Categoria: Approfondimenti

Equo compenso per lavoratori autonomi, le proposte sul tavolo

È un tema aperto da tempo, ma che negli ultimi mesi è ritornato d’attualità. A ottobre dello scorso anno è stata infatti approvata alla Camera una proposta di legge della leader di Fratelli d'Italia Giorgia Meloni (i tre firmatari della pdl sono Meloni, Jacopo Morrone della Lega Nord e Andrea Mandelli di Forza Italia) relativa all’equo compenso, dallo scorso 15 febbraio in discussione al Senato, a cui ha fatto seguito la presentazione di alcuni emendamenti. Solo poche settimane fa Acta, l’associazione dei freelance, insieme alle associazioni Autori di Immagini, Art Workers Italia e TradInfo, ha avanzato una seconda proposta “esterna” al Parlamento, alternativa alla prima, che al momento non ha quindi dato avvio a un iter di tipo legislativo.Cosa si intendePer equo compenso si intende «la corresponsione di un compenso proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, al contenuto e alle caratteristiche della prestazione professionale». In sostanza un salario minimo che teoricamente dovrebbe valere per ogni professione. La parola compenso, a differenza del termine salario, si utilizza quando ci si riferisce ai lavoratori autonomi. Ma stiamo parlando davvero di tutte i lavoratori? Se per i lavoratori subordinati, il cui rapporto di lavoro è legato a un datore a una tipologia di contratto, appunto, subordinata, esistono i minimi stabiliti dalla contrattazione di riferimento, per i cosiddetti autonomi o freelance la situazione è differente. «In generale, i lavoratori autonomi non sono coperti dalla legislazione sul salario minimo» dice Stijn Broecke, economista dell’Oecd, che ha condotto un’analisi proprio sul tema, alla  Repubblica degli Stagisti: «La retribuzione minima è di solito espressa su base oraria, mentre i lavoratori autonomi sono di solito pagati in base ai risultati più che al tempo impiegato. Tuttavia, alcuni lavoratori autonomi sono falsamente autonomi. Di conseguenza, non hanno accesso al salario minimo, anche se di fatto ne avrebbero diritto». Il falso lavoro autonomo non è pero l’unico problema. Alcuni lavoratori sono correttamente classificati come autonomi, ma hanno comunque alcune caratteristiche simili ai dipendenti, come nel caso dei lavoratori vulnerabili, che però da autonomi non sono adeguatamente tutelati. In questi casi, ad esempio, si potrebbe prendere in considerazione l’estensione di questo tipo di tutele, incluso un salario minimo o un tasso minimo per le loro produzioni. Un esempio è New York City, che ha introdotto un salario minimo per i conducenti di ridesharing. Tali schemi hanno maggiori probabilità di successo se considerati (e progettati) su base professionale o settoriale. La contrattazione collettiva può essere uno strumento flessibile per affrontare tali casi, piuttosto che la legislazione purché, ovviamente, questi lavoratori abbiano diritti di contrattazione collettiva».È inevitabile dunque che al centro del dibattito ci sia soprattutto questa platea di lavoratori. 1 milione e 400mila persone, stando ai dati Istat pre-pandemia, numero che comprende sia i “professionisti ordinisti”, cioè iscritti a un ordine professionale, sia i non ordinisti.Platea di destinatari E qui c’è la prima differenza tra le due proposte: se in quella in discussione al Senato l’applicazione del salario minimo si riferisce ai rapporti professionali «aventi a oggetto la prestazione d’opera intellettuale di cui all’articolo 2230 del codice civile», la proposta di Acta riguarda tutti i lavoratori autonomi così come sono definiti dall’articolo 1 della legge 81/2017 e cioè dal cosiddetto Statuto del Lavoro Autonomo.Tra i firmatari della proposta attualmente in discussione c'è l'onorevole Jacopo Morrone, della Lega Nord: «La Lega ha presentato un emendamento per una ricomprensione più organica nelle previsioni della legge del lavoro autonomo professionale organizzato in forma non ordinistica, attraverso un richiamo all’art. 1 della legge 81/2017» chiarisce alla Repubblica degli Stagisti.Il diritto all’equo compenso dovrebbe quindi essere riconosciuto a chiunque eserciti una professione autonoma, sia regolamentata in ordini o albi, sia non regolamentata. In questo caso resterebbero esclusi solo i quei lavoratori la cui attività è configurata come attività di impresa, in linea con quanto previsto in ambito europeo dalla Commissione e dalla Corte di giustizia europea, per le quali la figura del professionista autonomo è equiparata a quella dell'imprenditore e di conseguenza la contrattazione collettiva e la fissazione di parametri sui compensi sarebbero incompatibili con la legge sulla concorrenza.CommittentiSe in merito alla platea dei destinatari le due proposte presentano indicazioni differenti, sembrano invece concordi rispetto ai committenti, che possono essere aziende con più di 50 dipendenti o più di 10 milioni di euro di fatturato, la pubblica amministratori e, a cascata, i loro fornitori/appaltatori. Si tratta di quelli che sono stati definiti in sintesi committenti «forti». In entrambi i casi l’obiettivo è quello da un lato di tutelare maggiormente il lavoratore autonomo, dall’altro quello di dare vita a un circolo virtuoso che coinvolga aziende e pubblica amministrazione.«La ratio dell’equo compenso è quella di porre rimedio a situazioni di squilibrio nei rapporti contrattuali tra professionisti e clienti “forti”» ribadisce Morrone evidenziando le differenze rispetto a quanto previsto attualmente: «Poi nello specifico rispetto alla normativa vigente la proposta amplia l'ambito applicativo della disciplina sull'equo compenso delineando, in relazione alla realtà produttiva italiana, le caratteristiche che deve avere l'impresa per poter essere considerata, rispetto al professionista, un contraente "forte". Attualmente, infatti, l'articolo 13-bis, comma 1, della legge n. 247/2012  stabilisce che la disciplina sull'equo compenso si applichi, oltre che in relazione alle imprese bancarie e assicurative, anche a tutti i rapporti basati su convenzioni tra professionista e impresa diversa dalla micro, piccola e media impresa, come definite dalla raccomandazione della Commissione 2003/361/CE del maggio 2003. In base ai parametri europei la categoria delle microimprese, delle piccole imprese e delle medie imprese è costituita da imprese che occupano meno di 250 persone, il cui fatturato annuo non supera i 50 milioni di euro oppure il cui totale di bilancio annuo non supera i 43 milioni di euro. La proposta di legge fissa invece nuovi limiti, individuando come contraenti “forti” (ai quali pertanto si applica l’equo compenso) anche le imprese con più di 50 lavoratori e 10 milioni di euro di ricavi nell’anno precedente».Anna Soru, presidente dell’associazione Acta e promotrice della proposta sull’equo compenso, chiarisce questo aspetto un po’ controverso: «L'Unione Europea accetta di non equiparare il lavoro autonomo all'impresa, e quindi di permettere azioni che altrimenti sarebbero sanzionate dall'antitrust, quando è evidente che c'è una disparità nel potere contrattuale tra lavoratore e committente. Per questo almeno in una fase iniziale abbiamo voluto restringere il campo. Tuttavia anche le aziende più piccole sono ricomprese se sono aziende che forniscono la PA o sono subappaltatrici di aziende che forniscono la PA.Un passaggio cruciale, soprattutto in considerazione delle risorse che saranno spese con il Pnrr».Come stabilire se un compenso è equoMa in base a cosa un compenso viene definito equo? La proposta in discussione al Senato fa riferimento a deiparametri specifici per ciascuna professione, quella di Acta specifica che esso debba essere conforme ai parametri fissati per i compensi dei professionisti iscritti agli ordini o ai collegi professionali e a quelli previsti da normativa europea. In ogni caso il salario minimo deve essere «non inferiore alla retribuzione prevista dal Contratto Collettivo di lavoro di settore applicato dall’azienda committente per il prestatore di mansioni analoghe a quelle del professionista con maggiorazione del 20%».«Nella proposta di legge in esame al Senato si parla di definire dei parametri per ogni professione» nota Soru: «Per le professioni legali ad esempio esistono, ma per la maggior parte delle professioni no. Questo però rischia di essere un lavoro immane. Va bene usare dei parametri se esistono, ma se non ci sono non possiamo aspettare all’infinito. Per questo noi proponiamo di stabilire di fare riferimento ai parametri europei, che non devono essere inferiori rispetto a quelli del contratto collettivo di lavoro ma devono avere una maggiorazione del 20%».Cosa fare se le disposizioni non sono rispettateSe il riferimento a questi parametri non dovesse essere rispettato – e un compenso, quindi, non può definirsi equo – il lavoratore, secondo quanto previsto dalla prima proposta, può ricorrere al giudice ordinario. Il testo in discussione al Senato prevede anche l’istituzione di un osservatorio nazionale sull’equo compenso, con il compito di segnalare la violazione di quanto previsto dalla legge di riforma al ministero della Giustizia e di relazionare ogni anno alle Camere i risultati della propria attività di vigilanza. L'osservatorio, nominato per tre anni con decreto del ministro della Giustizia, che lo presiede, dovrebbe essere composto da un rappresentante per ciascuno dei Consigli nazionali degli ordini professionali. Sono previsiti inoltre anche la presenza di membri non ordinistici e l'obbligo di pubblicazione di un report annuale.La proposta Acta  propone che a decidere sulle controversie non debba essere il tribunale ordinario, ma il Giudice del lavoro, con una modalità quindi più rapida e semplice. «Riteniamo fondamentale che tutte le cause vengono trattate dal tribunale del lavoro e non da quello ordinario» puntualizza Soru «così come previsto dalla prima versione dello statuto del lavoro autonomo».La situazione in EuropaAttualmente il Parlamento europeo ha approvato una proposta di direttiva sul salario minimo, lasciando però autonomia ai singoli Paesi. Al momento (dati luglio 2020) su 27 stati membri dell’UE, 21 hanno un salario minimo; i restanti sei, tra cui l’Italia, no. Gli importi variano molto: per un lavoro mensile full time si va dai 2.202 euro del Lussemburgo ai 132 della Bulgaria. «Nel resto dell’Europa non c’è un termine di riferimento, il problema persiste anche in altri Paesi» chiude la presidente di Acta: «Proprio il fatto che quella del lavoro autonomo è un’area così poco coperta da diritti ne ha spiegato in parte la forte crescita negli ultimi anni».I prossimi passiProssimi passi saranno l'esame e l'approvazione degli emendamenti legati alla proposta di legge. «Sono stati proposti diversi emendamenti, una trentina dalla Lega, mutuati dal confronto con gli Ordini e le associazioni di professionisti e, in generale, con il mondo delle libere professioni. Ad esempio, sempre nella direzione di estendere i benefici di questa legge anche ai professionisti non organizzati in Ordini o Collegi, abbiamo proposto di conferire la legittimazione ad adire l’autorità giudiziaria in caso di violazione delle disposizioni vigenti in materia di equo compenso anche alle associazioni di categoria maggiormente rappresentative, anziché limitare questa prerogativa soltanto ai Consigli nazionali degli Ordini o dei Collegi professionali, come invece prevede l’attuale formulazione», conclude Morrone.Paralellamente Acta, insieme alle altre promotrici della proposta, ha intenzione di continuare a fare rete, andando avanti e facendo tutti i passi necessari affinché l’attenzione sul tema rimanga viva e si possa arrivare a rivedere o integrare quella attualmente in discussione.Chiara Del Priore

Alternanza scuola lavoro, i numeri: riprenderà dopo la pandemia?

