Giada Scotto
Scritto il 01 Mar 2018 in Approfondimenti
#chances occupazionali #laurea psicologia #occupazione giovanile
Un paziente sdraiato sul lettino a raccontare le proprie inquietudini e un esperto seduto accanto a lui per ascoltarlo e aiutarlo. È così che, complici le tante scene dei film, il mestiere dello psicologo - da non confondere con quello dello psichiatra, che viene invece da una laurea in medicina! - figura da sempre nell’immaginario comune. Eppure questa professione sembra vivere oggi una fase di profonda trasformazione, che porta lo psicologo al centro di ambiti lavorativi nuovi e differenziati, fornendogli così anche nuovi sbocchi occupazionali, quanto mai necessari in una fase in cui la figura stereotipata di “terapeuta di un disagio” sembra trovare poco spazio.
Secondo i dati dell’ultimo rapporto Almalaurea, infatti, il tasso di occupazione per i laureati in psicologia a un anno dal titolo si aggira intorno al 45%, per salire poi al 79% a cinque anni dal conseguimento del titolo. Anche per quanto riguarda la retribuzione le prospettive non sono delle più rosee, piazzandosi questa all’ultimo posto sia a uno che a cinque anni: si parla infatti rispettivamente di 727 e 1.011 euro al mese.
È forse proprio per queste difficoltà che il numero di iscritti alle facoltà di psicologia risulta ormai da qualche anno in calo: dieci anni fa (anno accademico 2008/2009) gli iscritti erano oltre 47mila, nell'anno accademico 2015/2016 poco più di 40mila, con una diminuzione del 15%. L’andamento negativo si riscontra però solo nella laurea triennale, convertendosi invece in una linea lievemente crescente per gli iscritti alla laurea magistrale, passati da 18mila a oltre 20mila. Se gli aspiranti psicologi sono molti mentre le opportunità scarseggiano, insomma, è bene infatti rinforzare il proprio curriculum formativo per cercare così di accaparrarsene una.
La tendenza a proseguire negli studi dopo la laurea di primo livello risulta evidente anche dai dati provenienti dall’Ordine degli Psicologi, secondo cui la quasi totalità dei circa 105mila iscritti risulta registrata nella sezione A dell’albo, riservata a coloro che hanno nel proprio cv non soltanto la laurea triennale ma anche quella magistrale, più un anno di tirocinio e il superamento dell’esame di Stato per l’abilitazione professionale. Solo poche centinaia sono invece iscritti alla sezione B, che prevede diverse limitazioni alla prassi professionale e a cui si può accedere con la sola laurea triennale, accompagnata da tirocinio semestrale e debito esame di stato. Dei 105mila iscritti all'albo, tuttavia, solo 60mila svolgono effettivamente la professione di psicologo, secondo i dati Enpap: che ci sia dunque una difficoltà ad inserirsi attivamente nel mercato del lavoro è evidente.
Ma ci sono specialistiche che, alla prova dei fatti, danno qualche chances occupazionale in più? «In linea di massima le opzioni di scelta per il biennio di specialistica si dividono tra clinica, area dello sviluppo e lavoro/marketing, e chi si laurea in psicologia del lavoro, del marketing o delle organizzazioni ha una strada più facile da percorrere in termini di chances occupazionali» risponde alla Repubblica degli Stagisti Cecilia Pecchioli, presidente dell’associazione Giovani psicologi della Lombardia. Questo perché «per esercitare come psicologo del lavoro non è necessaria l’abilitazione professionale, quindi non si deve fare l’esame di stato né iscriversi all’ordine degli psicologi, e, cosa più importante, ci si scontra subito con una ricca domanda».
Il mondo aziendale infatti, sia per obblighi legislativi e fiscali che per evoluzione sociale, richiede sempre più la figura dello psicologo per quanto riguarda l’ambito della selezione del personale, il potenziamento delle risorse, il mondo del welfare aziendale. «Con una laurea in psicologia del lavoro si può già iniziare a lavorare, perché non sono richieste grandi specializzazioni. Un titolo in più può sempre aumentare le possibilità di assunzione, ma parliamo di corsi e/o master che impegnano uno/due anni, non di più. Anche l’esperienza pratica è più facile da realizzare, in quanto non ci si deve scontrare con il diritto alla privacy di un paziente che deve parlare dei suoi problemi», spiega Pecchioli.
