Categoria: Approfondimenti

I giovani italiani, quei soliti maleducati (finanziariamente)

Che non sapessero contare lo sapevamo già; che non sapessero leggere, pure. Non stupisce quindi che anche a decidere come investire i propri guadagni non siano esattamente delle cime. È così: quando arrivano i risultati di un test PISA, i giovani italiani mostrano regolarmente conoscenze sotto la media degli altri paesi, indipendentemente dalla materia di riferimento. I dati condannano, i giornali titolano, i genitori biasimano, i politici piangono. Ma possiamo davvero accontentarci di una narrazione così consequenziale e scontata? Il fenomeno risulta tanto grave quanto complesso. E a guardare bene, le responsabilità sono molto più diffuse di quanto possa a prima vista sembrare. I dati infatti non possono condannare, ma soltanto descrivere; e la metodologia di ricerca può essere ovviamente criticata. Ma va prima compresa. E i giornali titolano, sì, ma poi si dimenticano in fretta, sempre meno interessati ad approfondire; i genitori biasimano: ma, tristemente, proprio la famiglia di origine risulta essere una delle principali fonti di capitale umano dei giovani. E i politici piangono, ma sono lacrime di coccodrillo: i bilanci pubblici in Italia consumano e mangiano (il futuro de) i propri figli ormai da decenni. La spesa per istruzione in Italia è meno di un terzo di quella pagata per le pensioni: e la prospettiva è che la prima sia in costante diminuzione, mentre la seconda in costante aumento. Ma perché è così importante l’educazione finanziaria? Cosa dicono davvero i dati? E soprattutto, cosa stiamo facendo per invertire questa tendenza? L’educazione finanziaria descrive le capacità di un individuo, giovane o adulto che sia, di compiere decisioni che richiedono una valutazione di scenari incerti, cioè collegati a probabilità di accadimento e non a certezza, nonché capacità di programmazione per il futuro. Si tratta di decisioni strategiche e di lungo periodo, come quelle che riguardano la scelta di un mutuo, o quella sulla necessità di integrare o meno la propria pensione pubblica obbligatoria, ma anche di decisioni più quotidiane, come la scelta di un piano tariffario (a seconda dell’età, per un cellulare o per un’utenza domestica) o quella di un regime fiscale per la propria professione. Queste decisioni hanno ripercussioni innanzitutto sul benessere dei singoli individui coinvolti: e già questo basterebbe a giustificare una certa attenzione pubblica alla diffusione dell’educazione finanziaria. Ma esse impattano in ultima analisi anche sull’efficienza di tutto il sistema economico, nonché di quello politico. Per esempio, una cultura finanziaria adeguata permetterebbe di comprendere meglio le conseguenze di alcune riforme o l’inconsistenza di talune promesse elettorali. Di cosa siano i test PISA e di quali siano i risultati dei giovani italiani in matematica, italiano e scienze si è già scritto. Questi test sono stati molto criticati dal punto di vita metodologico: sono omogenei ma si riferiscono a sistemi educativi anche molto diversi tra loro, enfatizzano i risultati medi a livello nazionale quando invece all’interno dei singoli paesi potrebbero coesistere differenze territoriali enormi. Tuttavia, vengono regolarmente somministrati da ormai vent’anni e, seppur coi loro limiti, costituiscono una pietra di paragone piuttosto interessante, sia per i confronti internazionali sia – e forse soprattutto – per quelli intertemporali all’interno di uno stesso stato. Del round PISA 2018 fa parte anche il capitolo sull’educazione finanziaria. I risultati, presentati dall’Ocse un paio di settimane fa, sono effettivamente poco incoraggianti per il nostro paese, che peggiora rispetto al 2015. Il punteggio medio dell’Italia (476, con un massimo di 481 e uno minimo di 472) è inferiori alla media Ocse (505). In cima alla classifica, Estonia (547) e Finlandia (537), mentre superiori a noi ma comunque sotto la media si trovano paesi come la Spagna (492) e la Slovacchia (481). Tra i paesi Ocse che hanno partecipato al test – non molti, a dire il vero – solo il Cile ottiene un risultato inferiore (451). Tra i paesi non Ocse invece solo la Russia (495) fa meglio di noi. Come per le altre materie, permangono differenze di genere che, così come successo in matematica, premiano i maschi. Un risultato che caratterizza fortemente l’Italia rispetto agli altri paesi, tanto che il differenziale dei risultati, solo +2 per la media Ocse, arriva a +15 per l’Italia. Una possibile spiegazione potrebbe essere che – ma questo è vero in quasi tutti i paesi – è più probabile che i genitori parlino di questioni finanziarie con i figli invece che con le figlie. Eppure in Italia di iniziative non ne mancano. La stessa Ocse ne fa menzione nel suo report. Ma si tratta di progetti non coordinati e spesso solo sporadici: «Tra i numerosi fattori che possono spiegare tali risultati, uno potrebbe essere quella della mancanza di chiarezza degli obiettivi. Raramente i programmi dedicati all’educazione finanziaria hanno una progettazione che fa tesoro dei risultati della ricerca scientifica; e non esiste un coordinamento tra le numerose azioni» spiega la professoressa Emanuela Rinaldi, sociologa dei processi culturali e comunicativi presso l'università̀ Milano Bicocca e responsabile scientifica dell’Osservatorio nazionale di educazione economico finanziaria, una delle massime esperte italiane sul tema: «I dati mostrano chiaramente come l’alfabetizzazione finanziaria dei giovani sia un problema serio. Ed è la scuola a doversene occupare, soprattutto perché le famiglie non appaiono adeguatamente preparate in questo campo».Le raccomandazioni dell’Ocse non sono particolarmente approfondite ma non per questo risultano meno condivisibili: le difficoltà vanno affrontate dove maggiori sono i problemi, quindi con attenzione particolare alle disuguaglianze sociali e di genere, senza dimenticare l’importanza di promuovere l’utilizzo di strumenti finanziari, come conti correnti, tra i giovani stessi. In altre parole, aumentare l’esposizione e gli strumenti a disposizione dei giovani, a partire appunto dalla scuola.Purtroppo in Italia l’educazione finanziaria non fa ancora parte del curriculum scolastico obbligatorio. Le scuole possono aderire a iniziative ad hoc, ma questo accade quando insegnanti e dirigenti sono particolarmente sensibili al tema e quando riescono a mobilitare le risorse necessarie. Una delle più note – ma certamente non l’unica – è probabilmente quella promossa dalla Banca d’Italia che a partire dal 2006 offre programmi di formazione per insegnati delle scuole primaria e secondaria, che hanno poi il compito di trasferire queste conoscenze ai loro studenti. A ben vedere, una casualità che è ulteriore elemento di disuguaglianza dopo quello della famiglia di appartenenza, e che amplifica le differenze all’interno del nostro paese. Le differenze socio-economiche della famiglia di appartenenza spiegano parte della variabilità dei risultati ottenuti dagli studenti italiani; unico elemento di consolazione il fatto che tale disuguaglianza sia in media superiore nel resto dei paesi Ocse. Ma l’Italia è uno dei paesi in cui il minor numero di studenti (meno del 70%) ha dichiarato di essersi confrontato con i propri genitori almeno una o due volte al mese sulle proprie decisioni di spesa. Ed è comunque la scuola il luogo dove l’esposizione a questi temi risulta particolarmente deficitaria: solo il 40% degli studenti italiani ha dichiarato di aver affrontato in classe problemi matematici su questioni finanziarie. Nessuno peggio di noi tra i paesi dell’Ocse. E solo la Serbia tra gli altri. Manca del resto anche una vera e propria strategia nazionale, che riguardi non solo i giovani ma l’intera popolazione. Solo a partire dal 2017 il governo italiano sembra avere preso le cose seriamente e ha affidato a un comitato il compito di coordinare tutte le iniziative pubbliche e private in materia. Dal 2018, si tiene il “Mese dell’educazione finanziaria” e nel 2019 si sono tenute le prime “Olimpiadi di economia e finanza”, cui hanno partecipato trecento scuole superiori e circa 7600 studenti. Buone intenzioni, ma sempre troppo omogenee, quando è ormai evidente che andrebbero personalizzate – ad esempio, tenendo conto del genere cui si rivolgono – e ancora troppo poco coordinate. Paolo Balduzzi

Cloud Data Architect, Bip e Cefriel propongono un master per portare l'intelligenza artificiale nelle aziende