L’alternanza scuola lavoro sta per compiere vent'anni. Introdotta con il decreto ministeriale n. 53/2003 (la famosa “riforma Moratti”), è rimasta però a lungo facoltativa, cioè una semplice possibilità, legata alla buona volontà e all'intraprendenza delle singole scuole. In 19 anni sono cambiati molti aspetti: l'alternanza ha vissuto un periodo di auge qualche anno fa, quando è stata resa obbligatoria con la riforma della “Buona scuola” del governo Renzi. Ha poi cambiato denominazione, ribattezzata “Percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento” – con un acronimo pressoché impronunciabile, “pcto” – con la legge di Bilancio 2019 all'epoca del governo Lega-5Stelle, che non la amava molto. E certo la pandemia non ha aiutato: se già la scuola normale in dad è difficile, con lezioni, interrogazioni e compiti in classe a distanza, l'alternanza scuola-lavoro non “in presenza” diventa pressoché impossibile. E adesso che il governo è cambiato e la pandemia sembra avviarsi alla conclusione, l'alternanza continuerà il suo declino? O riprenderà vigore? Quel che sappiamo è che la legge di bilancio 2022 ha introdotto nuove disposizioni per l’istruzione – dalla proroga degli incarichi temporanei dei docenti e del personale Ata all’aumento dei finanziamenti per la scuola (17,59 miliardi) – tralasciando, però, i pcto. «Non c’è stato alcun intervento» conferma Tobia Sartori, segretario Flc Cgil Lombardia: «Abbiamo chiesto di rivedere i percorsi a partire dall’obbligatorietà ma non è stato fatto nulla». Il ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi ha però ribadito la volontà di avviare un cambiamento: «In merito all'alternanza scuola lavoro è importante che ci sia una scuola aperta, che si facciano esperienze. Ma quella di dieci anni fa è superata. Nel pnrr vogliamo introdurre una riforma dell'orientamento scolastico che garantisca sicurezza totale», ha detto a Radio24, potendo contare su un piano nazionale di ripresa e resilienza da 12 miliardi di euro per l’istruzione e cinque miliardi per le competenze. Negli ultimi tre anni le recenti disposizioni hanno cambiato, oltre al nome, anche le regole dei percorsi di alternanza. Il monte ore obbligatorio è stato rimodulato al ribasso, scendendo a 210 ore nell’ultimo triennio per gli istituti professionali, 150 ore per gli istituti tecnici e infine solo 90 ore per i licei: 30 ore all'anno, l'equivalente di meno di una settimana. Per avere un termine di paragone: la “Buona scuola” oltre a rendere l’alternanza scuola lavoro obbligatoria, prevedeva lo svolgimento di almeno 400 ore per gli istituti tecnici e professionali e 200 per i licei. Un taglio rispettivamente di 250 e 110 ore (-58%) abbinato a una netta riduzione dei fondi per l’istruzione (meno 56,5 milioni di euro nel 2019).«Con la legge di Bilancio del 2019 c’è stato un calo di ore e di finanziamenti e anche la pandemia ha contribuito a peggiorare la situazione», racconta Antonello Giannelli, presidente dell’Anp, Associazione nazionale dirigenti pubblici e alte professionalità della scuola: «Dal 2020 ad oggi sono state fatte molte meno ore di alternanza scuola lavoro di quelle previste». Anche Domenico Squillaci, preside del liceo scientifico “Alessandro Volta” di Milano, è dello stesso parere: «Con l’arrivo della pandemia poi c’è stato un crollo. La scuola si è spostata in dad e i percorsi sono stati interrotti. E quest’anno il ministero dell’Istruzione ha imposto una deroga, fissando il monte ore minimo dell’alternanza a 70 anziché a 90».Ad oggi sono poco meno di 60mila le imprese e le attività, iscritte al registro online del Miur, che offrono percorsi di alternanza, mentre le posizioni ancora aperte per i pcto sono oltre 428mila. Proprio grazie a questo portale nazionale, studenti e scuole possono cercare nuovi percorsi, scegliere l’azienda e contattarla direttamente.Non si conosce, invece, il numero di studenti attualmente attivi nei pcto. A fornire qualche percentuale sugli anni passati è AlmaDiploma. L’associazione – nata nel 2000 con l’obiettivo di offrire strumenti di valutazione della scuola secondaria e di orientamento – ogni anno pubblica numerose indagini, compresa quella sul profilo dei diplomati. Quest’ultima, nel 2019, è stata rivolta ai 274 istituti aderenti ad AlmaDiploma e ai loro 45mila studenti diplomati. Di questi, l’86,2% ha compilato (facoltativamente) il questionario di rilevazione, un totale di quasi 39mila studenti. L’indagine, però, non riguarda un campione rappresentativo dei circa 500mila ragazzi (486.696 nel 2019 secondo l’Istat) che si diplomano ogni anno, considerato che a sole sei regioni italiane (Lazio, Lombardia, Emilia-Romagna, Trentino-Alto Adige, Toscana e Puglia) appartengono oltre i tre quarti dei diplomati esaminati nel rapporto.Il 99% degli intervistati dichiara di aver svolto un’attività di alternanza scuola lavoro prevista dai programmi scolastici. Il rapporto rileva un’ampia diffusione degli “stage” (77,4%) – anche se è improprio chiamarli così... – e dell’impresa formativa simulata (25%) – progetto che consente agli studenti di operare nella scuola come se fossero in azienda grazie alla creazione di laboratori. Quattro ragazzi su dieci dicono di aver seguito attività di formazione sulla salute e la sicurezza nei posti di lavoro. L’82,1% è rimasto in Italia mentre il 17,5% almeno per parte dell’esperienza si è spostato all’estero. Questa quota varia dal 9,5% delle scuole professionali al 15,3% dei tecnici e al 20,1% dei licei, tra i quali è da segnalare il 42,5% dell’indirizzo linguistico.  Poco meno di su tre definisce “utile” questa esperienza.Se diamo uno sguardo al 2020, le cifre raccolte da Almadiploma subiscono una forte diminuzione. I diplomati protagonisti dell’indagine sono circa 29mila (su un totale di 35.457). Il 71% dichiara di aver svolto uno stage, seguito dall’impresa formativa simulata (15%) e dal service learning (8%). Il 64% di loro, inoltre, afferma di aver seguito attività di formazione e sicurezza sul luogo di lavoro (il 16,5% in più rispetto al 2019). L’80% dice di aver partecipato al percorso di alternanza solo in Italia mentre il 19,5% è stato all’estero (almeno in parte). Tra gli studenti che hanno deciso di partire per svolgere un pcto, l’8% appartiene a scuole professionali, il 15% a istituti tecnici e il 24% ai licei (45,5% per l’indirizzo linguistico). Il 64% dei partecipanti afferma anche di aver seguito attività di formazione sulla salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro. Sotto la voce “valutazione” le percentuali risultano in aumento rispetto al 2019, con un tasso di soddisfazione del 30,5% e una considerazione dell’utilità della formazione del 36,5%.Con lo scoppio della pandemia, però, un tassello è stato rimosso. «A partire dal 2020 la partecipazione a un percorso di alternanza non ha più costituito requisito di ammissione all’esame di Stato» spiega Giannelli: «Altrimenti la percentuale di alunni che non avrebbero potuto accedere sarebbe stata altissima». Lo smart-working è un’opzione che non è stata presa in considerazione. «Questi percorsi sono utili affinché i ragazzi si sporchino le mani ed entrino in contatto con una realtà diversa da quella scolastica. Se questo manca, viene meno il principio alla base dell’alternanza scuola lavoro», sottolinea il presidente dell’Anp.Il ministero dell’Istruzione ha condotto una serie di indagini, ma le più recenti risalgono al 2015/2016 e 2016/2017: tra il 2018 e il 2021 non risultano essere stati pubblicati report. L’Osservatorio nazionale, istituito nel 2018 proprio per monitorare i dati dei pcto, è durato solo cinque mesi – insediato a febbraio 2018 e presieduto dal prof. Antonio Schizzerotto fino alla fine del governo Renzi nel giugno dello stesso anno, è stato poi abolito dal governo giallo-verde. L’ultimo report disponibile (2016/2017) aveva registrato 938mila studenti in alternanza (in aumento di 285mila unità rispetto al 2015/2016), 456.500 durante il terzo anno di scuola, 417mila durante il quarto e 64.5006 all’ultimo anno. Le strutture ospitanti, invece, nel 2016/2017 ammontavano a 208mila e solo lo 0,9% di queste era situato all’estero.«Negli istituti tecnici e professionali l’alternanza è sempre stata praticata e valorizzata, anche prima che venisse resa obbligatoria», riflette il presidente dell’Anp: «Nei licei, invece, il percorso è sempre stato visto con diffidenza e pregiudizio». «C’è bisogno che i ragazzi facciano esperienze e imparino a muoversi nei contesti lavorativi ma dobbiamo metterci d’accordo su cosa dev’essere l’alternanza, soprattutto nei licei. È utile che i nostri studenti sperimentino; ad esempio, nell’ultimo anno abbiamo avviato un percorso in cui hanno imparato a fare il pane», conclude Squillaci, che pure è preside non di un istituto alberghiero bensì di un liceo scientifico: «Tuttavia ritengo che l’apprendimento vero e proprio di un mestiere serva soprattutto per gli alunni di un istituto professionale piuttosto che per i liceali. Per loro sarebbe più formativo entrare in contatto con realtà diverse, come il terzo settore».Benedetta Mura