Diverso è invece il destino di coloro che decidono di intraprendere la strada della psicologia clinica, dove è innanzitutto obbligatoria l’abilitazione professionale, e bisogna quindi considerare di spendere almeno altri due anni tra tirocinio post lauream ed esame di stato. «Dopodiché la strada è tutta in salita. Non si possono fare affiancamenti presso studi privati per una questione sia deontologica che di privacy del paziente. E la semplice laurea non è sufficiente per farsi spazio nel mondo del lavoro». Per questo è necessario specializzarsi in qualche ambito: «la maggior parte intraprende la specializzazione in psicoterapia. Altri prendono strade diverse, nel mondo della scuola o nell’area giuridica». Strade differenti ma tutte ugualmente lunghe e impegnative, che richiedono molte ore di pratica. Se c’è però tra queste un ramo che offre maggiori chances è quello scolastico, che «negli ultimi anni ha avuto un’impennata», osserva Pecchioli.
Il problema della saturazione del mercato però resta, perché «siamo tanti, forse troppi», tanto che l’Ordine nazionale è arrivato tempo fa a proporre addirittura la chiusura di alcune facoltà o perlomeno un irrigidimento delle prove d’accesso al corso di studi. «Il bisogno di psicologi c’è, lo si vede quotidianamente, ma la società fa ancora fatica a riconoscere la psicologia come qualcosa di necessario. Credo però che la nostra categoria stia vivendo anche un’importante fase di cambiamento»: da poco la psicologia è stata riconosciuta come professione sanitaria e le prestazioni psicologiche sono entrate a far parte dei “Livelli essenziali di assistenza” (Lea); «Fino a pochi mesi fa non eravamo contemplati se non come un surplus nel settore pubblico, tanto che il numero di psicologi presenti nel sistema sanitario nazionale era, ed è, decisamente esiguo, e inquadrato in modo decisamente precario, con contratti a progetto o collaborazioni a partita iva. L’impostazione è ancora prettamente medica, ma crediamo che queste novità legislative siano la premessa per una grande cambiamento».
Al momento, però, il settore pubblico sembra pressoché impenetrabile per uno psicologo: «il numero di psicologi stabilmente assunti nel sistema sanitario nazionale permane ormai da molti anni intorno alle 6mila unità» conferma Luigi Castelli, presidente della Scuola di psicologia di Padova, al primo posto nell’ultima classifica della didattica Censis. Per questo i principali posizionamenti professionali risultano attualmente nell’ambito privato ma anche nel terzo settore, in particolare nell’ambito clinico e educativo (cooperative, comunità, rsa ecc.): «Il modello professionale dello psicologo si è modificato significativamente negli ultimi decenni: rispetto al classico stereotipo di psicologo-psicoterapeuta che riceve pazienti nel suo studio individuale i ruoli professionali sono evoluti: nel terzo settore, il “privato sociale”, trovano lavoro molti laureati in psicologia, soprattutto nelle fasi iniziali della carriera».
Se la differenza tra opportunità nel privato e nel pubblico si fa sentire, la stessa cosa sembra riscontrarsi anche tra le chances occupazionali in Nord e Sud Italia. Le regioni del Nord continuano infatti ad essere considerate quelle più ricche di opportunità, ma ciò non fa che produrre una saturazione del mercato in quelle zone – con conseguente disoccupazione di coloro che vi hanno riposto le proprie speranze – e l’andare deserti di concorsi pubblici al Sud, che falliscono poiché non ci sono iscritti. «Molti colleghi si trasferiscono a Milano, Padova, Pavia e Roma perché qui ci sono le facoltà più “forti”, dopodiché restano qui, pensando che in una metropoli come Milano ci sia maggiore possibilità di trovare un lavoro» spiega Pecchioli: «Ma in realtà è un paradosso, se pensiamo che la Lombardia ha circa 19mila psicologi, di cui più della metà sono collocati nel capoluogo. Il Sud Italia è oggettivamente un terreno più fertile».
Ma cosa serve per mettere a frutto una laurea in Psicologia? Secondo Castelli innanzitutto «una forte proattività, ma anche buone competenze progettuali da adattare continuativamente e una solidissima formazione teorico-metodologica di base in ambiti applicativi anche molto diversi» perché «l’evoluzione dei bisogni sociali è rapida e richiede professionisti in grado di anticipare e rispondere adattativamente ai loro continui cambiamenti».
Giada Scotto
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