Categoria: Approfondimenti

Riforma dei dottorati, un’occasione persa?

Le associazioni di dottorandi e dottorande chiedevano a gran voce la loro abolizione, ma anche stavolta la richiesta è rimasta inascoltata. I dottorati senza borsa di studio continueranno a esistere: il nuovo decreto 226/2021 del ministero dell’Università e della Ricerca, che ha modificato le modalità di accreditamento delle sedi e dei corsi di dottorato, oltre ai criteri per l’istituzione dei corsi stessi da parte degli enti, non li ha eliminati. Il nuovo decreto sostituisce il decreto ministeriale 45/2013. Un tentativo di riformare il sistema era già stato fatto a gennaio 2021 quando Gaetano Manfredi, l'allora ministro dell’Università, aveva inviato una nota al Consiglio nazionale degli studenti universitari per chiedere un parere urgente sulla proposta di riforma che aveva elaborato: fu bocciata anche per l’intervento dell’Associazione dottorandi e dottori di ricerca in Italia, l'Adi. Dopo un anno di dialogo tra l’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca (l'Anvur), associazioni e ministero si è arrivati al decreto 226/2021, pubblicato a metà dicembre ed entrato in vigore lo scorso 13 gennaio. La direzione dei cambiamenti previsti dal nuovo regolamento, voluto dall’attuale ministra Maria Cristina Messa, è esplicita già dall’articolo 1: «Il dottorato di ricerca fornisce le competenze necessarie per esercitare, presso università, enti pubblici o soggetti privati, attività di ricerca di alta qualificazione, anche ai fini dell'accesso alle carriere nelle amministrazioni pubbliche e dell'integrazione di percorsi professionali di elevata innovatività». Se le università sono le uniche che continuano a poter richiedere l’accreditamento dei corsi di dottorato, dunque, con questa riforma si apre alla possibilità che possano farlo anche in forma associata insieme ad altri atenei, con enti pubblici e privati anche esteri, con istituzioni dell’alta formazione artistica, musicale e coreutica, con imprese che svolgono una qualificata attività di ricerca e sviluppo, con pubbliche amministrazioni, istituzioni culturali e infrastrutture di ricerca di rilievo europeo o internazionale. L’accreditamento dei corsi di dottorato viene disposto dal MUR e deve avere il parere positivo anche dell’Anvur, che dura cinque anni con un sistema di monitoraggio e di verifica periodica. «Con questa riforma abbiamo introdotto la necessaria flessibilità che permette carriere diverse al termine del dottorato, mantenendo saldi i criteri di qualità scientifica e organizzativa» ha dichiarato la ministra Messa.  Per quanto riguarda la retribuzione dei dottorandi all’articolo 9 si stabilisce un massimo di un dottorato senza borsa ogni tre con borsa. Come si legge nell’indagine dell'Adi, nel 2018 il 16,9% dei dottorati risultava essere senza borsa. Se si confrontano i numeri degli ultimi anni, la percentuale è comunque in calo: nel 2010, ad esempio, ammontava al 39% del totale, ma il confronto con il trend dei dottorati con borsa (negli anni pressoché costante) dimostra che la diminuzione dei posti banditi senza borsa non si traduce in un corrispondente incremento di quelli con borsa.  All’articolo 4 viene modificato anche il numero di borse di studio necessarie ad attivare un corso un dottorato. La riforma Gelmini nel 2010 aveva abolito il vincolo minimo del 50% di copertura delle borse sul totale delle posizioni bandite. Il governo Monti nel 2013 aveva reintrodotto, invece, delle soglie minime che, nelle linee guida per l’accreditamento del 2014 (nel frattempo al governo si erano avvicendati Letta e Renzi), erano state portate a un minimo del 75% sul totale delle posizioni bandite. Con l’attuale riforma, le borse necessarie per attivare un dottorato scendono a una media di quattro per ciascun corso, con un minimo di tre. Anche il numero di docenti facenti parte del collegio di dottorato diminuisce: devono essere dodici, di cui almeno la metà scelti tra docenti di prima e seconda fascia. Novità rilevanti per quanto riguarda la proroga dei dottorati: «Per comprovati motivi che non consentono la presentazione della tesi di dottorato nei tempi previsti dalla durata del corso, il collegio dei docenti può