Stage gratuiti, in Europa i sindacati li vogliono abolire: in Italia invece sabotano la proposta di legge

Finalmente, dopo oltre tre anni, è cominciata la discussione della proposta di legge che vorrebbe dare più diritti e tutele ai tirocinanti curricolari. Ma a mettersi di traverso, a sorpresa, non sono le parti datoriali bensì i sindacati. Un “sabotaggio” emerso qualche settimana nel corso delle audizioni di Cgil, Cisl e Uil alla Commissioni riunite Lavoro e Cultura e istruzione della Camera dei deputati, che lascia di stucco chi si aspettava – specie tra i giovani militanti e sindacalisti – un supporto dai sindacati in questa battaglia. Il che è ancor più sconcertante considerando che negli ultimi tempi a livello internazionale i sindacati hanno deciso di mettersi in prima linea contro gli stage gratuiti: per esempio l’associazione giovanile dei sindacati europei (Etuc youth) sta portando avanti una campagna perché in Europa, a partire dalle istituzioni europee, si metta fine alla pratica dei tirocini non pagati. E invece in Italia... tutto il contrario. Qualche dettaglio. A inizio anno, nell’ambito dell’esame delle proposte di legge Ungaro e De Lorenzo, le Commissioni riunite Cultura e Lavoro hanno svolto le audizioni dei rappresentanti dei tre maggiori sindacati confederali: Cgil, Cisl e Uil. I due disegni di legge contengono disposizioni in materia di tirocinio curriculare, alcune delle quali molto importanti: un’indennità mensile minima obbligatoria, la riduzione della durata massima degli stage, il divieto di lasciare soli gli stagisti e la comunicazione obbligatoria dell’avvio del tirocinio. Obiettivo delle proposte è modificare la disciplina vigente che risale a quasi venticinque anni fa: era il maggio 1998 quando venne pubblicato nella Gazzetta ufficiale il decreto ministeriale n. 142, finalizzato alla promozione dei tirocini formativi e di orientamento. Un quadro normativo che, secondo la proposta di Massimo Ungaro, «oggi è in larga parte inapplicabile», in quanto «a seguito dei cambiamenti avvenuti – ripartizione dei tirocini tra extracurriculari e curriculari, con conseguente attribuzione delle competenze sui primi alle regioni e alle province autonome e sui secondi allo Stato – e con l’approvazione delle normative regionali sui tirocini extracurriculari a partire del 2012, di fatto ha progressivamente perso aderenza alla realtà». Eppure a storcere il naso non sono state le parti datoriali, bensì i sindacati confederali, proprio quelli che dovrebbero avere a cuore la tutela degli interessi professionali collettivi. Quelli dei lavoratori, si intende. E cosa sono gli stagisti se non lavoratori in potenza? Per Simonetta Ponzi, dirigente dell’area Politiche per lo sviluppo della Cgil con delega alla formazione permanente, le proposte – presentate rispettivamente nel 2018 e nel 2019 – «non tengono in considerazione novità normative rilevanti che sono state definite in coerenza con il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza». Ponzi fa riferimento «alla legge 163/2021, relativa alle lauree abilitanti e professionalizzanti dove sono contenute norme importanti sui tirocini curriculari».  Il che ha poco senso, perché in quei casi si parla di tirocini per l'accesso alle professioni regolamentate (odontoiatra, farmacista, veterinario, psicologo, geometra, agrotecnico, perito agrario e perito industriale); mentre i curricolari sono tutt'altra cosa e hanno un perimetro molto più vasto. L'obiezione della rappresentante della Confederazione generale italiana si basa anche sul fatto che i «contenuti dell’ultima legge di bilancio prevedono, dal comma 720 al comma 726, una ridefinizione consistente della regolamentazione dei tirocini extracurriculari». Nei disegni di legge, precisa Ponzi, «abbiamo notato una forte analogia regolamentare rispetto a quanto previsto dalle attuali linee guida regolanti i tirocini extracurriculari (2017, ndr) che però verranno superate da questa nuova regolamentazione. Ci pare necessario collocare successivamente alla definizione di nuove linee guida anche l’intervento sui tirocini curriculari». Ma in realtà non c'è nessuna “ridefinizione”: quelle righe si limitano a suggerire un eventuale – e allo stato dei fatti alquanto improbabile – lavoro futuro della Conferenza Stato-Regioni su nuove linee guida sui tirocini extracurricolari. Dunque la “nuova regolamentazione” di cui parla Ponzi è di fatto al momento inesistente, e molto probabilmente quelle righe della legge di bilancio resteranno lettera morta. Rincara la dose Angelo Colombini, segretario confederale della Cisl, secondo il quale le modifiche richieste da Ungaro e De Lorenzo «rischiano di rilanciare uno strumento in più sul tema della scuola-lavoro che complicherebbe il quadro normativo». «Siamo di fronte a un di più che non aiuta», precisa. La disciplina attuale prevede la distinzione tra i tirocini legati al percorso di studi e quelli extracurriculari. Nelle proposte di legge Colombini intravede un pericolo, che consisterebbe nell’introduzione di «una terza forma di tirocinio». Peccato che le due proposte di legge in esame non introducano nessuna “terza forma”, limitandosi a definire meglio il quadro normativo dei tirocini curricolari che già esistono. Sia la proposta a prima firma Ungaro sia quella a prima firma De Lorenzo sottolineano la necessità di estendere la comunicazione obbligatoria anche ai tirocini curriculari della durata uguale o superiore a 160 ore. Tutto ciò al fine di tenere conto del numero di tirocini curriculari attivati nel corso dell’anno, avvertire l’Ispettorato nazionale del lavoro in caso di irregolarità e stipulare un’assicurazione presso l’Inail per infortuni che avvengano anche al di fuori dell’azienda. Una pratica doverosa che adottata su scala nazionale garantirebbe solo dei miglioramenti. Ma per il rappresentante Cisl «introdurre la comunicazione obbligatoria, non essendo il tirocinio curriculare una forma di lavoro, è fuori luogo: aggraverebbe le posizioni dell’azienda in termini burocratici». Colombini viene su questo punto peraltro smentito dalla sua collega Uil, la segretaria confederale Ivana Veronese, che ricorda come alla fine la comunicazione obbligatoria sia una procedura tutto sommato molto facile, eseguibile perfino via sms. «Per scongiurare gli abusi – l’utilizzo del tirocinio come manodopera a basso costo o gratuita – non si deve ingessare il sistema, perché si rischia di ridurre le opportunità di incontro e scambio tra l’istruzione e il lavoro» spiega Colombini: sarebbe meglio «aumentare una serie di controlli e sanzioni per le aziende che se approfittano». Provvedimenti difficilmente applicabili nella maggior parte dei casi, anche perchè il numero degli ispettori del lavoro è molto basso. Leggermente più a sostegno dei diritti degli stagisti la Uil: Ivana Veronese, segretaria confederale, riconosce nella sua audizione l’importanza di un’indennità minima obbligatoria che, stando al testo della proposta di legge Ungaro, dovrebbe ammontare a 350 euro lordi mensili per i tirocini superiori a un mese. Tuttavia propone che queste indennità non siano pagate dai soggetti ospitanti: «Non si può mettere a carico né dell’università né dell’azienda ospitante perché altrimenti in alcune aree del paese le aziende avranno difficoltà ad accogliere i tirocinanti», avverte, «Sfido di trovare in Calabria aziende che accettino a quel punto i nostri studenti e le nostre studentesse per un tirocinio curriculare sapendo che dovranno sborsare un importo economico». Peccato che, come ricordato anche dalla direttrice della Repubblica degli Stagisti Eleonora Voltolina audita subito dopo i sindacati, «negli otto anni, dal 2012 al 2019, da che sono entrate in vigore le nuove normative con più tutele per gli stagisti, tra cui anche l’indennità obbligatoria, i tirocini extracurricolari sono praticamente raddoppiati». Da 185mila a 356mila. Un dato che parla da solo. Chi temeva, dieci anni fa, che introdurre una indennità avrebbe fatto crollare il numero di opportunità di stage si sbagliava, ma almeno era in buona fede. Oggi abbiamo dati a disposizione che smentiscono questa tesi in anticipo. Perché i sindacati si oppongono a un miglioramento della normativa sui tirocini curricolari? Perché non vogliono che i tirocinanti curricolari abbiano più tutele, e possano avere diritto a una indennità mensile? La loro sembra una battaglia di retroguardia, in contrasto con gli obiettivi dei sindacati a livello internazionale. Come lo si spiega?Ivano Lettere

Precarietà a teatro, si va in scena ma senza tutele retributive: il rinnovo del contratto è in ritardo