Un flusso continuo di dati scandisce le nostre vite, così come quelle delle aziende. Nasce così l'idea di lanciare un master biennale non universitario per formare futuri Cloud Data Architects, esperti di dati capaci di sfruttare le potenzialità dell'intelligenza artificiale mettendola al servizio del business aziendale. Nello specifico si forniranno «gli strumenti per affrontare in autonomia le fasi di disegno, configurazione e implementazione di architetture dati su cloud» si legge sulla brochure del corso. L'offerta arriva da Bip, multinazionale della consulenza, e Cefriel, società che opera nell'ambito dell'innovazione, entrambi membri del network virtuoso della RdS. E si presenta come occasione da non lasciarsi scappare per chi ha un background di tipo informatico: chi entrerà al master sarà infatti assunto in automatico in Bip con la formula dell'alto apprendistato. Che in concreto significherà dedicare una parte iniziale alla formazione, per poi passare al lato tecnico, entrando definitivamente in azienda. «I selezionati saranno dai dodici ai quindici» assicura alla RdS Marco Pesarini, director di Bip [nella foto]. «E per loro la fase successiva all'apprendistato equivarrà a un'assunzione in pianta stabile in azienda». Inevitabile «considerato il costo dell'investimento che facciamo su queste nuove risorse, sarebbe assurdo formarle per poi lasciare che siano altri a avvantaggiarsene».Non vi è nessun tipo di costo a carico di chi parteciperà al master. Per retribuzione e possibilità di carriera, ribadiscono poi da Bip, «durante il rapporto di apprendistato il professionista sarà inserito in un sistema di crescita progressivo sia per quanto riguarda il livello di inquadramento che per il relativo trattamento economico». Ci sarà quindi uno stipendio iniziale, destinato a crescere con il tempo. Il corso inizierà a metà giugno, e per le candidature – finora quelle pervenute sono una cinquantina – c'è tempo fino alla prima settimana del mese prossimo. Per i primi due mesi il master sarà interamente online. «L'idea è costruire un percorso che preveda lezioni teoriche di mattina, e poi esercitazioni nel pomeriggio, così fino a fine luglio» spiega alla RdS Fabio Giani [nella foto sotto], che per Cefriel contribuisce all'organizzazione del corso. «Il nostro ruolo è quello di erogare la formazione che Bip ci richiede» sottolinea Giani. «Siamo già alla seconda partnership, iniziata con un precedente master per data engineer». Successivamente, superata la pausa estiva, «nel resto del biennio dovranno erogarsi 400 ore di formazione, che corrisponderanno a circa due o tre giorni al mese di lezione». Gli apprendisti a quel punto saranno già operativi in azienda e inizieranno a «dare il proprio contributo nella configurazione e ingegnerizzazione di architetture cloud data» scrivono gli organizzatori nella presentazione del master. «I ragazzi saranno impiegati come analyst nei primi progetti per i clienti» specifica Pesarini. E si tratterà di aziende come «Fiat, Unicredit, Generali, tutte firme che vedranno l'intelligenza artificiale entrare nella loro operatività». Se adesso usiamo Siri come strumento personale, esemplifica il manager, «questo a breve si convertirà come mezzo aziendale». Più nel concreto si arriverà per esempio «a usare Siri per automatizzare la risposta ai call center di Intesa San Paolo». Oppure, continua, «si potranno migliorare le immagini di Facebook per leggere i difetti di alcuni prodotti». Si lavorerà nelle sedi di Milano e Roma, ma non sarà necessaria sempre la presenza fisica perché «lo smart working è una modalità che adottiamo normalmente nel nostro quotidiano in Bip» evidenzia Pesarini. Per candidarsi è indispensabile una laurea nelle materie Stem. «Ma non necessariamente Ingegneria» chiarisce il direttore. «Potrà trattarsi anche di Matematica, Fisica o Statistica». L'aspetto imprescindibile «è avere competenze di programmazione, perché è su quelle basi che si dovrà lavorare». Nello specifico servirà «dimestichezza con almeno un linguaggio tra C++, C#, Java o Python, conoscenza di dati relazionali e SQL, familiarità con sistemi Unix/Linux e Windows» si sottolinea nella brochure del master. Non ci sono vincoli di età, se non quelli legati alla normativa sull'apprendistato, che prevede un tetto massimo di trent'anni al momento dell'ingresso. Quanto alla selezione (qui il link), «chiediamo ai candidati di registrare un video in cui rispondono a alcune domande» prosegue Pesarini. In questo modo «riusciamo a valutare l'aspetto motivazionale, oltre a conoscere i dettagli del cv». Perché le ottime capacità relazionali e l'attitudine al teamworking sono alcuni tra i requisiti di accesso elencati nella presentazione del corso. A contare è per Pesarini «anche il voto di laurea». E l'inglese, considerando che il master sarà erogato in questa lingua. La didattica sarà curata interamente da docenti del Politecnico di Milano e da massimi esperti di Architetture dati con un programma incentrato su basi di cloud computing, orchestrazione e multi-cloud, fondamenti di basi di dati, SQL e datawarehousing. Concetti ignoti ai più, ma che portano dritti nel futuro. Ilaria Mariotti 

Studenti-tirocinanti, gli effetti del Covid sugli stage curricolari tra sospensioni e prosecuzione da remoto