concedere, su richiesta del dottorando, una proroga della durata massima di dodici mesi, senza ulteriori oneri finanziari», si legge nell'articolo 8, e poco dopo: «Una proroga della durata del corso di dottorato per un periodo non superiore a dodici mesi può essere, altresì, decisa dal collegio dei docenti per motivate esigenze scientifiche, secondo modalità definite dai regolamenti di ateneo, assicurando in tal caso la corrispondente estensione della durata della borsa di studio con fondi a carico del bilancio dell'ateneo». Si ammette in questo modo la possibilità di chiudere il percorso in un tempo maggiore di quello previsto, ma senza che la borsa di studio possa essere prorogata. Nel complesso, di passi avanti ce ne sono stati, ma non basta. «Parliamo di interventi minimi che noi stessi in parte abbiamo salutato con favore tipo la flessibilità in uscita, la diminuzione delle borse di dottorato per costituire un corso di dottorato, ma che non vanno a intaccare nella struttura le vere problematiche che vediamo nello status giuridico dei dottorandi e delle dottorande», spiega Luca Dell’Atti, classe 1991, dottore di ricerca in diritto costituzionale presso l’università di Bari e dall'ottobre del 2020 segretario nazionale dell'Adi; «Le criticità sono essenzialmente quelle legate al salario, alla tipologia del contratto e conseguentemente anche a quelle garanzie che il contratto si porta appresso: proprio perché non esiste un contratto, ma solo una “borsa” che ha anche un ammontare non particolarmente elevato, soprattutto se si pensa a quanto vengono remunerati i dottorandi negli altri paesi europei. I dottorandi vengono considerati studenti o lavoratori a seconda di quando fa comodo». L’Adi in realtà aveva collaborato con l’Anvur per scrivere la bozza del decreto, ma una volta arrivata al ministero la versione originale è stata modificata, e molti dei suggerimenti dell'associazione dei dottorandi sono evidentemente finiti nel cestino. La critica dell’associazione non si ferma alla parte che riguarda il singolo, ma verte anche sulla direzione che i dottorati hanno preso nella ricerca. «Da quindici anni a questa parte c’è una costante transizione della ricerca dal mondo dell’università a quello dell’impresa», dice Dell’Atti: «Quello che si fa nel decreto è istituzionalizzare formule tipo il dottorato innovativo, il dottorato professionalizzante, il dottorato industriale, ma anche il dottorato di interesse nazionale, che sono quelli legati al Pnrr». Con il decreto legge n. 152 del 6 novembre 2021 sono stati destinati 500 milioni di euro del PNRR al Fondo integrativo statale (FIS) per il periodo 2021-2026. «Il FIS, che serve a integrare le risorse regionali» si legge sul sito del MIUR «specificatamente destinate alla corresponsione delle borse di studio, per l’anno 2021 – prima dell’incremento con le risorse del Pnrr – era di 307.826.221 euro». Un tentativo di incrementare il numero di iscritti ai dottorati in Italia, tra i più bassi nei Paesi dell’Unione europea: come riportato da Il Sole 24 Ore, infatti, dai 39.281 dell’anno accademico 2009/10 si è arrivati ai 29.651 del 2019/20, con una frenata del 24,5%. In calo anche il numero di chi conclude il percorso, passato dai 10.461 del 2009 ai 7.989 del 2019, il 31% in meno. Le nuove borse legate ai fondi del Pnrr prevedono la collaborazione con il settore imprenditoriale, su filoni vincolati dell’innovazione e del green. Per assegnare la borsa, assieme al progetto di ricerca, deve essere consegnata però anche una lettera di intenti con l’impresa selezionata. «Si tratta di attività di ricerca fortemente diretta dal ministero e dall’Unione europea, il che con l’autonomia dei ricercatori non ha molto a che fare», conclude Dell’Atti: «Il nostro punto di vista non vuole essere a tutti i costi critico sulla ricerca fatta anche nell’impresa, però quello che va rivelato è che alla ricerca pubblica, libera, individuale, fatta nell’università, la politica che ci governa presta sempre meno attenzione – e ne dedica sempre di più a quella fatta in collaborazione con l’impresa».Francesco Betrò

«Non era questo che sognavo da bambina», un libro racconta l'impatto dei ventenni col mondo del lavoro