Giovane e di talento ma precario. Attore professionista dal 2017, Jacopo Bottani ha trent'anni e lavora nel mondo del teatro: ma senza un contratto stabile. «Con le compagnie con cui collaboro ho solo contratti a chiamata. Per mantenermi svolgo diversi lavori al di fuori del teatro» racconta. Adesso, tra uno spettacolo e l’altro, fa supplenze nelle scuole, ma ha lavorato anche come insegnante privato, educatore e operatore teatrale e infine nel settore dei multiservizi. Questo si chiama multiple job holding: è un fenomeno noto e diffuso tra i giovani lavoratori dello spettacolo, e più in generale riguarda chi per mantenersi svolge più impieghi contemporaneamente. Un tema affrontato anche nella primavera del 2021 in un’indagine della commissione parlamentare Cultura, Scienza e Istruzione assieme a quella del Lavoro pubblico e privato.«Ritengo che la maggior parte dei giovani attori oggi non possa vivere di solo teatro. C’è tanta formazione ma pochi posti di lavoro e pochi fondi per il settore», dice con rassegnazione l'attore: «Sempre più spesso succede che gli attori diventano gli imprenditori di sé stessi, costretti a trovare da soli le forze produttive per far vivere i propri progetti».Quegli stessi progetti che fruttano una retribuzione annuale pari, in media, a 10.492 euro (e circa 91 giornate pagate). La cifra è diminuita rispetto all'anno precedente di quasi il 2%: nel 2019 lo stipendio medio era di 10.685 euro (e 100 giornate pagate). A renderlo noto è l’indagine del coordinamento statistico dell’Inps, pubblicata a maggio 2021. E non sorprendentemente gli occupati del settore dello spettacolo (cinema, teatro, televisione, musica) sono diminuiti di 70mila unità (meno 21%), passando dai 331.500 del 2019 a poco meno di 262mila nel 2020. Sicuramente l’anno più difficile: il Covid ha contribuito a peggiorare una situazione già di per sé instabile.Secondo Sabina Di Marco, segretaria del sindacato dei lavoratori della comunicazione della Cgil, il problema alla base «è che il contratto collettivo nazionale non viene applicato in maniera così diffusa. Al momento, però, non sono disponibili dati che quantifichino il numero esatto di infrazioni e inadempienze del Ccnl». Il contratto che tutela i lavoratori teatrali (rinnovato ad aprile del 2018) è scaduto il 31 marzo 2021 e ancora, a distanza di quasi un anno, non è stato rinnovato. «Ci stiamo lavorando: nel giro di un mese faremo la prima richiesta per un incontro formale con tutti gli altri enti» assicura Di Marco, e sottolinea che il contratto collettivo in questi tre anni ha portato anche dei risultati positivi. In primis una sezione interamente dedicata al lavoro autonomo. La novità è l’introduzione di un compenso superiore al 50% rispetto al minimo contrattuale giornaliero, che varia a seconda di ogni singola categoria.Le professionalità del teatro sono molto diverse – dall’attore al ballerino, dal direttore di scena al fonico, dal macchinista al parrucchiere... – e i compensi minimi sono minuziosamente differenziati per categorie, ma lo scarto è di pochi euro: da 74,30 euro al giorno per alcune mansioni a 71,10 euro per altre. Cifre che, rispetto al 2018, sono aumentate progressivamente del 12% (+5% dal 2018, +3% nel 2019 e +4% nel 2020). Quantomeno sulla carta. I compensi vengono definiti sulla base di un inquadramento professionale ed economico delle diverse categorie di lavoratori. Si va dal primo livello che riguarda i professionisti con funzioni direttive e un’alta qualificazione professionale al settimo livello che, invece, interessa i lavoratori che eseguono mansioni faticose e che non comportano una specifica conoscenza e pratica.Non sempre, però, questi professionisti vengono pagati. Capita sempre più spesso che le prove degli spettacoli o le fasi di scrittura di un progetto teatrale non vengano retribuite. «Dobbiamo regolamentare tutti questi aspetti» ribadisce Di Marco: «Il contratto collettivo prevede minimo 21 giorni di prove retribuite. Effettivamente sono pochi, solitamente servono più giorni per provare uno spettacolo ed è vero che spesso non vengano pagate. È uno dei punti a cui stiamo lavorando per rafforzare la prossima piattaforma contrattuale».In questi anni ha sollevato diversi dibattiti anche il lavoro intermittente a tempo determinato, il contratto più diffuso tra gli scritturati, specialmente quelli più giovani. È stato regolamentato al fine di “contrastare forme di lavoro irregolare o sommerso, in considerazione della discontinuità e ciclicità dell’attività che caratterizza il settore” (ccnl 2018). Il contratto deve prevedere la durata, l’oggetto della scrittura e la tipologia di prestazioni richieste allo scritturato, il luogo, le modalità di lavoro, l’eventuale disponibilità di risposta alla chiamata, i tempi di pagamento e il trattamento economico. Aspetti contrattuali imprescindibili ma non sempre rispettati.«Spesso succede che le giornate di lavoro siano più di quelle pattuite e contrattualizzate. Questo avviene soprattutto per spettacoli e debutti e quindi capita di lavorare senza essere pagati», dichiara con consapevolezza Jacopo Bottani. Il lavoro intermittente, inoltre, può prevedere l’indennità di risposta alla chiamata, che consiste nell’obbligo da parte del lavoratore di farsi trovare sempre disponibile, percependo di conseguenza il 20% del proprio compenso nelle giornate in cui rimane a disposizione (anche nei giorni in cui non viene chiamato). E se corrisposta l’indennità non è coperta dai contribuiti, che dovranno essere riscattati successivamente e pagati al 50% dal datore di lavoro. Invece, in caso di malattia il lavoratore non matura il diritto all’indennità.Tra le forme contrattuali c’è anche la scrittura individuale con compenso base mensile. Una novità introdotta con l’ultimo Ccnl e che potrebbe essere riconfermata anche con il prossimo rinnovo. Una formula inedita e sperimentale caratterizzata da un compenso base mensile a cui si aggiunge “un ulteriore compenso giornaliero da riconoscere per ogni giornata nella quale allo scritturato viene richiesta la prestazione” (ccnl 2018). In questo caso la scrittura non può avere durata inferiore ai 30 giorni. «Questa formula è stata inserita per garantire che i lavoratori autonomi venissero pagati con una certa periodicità» spiega Di Marco: «La continuità di reddito è il nostro obiettivo. Purtroppo, però, rimane un contratto quasi del tutto inapplicato». Anche se ancora oggi (complice la mancanza di dati) non si conosce quante persone abbiano sottoscritto questo tipo di scrittura.Per rimediare e aumentare le tutele, lo scopo del prossimo contratto collettivo per i lavoratori dello spettacolo sarà quello di «istituire un comitato sindacale con il compito di verificare l’applicazione del Ccnl e risolvere le controversie», ribadisce la segretaria: «Inoltre vogliamo attivare un osservatorio nazionale che possa censire la condizione del mercato del lavoro e l’applicazione del contratto collettivo. Sono due misure che avevamo già previsto per il Ccnl del 2018 ma che non sono mai state realizzate». Secondo la Cgil «prendere posizione e decidere che parte dei finanziamenti pubblici vengano utilizzati per migliorare i contratti e garantire un lavoro di qualità non è una richiesta peregrina. I soggetti istituzionali e l’ispettorato del lavoropossono intervenire su questo: ci auguriamo che lo facciano».Un augurio condiviso anche da Jacopo e da tanti altri giovani lavoratori dello spettacolo che rimangono in attesa di tutele e di una stabilità economica che, però, tarda ad arrivare. «Ci sono centinaia di attori talentuosi che vengono sfornati ogni anno dalle accademie di teatro ma i contratti stabili ci sono solo per pochi di loro. C’è molta precarietà e non è affatto facile andare avanti», conclude l'attore.Benedetta Mura

Riforma dei dottorati, un’occasione persa?

Le associazioni di dottorandi e dottorande chiedevano a gran voce la loro abolizione, ma anche stavolta la richiesta è rimasta inascoltata. I dottorati senza borsa di studio continueranno a esistere: il nuovo decreto 226/2021 del ministero dell’Università e della Ricerca, che ha modificato le modalità di accreditamento delle sedi e dei corsi di dottorato, oltre ai criteri per l’istituzione dei corsi stessi da parte degli enti, non li ha eliminati. Il nuovo decreto sostituisce il decreto ministeriale 45/2013. Un tentativo di riformare il sistema era già stato fatto a gennaio 2021 quando Gaetano Manfredi, l'allora ministro dell’Università, aveva inviato una nota al Consiglio nazionale degli studenti universitari per chiedere un parere urgente sulla proposta di riforma che aveva elaborato: fu bocciata anche per l’intervento dell’Associazione dottorandi e dottori di ricerca in Italia, l'Adi. Dopo un anno di dialogo tra l’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca (l'Anvur), associazioni e ministero si è arrivati al decreto 226/2021, pubblicato a metà dicembre ed entrato in vigore lo scorso 13 gennaio. La direzione dei cambiamenti previsti dal nuovo regolamento, voluto dall’attuale ministra Maria Cristina Messa, è esplicita già dall’articolo 1: «Il dottorato di ricerca fornisce le competenze necessarie per esercitare, presso università, enti pubblici o soggetti privati, attività di ricerca di alta qualificazione, anche ai fini dell'accesso alle carriere nelle amministrazioni pubbliche e dell'integrazione di percorsi professionali di elevata innovatività». Se le università sono le uniche che continuano a poter richiedere l’accreditamento dei corsi di dottorato, dunque, con questa riforma si apre alla possibilità che possano farlo anche in forma associata insieme ad altri atenei, con enti pubblici e privati anche esteri, con istituzioni dell’alta formazione artistica, musicale e coreutica, con imprese che svolgono una qualificata attività di ricerca e sviluppo, con pubbliche amministrazioni, istituzioni culturali e infrastrutture di ricerca di rilievo europeo o internazionale. L’accreditamento dei corsi di dottorato viene disposto dal MUR e deve avere il parere positivo anche dell’Anvur, che dura cinque anni con un sistema di monitoraggio e di verifica periodica. «Con questa riforma abbiamo introdotto la necessaria flessibilità che permette carriere diverse al termine del dottorato, mantenendo saldi i criteri di qualità scientifica e organizzativa» ha dichiarato la ministra Messa.  Per quanto riguarda la retribuzione dei dottorandi all’articolo 9 si stabilisce un massimo di un dottorato senza borsa ogni tre con borsa. Come si legge nell’indagine dell'Adi, nel 2018 il 16,9% dei dottorati risultava essere senza borsa. Se si confrontano i numeri degli ultimi anni, la percentuale è comunque in calo: nel 2010, ad esempio, ammontava al 39% del totale, ma il confronto con il trend dei dottorati con borsa (negli anni pressoché costante) dimostra che la diminuzione dei posti banditi senza borsa non si traduce in un corrispondente incremento di quelli con borsa.  All’articolo 4 viene modificato anche il numero di borse di studio necessarie ad attivare un corso un dottorato. La riforma Gelmini nel 2010 aveva abolito il vincolo minimo del 50% di copertura delle borse sul totale delle posizioni bandite. Il governo Monti nel 2013 aveva reintrodotto, invece, delle soglie minime che, nelle linee guida per l’accreditamento del 2014 (nel frattempo al governo si erano avvicendati Letta e Renzi), erano state portate a un minimo del 75% sul totale delle posizioni bandite. Con l’attuale riforma, le borse necessarie per attivare un dottorato scendono a una media di quattro per ciascun corso, con un minimo di tre. Anche il numero di docenti facenti parte del collegio di dottorato diminuisce: devono essere dodici, di cui almeno la metà scelti tra docenti di prima e seconda fascia. Novità rilevanti per quanto riguarda la proroga dei dottorati: «Per comprovati motivi che non consentono la presentazione della tesi di dottorato nei tempi previsti dalla durata del corso, il collegio dei docenti può concedere, su richiesta del dottorando, una proroga della durata massima di dodici mesi, senza ulteriori oneri finanziari», si legge nell'articolo 8, e poco dopo: «Una proroga della durata del corso di dottorato per un periodo non superiore a dodici mesi può essere, altresì, decisa dal collegio dei docenti per motivate esigenze scientifiche, secondo modalità definite dai regolamenti di ateneo, assicurando in tal caso la corrispondente estensione della durata della borsa di studio con fondi a carico del bilancio dell'ateneo». Si ammette in questo modo la possibilità di chiudere il percorso in un tempo maggiore di quello previsto, ma senza che la borsa di studio possa essere prorogata. Nel complesso, di passi avanti ce ne sono stati, ma non basta. «Parliamo di interventi minimi che noi stessi in parte abbiamo salutato con favore tipo la flessibilità in uscita, la diminuzione delle borse di dottorato per costituire un corso di dottorato, ma che non vanno a intaccare nella struttura le vere problematiche che vediamo nello status giuridico dei dottorandi e delle dottorande», spiega Luca Dell’Atti, classe 1991, dottore di ricerca in diritto costituzionale presso l’università di Bari e dall'ottobre del 2020 segretario nazionale dell'Adi; «Le criticità sono essenzialmente quelle legate al salario, alla tipologia del contratto e conseguentemente anche a quelle garanzie che il contratto si porta appresso: proprio perché non esiste un contratto, ma solo una “borsa” che ha anche un ammontare non particolarmente elevato, soprattutto se si pensa a quanto vengono remunerati i dottorandi negli altri paesi europei. I dottorandi vengono considerati studenti o lavoratori a seconda di quando fa comodo». L’Adi in realtà aveva collaborato con l’Anvur per scrivere la bozza del decreto, ma una volta arrivata al ministero la versione originale è stata modificata, e molti dei suggerimenti dell'associazione dei dottorandi sono evidentemente finiti nel cestino. La critica dell’associazione non si ferma alla parte che riguarda il singolo, ma verte anche sulla direzione che i dottorati hanno preso nella ricerca. «Da quindici anni a questa parte c’è una costante transizione della ricerca dal mondo dell’università a quello dell’impresa», dice Dell’Atti: «Quello che si fa nel decreto è istituzionalizzare formule tipo il dottorato innovativo, il dottorato professionalizzante, il dottorato industriale, ma anche il dottorato di interesse nazionale, che sono quelli legati al Pnrr». Con il decreto legge n. 152 del 6 novembre 2021 sono stati destinati 500 milioni di euro del PNRR al Fondo integrativo statale (FIS) per il periodo 2021-2026. «Il FIS, che serve a integrare le risorse regionali» si legge sul sito del MIUR «specificatamente destinate alla corresponsione delle borse di studio, per l’anno 2021 – prima dell’incremento con le risorse del Pnrr – era di 307.826.221 euro». Un tentativo di incrementare il numero di iscritti ai dottorati in Italia, tra i più bassi nei Paesi dell’Unione europea: come riportato da Il Sole 24 Ore, infatti, dai 39.281 dell’anno accademico 2009/10 si è arrivati ai 29.651 del 2019/20, con una frenata del 24,5%. In calo anche il numero di chi conclude il percorso, passato dai 10.461 del 2009 ai 7.989 del 2019, il 31% in meno. Le nuove borse legate ai fondi del Pnrr prevedono la collaborazione con il settore imprenditoriale, su filoni vincolati dell’innovazione e del green. Per assegnare la borsa, assieme al progetto di ricerca, deve essere consegnata però anche una lettera di intenti con l’impresa selezionata. «Si tratta di attività di ricerca fortemente diretta dal ministero e dall’Unione europea, il che con l’autonomia dei ricercatori non ha molto a che fare», conclude Dell’Atti: «Il nostro punto di vista non vuole essere a tutti i costi critico sulla ricerca fatta anche nell’impresa, però quello che va rivelato è che alla ricerca pubblica, libera, individuale, fatta nell’università, la politica che ci governa presta sempre meno attenzione – e ne dedica sempre di più a quella fatta in collaborazione con l’impresa».Francesco Betrò