Il fatto che decine di migliaia di tirocini si siano interrotti, siano stati sospesi, o non siano proprio potuti partire a causa dell’emergenza Coronavirus è un problema per tutti. Costringere gli stagisti all’inattività, privarli del reddito costituito dall’indennità mensile, impedire loro di completare il percorso formativo previsto sono danni oggettivi che non vanno sottovalutati. Ma c’è una categoria per la quale a queste criticità ne va aggiunta una supplementare: l’impossibilità di accumulare i cfu necessari per il proprio percorso accademico. Cioè per laurearsi. Parliamo in questo caso dei tirocini universitari – in particolare di quelli curricolari, e ancor più in particolare quelli che comportano l’acquisizione, cioè i crediti formativi universitari.In quasi tutti gli atenei d’Italia a marzo tutti i tirocini – curricolari ed extracurricolari – si sono fermati, per qualche giorno o qualche settimana, per capire come organizzarsi la nuova situazione. Poi, lentamente, e anche in coerenza (ove possibile) con le indicazioni regionali, gli atenei hanno preso decisioni riguardo ai tirocini extracurricolari – se sospenderli, interromperli, oppure autorizzarne la prosecuzione nella modalità “smart internshipping”, cioè da remoto. E contemporaneamente hanno dovuto anche gestire la patata bollente dei tirocini curricolari.Chiaramente qui un fattore chiave è stato quello della facoltà universitaria frequentata, e della tipologia di tirocinio: perché se uno stage in marketing si può svolgere anche da remoto, diverso è il discorso per uno stage che si svolge in un laboratorio chimico o in un’acciaieria: le strumentazioni utilizzate dagli stagisti (non di rado il tirocinio curricolare viene utilizzato anche per raccogliere dati e materiale per la stesura di tesi “sperimentali”) non sono trasportabili, e senza di esse proseguire diventa difficile, se non impossibile.Dunque gli atenei si sono ritrovati subissati di richieste da parte degli studenti: che ne sarà del mio tirocinio? Se non lo finirò non potrò laurearmi?All’università di Bari per esempio i tirocini, sia curricolari sia extracurricolari, sono stati sospesi dall’8 marzo all’8 aprile: lo conferma alla Repubblica degli Stagisti Teresa Fiorentino, direttrice tecnica dell’agenzia per il placement. Poi è intervenuta una disposizione rettorale che ha ripristinato la funzionalità: «Abbiamo avuto un Rettore molto presente sulla questione; dopo una prima sospensione delle attività, perché la situazione era abbastanza nebulosa per tutti» e mancavano «chiare direttive dal nostro Miur» il rettore, Stefano Bronzini,aveva previsto «la sospensione delle attività dei curricolari». Un mese dopo il rettore, «considerato anche che c’era pressione da parte degli studenti, sopratutto di quelli che erano in procinto di laurearsi», ha invece inviato «a tutti i responsabili e coordinatori dei corsi di laurea» una comunicazione che attestava la possibilità di svolgere di nuovo «le attività di tirocinio curricolare, con smart working o con lo svolgimento di project work».In generale, le università sono abbastanza precise nel riportare sui propri siti la policy adottata in maniera Il Politecnico di Milano per esempio ha pubblicato delle “Linee Guida rispetto alle attività di tirocinio in corso e in corso di attivazione a fronte dell’emergenza sanitaria da Covid-19”. Il documento, aggiornato al 5 maggio e valido fino al 17, per quanto riguarda i «tirocini curricolari obbligatori e facoltativi» prevede che quelli già in corso debbano «preferibilmente continuare in modalità smart working», specificando che «se sono al momento sospesi e non possono continuare in modalità smart working possono, in caso di riapertura dell’ente ospitante, riprendere in presenza a condizione che l’ente ospitante garantisca preliminarmente le giuste misure organizzative di prevenzione e protezione» previste dalla legge. E per quanto riguarda l’attivazione di nuovi tirocini curricolari? Si può fare: «devono essere preferibilmente avviati in modalità smart working o, in caso di impossibilità, possono essere avviati in presenza» sempre se l’ente ospitante assicura «prevenzione e protezione».Federica Fumagalli è una studentessa di Ingegneria elettronica proprio al Politecnico di Milano – facoltà scelta «per una passione che ho sempre avuto per le materie scientifiche, soprattutto per poter comprendere fino in fondo come vengono sviluppate e ideate le nuove tecnologie che ormai coinvolgono moltissimi aspetti della nostra vita e per diventare parte attiva di questi processi di innovazione» – nonché violinista amatoriale e stagista in Bosch, una delle aziende virtuose dell’RdS network – in particolare presso Bosch Sensortec, «che si occupa dello sviluppo di elettronica di consumo con sensori MEMS». Si tratta del suo «primo tirocinio in assoluto», e le serve per la tesi di laurea: «Sto lavorando nella divisione responsabile del test per poter realizzare il mio progetto di tesi magistrale». Sta svolgendo un tirocinio intersecato all’impegno universitario. Vivendo coi la sua famiglia a Osnago, un paese in provincia di Lecco, prima del lockdown raggiungeva la sede Bosch facendo la pendolare. Poi, all’improvviso, il passaggio alla modalità da remoto: «Quando il cosiddetto “paziente uno” è stato rilevato in Italia, sono stata avvisata dal mio responsabile in azienda che per almeno una settimana avremmo dovuto lavorare da casa come precauzione. Come è possibile immaginare, questa situazione si è prolungata… fino ad adesso. Ho sempre ricevuto indicazioni puntuali su come agire. Ho lavorato in modalità “smart” per circa due settimane, dopo di che ho ricevuto la comunicazione che il mio tirocinio sarebbe stato sospeso fino alla fine di marzo, anche su richiesta dell’università». La studentessa-stagista è costretta dunque a qualche settimana di pausa: «La situazione sanitaria stava peggiorando velocemente ed era evidente che con aprile non si sarebbe sicuramente ritornati alla normalità lavorativa; temevo quindi che la sospensione sarebbe stata prolungata». Invece il 1° aprile il suo stage riceve il via libera per la ripresa, attraverso una comunicazione «precisa e puntuale» da parte dell’ufficio Risorse Umane di Bosch e una «interfaccia piuttosto agile con l’università».«Non immaginavo fosse possibile svolgere uno stage da casa, vista soprattutto la sua fondamentale componente formativa. È senza dubbio più difficile svolgere il proprio lavoro senza il tutor e i colleghi presenti di persona e anche la risoluzione di problemi semplici diventa più macchinosa» riflette, ammettendo di essere «relativamente fortunata»: avendo iniziato lo stage già a settembre, è riuscita «a prendere un po’ più di confidenza con alcune dinamiche aziendali e ad instaurare un buon rapporto con i colleghi» prima che capitasse il lockdown: «Se tutto ciò fosse successo a poche settimane dall’inizio del tirocinio, le difficoltà sarebbero state molto maggiori».Un aspetto fondamentale è quello della strumentazione e dell’organizzazione: «Riesco a lavorare con ciò che utilizzavo anche in ufficio e con altri strumenti che possedevo già a casa, in particolar modo computer e cuffie per non disturbare gli altri componenti della famiglia durante le chiamate» dice Fumagalli: «In casa mia quattro persone devono lavorare contemporaneamente. È fondamentale quindi per noi avere una connessione internet buona e stabile, soprattutto per videochiamate, videoconferenze e per accedere agli ambienti di lavoro da remoto. È molto importante e necessario avere a disposizione un pc a testa con tutta la relativa strumentazione. Nel mio caso Bosch mi ha fornito tutto l’occorrente in termini di strumenti, ma penso a quanto questo può essere limitante per esempio per alcuni studenti o per chi vive in luoghi dove non è possibile avere una connessione internet sufficiente».Naturalmente proseguire lo stage da casa comporta molte limitazioni: «Per ora devo rinunciare alla parte di lavoro che avrei dovuto svolgere con la strumentazione di laboratorio. Poiché lo scopo finale del tirocinio è quello di realizzare un progetto per una tesi di laurea, non è strettamente legato ai cfu, quanto più al fatto di non avere eccessivi ritardi della data di laurea o modifiche radicali al lavoro inizialmente stabilito».Migliaia e migliaia di studenti e laureandi sono nella stessa situazione. L’università di Firenze in un documento prevede che «qualora i contenuti del tirocinio curriculare consentano di adottare modalità flessibili, il tirocinio può essere svolto a distanza, in  accordo tra studente, tutor aziendale e tutor  accademico, previo aggiornamento  del progetto formativo, specificando come vadano « privilegiate le attività di carattere compilativo volte all’analisi ed elaborazione di fonti, bibliografie ed esperienze finalizzate alla predisposizione di relazioni o progetti». L’ateneo specifica anche l’alternativa: «per i tirocini già avviati e poi sospesi a causa dell’emergenza Coronavirus, tutor aziendale, tutor accademico e studente possono concordare il superamento di una prova di acquisizione delle competenze, secondo   le modalità definite dall'Ateneo, in sostituzione allo svolgimento delle ore mancanti al completamento del tirocinio, qualora sia stato svolto almeno il 70% delle ore previste».Anche l’università di Torino esclude la possibilità di proseguire il tirocinio in presenza. Nel documento “Procedure straordinarie per tirocini, causa emergenza Coronavirus”, aggiornato a ieri (14 maggio 2020) e pubblicato sulla pagina del Job Placement di ateneo, si legge infatti che «i tirocini curriculari ed extracurriculari attivati (sia in Italia che all'estero) oppure ospitati dall'Università degli Studi di Torino, sono sospesi nella modalità in presenza». Subito dopo si specifica che «Per i tirocini curriculari è possibile la prosecuzione o l'attivazione solo ed esclusivamente se l’azienda/ente ospitante ha la possibilità di gestire e favorire il raggiungimento degli obiettivi formativi del tirocifnio in modalità telematica, ossia a distanza, senza che il/la tirocinante debba recarsi personalmente in azienda».Niente possibilità di tirocini curricolari in presenza, ma nessun problema se è possibile proseguirli da casa, nemmeno per l’università di Padova: «Tutti i tirocini/stage curriculari presso enti esterni all’Ateneo, esclusi quelli delle professioni sanitarie, fino al 17 maggio 2020 sono sospesi o attivati/convertiti in modalità telematica a distanza, previa comunicazione via mail al nostro ufficio da parte del referente aziendale» si legge sul sito del Career service.L’università Federico II di Napoli non sembra fare differenziazioni tra curricolari ed extracurricolari; ha approntato una pagina intitolata “Misure per la tutela della comunità federiciana dal 4 maggio 2020”, in cui vengono pubblicate le decisioni della “Task Force di Ateneo anti COVID-19”. Nella pagina si legge che «fino al 31.05.2020 le attività di tirocinio potranno svolgersi esclusivamente nella modalità a distanza» e che «a partire dal 01.06.2020 e fino al 31.07.2020 la ripresa delle attività di tirocinio, svolte in presenza presso terzi, potranno avvenire previa «valutazione delle condizioni di diffusione del contagio nell'area ove deve essere svolta l'attività» e «coordinamento con il soggetto ospitante per verificare le misure di prevenzione e protezione anti-COVID ivi adottate».Anche l’università di Trento ha predisposto una pagina ad hoc intitolata  “Covid-19 - Fase II”, in cui si legge che «i tirocini curriculari e extracurriculari possano essere svolti in modalità smartworking durante il periodo di emergenza se preventivamente autorizzati dall'ente ospitante e dal tutor accademico». Viene delineata anche una alternativa: «Qualora non sia possibile la prosecuzione o l'attivazione del tirocinio, la Direttrice o il Direttore della struttura accademica competente potrà adottare provvedimenti con i quali individuare le attività sostitutive del tirocinio che garantiscono il perseguimento degli obiettivi formativi previsti e l'attribuzione dei relativi cfu», rimandando per ulteriori dettagli alle «FAQ nella sezione Download». Le FAQ sono venticinque, e sono suddivise per fruitori: le prime dodici sono «uso studenti», le successive cinque successive «uso neolaureati», e le ultime otto «uso soggetti ospitanti». Vi si trovano per esempio risposte al quesito sulla possibilità di avviare ex novo tirocini curricolari in questo periodo (la risposta è sì, «in modalità da remoto», anche se è suggerita anche la possibilità di «posticipare l’avvio del tirocinio a fine emergenza sanitaria» e quella di «sostituire il tirocinio con un’attività alternativa»), e anche a quello sulla possibilità di far rientrare gli stagisti in presenza (domanda: «Abbiamo in essere un tirocinio curriculare in modalità da remoto a causa della situazione di emergenza sanitaria, ma avendo noi ripreso l’attività in presenza può il tirocinante tornare a svolgere le attività presso la nostra sede?», risposta: «No, anche se il Soggetto ospitante ha ripreso l’attività presso la propria sede […] il/la tirocinante può continuare a svolgere il tirocinio solamente in modalità da remoto»).«Un tirocinio in smart working era qualcosa di impensabile: il contesto culturale in cui sono cresciuto vede l’“andare al lavoro” come uno spostamento fisico» commenta Nicolò Cecchetto, 26enne originario di Sovizzo, un paese alle porte di Vicenza, laureato in Scienze dell’Educazione a Padova e attualmente in dirittura d’arrivo della magistrale in Human Computer Interaction proprio presso l’università di Trento: «Avevo studiato le modalità di lavoro da remoto, ma non pensavo le avrei utilizzate così presto nella mia carriera!»Cecchetto ha cominciato il suo tirocinio curricolare in Bip, un’altra delle aziende virtuose del network della Repubblica degli Stagisti, il 17 febbraio – pochi giorni prima che scoppiasse il pandemonio: «Nell’unica settimana di stage che ho svolto in sede prima dell’emergenza ho conosciuto il mio tutor aziendale ed altri referenti sia del mio team che delle risorse umane» ricorda: «Il passaggio al lavoro da casa è stato piuttosto automatico e non accompagnato da grandi stravolgimenti: lo smart working è una prassi consolidata in Bip». Oggi però la sua giornata tipo è decisamente diversa: «Sono rientrato a Sovizzo. Dato che il tragitto più lungo da compiere è quello cucina-studio e che sfortunatamente non vivo – ancora! – in un castello ma in un appartamento, posso puntare la sveglia mezz’ora prima dell’inizio delle attività lavorative. Gli orari di lavoro sono rimasti invariati; quando non ho mansioni specifiche mi dedico ai corsi di formazione offerti online da Bip. Lavoro solitamente in una stanza, già normalmente adibita a studio, in cui riesco a concentrarmi senza grandi difficoltà».L’unico aspetto problematico è stato che, essendo il suo un tirocinio curricolare, in prima battuta era stato sospeso d’ufficio, come in tutte le università d’Italia. Poi però il suo ateneo ha dato il via libera alla ripresa: «Dopo un paio di settimane di stop, le disposizioni rettorali mi hanno permesso di tornare a lavorare da casa».Per tutti poter continuare lo stage è stato una boccata di ossigeno, se non un vero e proprio elemento “di salvezza” per dare senso alle proprie giornate: «Mi consente di avere un impegno costante e regolare in questa nuova quotidianità che si è venuta a creare con l’emergenza» dice Cecchetto, contento anche di essere riuscito così a rispettare «i tempi nella mia personale “tabella di marcia” verso il conseguimento del titolo magistrale, che uno slittamento del tirocinio avrebbe sicuramente allungato». Ma certamente questa situazione ha avuto un forte impatto su molti studenti universitari, e non tutti sono stati fortunati come Federica Fumagalli e Nicolò Cecchetto. «A mia amica e compagna di corso, che stava svolgendo anche lei un tirocinio in azienda per svolgere un progetto per la tesi di laurea» racconta Fumagalli: «lo stage è stato sospeso fino alla fine di maggio; a differenza mia, non le hanno dato la possibilità di lavorare da casa. Si ritrova quindi un ritardo sul lavoro di almeno tre mesi, con conseguente ritardo sul conseguimento della laurea e, ovviamente, perdita dell’indennità mensile». La scelta in questo caso è stata del soggetto ospitante, cioè l’azienda: «L’università può fare poco in questo caso». Un altro compagno di università di Federica avrebbe dovuto iniziare il suo stage per la tesi a febbraio, «Ma causa di ritardi dell’azienda e emergenza sanitaria si è ritrovato slittato minimo a settembre». Ma questo avrebbe significato dover posticipare la data di laurea: «È stato quindi costretto a rinunciare a questa opportunità lavorativa e cercare un altro progetto in università da poter almeno iniziare in tempi più brevi per non dover ritardare troppo la fine degli studi». Che sembra essere il problema numero uno per tutti gli studenti universitari rimasti intrappolati nell’emergenza Coronavirus.

