 90% circa in termini di spesa); il diritto a riceverle nasce dall’avere contribuito per un numero sufficiente di anni al sistema pensionistico ed è collegato alla realizzazione di un determinato evento – o rischio, se si guarda al sistema pensionistico come a un meccanismo assicurativo – vale a dire: l’essere troppo vecchi per lavorare, l’avere conseguito un infortunio sul lavoro, l’essere deceduto e aver lasciato un coniuge (o dei figli) “superstite”. Le pensioni assistenziali, al contrario, hanno un carattere squisitamente redistributivo e vengono percepite da tutti coloro che, al raggiungimento del sessantacinquesimo anno di età, non hanno un reddito considerato sufficiente. Si tratta di ex lavoratori che non hanno contribuito per un numero sufficiente di anni al sistema previdenziale (quindici o venti, a seconda della generazione di appartenenza) o di persone che invece mai hanno lavorato, per scelta o per impossibilità (invalidità civile). Rappresentano poco meno del 20% delle pensioni e circa il 10% della spesa pensionistica. Completano le prestazioni erogate dall’Inps le cosiddette pensioni indennitarie (circa il 3% delle prestazioni) e quelle di guerra (circa il 1%): ma si tratta di categorie residuali, che per semplicità si possono tralasciare.Tra le due categorie principali, sono solo le pensioni IVS a essere finanziate dai contributi previdenziali e che quindi dovrebbero essere propriamente considerate pensioni, mentre le altre si caratterizzano maggiormente come intervento assistenziale tout court. Questa distinzione è estremamente importante, perché, quando si considera il livello delle prestazioni pensionistiche, è evidente che previdenza e assistenza non possono essere considerate come identiche. Per esempio, l’Inps certifica che al 1° gennaio 2019 ben il 70% delle prestazioni erogate è inferiore ai mille euro. Questo dato è sufficiente a concludere che il 70% dei pensionati si barcamena e a stento vive con meno di mille euro al mese, dopo aver lavorato una vita? La risposta è no. Innanzitutto perché questo 70% contiene anche tutte le pensioni che abbiamo definito assistenziali: sono per definizione trattamenti minimi e che vengono percepiti proprio da chi non ha mai lavorato o ha lavorato molto poco. Ma non basta: perché un conto sono le pensioni erogate e un conto sono i pensionati: un pensionato può avere (legittimamente, sia chiaro) diritto a più pensioni. Per esempio, una vedova può percepire sia la propria pensione da ex lavoratrice sia quella di reversibilità del marito. Per avere una migliore comprensione dello stato di benessere dei pensionati bisognerebbe quindi osservare la distribuzione del reddito pensionistico, vale a dire della somma delle pensioni percepite da ogni pensionato – con l’aggiunta anche di eventuali redditi da lavoro. Così facendo scopriamo che, per esempio, i pensionati che hanno un reddito pensionistico inferiore ai mille euro sono in realtà il 40% e che altrettanti sono quelli che hanno un reddito compreso tra i mille e i 2mila euro. E sì, questo vuole dire che il 20% dei pensionati percepisce un reddito pensionistico superiore ai 2mila euro mensili. Nel 2017, il reddito medio netto annuale di un pensionato era pari a circa 14.600 euro (pari a 17.900 euro lordi). Facciamoci pure due conti in tasca: chi è il povero, adesso? Ogni politico che abbia a cuore il benessere della popolazione non può ignorare questo enorme squilibrio generazionale: da un lato, i pensionati hanno un reddito tipicamente ben più generoso rispetto ai contributi versati; dall’altro, i giovani avranno una pensione che al contrario sarà totalmente commisurata ai contributi versati. Una generazione già povera oggi sarà a maggior ragione una generazione più povera domani: quanto bisogna essere ciechi, disinformati o in cattiva fede per ignorare tutto questo? Paolo Balduzzi

Naspi, guida al sussidio di disoccupazione che ha sostituito Aspi e mini Aspi

La Naspi, che sta per “Nuova assicurazione sociale per l'impiego”, è l'indennità mensile di disoccupazione che ha sostituito Aspi e miniAspi per i casi di disoccupazione involontaria a partire da maggio 2015. I dati mostrano un costante aumento delle richieste. Da gennaio a luglio 2019, ultimo mese per cui sono disponibili le cifre elaborate dall'Inps, le domande presentate sono 1.064.073, in crescita rispetto allo stesso periodo del 2018 (1.022.132) ma sopratutto in crescita dell'11% se si confrontano i dati con quelli del 2017 (in cui le richieste erano state poco meno di 951mila) e addirittura del +19% facendo un confronto con i dati del 2016 (in cui se ne erano registrate poco meno di 892mila). La regione più