«Non era questo che sognavo da bambina», un libro racconta l'impatto dei ventenni col mondo del lavoro

«La vita è un sogno? O i sogni aiutano a vivere meglio?» diceva Gigi Marzullo nelle sue interviste tv notturne. Si gioca tutto sul contrasto tra i sogni – professionali e di vita – e la realtà, tra un passato di certezze e un presente precario la storia della giovane stagista protagonista di «Non è questo che sognavo da bambina», scritto da Sara Canfailla e Jolanda Di Virgilio e pubblicato da Garzanti ad agosto dello scorso anno. Le autrici sono originarie rispettivamente di Pescara e Aversa, hanno 27 e 30 anni, ed entrambe una laurea in Lettere Moderne. Si sono conosciute a un master alla scuola Holden di Torino e hanno iniziato a scrivere insieme, per poi spostarsi a Milano per lavoro. Ida, la protagonista del loro esordio letterario, è neolaureata, anche lei fuorisede a Milano, aspirante sceneggiatrice che finisce a fare il suo primo stage come social media manager in un’agenzia pubblicitaria per 500 euro al mese. Un racconto che non è autobiografico, ma prende tanti pezzettini di quella che potrebbe essere la vita di tanti di noi: «Diciamo che di autobiografico c’è poco, di vero c’è tutto. Nel senso che il romanzo si è costruito, fin dall’inizio, come una sorta di raccoglitore di tutte le esperienze realmente vissute, non solo da noi, ma anche dai nostri amici e amiche. Rapporti ambigui con i colleghi, stipendi ridicoli, manipolazioni emotive sul posto di lavoro, squilibri di potere, incapacità di instaurare legami sinceri, impossibilità di essere se stessi, frustrazione per non essere riusciti a fare quello che sognavamo: ecco, tutto questo è sicuramente tratto da un storia vera. Ma non solo la nostra», spiega Di Virgilio alla Repubblica degli Stagisti.L’inizio dello stage alla Metoo, questo il nome dell’agenzia, rappresenta simbolicamente il passaggio da un mondo universitario protetto e fatto di sogni a un ambiente professionale che la protagonista fatica a sentire proprio e che va di pari passo con una forte crisi sentimentale successiva alla rottura con l’ex storico. La sintesi è la frase della mail inviata a una delle sue amiche di vecchia data, che poi dà il titolo a tutto il libro: «Però fatemelo di’: non è questo che sognavo da bambina. Pensavo che avrei fatto qualcosa di meaningful e disruptive e invece sono finita a dire parole come meaningful e disruptive. Mi resta un’unica gioia, lamentarmi». E la prima parte della vita da stagista di Ida non è infatti proprio memorabile, tra pianti in bagno e piccoli/grandi incidenti di percorso professionali.«Il contrasto tra passato e presente è stato necessario per far emergere con forza il punto di rottura. È lì che si gioca il trauma dell’impatto con la realtà, nel confronto con quello che c’era prima». Sullo sfondo, ma neanche tanto, una Milano fatta di aperitivi, ritmi frenetici, «una città che ti spinge sempre a correre e a performare, molto presente all’interno del romanzo, che anche in questo caso deriva dal modo in cui la abitiamo», spiega Sara Canfailla.Milano in netto contrasto con Pescara (la protagonista del libro “mutua” ad una delle autrici la città d'origine), al cui ritorno a casa durante le feste di Natale è dedicato un capitolo: da un lato l’”immobilismo” di certi affetti e situazioni appare rassicurante rispetto al tumulto di Milano, dall’altro rappresenta la manifestazione concreta di quello a cui non vorrebbe ritornare perché rappresenterebbe un fallimento. «E ho capito che anche se mi mancano e il mare mi piace e anche i miei in fondo mi piacciono…io non ci voglio tornare qua, non è più la mia vita questa, indietro non ci voglio tornare», scrive Ida alla sua amica Gio. Un rapporto conflittuale molto simile a quello di Jolanda, anche lei pescarese: «Sono ancora parecchio in conflitto su questo punto. Oggi sicuramente il rapporto con la mia città d’origine è migliorato, rispetto ai primi tempi in cui sono – letteralmente – fuggita. Tornare mi fa sentire bene, mi dà la sensazione di potermi fermare per un po’: dopotutto l’immagine di Milano come città che ti spinge sempre a correre e a performare è molto presente all’interno del romanzo, e anche in questo caso deriva dal modo in cui la abitiamo. Detto questo, credo che a un certo punto sia necessario prendere una decisione: capire quale luogo vuoi sia la tua casa. O, almeno, per me che ho bisogno di sentire di avere radici, è così». Il tema dell’emigrazione al nord per costruire un futuro professionale dunque torna anche qui, anche se privo del contrasto tra la generazione del “posto fisso”, rappresentata di solito dai propri genitori, e quella degli stagisti.Con il tempo Ida capisce che l’unico modo per sopravvivere alla nuova realtà lavorativa è adattarsi a quei colleghi, a quelle dinamiche lavorative, in generale a quella “nuova” vita che tanto sembra lontana da lei. «Ci vuole un po’ ad abituarsi, e noi abbiamo voluto raccontare proprio quel periodo, il periodo in cui ti adatti, cambi e, più in definitiva, cresci. Con tutte le sue contraddizioni». Da questa ultima affermazione deriva il messaggio chiave di tutto il libro: Ida dopo qualche mese rinuncia al contratto a tempo determinato che di lì a poco l’avrebbe portata all’assunzione per un contratto a tempo determinato presso la Show Factory: attirata dall'annuncio LinkedIn incentrato sulla ricerca di un'autrice, decide di riavvicinarsi, almeno in parte, al mondo dal quale proveniva. Da un lato «si rifiuta di sottostare a un contesto competitivo e alienante», dall’altro si trova a ricoprire sostanzialmente le stesse mansioni. «Credo che la realizzazione del sogno sia sopravvalutata. Il libro vuole mettere in luce questo tema più di ogni altro. Il messaggio è che, anche se la vita che fai non è quella che sognavi da bambina, è quella che potresti volere da adulta. E non c’è alcun problema in questo», conclude Canfailla.Un messaggio, che, chiariscono le autrici, non è una morale ma intende essere solo uno spunto di riflessione sul percorso, umano e professionale, delle tante Ida che conosciamo e che probabilmente sono anche in noi e nelle nostre scelte.Chiara Del Priore

L'orizzonte è chiaro per i GD: “Questo è il momento giusto per approvare la legge sui tirocini curricolari”