Covid, le quattro priorità per gli stage: urgono interventi della politica

L'emergenza Coronavirus sta dimostrando purtroppo, ancora una volta, che la categoria “ibrida” dei tirocinanti – non solo studenti, ma non ancora proprio lavoratori – viene ignorata dalla politica. La Repubblica degli Stagisti per invertire la rotta propone una piattaforma programmatica di quattro semplici punti per riportare l'attenzione su questa categoria, che coinvolge ogni anno almeno mezzo milione di persone: circa 350mila tirocini extracurricolari all'anno “censiti” dal ministero del Lavoro, più un numero indefinito – con tutta probabilità non inferiore a 200mila – di tirocini curricolari, svolti cioè all'interno di percorsi di studio formalmente riconosciuti come scuole professionali, corsi universitari, master. Come già abbiamo scritto nelle scorse settimane, in tempi normali si possono fare distinzioni, valutazioni, si può cercare “l'ottimo” mettendo in attesa il “buono”. Ma i tempi sono eccezionali, e richiedono misure eccezionali. Va salvaguardata ad ogni costo, oggi, la  possibilità di essere attivi anche dentro casa e la possibilità di guadagnare qualcosa. Lo Stato deve aiutare il più possibile il sistema produttivo che sta in piedi da solo, agevolarlo, non ostacolarlo. Perché ogni posto di stage o di lavoro, ogni stipendio o indennità mensile erogati da un’azienda privata, significano per lo Stato un cittadino – a volte un’intera famiglia – in meno per cui provvedere. Una richiesta in meno di sussidio. Chiediamo a tutti gli stagisti e a tutti coloro che si considerano attenti al tema dello stage di diffondere questo appello, se ne condividono i valori; e a tutte le persone impegnate in politica, dal consiglio comunale al parlamento, di attivarsi e fare qualcosa per realizzare qualcuno dei quattro punti.1. Chiarire le tempistiche di ripresa dei tirocini. Decidere e comunicare con chiarezza quando i tirocini (sia curricolari sia extracurricolari) sospesi causa Covid potranno ricominciare. La condizione di incertezza è logorante per gli stagisti e anche per le aziende che li ospita(va)no. Bisogna dare certezze: le riattivazioni coincideranno con la progressiva riapertura delle attività? Il fatto che un ufficio o un negozio possano riaprire comporta automaticamente che anche i tirocinanti potranno riprendere il percorso? Oppure no? Ci vogliono risposte precise, per non lasciare nel limbo le decine di migliaia di persone sospese. 2. Sì ai tirocini da remoto. Permettere in tutta Italia la prosecuzione dei tirocini – sia extracurricolari sia curricolari – in modalità “smart”, da casa, per tutti quelli le cui mansioni siano compatibili con lo svolgimento da remoto. Vi sono tuttora alcune Regioni (Sardegna, Puglia, Calabria, Molise, Sicilia) che vietano questa possibilità, recando un grave danno a stagisti e soggetti ospitanti che sarebbero disponibili a proseguire con lo “smart internshipping”.3. Sì all'avvio di nuovi tirocini. Autorizzare in tutta Italia l’avvio di nuovi tirocini, sia curricolari sia extracurricolari,  anche direttamente in modalità “smart”. Vi sono molte aziende che sarebbero intenzionate ad attivare tirocini e che non lo possono fare, in ragione di una chiusura delle Regioni in questo senso. Ma ogni tirocinio non attivato in questo momento è un’occasione mancata, per una persona, di poter avere una attività e un reddito (e dunque non aver bisogno di misure assistenziali di cui al punto 4) in questo periodo di lockdown: dunque il divieto di attivare nuovi tirocini risulta essere, oltre che insensato, anche autolesionista. Le famiglie italiane sono oggi sottoposte a una pressione senza precedenti. Per il 99% questo periodo sta significando la riduzione (o addirittura la cessazione) delle entrate abituali. Che lo Stato cerchi il più possibile di agevolare le famiglie è dunque il minimo. Se vi è la possibilità che una persona riceva dei soldi attraverso l’indennità di tirocinio, non è proprio questo il momento di dire di no e vietare.4. Sostegno economico agli stagisti. Prevedere un sussidio a favore di tutti coloro che si sono visti interrompere o sospendere lo stage causa Coronavirus, e per i quali non è stato possibile proseguire lo stage da casa. Un sostegno economico è indispensabile e va approvato e reso disponibile il prima possibile, perché i soldi delle indennità hanno smesso di entrare nelle tasche degli Stagisti già dal mese di marzo, e dunque è adesso che serve il denaro per poter sopravvivere. (E se qualcuno dice che “tanto la maggior parte degli stagisti vive ancora coi genitori, e non ha bisogno di un reddito”, sbaglia. Vi sono decine di migliaia di stagisti “fuorisede”, o che comunque vivono da soli e devono pagare l’affitto; e comunque anche per quelli che vivono in casa è malsano pensare che siano sempre le famiglie a dover intervenire per mantenere figli e nipoti).La nostra proposta è che il sussidio debba essere garantito per tutti coloro che stessero svolgendo un tirocinio di durata superiore alle 160 ore (un mese), indipendentemente dalla natura curricolare o extracurricolare del tirocinio. Questa misura urgente e indispensabile può essere presa anche dalle singole Regioni (il primo esempio a fare da “apripista” è quello dell’Emilia Romagna), che possono destinare dei fondi per le persone impegnate in stage extracurricolari sul proprio territorio; tali misure potranno essere poi rese alternative oppure cumulabili con quella statale.

Laurearsi ai tempi del Coronavirus

Quanti sono i laureandi italiani il ministero dell’Università e della Ricerca non lo sa: quindi al momento non si può dire quale sia il numero esatto di studenti universitari in procinto di discutere e festeggiare il traguardo della laurea. Ma come stanno vivendo questo strano momento, e come si stanno laureando durante – e nonostante – il Coronavirus, ce lo raccontano direttamente gli atenei. Che si sono subito attrezzati per garantire la possibilità di discutere le tesi via web e in qualche caso promettono anche che, quando la situazione sarà tornata alla normalità, ci sarà anche la possibilità di ripetere la cerimonia di persona, per poter essere acclamati dottori da parenti e amici come è tradizione – perché una delle cose più tristi per i laureandi di questi giorni, va detto, è proprio il fatto di concludere il proprio percorso di studi in sordina, senza la stretta di mano del proprio relatore, né lacrime di commozione dei genitori, né applausi e festeggiamenti.Partiamo da alcuni dati certi, quelli forniti alla Repubblica degli Stagisti da nove università contattate nei giorni scorsi. All’università La Sapienza di Roma sono quasi 3.200 gli studenti che diventeranno dottori in questa sessione. I laureandi della sessione di aprile all'università di Firenze, invece, sono un po' meno di 2.300. All’università di Perugia gli studenti che hanno presentato la domanda di conseguimento del titolo finale per la sessione straordinaria sono circa 1600. Alla Bocconi di Milano saranno circa mille gli studenti che si laureeranno nel corso della sessione prevista per il 15, 16 e 17 aprile. A Ferrara quasi novecento persone sosterranno l’esame finale a marzo; altrettante si sono appena laureate a Venezia, all'università di Ca Foscari. Per la sessione di aprile dell’università di Macerata sono attualmente previsti 763 iscritti. All’università Lumsa, tra la sede di Roma e quella di Palermo, i futuri dottori sono circa trecento.  All’università Iulm, altro ateneo del capoluogo lombardo, invece, gli studenti che discuteranno la tesi nella prossima sessione saranno poco più di duecento. Ma come si svolge una laurea ai tempi del Covid? Stando a quanto previsto dal decreto Cura Italia, tutti gli atenei saranno chiusi – almeno – fino al 3 aprile 2020.Le sessioni di laurea si svolgeranno così in via telematica.Laureando e commissione esaminatrice, ognuno a casa propria, comunicano grazie a piattaforme come Microsoft Teams, Classroom, Google Meet e Moodle che mettono a disposizione una sorta di aula virtuale in cui il candidato espone il proprio lavoro e la commissione comunica il voto finale. L’esito viene annunciato, a seconda del tipo di corso e di ateneo, o il giorno stesso della discussione o in una data differente effettuando un altro collegamento via web. Alcuni atenei invece comunicano il voto direttamente sul portale.  Per agevolare ulteriormente studenti e docenti è previsto che le sedute di laurea programmate per i mesi di marzo e aprile possano slittare fino al 15 giugno 2020.  Questo significa che chi si laureerà a giugno sarà considerato comunque in corso e, di conseguenza, esonerato dal pagamento di ulteriori tasse. Slittano di conseguenza anche tutte le scadenze previste per la consegna e la revisione delle tesi.Una serie di novità che richiede una riorganizzazione degli atenei. Come si stanno adeguando ai cambiamenti imposti dall’emergenza sanitaria? «L’autonomia degli atenei nella gestione del proprio lavoro è un principio imprescindibile» risponde Mimmo Petrazzuoli, capo segreteria del ministero dell’Università e della Ricerca: «Tuttavia data la particolarità della situazione il Ministero, in collaborazione con la Conferenza dei rettori delle università italiane, sta costantemente inviando comunicazioni per informare le università su tutte le decisioni prese del governo. La prima cosa che abbiamo fatto, appena scattata l’emergenza, è stata la realizzazione di una rete che coinvolgesse studenti, rettori e sindacati. Il nostro obiettivo è coinvolgere tutte le parti in causa per far sì che ognuna sappia come orientarsi in queste settimane».Il lavoro del ministero non si limita al semplice invio di indicazioni. «Stiamo anche verificando, attraverso la Conferenza, come gli atenei stanno gestendo l’emergenza» prosegue il capo segreteria: «Inevitabilmente ci sono realtà che riscontrano maggiori difficoltà nella gestione delle lauree a distanza: per alcuni atenei la didattica on-line è stato un esperimento del tutto nuovo. Proprio per questi motivi il Ministero ha previsto un fondo di sostegno che ammonta a cinquanta milioni di euro. Non è stato ancora stabilito, però, quali saranno le modalità di fruizione». Ogni università, dunque, è libera di gestire come meglio crede le sessioni di laurea. Comun denominatore è il ricorso alla discussione della tesi in remoto.Per quanto riguarda la gestione della comunicazione con gli studenti, c’è chi contatta gli iscritti con una telefonata, oppure chi preferisce utilizzare la posta elettronica. Altri invece pubblicano avvisi sulle pagine ufficiali dell’ateneo o sui canali social.Alcuni atenei hanno già concluso le sessioni di laurea. È il caso dell’università Ca Foscari di Venezia, dove quasi novecento studenti sono diventati dottori in via telematica nella sessione di marzo. «Grazie all’impegno di docenti, laureandi e personale tecnico-amministrativo non abbiamo riscontrato nessuno problema nell’uso degli strumenti telematici. Tutto si è svolto nel migliore dei modi» racconta alla Repubblica degli Stagisti Michele Bugliesi, rettore dell’ateneo. All’università di Ferrara l’11 marzo un'ottantina di studenti ha conseguito il titolo di dottore della magistrale in Economia, mercati e management del Dipartimento di Economia e management. Tra coloro che si devono ancora laureare, invece, ci sono 468 studenti delle lauree magistrali e magistrali a ciclo unico. Per loro discussione e proclamazione avverranno lo stesso giorno. Quattrocento invece gli studenti delle triennali che conseguiranno il titolo dopo una valutazione da parte delle commissioni degli elaborati, scritti e caricati online, e del percorso formativo. Su tale base verrà poi determinato il voto di laurea. A breve si laureeranno anche una cinquantina di infermieri. Le loro discussioni sono state anticipate di oltre  due settimane, proprio per immettere nuove forze nel sistema sanitario che, più di tutti, sta soffrendo a causa dell’emergenza Covid.Altri atenei, come Iulm e Lumsa, invece, stanno definendo gli ultimi dettagli. Il rettore della Iulm Gianni Canova ha inviato a tutti una mail per chiedere chi desiderasse rimandare la discussione alla sessione estiva, senza aggravi di tasse o di oneri di segreteria, e chi preferisse discutere da remoto. Degli oltre cinquecento studenti contattati, oltre duecento hanno scelto di laurearsi subito via web.Stessa soluzione è stata adottata dallà Lumsa, come spiega alla Repubblica degli Stagisti Giampaolo Frezza, prorettore dell’ateneo. «Attraverso gli uffici amministrativi stiamo contattando telefonicamente tutti i ragazzi per chiedere quando preferiscono laurearsi: a marzo online oppure a giugno, non garantendo però laurea di presenza. Molti vogliono discutere il prima possibile per esigenze legate ad una successiva iscrizione alla magistrale o, come per la facoltà di giurisprudenza, allo svolgimento del tirocinio. Altri preferiscono il metodo tradizionale e optano quindi per giugno, nella speranza che tutto torni come prima» racconta Frezza. «Una volta raccolte tutte le preferenze provvederemo a stilare il calendario per dare il via alle discussioni i primi giorni di aprile».Oltre a garantire un regolare svolgimento della discussione, gli atenei sono al lavoro per assicurare la presenza di famiglia e amici in un giorno così importante per i loro iscritti. La Iulm, ad esempio, sta valutando di trasmettere in streaming la discussione così che tutti possano assistere.Nonostante lo stop alla didattica di presenza, sono varie quindi le idee e gli strumenti messi in campo per garantire agli studenti universitari la prosecuzione regolare del loro percorso accademico. Idee e strumenti che hanno portato gli atenei a rivoluzionare il loro modo di lavorare. Un cambiamento che secondo Michele Bugliesi, rettore dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, potrebbe in parte cambiare il futuro delle università: «Al di là dell’indiscussa tragedia umana ed economica, credo che da questa emergenza trarremo insegnamenti importanti per il futuro della formazione universitaria. Grazie a questa esperienza, ad esempio, abbiamo potuto constatare quanto siano utili e soprattutto efficienti le piattaforme digitali che permettono lo svolgimento della didattica a distanza» spiega alla Repubblica degli Stagisti. Certo è che finita l’emergenza non mancheranno i momenti di festa. Molti atenei fanno sapere che la celebrazione delle lauree non è annullata, verrà solo rimandata. Per tutti i neo dottori di questi giorni e per gli studenti che ancora si laureeranno in via telematica, per esempio, l’Alma Mater di Bologna ha preso l’impegno di programmare cerimonie in presenza per celebrare tutti insieme il traguardo raggiunto.Luisa Urbani 