rappresentata in questa classifica è la Lombardia, con 151.586 richieste, seguita dalla Campania, 116.504. Fanalini di coda la Valle d'Aosta (4.139) e il Molise (6.102). Ma questo non significa – quantomeno: non necessariamente – che in Lombardia e Campania ci siano più disoccupati che in Valle D'Aosta o Molise: il numero dipende sopratutto dalla popolazione residente in una data regione.Le eccezioni sono tante e le informazioni che circolano spesso scarse e frammentarie: vale sempre la pena di verificare se si ha diritto alla prestazione consultando gratuitamente un patronato. È importante sottolineare che, con la Naspi, il legislatore favorisce chi apre partita Iva e si mette in proprio, un aspetto interessante e poco noto di cui non si parla abbastanza.  Nella guida che segue – realizzata con la consulenza di Luca Chiarei, responsabile area tecnica patronato Inca Cgil, Milano – la Repubblica degli Stagisti offre ai suoi lettori un vademecum ai principali dubbi di chi si appresta a richiedere questo sussidio. A chi è rivolta la Naspi?A tutti i lavoratori dipendenti con esclusione degli operati agricoli (che sono coperti da specifica tutela) e dei lavoratori a tempo indeterminato della pubblica amministrazione. Quindi rientrano nel perimetro anche i soci lavoratori di cooperative con rapporto di lavoro subordinato, il personale artistico con rapporto di lavoro subordinato, i dipendenti a tempo determinato delle pubbliche amministrazioni. La condizione necessaria è aver perso il rapporto di lavoro involontariamente dopo il 1° maggio 2015.Chi è escluso?I dipendenti a tempo indeterminato delle pubbliche amministrazioni, gli operai agricoli a tempo determinato e indeterminato, i lavoratori extracomunitari con permesso di soggiorno per lavoro stagionale, i lavoratori che hanno maturato i requisiti per il pensionamento di vecchiaia o anticipato e quelli titolari di assegno ordinario di invalidità, qualora non optino per la Naspi.Chi termina un tirocinio ha diritto alla Naspi?No. Solo il versamento dei contributi dà diritto alla prestazione, e con lo stage non se ne versano. Chi termina un contratto di apprendistato ha diritto alla Naspi?Sì. Nella Naspi rientrano anche soci lavoratori di cooperative, personale artistico, lavoratori a tempo determinato di aziende pubbliche che prima erano esclusi dall'Aspi. Chi presenta spontaneamente le dimissioni, quindi, non può accedere alla misura?Di regola è così. Esistono delle eccezioni: si può percepire la Naspi se le dimissioni sono presentate per giusta causa e per una serie di altre motivazioni. Ad esempio,  quando il datore di lavoro propone un trasferimento in una sede eccessivamente distante da raggiungere; per dimissioni intervenute durante il periodo tutelato di maternità, ossia a partire da 300 giorni prima della data presunta del parto e fino al compimento del primo anno di vita del bambino, ma anche in caso di risoluzione consensuale, purché sia intervenuta nell'ambito della procedura di conciliazione presso la direzione territoriale del lavoro.La Naspi si applica anche ai lavoratori autonomi?No, si applica solo ai lavoratori dipendenti. Per le collaborazioni coordinate e continuative, anche a progetto, esistono altri strumenti. Per i parasubordinati c'è la DisColl, rivolta a chi lavora in regime di committenza senza partita Iva ed è quindi iscritto in via esclusiva alla gestione separata dell'Inps. Esistono inoltre forme di disoccupazione poco conosciute rivolte ai lavoratori impatriati. La Naspi si percepisce automaticamente alla cessazione del rapporto di lavoro?No. È necessario presentare domanda all'Inps, esclusivamente online, utilizzando il servizio dedicato. Sul sito dell'Inps è anche disponibile un tutorial che aiuta nella compilazione della domanda. In alternativa si può telefonare al contact center al numero 803 164 (gratuito da rete fissa) oppure 06 164164 da rete mobile. Infine, si può presentare domanda tramite patronato, che tratterranno una percentuale minima mensilmente per il servizio. Se non si è esperti, è consigliabile farsi assistere, per evitare errori che potrebbero pregiudicare l'erogazione. In tutti i casi, il termine massimo entro cui presentare domanda di Naspi è di 68 giorni dalla cessazione del rapporto di lavoro. Ma ci sono deroghe che è bene conoscere, ad esempio per maternità, lmalattia o licenziamento per giusta causa. Quali sono i requisiti?Per percepire la Naspi bisogna rispettare un requisito lavorativo minimo di trenta giornate lavorate nell'ultimo anno dalla data di cessazione del rapporto, e un requisito contributivo di almeno tredici settimane di contribuzione negli ultimi quattro anni. Quanto