Giusto un mese fa era a Roma, alla guida di una piccola delegazione di giovani, per consegnare nelle mani del ministro del Lavoro Orlando la petizione per cambiare le regole sugli stage e gli apprendistati. Una campagna chiamata “Lo stage non è un lavoro” (quattro gli slogan: “Meno stage più diritti”, “Meno stage extracurricolari più apprendistati”, “Stop all’abuso degli stage” e “L’apprendistato come vero e unico contratto di formazione”) e sostenuta da ben 60mila persone, sopratutto giovani ma non solo, che hanno firmato per lanciare alla politica un messaggio: che l’occupazione giovanile, e in particolare la qualità del lavoro dei giovani, venga considerata una priorità. Ora Paolo Romano, segretario dei Giovani Democratici di Milano, ha un motivo in più per sperare che si stia andando nella direzione giusta: alla Camera è partito l’iter di discussione di un disegno di legge importantissimo, quello che mira a riordinare e aggiornare la normativa sui tirocini curricolari, introducendo nuove tutele tra cui quella dell’indennità minima obbligatoria.«È merito vostro!» esordisce: un attestato che fa piacere, perché riconosce la lunga battaglia che la Repubblica degli Stagisti porta avanti contro gli stage gratuiti; anche se in questo caso specifico il merito è sopratutto di Massimo Ungaro, parlamentare che ha scritto e presentato la proposta di legge (ormai ben oltre tre anni fa!), e degli altri deputati, Manuel Tuzi e Chiara Gribaudo in primis, che hanno dimostrato attenzione al tema degli stagisti durante questa legislatura.La notizia che finalmente la proposta di legge è stata “incardinata” nei lavori parlamentari la si attendeva da un bel po’: «Sapevamo che ci si stava provando, ne avevamo già parlato in primavera con Massimo Ungaro, sembrava che si fosse vicini» conferma Romano: «Il fatto che sia accaduto ora è stato una sorpresa che ci ha piacevolmente stupiti».Ora però bisognerà vedere se la legge riuscirà a passare oppure no. Per farlo, dovrà trovare sostenitori bipartisan prima alla Camera e poi al Senato. «Questa cosa mi preoccupa molto» non nasconde il segretario dei GD Milano, che è anche consigliere del Municipio 8 di Milano e membro della Direzione metropolitana del PD milanese, «perché soprattutto nel centrodestra, ma in generale purtroppo in maniera diffusa nel Parlamento, vedo su questo tema un conservatorismo forte. Ho sentito troppe persone dire “Eh vabbè ma se i tirocini curricolari avessero il rimborso spese non li attiverebbe mai nessuno”. Per cui penso che non sarà facile e che richiederà un lavoro di spiegazione, di informazione alla classe parlamentare non scontato su che cosa voglia dire oggi la Pdl Ungaro: le audizioni saranno fondamentali».Per Romano, che studente universitario 25enne incarna appieno la generazione che vive sulla propria pelle oggi la roulette russa degli stage, questo “cosa vuol dire” è semplice: dare più diritti ai tirocinanti curricolari, cercare di ridurre il più possibile il ricorso ai tirocini extracurricolari, stimolare le imprese ad assumere i giovani con veri contratti di lavoro, possibilmente con il contratto di apprendistato che offre tutele ma è anche conveniente per i datori.Ma come si convincono quelli che portano quell’obiezione, lo spauracchio che introducendo una indennità obbligatoria anche per i tirocini curricolari, le opportunità per gli studenti diminuirebbero? «Con un’ottica di insieme. Cioè facendo vedere che questa della proposta di legge Ungaro è una modifica dentro uno schema complessivo, nel quale prevedere per lo stage curricolare un rimborso spese va di pari passo col limitare l’utilizzo esagerato dello stage extracurricolare». Romano fa in particolare riferimento alla proposta di legge a prima firma Chiara Gribaudo, presentata lo scorso febbraio ma non ancora calendarizzata.«È evidente che se tu lasci l’offerta libera in entrambi i campi può essere vero che rendere gli stage curricolari rimborsati li renda meno appetibili degli extracurricolari, con cui può prendere magari un trentenne con molte competenze lavorative» invece che uno studente alle prime armi e con la testa concentrata sull'università, ragiona il giovane politico: «Ma nel momento in cui tu limiti gli stage extracurricolari, automaticamente la richiesta di stage si sposta verso quelli curricolari: e quindi puoi farli pagare. Il pdl Ungaro è importantissimo, e va raccontato che ci sono altre proposte di legge e altre azioni che lo rendono ancora più valido perché lo completano».Una delle preoccupazioni di Romano, che sta finendo la magistrale in Politics and policy Analysis all’università Bocconi, è quella del problema che gli stage curricolari obbligatori rappresentano, quando non è previsto un compenso, per gli studenti meno abbienti. In particolare gli studenti-lavoratori: «Uno studente universitario che lavora ed è obbligato a fare uno stage curricolare gratuito è uno studente universitario che deve lasciare l’università» afferma: «Gli studenti che lavorano full time per pagarsi gli studi non sono una realtà minoritaria nel nostro sistema, specie in alcune città: per il costo della vita, per la difficoltà di accesso ai fondi per il diritto allo studio». Il ragionamento è che «dove c’è uno stage obbligatorio, ma è curricolare quindi può essere gratuito», e specie se questo stage è full time, «uno studente lavoratore è costretto a scegliere tra lasciare il proprio lavoro e trovarsi in difficoltà economica per fare lo stage, o dover sospendere gli studi. Questa cosa è inaccettabile».Se passasse la proposta di legge Ungaro questa situazione non si potrebbe più verificare, perché gli stage curricolari potrebbero essere gratuiti solo se estremamente brevi – meno di un mese – e tutti gli altri dovrebbero essere pagati almeno 350 euro al mese.Pochi giorni dopo il “kickstart” in parlamento, il segretario del PD Enrico Letta si è augurato pubblicamente “che il 2022 sia l’anno in cui eliminiamo i tirocini gratuiti”. «Letta sta portando avanti con molta forza la battaglia “Lo stage non è un lavoro” che comprende tra le sue proposte anche la Pdl Ungaro» che già esisteva e che quindi i GD hanno “abbracciato”; all’interno di questa campagna, il punto dell’abolizione dei tirocini gratuiti «è nodale: finalmente un partito di centro sinistra che si occupa quasi quotidianamente degli stage e dell’entrata nel mondo del lavoro per noi giovani».  L’attenzione di Letta fa eco a quella di Orlando: «Il ministro si è preso degli impegni molto concreti sia sul lato degli stage sia sul lato dell’apprendistato» assicura Romano, riferendosi al momento della consegna delle 60mila firme, e ricorda che «su alcuni temi come gli stage extracurricolari su cui su cui il Parlamento non può deliberare direttamente, perché la competenza è in mano alle Regioni, il lavoro che può fare il ministero con la Conferenza delle Regioni diventa essenziale per portare a casa il risultato». Una cosa che invece il ministero potrebbe fare fin da subito, e che non costa e non necessita di accordo delle Regioni è riallargare anche ai tirocini curricolari l’obbligo di comunicazione obbligatoria: «È impossibile monitorare e gestire un processo se non si hanno i dati sul processo stesso!» concorda il segretario dei GD Milano. Questa del resto è una proposta che la Repubblica degli Stagisti porta avanti da molti anni.C’è però un piccolo problema: l’attuale Parlamento ha i giorni un po' contati. L’insieme di deputati e senatori forma la “legislatura” (siamo alla nr. 18) cominciata a marzo del 2018; il termine naturale sarebbe previsto per il marzo 2023, ma quasi tutti gli analisti politici concordano che, “sbrigata la pratica” dell’elezione del nuovo presidente della Repubblica, dopo poco si andrà a nuove elezioni. E ogni volta che cambiano gli equilibri politici, ogni volta che cambiano i parlamentari in carica, gran parte delle proposte di legge finisce nel dimenticatoio. «Da un lato la legislatura in scadenza vuol dire il rischio che tanto del lavoro vada perso», dice Romano, «Dall’altro però è un’arma, un’opportunità: vuol dire che questa è l’unica finestra che abbiamo e quindi possiamo dire con chiarezza a tutte e tutti che è questo il momento di organizzare eventi, fare pressione politica, firmare le nostre petizioni. Perché le cose devono cambiare ora. Abbiamo un orizzonte chiaro in cui concentrare i nostri sforzi: è questo il momento di approvare la legge sui tirocini curricolari».

Salario minimo, avrebbe senso in Italia se non valesse per lavoratori autonomi e parasubordinati?