Coronavirus, chi fa stage in aziende più “tecnologiche” è avvantaggiato

È un momento di grande confusione per gli stagisti italiani (e non solo per gli stagisti, e non solo per gli italiani…). Ma ci sono aziende che, fin dall’inizio di questa “crisi Coronavirus”, sono riuscite a organizzarsi bene e a far proseguire i tirocini in corso al meglio senza soluzione di continuità. E quel che emerge chiaramente è che quanto più un’azienda è “tecnologica”, tanto più risulta facile gestire un momento come questo, convertendo le attività di dipendenti e collaboratori dalla modalità “in presenza” a quella “da remoto”, e garantendo anche ai propri tirocinanti una continuità sia nell’esperienza formativa sia nel reddito rappresentato dall’indennità mensile.In Illimity, per esempio, gli stage extracurriculari in corso al momento dell’inizio della situazione Coronavirus erano undici, mentre i curriculari erano due. Ne è stato fermato soltanto uno: «Abbiamo deciso di sospendere quello extracurricolare che stava facendo una ragazza francese, perché non parla ancora bene l’italiano e di conseguenza non è autonoma nel lavoro» spiega Ilaria Pascutti, del team di Talent Acquisition & Development: «Tuttavia abbiamo concordato sin da ora con lei e con il tutor aziendale un periodo di recupero», quando la situazione sarà tornata alla normalità. Per tutti gli altri lo stage è proseguito senza intoppi: «Grazie allo smart working siamo riusciti a mantenere in essere tutti i percorsi avviati. Gli stagisti stanno lavorando da remoto dalle loro residenze in diverse parti d’Italia – Toscana, Liguria, Molise, Lombardia».Illimity, che ha il suo headquarter a Milano, si è mossa peraltro con grande anticipo rispetto ad altre realtà, anche perché il suo business è particolarmente adattabile alla modalità di lavoro da remoto: «Abbiamo disposto lo smart working per la quasi totalità dei collaboratori dal 24 febbraio, quindi ancor prima che le università e la Regione Lombardia si attivassero per dare indicazioni» ripercorre Pascutti: «Ci siamo fin da subito confrontati con le università e altri enti promotori per chiedere la possibilità di svolgimento degli stage da remoto. Tutti gli enti hanno risposto tempestivamente acconsentendo a questa “nuova” modalità di svolgimento senza remore, dimostrando grande flessibilità. Nei giorni successivi abbiamo ricevuto indicazioni relativamente a procedure e documenti da produrre per formalizzare la situazione».Il fatto che illimity sia un’azienda giovanissima – fondata da Corrado Passera soltanto due anni fa – e fortemente tecnologica ovviamente aiuta: «Siamo una realtà digital native, costruita sulla condivisione e sullo smart working» riflette Pascutti: «La tecnologia ha permesso di fare leva sulla nostra natura agile preservando al tempo stesso la qualità del servizio. Al momento, salvo i colleghi che lavorano in filiale – ne abbiamo mantenuta una per gestire i clienti dell’ex Banca Interprovinciale a Modena – la totalità del lavoro può essere svolta da remoto». Due stage si sono conclusi proprio in questi giorni, e uno di essi è stato trasformato in assunzione; e addirittura è già prevista la partenza di un nuovo stage, che «inizierà il 3 aprile in modalità “smart internshipping”».In Noovle, società di consulenza con sede a Milano, lo slittamento verso il lavoro da remoto all’indomani dell'ordinanza del 23 febbraio è stata «relativamente "graduale"» spiega Piergiorgio De Campo, co-founder, direttore generale e Cto di Noovle: «Siamo sicuramente un'azienda attrezzata per continuare ad operare senza intoppi: fortunatamente, essendo attrezzati e primi promotori dello smart working, siamo riusciti a rispondere prontamente. Le figure di staff hanno continuato ad andare in ufficio per un po’, ma col primo decreto dell'8 marzo si è imposto il lavoro da casa su tutta la popolazione» aziendale. E a quel punto si è posto il tema di come gestire lo stage. In Noovle in quel momento era operativa una sola stagista: «Il soggetto promotore – JobFarm, ex Actl – è assolutamente non pervenuto», dunque non ha fornito indicazioni, e allora «in autonomia, e vista la mansione della nostra trainee Roberta, una ragazza di 26 anni originaria di Ragusa ma su Milano per intraprendere la strada del Developer Front End dopo una breve academy», in Noovle hanno preso la decisione di farla proseguire «da remoto. La nostra trainee prosegue a sentire tramite strumenti di messaging di Google il suo tutor, Emanuele, con il quale si è sempre interfacciata».Situazione simile in Mercer, dove al momento sono attivi tre tirocini curricolari e tre extracurricolari, e per aprile è prevista, salvo cause di forza maggiore, l’attivazione di altri tre percorsi, due extracurricolari e un curricolare. «Siamo stati molto rapidi nell’attivazione dello smartworking per tutti i nostri dipendenti, prima in a Milano e successivamente anche a Roma, compresi gli stagisti» dice Paola Pagni, principal – HR director di Mercer in Italia, e ancor prima del “lockdown” dell’8-9 marzo «avevamo già applicato, in via prudenziale, regime di smartworking e cancellazione di viaggi e meeting di persona». Applicare lo smart working agli stagisti è in un certo senso una sfida – perché fare uno stage da casa, in condizioni normali, è un controsenso… Dunque come si fa ad “adattarlo” a una modalità da remoto?  «Per sua natura lo stage è un’esperienza formativa che necessita della presenza costante del tutor, o eventualmente di altri colleghi che possano fornire un contributo, per svolgersi al meglio» dice Pascutti: «in un’azienda come illimity, ancora in forte crescita, le cose da fare sono tante e spesso ai ragazzi in stage viene data qualche responsabilità in più». Una cosa che «li gratifica e al tempo stesso li rende più autonomi nella gestione delle attività».  La sfida più grande per proseguire uno stage da casa sta proprio nel contatto costante col proprio tutor: «Per gli stagisti è ancora più importante la vicinanza del responsabile e la chiarezza delle indicazioni aziendali» riflette Pagni: «Per garantire la qualità dell’apprendimento e della supervisione ci assicuriamo che vengano seguiti da vicino».«Ovviamente la juniority rende l'attenzione alla "vicinanza" dei trainee fondamentale, così come nelle normali occasioni lavorative è fondamentale che le persone siano seguite a dovere» concorda De Campo. E in realtà la questione del contatto tra colleghi è importante a qualsiasi livello: «Per gli altri dipendenti vale lo stesso discorso, siamo sempre in contatto tramite chat e videocall, insieme alle mail; e la scorsa settimana abbiamo anche organizzato un momento di confronto per capire come viviamo questo momento particolare da Milano a Palermo, essendo noi già dislocati su tutto il territorio italiano, isole comprese». Una «video call massiva» cui hanno partecipato 130 persone di Noovle, «una pluralità di voci che hanno condiviso il vissuto dell'azienda. È stato un momento corale».In moltissimi casi nelle ultime settimane gli stage sono stati sospesi, ma a Noovle questa ipotesi non è stata nemmeno prospettata: «E comunque non l'avremmo fatto» spiega De Campo: «I nostri tirocini sono solo a scopo di inserimento, siamo molto gelosi del nostro know how e vogliamo trasmetterlo come prima fase di un investimento sul lungo periodo, quindi la continuità della formazione è fondamentale per noi».L’attività prosegue peraltro a 360 gradi, selezioni di nuovi candidati comprese – a distanza, ovviamente: «Per i colloqui utilizziamo Hangouts: eravamo già abituati ad occasioni in cui la videocall era d'obbligo, non è cambiato molto in questo senso». E se si trovasse qualcuno di adatto, verrebbe assunto anche in questo momento, senza attendere il termine della fase di lockdown? «Proseguiremmo con le assunzioni, ne abbiamo avute quattro nelle due settimane appena passate, e ne abbiamo due programmate per aprile!». Un atteggiamento quindi molto positivo: «La mia opinione è che nei momenti di crisi ci sia sempre molto rischio ma anche grandissima opportunità» chiude De Campo: «Questo è il momento in cui potremo vedere e toccare con mano se lo smart working funziona davvero, come abbiamo sempre sostenuto».In ogni caso, la chiave sembra essere la tecnologia: «Gli strumenti aziendali che abbiamo a disposizione – Teams, SharePoint, e così via – ci consentono di lavorare in condivisione costante e agevolano molto il lavoro in team» riflette Pascutti di illimity: «La nostra infrastruttura in cloud ci ha permesso fin da subito di sfruttare le potenzialità del digitale».  «Tutti i nostri dipendenti sono dotati di laptop e cellulare, quindi la conversione a smartworking è stata rapida» le fa eco Pagni: «Abbiamo investito più energie nel farci sentire presenti come azienda, abbiamo comunicato tempestivamente le misure e le raccomandazioni adottate per far fronte alla situazione – smartworking, chiusura uffici, no meeting di persona, no viaggi… –  abbiamo creato momenti di condivisione e partecipazione in videoconferenza come townhall, training virtuali a disposizione di tutti i dipendenti, formazione condivisione di competenze specifica, momenti informali di networking come zoomcoffee, lezioni di yoga e ginnastica in streaming, un photocontest sui momenti che ci vedono impegnati nel lavoro da casa. Il gruppo internazionale ha messo a disposizione ulteriori risorse informative e di guida per affrontare l’emergenza, come siti intranet informativi, team internazionale di business continuity e alert».Rispetto ai giovani impegnati in stage aziende più “vecchio stile”, dunque, in questo momento quelli che stanno facendo esperienze formative in aziende più avanzate dal punto di vista tecnologico sembrano essere più fortunati: i loro stage raramente sono stati sospesi, e possono proseguire a pieno ritmo anche da casa.