si percepisce? E per quanto tempo?Si percepisce il 75% retribuzione media degli ultimi quattro anni. La prestazione dura la metà dei mesi lavorati negli ultimi quattro anni, e al massimo un totale di ventiquattro mesi. Ci sono dei massimali riguardo all'importo percepito?Certo. Si può percepire un massimo di 1.328 euro lordi. È possibile percepire la Naspi e aprire partita IVA per avviare una nuova attività in proprio? Sì, ma bisogna comunicarlo all'Inps, che provvederà eventualmente a rimodulare la prestazione. Per chi apre partita Iva c'è un'importante agevolazione: a titolo di incentivo all'imprenditorialità è possibile richiedere il versamento della Naspi in un'unica soluzione entro trenta giorni dall'apertura della partita Iva stessa. È importante informarsi bene su questo aspetto e sul fatturato limite, preferibilmente rivolgendosi all'Inps in forma scritta: le conseguenze possono essere onerose. E se la partita Iva è preesistente?Alla richiesta di Naspi è sempre necessario comunicare il possesso di una partita Iva, anche se silente. Anche in questo caso, meglio farsi assistere.Quando la prestazione è sospesa? La prestazione è sospesa in caso di rioccupazione con contratto di lavoro subordinato di durata non superiore a sei mesi o nuova occupazione in paesi dell'Ue o con cui l'Italia ha stipulato convenzioni bilaterali in materia. Nel primo caso, l'indennità è sospesa d'ufficio per la durata del rapporto di lavoro sulla base delle comunicazioni obbligatorie, salvo che il beneficiario della prestazione non effettui la comunicazione del reddito annuo presunto ai fini del cumulo, e sempre che il reddito sia inferiore a 8mila euro.Quando si decade? Il lavoratore decade dal diritto alla prestazione se perde lo stato di disoccupazione, inizia un'attività di lavoro subordinato di durata superiore a sei mesi o a tempo indeterminato senza comunicare all'Inps il reddito presunto che ne deriva entro un mese dall'inizio del rapporto di lavoro o dalla data di presentazione della domanda, se il rapporto lavorativo era preesistente.Ci sono dei limiti di reddito annuale oltre i quali si decade dalla Naspi? Sì. Per il lavoratore dipendente la soglia è fissata al raggiungimento degli 8mila euro di reddito annuale. Per il lavoro autonomo, la soglia è di 4.800 euro. Con la Naspi si versano i contributi previdenziali?Sì. In pratica, è come aver lavorato. Il versamento dei contributi avviene in automatico, senza alcuna necessità di intervento da parte del cittadino: già dal mese successivo i contributi sono visibili sulla pagina INPS relativa alla propria posizione previdenziale. Mentre si percepisce la Naspi si può effettuare un tirocinio che preveda una indennità mensile?La risposta varia da regione a regione: è necessario verificare la normativa locale direttamente con l'Inps oppure contattando un patronato.a cura di Antonio Piemontese

Riforma dei centri per l'impiego, reddito di cittadinanza come «occasione per rinnovarsi»?

Quando nel 2014 entrò in vigore Garanzia giovani, «per i centri per l'impiego fu uno stimolo a riorganizzarsi tornando a occuparsi di politiche attive per il lavoro. Oggi la stessa opportunità arriva dal reddito di cittadinanza». A dirlo è Marco Nocciolo, a capo della Direzione Lavoro della Regione Lazio aprendo la quarta edizione degli Employer's day, iniziativa della Rete europea dei servizi pubblici per l'impiego (PES Network) per offrire concrete occasioni di lavoro ai cittadini, e a Porta Futuro, principale centro per l'impiego di Roma, che si concluderà il 13 dicembre prossimo. Un'occasione per alcuni esponenti politici locali di fare il punto sui cpi del Lazio: in quello stesso giorno, fuori dal convegno si sta svolgendo un Jobmeeting con file di ragazzi armati di curriculum e diverse aziende del settore alberghiero, immobiliare e della ristorazione. Più che una sfida, per i centri per l'impiego gestire il rdc è una vera corsa a ostacoli. «Riceviamo una media di quattrocento persone al giorno beneficiarie del reddito» fa sapere Nocciolo. «Ce ne sono 50mila da prendere in carico in tempi ristretti» e, si spera, a cui proporre prima o poi un'offerta di lavoro, che poi sarebbe il fine ultimo della misura. Per arrivarci però bisogna «riprendere contatto con le imprese» prosegue Nocciolo. E i modi per farlo si stanno evolvendo: «My Anpal, nuova app di Anpal che a breve sarà rilasciata a tutte le Regioni, e che consente di fare scouting sulle aziende». Ce ne sono centinaia di migliaia, ma «con l'applicazione ogni cpi sarà in grado di rilevare quelle che sul proprio territorio sono più propense a assumere basandosi sui dati provenienti dalle comunicazioni