Quando si parla di salario minimo gli animi si infervorano tra sostenitori e detrattori. Il tema è spinoso perché non tutti sono d’accordo sul fatto che garantire a chiunque svolga un lavoro – di qualsiasi tipo – il diritto a una paga minima (mensile, oppure oraria) sotto la quale non si possa per nessun motivo andare sia positivo per le dinamiche del mercato del lavoro. I detrattori pensano che danneggi l’economia, limitando la libertà dei datori di lavoro di concordare salari adeguati con i loro dipendenti e collaboratori, addirittura favorendo il lavoro nero. I sostenitori ribattono sottolineando che attraverso il salario minimo si riducono le possibilità che i lavoratori, specie quelli più fragili, vengano sfruttati e si ritrovino a lavorare per una retribuzione troppo bassa rispetto alla prestazione offerta.Ma dentro al salario minimo c’è una questione ancor più spinosa e ancor più aperta, apparentemente insolubile. E cioè: il salario minimo va applicato a tutti i lavoratori, o solo quelli subordinati? (Spoiler: in Italia il salario minimo porterà davvero un cambiamento positivo solo se tutelerà tutti. Anche gli autonomi.)Piccolo recap: si definiscono subordinati, secondo il diritto del lavoro italiano, quei lavoratori che vengono assunti appunto con un contratto di tipologia subordinata, che li pone quindi nel ruolo di dipendenti rispetto al datore di lavoro. Questo inquadramento come dipendenti comporta diritti e doveri: la persona assunta viene posta all’interno di un organigramma, con una gerarchia a cui rispondere, orari di lavoro – stabiliti dal datore – da rispettare, una sede di lavoro – sempre definita dal datore – presso cui recarsi per svolgere le proprie mansioni. A fronte di tutto ciò, il lavoratore subordinato ha diritto a una retribuzione fissa (solitamente mensile, talvolta oraria) più tutte le varie ed eventuali integrazioni previste dal suo contratto, che fa riferimento al contratto collettivo di lavoro del settore in cui il datore di lavoro opera, più l’eventuale contratto integrativo, cioè quello “di secondo livello”. Tale retribuzione è certamente legata anche alla produttività del singolo lavoratore, alla sua capacità di svolgere attività lavorative specifiche; ma principalmente quel che viene pagato è il tempo del lavoratore e la sua disponibilità a eseguire, nello spazio e tempo dato, le mansioni che gli vengono affidate.Il contrario – per così dire – del lavoro subordinato è il lavoro autonomo. In questo caso tra datore di lavoro e lavoratore si instaura un rapporto diverso, in cui il lavoratore mantiene una sua autonomia, che si precisa in alcune specifiche caratteristiche come il fatto di non dover rispondere alla linea gerarchica aziendale, poter decidere in autonomia quando e dove lavorare; e soprattutto  dover rispondere sostanzialmente solo del proprio lavoro finito, cioè del progetto per il quale il datore di lavoro l’ha ingaggiato.  La tipologia di lavoro non subordinata è pensata per essere applicata su lavoratori indipendenti (“autonomi”, appunto; in alcuni settori professionali li si chiama anche “freelance”) che abbiano una competenza in un determinato ambito professionale e che quindi siano in grado di svolgere autonomamente la prestazione e offrirla al datore di lavoro “chiavi in mano“. L'esempio classico qui è la storiella del tecnico che ripara un computer, mettendoci solo pochi minuti, e sulla fattura da mille euro scrive “1 euro per serrare una vite, 999 per sapere quale vite serrare”. È proprio in questo grande insieme che, quantomeno in Italia, si annida una grandissima parte del lavoro sottopagato.In Italia il salario minimo per decenni non è esistito proprio perché, data la date le caratteristiche del mercato del lavoro italiano, non se ne sentiva più di tanto la necessità: le organizzazioni sindacali supplivano – e tuttora suppliscono – a questa mancanza definendo all’interno dei contratti collettivi di lavoro di ogni settore dei minimi, cioè il famoso “minimo sindacale”, che altro non è se non la paga più bassa prevista dai contratti collettivi che poi va ovviamente ad aumentare secondo tabelle prestabilite a seconda del ruolo svolto in azienda e dell’anzianità di servizio. Dunque di fatto in Italia il salario minimo è rappresentato da tanti salari minimi quante sono le tante “retribuzioni base” previste dalle decine di contratti collettivi (quello del commercio, metalmeccanico, ristorazione, e così via).I sostenitori del salario minimo in Italia specificano che non tutte le professioni, e quindi non tutti i lavori, hanno un contratto collettivo di riferimento; e inoltre che vi è una percentuale di lavoratori subordinati che ancora oggi può essere pagata troppo poco. In effetti, si calcola che vi sia un 10-15% di lavoratori con contratto subordinato che non è tutelato da “minimi sindacali”, e che quindi è a rischio sfruttamento. Ed è anche vero che vi sono dei contratti collettivi con minimi estremamente bassi, il che danneggia i lavoratori di quei settori. Ma è evidente che la grande maggioranza dei lavoratori subordinati in Italia è già tutelata. Prova ne sia che negli ultimi due decenni c’è stata una vera e propria fuga dal contratto subordinato (specie quello più tutelante di tutti per il lavoratore, e cioè il contratto a tempo indeterminato). Sulla base della innegabile esigenza delle aziende di poter disporre di modalità meno “stabili” con cui inquadrare i lavoratori ci sono state riforme normative (la legge Biagi è la più nota) che hanno introdotto ex novo – o “formalizzato” meglio – modalità di lavoro più flessibili. Contratti di collaborazione a progetto (cocopro), contratti di collaborazione coordinata e continuativa (cococo), collaborazioni a partita Iva, associazioni in partecipazione... In troppi casi queste nuove tipologie contrattuali sono state utilizzate in maniera truffaldina dai datori di lavoro, solo per pagare di meno i lavoratori. È proprio nei cococo, cocopro e nelle collaborazioni a partita Iva infatti che si annida molto spesso lo sfruttamento più spudorato.Tanto è vero che in Italia, patria degli azzeccagarbugli, ci siamo pure inventati la dicitura “contratti parasubordinati”, per dire sostanzialmente che ad alcuni lavoratori si chiedono prestazioni di lavoro subordinato offrendo un contratto di lavoro subordinato, e invece ad altri lavoratori si chiedono prestazioni di lavoro subordinato ma... inquadrandoli con un contratto di lavoro autonomo. Che però non è proprio-proprio autonomo, e dunque… chiamiamoli “parasubordinati”, dai. Ovviamente i contratti “parasubordinati” sono contratti di serie B, con retribuzioni solitamente più basse, contributi a carico del datore di lavoro più bassi (talvolta addirittura inesistenti), niente tredicesima, niente tfr, niente ferie pagate.La domanda è: ha senso pensare a una legge sul salario minimo, se già a monte si pensa a questa legge come un modo per tutelare esclusivamente i lavoratori subordinati? È un po’ come fare una legge contro il razzismo, con tante buone intenzioni per carità, ma che punisca solo chi discrimina, per dire, le persone orientali. E tenere fuori dal raggio di tutela della legge tutte le persone di altre etnie, a cominciare da quelle di colore che sono anzi più spesso il bersaglio di atti di razzismo. Ecco, fare una legge sul salario minimo che non includa i lavoratori autonomi sarebbe più o meno come fare una legge che condanni gesti razzisti ma solo verso una specifica categoria, perfino minoritaria, di persone potenzialmente esposte a crimini razzisti; e lasciando scoperti tutti gli altri.Se dobbiamo finalmente arrivare a una legge sul salario minimo, che questa legge tuteli davvero tutti. È difficile, certo. Trovare il modo per rendere applicabile un salario minimo su rapporti di lavoro che per loro natura non contano (quantomeno sulla carta) le ore di lavoro, a favore di lavoratori che non “timbrano il cartellino”, è complesso: noi della Repubblica degli Stagisti abbiamo una proposta, altre possono essere messe sul tavolo, l'importante è trovare una quadra. Ma non escludere i lavoratori autonomi dal raggio d'azione del salario minimo prossimo venturo è l’unico modo per contrastare davvero il lavoro sottopagato, stante la peculiarità della situazione italiana in cui la piaga delle retribuzioni troppo basse si annida proprio tra le pieghe dei contratti “atipici”. Se alla fine prevarrà la modalità rinunciataria, e anche in Italia si procederà con l'approvazione di un salario minimo limitato alle persone con contratto subordinato, certo ci sarà qualche decina di migliaia di lavoratori che ne trarrà beneficio. Ma la stragrande maggioranza di chi davvero è sottopagato resterà senza tutela.L'immagine è di Ivan Radic, tratta da Flicr in modalità Creative Commons

Salario minimo per tutti: una proposta per applicarlo sia ai dipendenti sia ai collaboratori

Esimi studiosi e ricercatori, economisti e giuslavoristi ed esperti di politiche del lavoro, ci si spaccano la testa da anni: può esistere un salario minimo applicabile anche ai lavoratori autonomi?I problemi sul tavolo sono riassumibili in due grandi sottoinsiemi: teorici e pratici.I problemi teorici sono legati all’enorme eterogeneità del gruppo dei lavoratori autonomi. Qui dentro, per capirci, stanno insieme l’idraulico che fa un servizio a domicilio per riparare un lavandino; il giornalista freelance che scrive alla sua scrivania un articolo per una testata per cui collabora, e il suo collega giornalista freelance che scrive l’articolo però magari dall’altra parte del mondo, in modalità “inviato volontario”. C’è il consulente che fa formazione ai dipendenti di un’azienda e c’è il grafico che per quella stessa azienda disegna la brochure o la pagina pubblicitaria. C’è chi ha bisogno di strumenti per il suo lavoro e chi no. C’è chi lavora da casa sua e chi invece presso il committente, e in questo secondo insieme vi sono quelli che lavorano lì per un periodo di tempo limitato e quelli che invece hanno una loro scrivania, orari predefiniti, e sostanzialmente mimano un rapporto di lavoro subordinato senza averne però il contratto.Tutti questi lavoratori autonomi sono profondamente differenti: hanno percorsi di formazione e titoli di studio differenti, competenze differenti, la loro collaborazione con il committente varia dall’essere una tantum all’essere continuativa e regolare. Alcuni di questi lavoratori autonomi hanno decine, talvolta centinaia di committenti nell’arco di un anno; altri ne hanno pochi, qualcuno è addirittura quel che si dice “monocommittente”, cioè la totalità o quasi totalità del suo reddito annuale proviene da un solo datore di lavoro.Dunque il problema teorico numero 1 nell’applicare il salario minimo anche agli autonomi è: qual è il minimo giusto? Una cifra che non sia troppo alta (se applicata a mansioni di scarso valore aggiunto e per le quali non è necessaria grande preparazione) e però contemporaneamente non sia troppo bassa (se applicata a mansioni di valore aggiunto più alto). Già, qual è il salario minimo giusto? In Francia e in Germania hanno al momento due cifre praticamente identiche (1.590 euro lordi al mese lo Smic francese, 1.585 euro il MiLoG tedesco). Si tratta di un salario applicabile solo ai subordinati (guarda un po’) ma fissa un parametro: che sotto quella cifra una persona che lavora a tempo pieno non debba poter guadagnare. La cifra – francese e tedesca – si può anche leggere come grossomodo 400 euro a settimana, 80 euro al giorno, 10 euro l’ora.E qui si arriva al problema pratico. Come si fraziona il salario minimo su attività, quelle autonome, non solo profondamente diverse una dall’altra ma anche caratterizzate da tempistiche molto diverse? Si può pagare all’ora la riparazione di un tubo? E un articolo giornalistico quanto vale all’ora? Quando si compra qualcosa, si compra solo la prestazione o anche una parte del lavoro di formazione/preparazione che il lavoratore ha dovuto fare per poter effettuare la prestazione? Si paga solo la prestazione o anche una frazione degli strumenti (le attrezzature, i device informatici…) che a quel lavoratore sono necessari per la sua attività? Come si fa a calcolare il giusto compenso per un collaboratore che svolge la sua prestazione da remoto, e che magari nella stessa giornata, al suo computer, porta avanti lavori per più di un committente?Una soluzione potrebbe essere quella di introdurre l’obbligo di un accordo scritto per qualsiasi tipo di collaborazione, squisitamente autonoma o “parasubordinata” (che aggettivo ridicolo…). In questo accordo le parti dovrebbero concordare per iscritto l’impegno orario percentuale previsto perché il lavoratore possa svolgere il lavoro che il committente gli affida. Un 100%? Un 50%? Un 10%? Ecco allora che il salario minimo risulterebbe applicabile. Perché in caso l’accordo (poniamo, un cococo) prevedesse una collaborazione intensiva, a tempo pieno per due mesi, vuol dire che il lavoratore avrebbe diritto a una retribuzione almeno pari al salario minimo espresso nella sua forma mensile, per i due mesi di lavoro. Se sull’accordo scritto le parti convenissero un impegno di 2 giorni a settimana di quel lavoratore autonomo sulle attività richieste dal committente, il compenso minimo equivarrebbe a una cifra non inferiore al 40% del salario minimo – espresso nella forma settimanale, per tutte le settimane di collaborazione. E se invece la prestazione fosse molto piccola – l’esempio dell’articolo di giornale torna utile – si tratterebbe di concordare per iscritto quante ore il collaboratore prevede di passare su quel lavoro, e la cifra concordata non potrebbe andare al di sotto del salario minimo (espresso nella forma oraria) moltiplicato per il numero di ore indicate.In questo modo ci sarebbe una “prova”: un documento attesterebbe quanta parte del suo tempo un determinato lavoratore autonomo prevede di passare su ogni singola collaborazione, e la forma scritta permetterebbe a tutte le parti di essere più consapevoli della posta in gioco.Certo, come in tutte le leggi – e specie quelle che regolamentano il lavoro – ci sono punti deboli. Esistono innumerevoli modi per depotenziare, aggirare, ignorare questa indicazione; a cominciare dalla prevedibile circostanza in cui datori di lavoro scorretti obbligassero i collaboratori ad accettare e controfirmare documenti con indicata una percentuale di tempo di lavoro previsto inferiore al vero, per poterli pagare di meno. Ma l’idea è che l’esistenza di un salario minimo aiuti anche i lavoratori stessi a prendere coscienza del valore monetario del loro lavoro, e ad essere sempre meno disponibili a farsi sottopagare. Vedere un tempo di lavoro nero su bianco su un accordo scritto, e poi vederlo rinnegato nella realtà dei fatti, potrebbe portare una parte di lavoratori autonomi a non subire più in silenzio. Inoltre, una forma scritta permetterebbe finalmente anche controlli da parte degli ispettori del lavoro, dando loro strumenti per stanare infrazioni e illegalità e tutelare anche i lavoratori autonomi, e non solo quelli subordinati, dal rischio di sfruttamento.Questo meccanismo potrebbe essere applicato a tutte le fasce di lavoratori autonomi “a rischio sfruttamento”, tenendo fuori per esempio coloro che hanno avuto, nei due o tre anni precedenti, un reddito superiore a una certa soglia (es. 50mila euro), per i quali oggettivamente è evidente dai dati che il rischio di essere sottopagati non sussista. In questo modo i lavoratori autonomi che forniscono prestazioni ad alto valore aggiunto, e che non hanno bisogno di uno strumento come il salario minimo perché riescono a concordare coi loro committenti compensi adeguati, non si sentirebbero “umiliati” da un salario minimo che dal loro punto di vista verrebbe inevitabilmente percepito come ridicolmente basso (“Il mio lavoro non vale certo 10 euro all’ora, o 80 euro al giorno!”). Ma per chi si arrabatta tra collaborazioni saltuarie e committenti col braccino corto, un punto di riferimento certo, una legge che dica chiaramente che il lavoro non può essere pagato meno di tot, sarebbe molto importante per uscire dallo sfruttamento e dalla situazione di “working poor”.