Laurea abilitante, 10mila neo medici in arrivo: e la misura non è “di emergenza”, ma definitiva

Un squadra di circa 10mila neo laureati in Medicina si prepara a un ingresso anticipato nel Sistema sanitario nazionale. Questo, per effetto del decreto Cura-Italia del 17 marzo scorso, che ha stabilito che «il conseguimento della laurea magistrale a ciclo unico in Medicina e Chirurgia – Classe LM/41 abilita all’esercizio della professione di medico-chirurgo, previa acquisizione del giudizio di idoneità».A poter esercitare automaticamente la professione saranno i neo laureati che il 28 febbraio scorso avrebbero dovuto sostenere l’esame di abilitazione professionale, poi rinviato per l'emergenza Coronavirus. I nuovi medici, non essendo in possesso di specializzazione, non saranno impiegati negli ospedali, ma in servizi territoriali, sostituzioni della medicina generale, case di riposo etc. Tuttavia, in questo modo, libereranno a loro volta altri 10mila medici, che potranno essere trasferiti nei reparti e contribuire alla lotta al Covid-19. La laurea abilitante, già da tempo in discussione, non rappresenta una misura di emergenza, ma una misura definitiva. Ciò vuol dire che d’ora in poi, per diventare medici a tutti gli effetti, basterà conseguire la laurea magistrale a ciclo unico in Medicina e Chirurgia (classe LM/41) e ottenere il giudizio di idoneità nel corso del tirocinio pratico-valutativo, consistente in tre periodi da quattro settimane (anche non consecutivi) da svolgere in area chirurgica, medica e della medicina di base. Non occorrerà più invece l’esame di abilitazione, consistente in una prova teorica a quiz. «Il procedimento va bene, perché risolve una serie una serie di problemi di carattere burocratico» commenta Filippo Anelli, presidente della Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri «e consente ai ragazzi di non star fermi mesi tra la laurea e l’esame di abilitazione». Ma non basta. La misura, così com’è stata concepita, dà respiro alla sanità pubblica in questo difficile momento, ma non risolve il problema dell’insufficienza di specialisti. «Non si può fare un palazzo a metà» aggiunge: «L’anno scorso per 8mila borse si sono presentati 18mila laureati. È irrazionale negare ai ragazzi la possibilità di concludere il percorso».Da qui la proposta della Federazione: «Chiediamo lo stanziamento aggiuntivo di 10mila borse, per la medicina generale e le specializzazioni, contro l’imbuto formativo e la fuga dei medici all’estero e per seguire la strada della qualità della sanità, che si ottiene solo con la formazione». «Siamo soddisfatti della decisione, in quanto riteniamo che lo studente laureato abbia tutte le carte in tavola per fare il medico» commenta Federico Lavagno, coordinatore nazionale del Dipartimento post-lauream del Segretariato italiano giovani medici: «Tuttavia la nostra soddisfazione è nettamente cancellata dal mancato inserimento di 5mila nuovi contratti di formazione specialistica, come inizialmente contenuto nella bozza». Se il Segretariato reclama le 5mila borse "promesse" per le specializzazioni, la Federazione propone lo stanziamento di 10mila nuove borse fra scuole di specializzazione e corsi di medicina generale, chiedendo di non dimenticare quelli che dovrebbero essere chiamati "specialisti in medicina generale".«Constatiamo che neanche in un’emergenza che mette alla luce le carenze del Servizio sanitario nazionale lo Stato capisce che è ora di formare nuovi specialisti», aggiunge Lavagno. A tal proposito, il Segretariato italiano giovani medici ha inviato una lettera ai parlamentari, in cui denuncia che «in Italia si ha una carenza urgente di specialisti, non di medici». Il documento ricorda la «mal programmazione che va avanti da decenni» e spiega che, come conseguenza, «il prossimo concorso per le specializzazione mediche vedrà una partecipazione di più di 20mila candidati, a fronte di 8mila contratti di formazione (40 per cento sul totale dei medici generici) tale da non garantire il futuro previsto turn-over». Ciò vuol dire che il 60 per cento dei neo abilitati resterà fuori almeno per un anno dal percorso di specializzazione e che i nuovi medici non basteranno per far fronte al turn-over. Oggi, infatti, il sistema sanitario vive un’emergenza nell’emergenza: prima ancora che il pericolo dell'epidemia si affacciasse in Italia, con il decreto Milleproroghe si era tentato di arginare la carenza di medici introducendo la possibilità di assumere medici non ancora specializzati (già dal terzo anno di scuola di specializzazione) e trattenendo in servizio gli over 70. «Secondo i dati dell'Osservatorio nazionale sulla salute nelle regioni italiane, nei prossimi quindici anni perderemo per pensionamento circa 56mila medici e il sistema universitario sarà in grado di rimpiazzarne solo circa il 75 per cento se non si correrà ai ripari aumentando, adeguatamente, il numero di posti per le facoltà di Medicina e chirurgia e per le scuole di specializzazione messi a bando», spiega Lavagno.Del mancato finanziamento delle borse abbiamo chiesto conto, in un'intervista, al ministro dell'Università Gaetano Manfredi, che ha chiarito che «non è stato possibile inserirlo per motivi di tipo contabile: quello delle borse di specializzazione, infatti, è un investimento pluriennale, mentre il provvedimento emergenziale prevede una copertura solo per il 2020» e che tuttavia il Ministero sta «lavorando sulla possibilità di ampliare gli stanziamenti nel prossimo bando».«In questo momento si capisce ancora di più l’importanza degli specialisti: più competenze hai, più hai possibilità di avere successo nelle terapie», conclude Filippo Anelli. Le esperienze quotidiane dei medici in prima linea contro il Covid-19 stanno infatti mettendo in luce quello che avrebbe dovuto essere chiaro da sempre, ovvero quanto sia fondamentale poter accedere a cure pubbliche e ricevere un’assistenza di qualità, sia da un punto di vista professionale che umano. Rossella Nocca

Coronavirus, sospeso anche il servizio civile: ma 3.300 volontari – su 33mila – hanno scelto di continuare