obbligatorie». A quel punto saranno gli stessi operatori dei cpi – almeno nelle intenzioni – «a rivolgersi alle aziende per verificare le vacancies, senza aspettare che siano le aziende a fare il primo passo». È questo uno dei passaggi principali del rinnovamento dei cpi secondo la tabella di marcia che alla conferenza annuncia Claudio Di Berardino, assessore al Lavoro alla Regione Lazio: «Non più il centro per l'impiego che aspetta la persona che si presenti o una impresa che a questo si rivolga, ma capace di andare a bussare al mondo delle imprese». Per farcela servono strumenti e professionalità all'altezza. «Il reddito di cittadinanza si poggia su due gambe, l'assistenza alle persone in difficoltà e il potenziamento dei cpi con navigator e nuove assunzioni» spiega l'assessore. Per questo in Lazio «sarà bandito un concorso per assumere 365 nuove risorse». La dotazione è di 16 milioni, mentre per il rinnovo dell'infrastruttura informatica ce ne saranno 90. Ma per ridare slancio all'incrocio tra domanda e offerta sono necesarie «vecchie competenze e professionalità nuove» sintetizza Di Berardino, lasciando intendere che non basteranno quindi i soli navigator a risollevare le sorti dei malandati cpi. «Abbiamo un personale che vuole dimostrare che può farcela, e l'obiettivo è anche di migliorarne le competenze». Non sarà facile, anticipa Elisabetta Longo, direttore Formazione scuola e università del Lazio, perché «il tema del fabbisogno formativo è assai complesso: nessuna regione o altro ente può programmare strategie senza ascoltare il mondo delle imprese perché rischia di scrivere documenti non attuali». A loro volta poi le imprese non possono agire da sole: «Se non si riferiscono a quadro strutturato non sono in  grado di esprimere un bisogno». Il centro per l'impiego dovrà insomma mediare, facendo da punto di incontro, e ne andrà «rafforzato il ruolo proattivo». Esistono poi problematiche di fondo del sistema occupazionale italiano su cui prima o poi si dovrà intervenire. Uno dei segnali è che «abbiamo l'occupazione più bassa per tutte le classi di età in Europa» fa presente Mimmo Parisi di Anpal. Quello su cui si deve puntare è allora, invece del posto fisso, la «sostenibilità occupazionale». Vale a dire creare una nuova stabilità tale per cui «le persone siano in condizione di passare da un lavoro a un altro in pochissimo tempo». Questo «è cio che consentirebbe l'innovazione e la crescita delle imprese» chiarisce Parisi. Lo stesso vale per il datore di lavoro, «che deve essere in grado di cambiare ambito culturale in un mercato che si modifica velocemente» e che richiede continuamente «di reimparare». In questo senso i centri per l'impiego potrebbero arrivare a ricoprire un ruolo fondamentale, quello cioè di stare al passo con i cambiamenti del mercato mettendo in campo politiche attive per il lavoro pensate soprattutto per i soggetti più a rischio, quelli cioè che possono fuoriscire più facilmente dal mercato del lavoro e hanno bisogno di essere reintegrati. Ed è così che «favorire la sostenibilità occupazionale» continua Parisi, «potrebbe arginare le difficoltà per questi soggetti più deboli». Ilaria Mariotti 

In Italia servono più medici, come si fa a trovarli? Le proposte sul tavolo del ministro

Assunzione di abilitati senza specializzazione, medici in corsia fino a 70 anni, incarichi di lavoro autonomo: sono alcune delle sedici proposte elaborate dalle Regioni per far fronte alla carenza nazionale di medici specialisti. Approvato dalla Conferenza delle Regioni, dal 26 settembre il documento "Proposte riguardanti la carenza di medici specialisti e la valorizzazione delle professioni sanitarie non dirigenziali" è sul tavolo del ministro della Salute Roberto Speranza. Nel caso in cui siano accolte positivamente, le proposte dovrebbero essere integrate nella legge di Bilancio. Ma cosa ne pensano i rappresentanti della categoria? Tra i punti più discussi c’è il via libera all’assunzione, fino a dicembre 2021, degli specializzandi all’ultimo anno con contratto di lavoro subordinato a tempo determinato con orario a tempo parziale.