Figli minori, da gennaio al via l'assegno unico universale: nel frattempo si può richiedere la misura ponte

Rivoluzione in vista per i sussidi dell'Inps alle famiglie con figli minori. A partire dal prossimo gennaio entrerà in vigore la misura universale unica per i figli, prevista dal Family Act della ministra delle Pari opportunità e famiglia Elena Bonetti. Il decreto attuativo è stato approvato lo scorso 18 novembre, e prevede che le domande possano essere presentate a partire da gennaio 2022, con i primi pagamenti in arrivo però da marzo. Nel frattempo è già attiva una misura ponte, il cosiddetto assegno temporaneo figli minori, per cui le domande si sono aperte ufficialmente a luglio scorso e si chiuderanno il 31 dicembre. «Finalizzata a dare un sostegno immediato alla genitorialità e alla natalità» si legge sul sito Inps, la misura «è stata adottata in attesa dell’attuazione dell’assegno unico e universale che dovrà riordinare, semplificare e potenziare le misure a sostegno dei figli». Quello attuale è dunque un assegno previsto in via provvisoria. Beneficiarie saranno quelle fasce di contribuenti che non percepiscono gli assegni familiari (Anf), destinati a essere invece riassorbiti nella nuova riforma. Gli 'Anf', sono stati finora appannaggio esclusivo di chi avesse un contratto di lavoro dipendente, escludendo gli autonomi.Gli assegni però saranno spazzati via con l'assegno unico, che arriverà a tutti – una volta entrato a regime – senza fare differenze in base alla tipologia di contratto di lavoro. Mentre di quello attuale, appunto "temporaneo" e in vigore fino a dicembre 2021, beneficeranno solo gli autonomi. «L’assegno temporaneo è incompatibile con l’assegno al nucleo familiare (Anf) previsto dalla legge 153/1988», chiarisce alla Repubblica degli Stagisti l'ufficio stampa Inps. Nello specifico «l’assegno temporaneo spetta a lavoratori autonomi, disoccupati, coltivatori diretti, coloni e mezzadri, titolari di pensione da lavoro autonomo, e nuclei che non hanno uno o più requisiti per godere dell’Anf» è scritto sul sito.Qualora insomma uno dei due genitori percepisca un assegno familiare tramite il proprio contratto di lavoro da dipendente, non sarà possibile per l'altro genitore – per esempio titolare di partita Iva – richiedere l'assegno temporaneo. A meno che «non venga meno il rapporto di lavoro dipendente per licenziamento o dimissioni: a quel punto l'altro genitore, se autonomo, potrà fare richiesta per l'assegno unico», spiegano dall'Inps. Del resto al momento - «pur non essendo possibile dirlo con certezza» avvertono dall'Istituto - uno dei principali motivi di diniego delle domande «è probabilmente il fatto che il minore faccia parte di un nucleo che percepisce l'Anf». Resta invece la compatibilità dell'assegno temporaneo con il reddito di cittadinanza e le altre misure a sostegno della genitorialità.Non tutte le richieste dunque hanno esito positivo. Le domande di assegno temporaneo pervenute all’Inps a fine ottobre «risultano essere 607.422, relative a un totale di 1.017.543 minori», si legge nel comunicato diramato dall'istituto di previdenza. Di queste ne sono state accolte «580mila, mentre altre 66mila circa sono in attesa di integrazione da parte dei richiedenti perché incomplete o con errori sanabili». Respinte o fatte decadere sono le «domande relative a circa 228mila minori». Le domande «per altri 143mila minori, delle quali circa 104mila pervenute a ottobre, sono in corso di definizione».L'altro requisito per accedere alla misura è la soglia Isee, che non deve superare i 50mila euro. In base a tale griglia sono anche definiti gli importi: «Fino a un Isee pari a 7mila euro gli importi spettano in misura piena» confermano dall'Inps: «Vale a dire sono pari a 167,5 euro per ciascun figlio», maggiorati di 50 euro in caso di presenza di disabili oppure a partire dal terzo figlio. Gli assegni variano infatti anche «in base alla numerosità del nucleo familiare». I versamenti relativi a ogni singolo figlio scendono progressivamente man mano che sale la soglia Isee alla quale si appartiene. Si raddoppiano fino a due figli, e prevedono maggiorazioni dal terzo in poi. Se si appartiene a un nucleo con un Isee intorno ai 10mila euro e l'importo per il primo figlio è di 135 euro, l'asegno per la presenza anche di un secondo figlio sarà pari a 270 euro. Ma se i figli fossero tre, allora l'importo stanziato per ogni minore crescerà fino a 180 euro circa, tanto da far percepire alla famiglia circa 540 euro. «Si tratta di uno strumento che ci avvicina alle realtà europee più virtuose in termini di sostegno economico alle famiglie con figli» è il commento di Alessandro Rosina, ordinario di Demografia all'università Cattolica del Sacro Cuore e autore del libro Crisi Demografica, politiche per un Paese che ha smesso di crescere, edito da Vita e Pensiero. La riforma «è rivoluzionaria per l'Italia perché finalmente supera la frammentarietà passata e aumenta le risorse destinate alle famiglie, tanto più di fronte alle difficoltà e alle incertezze prodotte dalla crisi sanitaria». Prima della pandemia l'Italia «destinava l'1,1 per cento del Pil alla voce famiglia con figli, la metà rispetto alle media Ue eun terzo se si guarda alla Germania». Ma attenzione, la riforma «va considerata non come un punto di arrivo, ma di partenza».  La richiesta può essere fatta tramite Caf oppure direttamente sul sito Inps accedendo con le proprie credenziali Spid. In queste settimane sono già in corso i pagamenti relativi «a luglio e agosto e, in presenza dei requisiti, verranno erogate le mensilità spettanti fino a dicembre» precisano dall'Inps. Più nel dettaglio, stando al comunicato, «risulta pagato quasi il 100 per cento delle rate di luglio, agosto e settembre per le richieste pervenute a luglio e agosto, e oltre l’80 per cento delle rate di luglio, agosto e settembre per le domande pervenute a settembre». Il totale della spesa, prosegue la nota, ammonta a oltre 225 milioni di euro. Cosa accadrà quando la misura passerà da provvisoria a definitiva? Che fine faranno le altre misure per la famiglia? Dall'Inps specificano che «la legge delega 46/2021 al Governo per l’introduzione dell’assegno unico prevede il graduale superamento o soppressione di misure quali l’assegno ai nuclei familiari con almeno tre figli minori, l'assegno di natalità, il premio alla nascita, le detrazioni fiscali, gli assegni per il nucleo familiare».In particolare andrà a sparire anche il fondo di sostegno alla natalità, «inteso a favorire l'accesso al credito delle famiglie con uno o più figli, nati o adottati a decorrere dal 2017, mediante il rilascio di garanzie dirette, anche fideiussorie, alle banche e agli intermediari finanziari, e che ha una dotazione di 13 milioni di euro per l’anno 2020 e 6 milioni di euro annui a decorrere dall’anno 2021». Intanto, per chi avesse fatto domanda dell'assegno temporaneo entro il 31 ottobre saranno riconosciuti anche gli arretrati a partire dal mese di luglio, data di attivazione della misura. Mentre per chi inoltrerà la richiesta da inizio novembre sarà versato solo la mensilità corrente e quelle successive fino a dicembre. Ilaria Mariotti