Lo scorso 10 marzo il Dipartimento per le politiche giovanili e il servizio civile universale, per effetto di quanto disposto il giorno prima dal decreto del presidente del Consiglio per il contenimento dell’emergenza Covid-19, ha comunicato con una circolare «la sospensione dei progetti di servizio civile sull’intero territorio nazionale e la conseguente sospensione dal servizio degli operatori volontari» fino al 3 aprile 2020. I giorni di sospensione verranno considerati come «giorni di permesso straordinario per causa di forza maggiore», pertanto saranno conteggiati al fine della ricezione del rimborso mensile previsto per i volontari. Qualora, come altamente probabile, le misure restrittive fossero prorogate oltre il 3 aprile, il Dipartimento valuterà «una interruzione dei progetti ed una successiva eventuale riattivazione, laddove ce ne fossero le condizioni, con il recupero del periodo di interruzione». Sospese anche tutte le partenze all’estero degli operatori volontari, nonché i subentri e gli avvii in servizio. Il Dipartimento ha tuttavia lasciato agli enti, previa verifica delle adeguate condizioni di tutela dei volontari, e ai volontari stessi, la possibilità di valutare la prosecuzione delle attività per «progetti di particolare e rilevante utilità, comunque funzionali alla situazione di emergenza in corso», come quelli incentrati sull’assistenza a persone anziane e disabili per consegna alimenti, farmaci e generi di prima necessità o disbrigo di pratiche amministrative. In tal caso, gli enti sono tenuti a inviare comunicazione della mancata sospensione alla mail emergenza [chiocciola] serviziocivile.it, specificando anche l’eventuale scelta di far svolgere il servizio agli operatori da remoto.I volontari che, di comune accordo con gli enti ospitanti, hanno deciso di proseguire la loro esperienza sono 3.313, di cui 3.154 in Italia, sui 33.074 attivi alla data del 10 marzo (ultimo aggiornamento: 20 marzo). Dei 3.154 volontari in Italia, il 25 per cento è attivo in Lombardia, seguono Toscana, Piemonte, Liguria ed Emilia-Romagna. Ad Sud spicca invece la Campania (10 per cento). «Questi giovani rappresentano una risorsa straordinaria e formidabile» commenta Flavio Siniscalchi, Capo del Dipartimento per le politiche giovanili e il servizio civile universale «in un momento in cui una delle criticità maggiori è la mancanza di risorse umane: per questo li ringraziamo ogni giorno per l’impegno che stanno portando avanti». Qualora, dopo la scadenza del 3 aprile, si procedesse a uno stop dei progetti, l’intenzione del Dipartimento è quella di tenere aperta la possibilità, per gli enti e per i volontari, di scegliere di andare avanti. «Ci auguriamo che il numero di volontari attivi possa significativamente aumentare» precisa il Capo Dipartimento «e pertanto stiamo cercando di sensibilizzare gli enti in tal senso e stiamo ragionando sulla possibilità di rimodulare i progetti, rendendoli più funzionali all’emergenza in corso».  In determinati contesti, la presenza dei volontari è risultata particolarmente preziosa. In alcuni ospedali della Toscana, ad esempio, i volontari hanno fornito assistenza presso l’accettazione dei pronto soccorso, decongestionandoli e facilitando le operazioni di soccorso.  Per quanto riguarda il fronte estero, al momento sono ancora attivi 159 volontari dal Sud America all’Africa, dai Balcani all’Asia. Tuttavia «stiamo incentivando il rientro, in quanto i paesi si stanno orientando verso la restrizione più totale e diventerebbe complicato gestirli», precisa Siniscalchi. La sospensione del servizio civile si è resa necessaria per tre principali motivi. «Innanzitutto i volontari non sono professionisti e dunque non sono preparati per situazioni emergenziali» spiega Enrico Maria Borrelli, presidente del Forum nazionale servizio civile e di Amesci «poi gli enti non sono dotati di dispositivi di sicurezza e infine, tendenzialmente, i progetti non vertono su situazioni emergenziali». Nonostante ciò, oltre 3mila giovani non si sono tirati indietro. Tra le associazioni che registrano ancora volontari attivi, c’è l’Arci - Servizio civile (Asc), con 154 ragazzi operativi su 1.788 (8,6 per cento).«Accanto al senso di responsabilità degli operatori e delle organizzazioni che hanno messo la salute al primo posto» commenta Licio Palazzini, presidente dell’Asc nonché della Conferenza nazionale enti servizio civile (Cnesc) «ci preme sottolineare la disponibilità dei tanti giovani che, volontariamente, hanno deciso di fare la loro parte e di continuare la propria esperienza, ad esempio in pubbliche assistenze, misericordie e Caritas attraverso attività di socialità e di sostegno alle attività pubbliche». Tra le altre associazioni c'è Amesci, con 65 volontari su 2mila (3,2 per cento). Diciannove i progetti attivi, di cui quattro all’estero tra Spagna, Bosnia ed Erzegovina, Bulgaria e Serbia. Le attività prevalenti, in Italia, riguardano al momento il supporto informativo ai cittadini e la distribuzione di beni di prima necessità. Un po’ a sorpresa, tra le associazioni che non hanno comunicato la prosecuzione di alcun percorso, c’è l’Associazione volontari italiani del sangue (Avis), in prima linea in questo momento di emergenza. «Abbiamo optato per questa scelta per tutelare la salute dei nostri 225 volontari. Vista la territorialità dei progetti ed essendo l’ente capofila localizzato sul territorio di Milano» spiega Antonella Auricchio dell’ufficio stampa «non avremmo potuto garantire la verifica delle condizioni necessarie per la prosecuzione delle attività, che comunque erano incentrate sull’ambito informativo e promozionale e non su quello assistenziale».Secondo Enrico Maria Borrelli la situazione attuale impone una riflessione sul modo di utilizzare una risorsa come quella dei giovani volontari del servizio civile: «Giuseppe Zamberletti, il “padre” della Protezione civile, sosteneva l’idea di un potenziamento della formazione generale, che avesse carattere di protezione civile, dal primo soccorso alle situazioni di emergenza. E l’idea che in futuro in situazioni di bisogno si possa contare su un esercito di 50mila giovani, dopo che è venuta meno anche la leva obbligatoria, è verosimile e auspicabile, ma solo con una struttura preventivamente organizzata e con regole precise». Intanto l’emergenza sanitaria ha fatto sì che anche la scadenza del deposito annuale dei progetti per il bando 2021, inizialmente prevista per il 31 marzo, fosse prorogata (al 16 aprile). E il Forum servizio civile, nei giorni scorsi, ha scritto al Dipartimento per chiedere una ulteriore proroga fino al 31 maggio. Rossella Nocca

Il futuro dei giovani? Dipende ancora troppo dalla famiglia di appartenenza e troppo poco dal merito

Meritocrazia è una pessima parola che però illustra bene un punto condivisibile: i premi, i voti, i lavori, i redditi andrebbero distribuiti in base ai risultati e alle performance individuali. Tuttavia è innegabile che tali risultati siano frutto tanto di sforzi e impegni personali quanto di quelle che potremmo definire “condizioni di partenza” o “contesto di provenienza” – vale a dire reddito familiare, titolo di studio dei genitori, luogo di nascita o residenza, e così via. Può quindi la politica perseguire al contempo la finalità di ridurre le disuguaglianza e di premiare il merito?Secondo un moderno approccio al tema della disuguaglianza – filosofico ma ormai anche economico – noto come “uguaglianza delle opportunità”, sono accettabili disuguaglianze degli esiti che dipendono da disuguaglianze negli sforzi; invece non sono accettabili disuguaglianze che dipendano da altri fattori, non legati a scelte o volontà degli individui. Lo Stato dovrebbe quindi agire per riequilibrare le posizioni di partenza e, una volta garantito questo, non agire per livellare gli esiti ottenuti.Nel campo del rapporto tra sforzi individuali, condizioni di partenza e risultati finali, forse quello dell’istruzione è l’ambito che meglio si presta sia a una comprensione della problematica sia a una sua analisi in termini quantitativi e scientifici. Anche per l’impatto che esso ha come fattore di sviluppo sia nella vita di una persona sia in quella di una società.Dal punto di vista aggregato l’istruzione determina le conoscenze, la produttività, la capacità di influenzare i progressi tecnologici e quella di utilizzarli. Non stupisce quindi che l’Italia, essendo uno dei paesi europei che meno investe nell’istruzione – specialmente quella terziaria – sia anche uno di quelli che meno cresce dal punto di vista economico. Secondo i dati Eurostat, nel 2017 l’Italia ha infatti dedicato solo il 3,8% del proprio prodotto alla spesa per istruzione, a fronte di una media europea del 4,6% e ben lontana da paesi come Svezia (6,8%), Danimarca (6,5%) e Belgio (6,3%) e Finlandia (5,7%) all’interno dell’Unione o da altri come Islanda (7,5%) e Norvegia (5,6%) al suo esterno. Dal punto di vista delle vite di ciascun cittadino un titolo di studio più elevato, o in generale un ottima qualità del percorso formativo, permettono di raggiungere con maggiore probabilità un lavoro meglio retribuito e un’occupazione più in linea con le proprie aspettative. Certo sono tantissime le storie individuali di persone che – pur ottimamente  preparate – si sono scontrate o si stanno scontrando con la mancanza di opportunità nel mondo del lavoro o con un trattamento (economico, ma non solo) a volte al limite della sopportabilità. Ma questa è un'altra storia...Sul tema delle disuguaglianze in accesso al sistema dell’istruzione, interessanti sono due recenti studi che analizzano le determinanti dell’uguaglianza delle opportunità nell’istruzione primaria e secondaria, vale a dire quella obbligatoria, e in quella terziaria.Per quanto riguarda l’uguaglianza delle opportunità nell’istruzione primaria e secondaria di diversi paesi dell’Ocse, l’articolo “Reexamining the inequality of opportunity in education in some European countries”, pubblicato da Casilda Lasso De La Vega, Agurtzane Lekuona e Susan Orbe nel 2019 sulla rivista “Applied Economic Letters” confronta appunto questo tipo di disuguaglianza con quella, più tradizionale, basata sulla mera osservazione degli esiti. E stabilisce che paesi come Islanda, Finlandia e Norvegia sono quelli dove gli sforzi personali contano più delle circostanze; i paesi con minore disuguaglianza, tanto delle opportunità quanto degli esiti, sono Irlanda, Grecia e Norvegia, mentre al contrario il paese con maggiori disuguaglianze è il Belgio.L’Italia è un paese a livello nazionale (non esistono risultati su base regionale) che mostra livelli di disuguaglianza delle opportunità sopra la media e anche piuttosto elevata. Più precisamente, il lavoro utilizza come misura di performance i risultati dei test Pisa 2012, cioè una serie di questionari standardizzati rivolta ogni tre anni a studenti quindicenni dei paesi Ocse per stabilire il grado di conoscenze e di abilità acquisite nel corso degli studi. Gli autori dello studio hanno considerato, tra le variabili che determinano le circostanze di partenza: il genere dello studente, il livello di istruzione e l’occupazione dei genitori, il paese di nascita, le dotazioni infrastrutturali della scuola di appartenenza e la performance media dei compagni di classe – cioè il cosiddetto peer group effect, “effetto dei pari”. Tra le variabili che determinano lo sforzo personale, al contrario, sono state considerate:  le ore dedicate ai compiti a casa, le ore di lezione (non) saltate, l’assenza di bocciature. Risultato: l’Italia è uno di quei paesi in cui le condizioni di partenza contano più degli sforzi individuali per riuscire a ottenere determinati risultati. Nello specifico, per quanto riguarda la disuguaglianza dei risultati – tecnicamente misurata dalla loro varianza – questa dipende per oltre il 50% da sforzi individuali e da condizioni esterne in sei paesi su venti (in ordine decrescente): Olanda, Belgio, Bulgaria, Francia, Germania e Italia. Inoltre, ed è ciò che qui interessa di più, la componente “condizioni di partenza” vale ben il 95,73%  in Italia, più o meno come in Lituania (95,85); davanti a noi quindi solo Olanda (97,55%),  e Croazia (98,40). Come paragone, vale la pena di ricordare nelle nazioni dove questa quota è inferiore (poco sorprendentemente Finlandia e Norvegia, ma anche Spagna e Portogallo) essa ha un valore medio dell’80%.Il tema della disuguaglianza delle opportunità nell’istruzione terziaria è invece affrontato per la prima volta dalla ricerca “Inequality of opportunity in tertiary education in Europe”, di Flaviana Palmisano,  Federico Biagi e Vito Peragine, pubblicata sempre nel 2019 come “Technical report” della Commissione europea. I risultati non sono molto differenti: i paesi più egalitari sono generalmente quelli scandinavi mentre quelli più problematici sono quelli mediterranei, con l’Italia tra i peggiori. In questo caso i dati utilizzati sono quelli della European Survey on Income and Living Conditions (EU – SILC) del 2005 e del 2011.In tutti i Paesi presi in considerazione, appartenere  una famiglia in cui almeno un genitore ha un titolo di studio elevato aumenta la probabilità di laurearsi, così come avere almeno un genitore in occupazioni impiegatizie (white collar). Rispetto a queste dimensioni, l’Italia non è un caso limite; ma vale la pena di ricordare, per avere un’idea della rilevanza del fenomeno, che solo il 19% dei laureati italiani proviene da famiglie in cui nessun genitore ha un titolo superiore alla scuola media inferiore, mentre la percentuale sale al 61% quando anche solo uno dei due genitori ha almeno un titolo di studio di scuola superiore (dati Istat 2011). In alcuni paesi – Islanda, Finlandia, Estonia e Lettonia, fortunatamente non l’Italia! – anche il genere di appartenenza sembra una condizione importante anche se, la ricerca sottolinea, non necessariamente ciò comporta l’esistenza di discriminazioni per genere. A livello di spesa pubblica per l’educazione (quota su spesa pubblica totale e quota su PIL), emerge una forte correlazione positiva tra spesa pubblica per istruzione e disuguaglianza delle opportunità nell’istruzione terziaria. Poiché tale disuguaglianza è positivamente correlata anche alla disuguaglianza dei redditi, e benché i rapporti di causalità debbano essere sempre analizzati con cura, si può immaginare che maggiori investimenti nell’istruzione pubblica possano portare a riduzioni virtuose della disuguaglianza. Qualitativamente, dal punto di vista della policy, la conclusione degli autori è che se il ruolo della famiglia di appartenenza è così importante, delle buone politiche per ridurre la disuguaglianza delle opportunità potrebbero essere quelle di promozione di borse di studio basate sul merito e sul reddito e che riducano il peso finanziario dell’istruzione terziaria sulla famiglia: un'indicazione da valutare con grande attenzione.Ridurre la disuguaglianza a favore delle fasce di popolazione meno protette e tutelate dovrebbe essere un imperativo morale per ogni società; capire quali siano davvero le determinanti della disuguaglianza l’unico strumento necessario per farlo. In Italia, per ogni livello di istruzione, è sotto gli occhi di tutti – nonché confermato da studi e ricerche come quelle che abbiamo citato qui – che le circostanze sono più importanti degli sforzi e dell’impegno individuale.Prima ancora che il legislatore, dovrebbe essere la società stessa a interrogarsi: è accettabile che sia così?Paolo Balduzzi