«Questa misura non ci convince» dichiara alla Repubblica degli Stagisti Stefano Guicciardi, trentenne presidente di FederSpecializzandi, che insieme al Segretariato italiano giovani medici, al Coordinamento specializzandi in medicina d’emergenza-urgenza e al Movimento Giotto, ha risposto punto per punto al documento delle Regioni «né per la logica né per il motivo. Ovvero tamponare in fretta e furia e a basso costo con gli specializzandi la carenza di organico, senza considerare le ripercussioni sul piano formativo, già spesso molto carente. Noi naturalmente vogliamo essere assunti, ma vogliamo prima formarci bene». Altra perplessità riguarda i i rischi a cui si espongono i medici ancora in formazione. «Ci sembra pericoloso da un punto di vista medico e legale immettere medici non ancora completamente formati facendo assumere loro responsabilità di un certo tipo senza che ci siano strumenti per certificare il loro livello di autonomia e la loro effettiva capacità di svolgere specifiche attività solitamente a carico degli strutturati», aggiunge.Nel documento delle Regioni si parla dell'attivazione di contratti di formazione-lavoro per gli specializzandi agli ultimi due anni, che andrebbero a sostituire i contratti di formazione specialistica, che attualmente prevedono una borsa di 25mila euro lordi annui per i primi due anni e 26mila dal terzo anno. I termini di questi contratti di formazione-lavoro non sono stati ancora definiti e, a tal proposito, FederSpecializzandi chiede che questo passaggio sia preceduto da una revisione strutturata dei piani formativi, in cui siano ben chiari le competenze e i gradi di responsabilità dello specializzando, nonché da un adeguamento assicurativo e retributivo.Siamo favorevoli all’assunzione degli specializzandi» commenta Carlo Palermo, 67 anni, segretario nazionale di Anaao Assomed «perché permette l’entrata precoce nel mondo del lavoro da parte di specialisti quasi formati, salvaguardando la qualità del Ssn». Tra le proposte su cui Anaao esprime un giudizio positivo c'è anche l’aumento del 3 per cento delle risorse da mettere a disposizione di Asl e ospedali per valorizzare il personale sanitario. «Aumentare del 3 per cento il monte salari» spiega Palermo «significherebbe risolvere molti problemi, ad esempio rendere più appetibili sedi periferiche dove ormai nessuno vuole andare. Oggi, con uno stipendio di 70-80mila euro lordi annui, siamo penultimi in Europa». Inoltre per i prossimi tre anni verrebbe garantita l’assunzione di medici senza specializzazione, che potrebbero accedere in soprannumero, per esigenze del Servizio sanitario nazionale, a una scuola di specializzazione, sulla base di protocolli di intesa tra Regione e università.  In caso di accoglimento delle proposte verrebbe inoltre introdotta la possibilità di reclutare medici tramite incarichi di lavoro autonomo. Ma di fronte a questa proposta si levano gli scudi. «Un’équipe cresce se costituita da medici con lavoro stabile» commenta il segretario nazionale Anaao «e bisogna investire in formazione e crescita delle capacità tecniche, professionali e culturali se si vuole garantire il mantenimento e la crescita della qualità del Ssn». I medici, in questo caso, verrebbero assunti con contratti libero professionali, quindi con condizioni diverse da quelle del contratto nazionale dei medici ospedalieri, pur ricoprendo di fatto le stesse mansioni nella turnistica quotidiana.  Altro punto, la possibilità per i medici di restare in corsia fino a settant'anni, indipendentemente dagli anni di servizio effettivo. Una misura che dovrebbe in realtà interessare un numero risibile di medici, circa quattrocento. «Anziché far lavorare medici ultra 70enni, misura estrema, bisognerebbe cominciare a stabilizzare e migliorare le condizioni di lavoro, soprattutto per le specializzazioni critiche, dove scarseggiano i contratti a tempo indeterminato», commenta Guicciardi. Previsti anche interventi sulla formazione, ad esempio ridurre il percorso di studio da sei a cinque anni. «La formazione purtroppo viene vista come un inutile orpello. La riduzione dei percorsi è una follia» sostiene il presidente FederSpecializzandi: «Già nel 2015 sono state accorciate le specializzazioni. Il solo obiettivo, neanche troppo nascosto, è come sempre quello di fare cassa e di immettere in fretta e furia gli specialisti nel sistema di lavoro, trascurando la necessità di immettere buoni professionisti».Tra le proposte più contrastate c’è poi quella di introdurre la possibilità di deroga alla durata massima dell’orario di lavoro. «C’è una norma europea che stabilisce che ai riposi non si può rinunciare» sottolinea Palermo «perché il riposo significa sicurezza delle cure, quindi qualità e riduzione del contenzioso e del rischio clinico». Attualmente la normativa europea prevede un monte ore settimanale di 38 ore, aumentabili con gli straordinari fino a un massimo di 48 ore. Esse sono distribuite su turni che non devono superare le 12 ore.Insomma, secondo i rappresentanti della categoria bisogna sì intervenire con urgenza, ma senza sacrificare la qualità del Ssn e della formazione. «L'impressione è che si continui a cercare di risolvere il problema della carenza di organico con soluzioni estreme e fantasiose, di corto respiro e poco lungimiranti, e senza investire risorse. Dequalifichiamo gli specialisti per avere medici pronti all'uso ma che non riescono a maturare e a formarsi. Il paziente ha diritto a essere curato da un medico formato e competente, lo specializzando non può essere una stampella di comodo su cui si regge il Ssn», denuncia Guicciardi.Secondo le previsioni della Commissione Ue, in Europa da qui al 2023 saranno richiesti 230mila medici. «Se non migliorano le condizioni» avverte Palermo «il rischio è che in Italia, soprattutto nel pubblico, non voglia lavorare più nessuno. Già oggi, secondo i dati della Commissione Ue, il 52 per cento dei medici europei che lasciano il loro paese sono italiani, con una perdita di 1.000-1.500 medici l’anno, in particolare dalle regioni di confine. Tra il 2018 e il 2025 avremo un deficit di 16mila specialisti».Tra le richieste dell’Anaao, c’è quella di allargare la possibilità di assunzione, soprattutto nelle regioni sottoposte ai Piani di rientro, cioè programmi operativi di riorganizzazione, riqualificazione  e potenziamento del Servizio sanitario nazionale per garantire, fra le altre cose, l'equilibrio del bilancio. Tali regioni – ovvero Lazio, Molise, Campania, Calabria e Sicilia, hanno infatti subito una falcidia di personale, con conseguente ridotto accesso alla salute. E ancora, si propone di incrementare del 30% i posti disponibili attraverso 2.500 ulteriori borse di specializzazione ogni anno dal 2020 al 2022, da aggiungere alle circa 8mila l'anno attuali, 9mila considerando anche quelle finanziate da privati. Un'operazione i cui costi, secondo l'Anaao, ammonterebbero a circa 250 milioni l'anno. Intanto il Veneto, per far fronte alla mancanza di trecentoventi camici bianchi, con un bando pubblicato a settembre e chiuso pochi giorni fa, ha aperto il Pronto Soccorso ai laureati in Medicina abilitati ma non specializzati. FederSpecializzandi ha già lanciato una petizione contro il provvedimento: «Il nostro timore è che questi medici non avranno la cornice legale per essere supportati e si troveranno a gestire casi complessi, per di più con la beffa di non ottenere in cambio il titolo di specialisti, in quanto questo percorso parallelo non è riconosciuto», motiva Guicciardi.Nelle prossime settimane si conoscerà l’esito dell’iter del piano triennale, e si capirà in che modo sarà finalmente affrontata l’emergenza della sanità.  Rossella Nocca

Servizio civile, ridotti di un quarto i fondi: solo 39mila posti nel nuovo bando

Come tutti gli anni, sul finire dell’estate il governo ha pubblicato il bando per le selezioni per il Servizio civile, che rimarranno aperte fino al 10 ottobre. Il nuovo bando si riferisce – per il momento – a 39.181 volontari, ossia più di 13mila in meno di quelli del 2018. La flessione è figlia di una minor disponibilità di risorse. A oggi infatti sono stati stanziati soltanto 232 milioni di euro contro i 300 del 2018. Una cifra che, oltre a non permettere di avvicinarsi ai 53mila (quasi) record dello scorso anno, non è risultata sufficiente per arrivare a quota 41mila, ossia il numero di volontari di cui aveva parlato nella scorsa primavera il dipartimento dedicato al Servizio Civile. Lo scorso 3 agosto il consiglio dei ministri aveva in realtà approvato un disegno di legge che autorizzava lo stanziamento di altri 70 milioni che avrebbero permesso di avvicinare i numeri del 2018: ma in mezzo c’è stata la crisi di governo e resta ancora da capire quando e se lo stanziamento effettivamente avverrà.Ma veniamo all’analisi del bando al momento aperto. Come ogni anno l’iniziativa si rivolge a ragazzi e ragazze tra i 18 e i 28 anni, che siano cittadini italiani, di altri paesi dell’Unione Europea o extracomunitari con regolare permesso di soggiorno, e che non abbiano riportato condanne penali (anche non definitive) particolarmente gravi. Il servizio civile può essere svolto una sola volta nella vita e unicamente presso enti pubblici o privati no-profit accreditati. Non è però possibile svolgerlo presso un ente con cui si abbia in corso un rapporto di lavoro o di collaborazione retribuita a qualunque titolo, oppure con cui si abbia avuto rapporti di questo genere superiori a tre mesi nei dodici mesi precedenti alla pubblicazione del bando. A seconda dei vari progetti che si possono svolgere, il servizio civile può durare otto o dodici mesi, con monte orario annuo, rispettivamente, di 765 o 1175 ore. Dei 39mila posti messi in pallio con il bando di quest’anno, 20mila circa riguardano 1.454 progetti «ordinari» in Italia, mentre altri 16mila si riferiscono ad altrettanti progetti «ordinari» da svolgersi nel nostro paese ma presentati da enti iscritti negli albi regionali (nel Trentino-Alto Adige c’è un bando sia per la provincia di Trento sia per quella di Bolzano).  