Donne e lavoro, si parte in salita fin dalla Costituzione: quanta strada ancora da fare

Quanto vale, quanto è riconosciuto, quanto è importante il lavoro delle donne? La Costituzione italiana parla di questo tema all'articolo 37: “La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore” è il primo comma dell'articolo. Si parte bene, vietando ogni discriminazione. Ma poi ecco subito il primo slittamento: “Le condizioni di lavoro devono consentire l'adempimento della sua essenziale funzione familiare” (della donna). Le parole sono importanti: l'“adempimento” è l'assolvimento di un obbligo. L'aggettivo “essenziale” implica l'impossibilità di svincolarsi dalla “funzione” primaria attribuita alle donne, che è quella appunto “familiare”. E questa funzione “familiare” non si riferisce solo a quel che le donne soltanto possono fare, in effetti – cioè la “produzione fisica” di bambini: è molto più ampia del mero periodo di gravidanza e allattamento e sottointende la cura della casa, dei familiari non autosufficienti, degli anziani.  Dunque il secondo comma dell'articolo 37 pone indubitabilmente le donne lavoratrici in una posizione subalterna rispetto agli uomini, liberi invece lavorare senza essere costretti ad adempiere nessuna “essenziale funzione”. Le donne insomma possono lavorare ed essere pagate alla pari di un uomo, a patto però che prima di tutto adempiano al proprio “dovere”. In “famiglia”. Si parte in salita.L'articolo 37 poi si chiude con due commi focalizzati sul lavoro minorile. Ecco il colpo di grazia: si tratta dunque di un articolo che riguarda il lavoro di persone “deboli”, le donne e i minori, non pienamente adatti a lavorare, bisognevoli di tutele speciali. Quanta strada si deve ancora fare perché le donne abbiano piena cittadinanza nel mondo del lavoro...Ma quanta se ne è già fatta, anche! A questo è dedicato “Il lavoro delle donne nell’Italia contemporanea”, saggio pubblicato qualche mese fa dalla casa editrice Viella nella collana “Storia delle donne e di genere” e scritto da Alessandra Pescarolo, ricercatrice storica e sociale e fino al 2012 dirigente dell'Istituto regionale per la programmazione economica della Toscana (Irpet). «La partecipazione delle donne alle attività produttive è tutt’altro che irrilevante, e ha al suo centro la questione della conciliazione tra lavoro domestico, attività riproduttiva e lavoro extra domestico» chiarisce subito Silvia Salvatici, docente di storia contemporanea alla Statale di Milano, durante la presentazione a Milano del libro organizzata da Fiorella Imprenti, già assessora alle Politiche del lavoro, sviluppo economico e pari opportunità del Comune di Rozzano. Salvatici sottolinea appunto come, fin dall'articolo 37 della Costituzione, «l’identità di lavoratrici delle donne sia stata subordinata alla necessità di assolvere al dovere riproduttivo»; e coglie l'occsione per ricordare che i diritti non sono acquisiti una volta e per sempre, e dunque la guardia dev'esser sempre tenuta alta: è importante trovare il modo di «mettere in discussione un’immagine molto diffusa, per cui il percorso delle donne è stato una progressiva emancipazione. Lo sguardo sull’oggi dimostra che questo assunto poggia su basi false, che non regge alla prova di un’analisi: perché le conquiste sono continuamente rimesse in discussione. Vi é un contrasto tra l’avanzamento sul piano dei diritti acquisiti e i continui rischi di retrocessione». Uno dei pregi del libro di Pescarolo è, per Salvatici, «il lunghissimo arco cronologico che esso comprende», che permette appunto di scoprire la storia del lavoro delle donne in Italia nel corso dei secoli: «Le pagine a mio avviso più belle della ricostruzione del mondo rurale sono quelle dell’Italia post unitaria, da cui emerge una intensa cooperazione familiare caratterizzata da una dura cultura femminile del lavoro che imponeva alle donne di dimostrare di saper svolgere attività diversificate e una resistenza strenua a quelle più pesanti». Altro che sesso debole, dunque: «La smentita più concreta di quello stigma di inferiorità spesso indicato da una pretesa maggiore debolezza». Dalla narrazione emerge un'Italia spaccata a metà, dove le donne aristocratiche e borghesi fino agli anni Cinquanta non lavoravano, mentre per le contadine era impensabile non farlo: in un caso e nell'altro, ovviamente, non c'era il minimo spazio una concezione di lavoro come emancipazione e realizzazione personale. La spaccatura non è netta né immobile: ogni fase storica, ogni decennio, ogni territorio è caratterizzato da una particolare condizione delle donne nel mercato del lavoro. «Il lavoro è uno degli oggetti più culturalizzati e politicizzati che esistano» sottolinea l'autrice Alessandra Pescarolo: «Ho cercato di far vedere che lo scarto tra il lavoro e il suo valore è una costruzione sociale e stratificata. La morale sessuale teneva le donne fuori dal mercato del lavoro, l'obiettivo era quello di tenerle di in casa: ma questo riguardava solamente le classi agiate. Mentre nelle società rurali» le donne lavoravano eccome, e lì «si vede un’etica del lavoro femminile fortissima. Poi nel primo Novecento arrivano le legislazioni di protezione delle donne: la borghesia, a differenza dell’aristocrazia, cerca di universalizzare il suo modello, creando l’ideologia della necessità di proteggere le donne dai lavori troppo faticosi al fine di preservarne la salute».Alla discussione hanno partecipato anche due donne impegnate in politica, la consigliera regionale Paola Bocci e l'assessora al Lavoro del Comune di Milano Cristina Tajani.  «Una volta il termine era “inferiorità” del lavoro femminile, ora si parla di una presunta “indisponibilità” della donna nel mercato del lavoro» dice Bocci: «Cioé una “non disponibilità” all’impegno al pari di un uomo. Il problema é che ogni donna – che sia madre o non lo sia, che sia figlia di persone che hanno bisogno di cure o non lo sia – lo stereotipo  di essere indisponibile se lo porta dietro comunque». Bocci snocciola dati sconfortanti: «Le donne già solo a tre anni dalla laurea guadagnano meno dei coetanei maschi: prima ancora delle maternità, prima ancora della eventualità di doversi prendere cura dei genitori anziani». E parafrasando la Fattoria degli animali di Orwell rileva che «la nostra Costituzione dice che sì, la nostra Repubblica è fondata sul lavoro» ma all'articolo 37 dice anche che «c’è chi è un po’ meno uguale». Perché ciò accade? «La prima causa è quella di una mancata condivisione delle responsabilità della cura domestica e delle relazioni». Nel suo ruolo di consigliera regionale Paola Bocci è da tempo impegnata in una battaglia per combattere le disparità retributive legate al genere, e non a caso è prima firmataria di un progetto di legge per ridurre il gender pay gap. «La grande scommessa adesso è attivare un cambiamento non solo normativo per cambiare gli equilibri nella società e nei rapporti di coppia e scardinare gli stereotipi che disegnano la donna come indisponibile perché gravata del carico delle responsabilità del lavoro domestico e di cura».«Ogni nostra azione ha a che fare con un’indicazione di fini, con un obiettivo che in quel momento indichiamo come socialmente desiderabile» è la riflessione di Cristina Tajani, assessora al Lavoro del Comune di Milano: «Questo richiamo alla finalità è importante nel momento in cui indichiamo delle ricette e delle policy. Noi lavoriamo per costruire politiche e interventi che portino per quanto possibile la parità dei generi nel mondo del lavoro. L’unico argomento per costruire questo tipo di politiche – come la parità salariale, la pari rappresentanza dei generi... – è stato a lungo quello etico, cioè “è giusto che ci siano solo uomini...?”. Ma vi è un altro argomento, quello di tipo utilitaristico: non è solo giusto ma è anche utile, perché la compresenza dei generi nel mandare avanti le comunità e le organizzazioni crea bene comune». Quello di cui c'è più bisogno oggi? Secondo Tajani di «una interpretazione delle cose in grado di cambiarle, una teoria e una lettura potente in grado di costruire un discorso generale che metta il tema del lavoro delle donne nel tema più grande dell’emancipazione delle persone in generale». E che dunque la politica, aggiunge Pescarolo, riesca finalmente «a toccare con decisione il tema del lavoro», cosa che adesso non fa: «C’è bisogno di una riflessione intensa e innovativa sul lavoro» perché è innegabile che, «pur diminuendo nella sua intensità aggregata – anche per motivi strutturali, come l'avvento delle nuove tecnologie», il lavoro continui ad essere, per uomini e donne, «un collante sociale».Eleonora Voltolina