C’è spazio anche per i progetti all’estero, anche se in misura assai minore rispetto a quelli italiani: sono solo 130, in cui saranno impegnati 951 volontari.Come l’anno scorso, inoltre, il bando prevede anche dei «progetti con misure aggiuntive» – ossia progetti che prevedono un periodo di servizio, da uno a tre mesi, in un altro paese dell’Unione Europea o un periodo di tutoraggio (sempre della stessa durata) finalizzato a facilitare l’accesso al mercato del lavoro dei volontari, oltre che, più genericamente, modalità e strumenti per favorire la partecipazione ai progetti di servizio civile universale dei giovani con minori opportunità. Le specifiche «misure aggiuntive» sono individuate di volta in volta nei vari progetti dagli enti organizzatori. Per esempio il bando della Protezione Civile Gruppo Lucano – il soggetto che accoglie più volontari (50) tra quelli che propongono questo genere di misure – prevede un forte coinvolgimento di giovani con minori opportunità economiche, che si dovranno occupare della preparazione e della verifica delle procedure per gestire le fasi di pre-allerta, allerta e intervento emergenziale con riguardo alla prevenzione del rischio idrogeologico in Basilicata. Rispetto allo scorso anno, i volontari coinvolti in questo genere di progetti – che allora erano una novità – sono quasi raddoppiati, passando da 1.236 a 2.196. Un dato che indica il gradimento per una sperimentazione introdotta lo scorso anno e pensata, soprattutto, per connettere i volontari del servizio civile con il mondo del lavoro.Al prescindere dai progetti con «misure aggiuntive», il servizio civile svolge ormai da qualche tempo un importante ruolo di collante tra i giovani e il mondo del lavoro, che si è riflesso nella crescita del numero di volontari degli ultimi anni. Il servizio civile è infatti un’importante esperienza formativa, grazie a cui i giovani possono entrare in contatto con diverse realtà professionali, soprattutto nel sociale. Da non sottovalutare è, inoltre, l’aspetto del rimborso spese, considerato uno dei punti vincenti del servizio civile. A tutti i volontari, infatti, viene riconosciuto un contributo di 439,50 euro al mese – leggermente superiore rispetto allo scorso anno – cui va sommato il rimborso per le spese del viaggio iniziale che spetta ai volontari selezionati per un progetto che ha sede in un comune diverso da quello di residenza. Non è una cifra elevata, ma è comunque un importo significativo considerando che lo svolgimento del servizio civile non comporta un impegno full-time – in genere si tratta di 25 ore a settimana, salvo i monte orari annuali citati sopra – non porta alla sospensione dell’iscrizione alle liste di mobilità o alle liste di collocamento e, generalmente, non è incompatibile con altre attività. Ancor meglio per chi decide di fare il servizio civile all’estero: in questo caso al contributo fisso di 439,50 euro vanno aggiunti vitto e alloggio oltre ad un’indennità fissa giornaliera, che varia a seconda del «costo paese» in cui i volontari sono impiegati. Questa indennità è di 13 euro per l’Europa occidentale, il Nord America e il Giappone, 14 euro la Russia, Est Europa, Asia ed Oceania, e 15 euro per Africa, Sud-est asiatico, Centro e Sud America. Altri vantaggi per chi fa il servizio civile sono la sua riscattabilità a fini previdenziali e la sua validità per i concorsi pubblici.Tra gli enti che offrono più opportunità nei progetti ordinari ci sono Arci Servizio Civile, Caritas, Anpas (Associazione nazionale pubbliche assistenze), Avis (Associazione volontari italiani sangue) e Uiciechi (Unione Italiana dei ciechi e degli ipovedenti), che organizzano diversi progetti in tutta Italia. È possibile consultare gli elenchi completi collegandosi a questa pagina.Per quanto riguarda la presentazione delle candidature, da quest’anno la procedura è cambiata. Ci si può candidare soltanto attraverso la piattaforma Dol (Domanda Online), a cui si può collegare da qui o attraverso questo sito. Si può accedere alla piattaforma solo attraverso Spid (Sistema di Identità Digitale) o con le credenziali fornite dal dipartimento per le politiche giovanili e il servizio civile universale. C’è tempo fino alle 14 del prossimo 10 ottobre. Le selezioni saranno compiute dall’ente organizzatore del progetto a cui ci si sta candidando secondo criteri stabiliti dalla legge. È importante, infine, ricordare che non ci si può candidare a più progetti contemporaneamente, pena l’esclusione da tutte le selezioni. Giulio Monga

Tirocini, nuova normativa in Molise: confermata anche la bizzarria dell'importo massimo accanto al minimo

A due anni dall’approvazione delle “Linee guida in materia di tirocini formativi e di orientamento”, la Regione Molise, nel maggio scorso, ha deliberato il recepimento della normativa. «La delibera approva la modulistica per la gestione delle linee guida recepite dalla Regione il 7 luglio 2017» commenta Pasquale Spina, responsabile dell’Ufficio tirocini regionale, «con il risultato di facilitare sia l’applicazione, ai soggetti promotori e ai soggetti ospitanti, delle norme previste nella citata delibera che il conseguente controllo». Confermate fra le altre cose l'entità del rimborso minimo e anche quella del rimborso massimo. Un aspetto, quest'ultimo, alquanto singolare – in quanto vincola le aziende ospitanti non solo a non andare al di sotto di un'indennità minima ma anche a non superare una certa soglia: una circostanza che esiste soltanto in un altro territorio, la provincia di Trento, e che sembra andare non a favore, bensì contro gli interessi degli stagisti! Per quanto non previsto dal nuovo documento la giunta regionale rimanda al Dgr 600/2013. Come appunto l’importo minimo mensile per i tirocini formativi e di orientamento, fissato a 300 euro lordi per i tirocini “part-time”, con un impegno orario di massimo 20 ore settimanali. Un importo che, come si legge nella delibera, «aumenta proporzionalmente in relazione all’impegno del tirocinante fino a un massimo di 30 ore settimanali, con un’indennità di partecipazione mensile di 450 euro». Invece per i tirocini di inserimento e reinserimento l'importo minimo è di 400 lordi per i part-time (anche qui dunque massimo di 20 ore settimanali) e aumenta proporzionalmente in  relazione all’impegno del tirocinante, fino a un massimo di 30 ore settimanali con una indennità di partecipazione di importo mensile pari a 600 euro.«Se le ore settimanali previste dal contratto collettivo applicato dal soggetto ospitante, in riferimento alle attività oggetto del percorso formativo sono superiori a 30 ore settimanali» aggiunge Spina «si deve tenere presente il criterio della proporzionalità per determinare l’indennità di partecipazione, ma non è consentito arbitrariamente aumentare l’indennità di frequenza del tirocinio. Possono essere concesse, in aggiunta all’indennità di frequenza, eventuali facilitazioni quali mensa aziendale, buoni pasto, trasporto con mezzi pubblici o altro, ma a presentazione di certificata documentazione di spesa».Anche per la durata dei tirocini si continua a far riferimento alla precedente normativa, che fissava a 6 mesi la durata massima dei tirocini formativi e di orientamento e a 12 quella per i tirocini di inserimento/reinserimento e per quelli rivolti a soggetti svantaggiati, che diventano 24 per i soggetti disabili. La durata minima del tirocinio, salvo quello estivo che non può essere inferiore ad un mese, non può essere inferiore a due mesi.Si specifica poi che il tirocinante ha diritto a una sospensione del tirocinio per maternità, per infortunio o malattia di durata pari o superiore a 30 giorni solari, nonché per chiusura aziendale della durata di almeno 15 giorni solari. Il periodo di sospensione non concorre al computo della durata complessiva del tirocinio.Il tirocinio può inoltre essere interrotto dal soggetto ospitante o dal soggetto promotore in caso di gravi inadempienze da parte di uno dei soggetti coinvolti e in caso di impossibilità a conseguire gli obiettivi formativi del progetto. Lo scorso aprile Spina ci aveva parlato del processo di introduzione di un sistema informatizzato per i percorsi di tirocinio. «Allo stato, si stanno osservando i vari sistemi delle altre regioni, come ad esempio Lazio, Emilia-Romagna e Lombardia. In ogni caso, quello dell’apprendistato è partito e, anche se in fase embrionale, non ha avuto problematiche rilevanti».Insomma, nonostante la lunga attesa, non risultano variazioni significative rispetto a quanto stabilito nell’ultima normativa regionale. Intanto in Molise, secondo i dati raccolti dal Rapporto sulle comunicazioni obbligatorie 2019, nel 2018 c’è stato un leggero aumento dei tirocini extracurriculari attivati: 2.212 rispetto ai 2.144 del 2017 e ai 2.126 del 2016. Dati che si inseriscono in un contesto di forte disoccupazione giovanile. Secondo un recente rapporto dell’Ufficio studi di Confcommercio, su 30mila giovani fra i 15 e i 24 anni, il 40,3 per cento sono disoccupati. E il tirocinio rappresenta ancora per tanti un’opportunità per uscire, almeno temporaneamente, dall’inattività. Rossella Nocca