«La vita è un sogno? O i sogni aiutano a vivere meglio?» diceva Gigi Marzullo nelle sue interviste tv notturne. Si gioca tutto sul contrasto tra i sogni – professionali e di vita – e la realtà, tra un passato di certezze e un presente precario la storia della giovane stagista protagonista di «Non è questo che sognavo da bambina», scritto da Sara Canfailla e Jolanda Di Virgilio e pubblicato da Garzanti ad agosto dello scorso anno. Le autrici sono originarie rispettivamente di Pescara e Aversa, hanno 27 e 30 anni, ed entrambe una laurea in Lettere Moderne. Si sono conosciute a un master alla scuola Holden di Torino e hanno iniziato a scrivere insieme, per poi spostarsi a Milano per lavoro. Ida, la protagonista del loro esordio letterario, è neolaureata, anche lei fuorisede a Milano, aspirante sceneggiatrice che finisce a fare il suo primo stage come social media manager in un’agenzia pubblicitaria per 500 euro al mese. Un racconto che non è autobiografico, ma prende tanti pezzettini di quella che potrebbe essere la vita di tanti di noi: «Diciamo che di autobiografico c’è poco, di vero c’è tutto. Nel senso che il romanzo si è costruito, fin dall’inizio, come una sorta di raccoglitore di tutte le esperienze realmente vissute, non solo da noi, ma anche dai nostri amici e amiche. Rapporti ambigui con i colleghi, stipendi ridicoli, manipolazioni emotive sul posto di lavoro, squilibri di potere, incapacità di instaurare legami sinceri, impossibilità di essere se stessi, frustrazione per non essere riusciti a fare quello che sognavamo: ecco, tutto questo è sicuramente tratto da un storia vera. Ma non solo la nostra», spiega Di Virgilio alla Repubblica degli Stagisti.L’inizio dello stage alla Metoo, questo il nome dell’agenzia, rappresenta simbolicamente il passaggio da un mondo universitario protetto e fatto di sogni a un ambiente professionale che la protagonista fatica a sentire proprio e che va di pari passo con una forte crisi sentimentale successiva alla rottura con l’ex storico. La sintesi è la frase della mail inviata a una delle sue amiche di vecchia data, che poi dà il titolo a tutto il libro: «Però fatemelo di’: non è questo che sognavo da bambina. Pensavo che avrei fatto qualcosa di meaningful e disruptive e invece sono finita a dire parole come meaningful e disruptive. Mi resta un’unica gioia, lamentarmi». E la prima parte della vita da stagista di Ida non è infatti proprio memorabile, tra pianti in bagno e piccoli/grandi incidenti di percorso professionali.«Il contrasto tra passato e presente è stato necessario per far emergere con forza il punto di rottura. È lì che si gioca il trauma dell’impatto con la realtà, nel confronto con quello che c’era prima». Sullo sfondo, ma neanche tanto, una Milano fatta di aperitivi, ritmi frenetici, «una città che ti spinge sempre a correre e a performare, molto presente all’interno del romanzo, che anche in questo caso deriva dal modo in cui la abitiamo», spiega Sara Canfailla.Milano in netto contrasto con Pescara (la protagonista del libro “mutua” ad una delle autrici la città d'origine), al cui ritorno a casa durante le feste di Natale è dedicato un capitolo: da un lato l’”immobilismo” di certi affetti e situazioni appare rassicurante rispetto al tumulto di Milano, dall’altro rappresenta la manifestazione concreta di quello a cui non vorrebbe ritornare perché rappresenterebbe un fallimento. «E ho capito che anche se mi mancano e il mare mi piace e anche i miei in fondo mi piacciono…io non ci voglio tornare qua, non è più la mia vita questa, indietro non ci voglio tornare», scrive Ida alla sua amica Gio. Un rapporto conflittuale molto simile a quello di Jolanda, anche lei pescarese: «Sono ancora parecchio in conflitto su questo punto. Oggi sicuramente il rapporto con la mia città d’origine è migliorato, rispetto ai primi tempi in cui sono – letteralmente – fuggita. Tornare mi fa sentire bene, mi dà la sensazione di potermi fermare per un po’: dopotutto l’immagine di Milano come città che ti spinge sempre a correre e a performare è molto presente all’interno del romanzo, e anche in questo caso deriva dal modo in cui la abitiamo. Detto questo, credo che a un certo punto sia necessario prendere una decisione: capire quale luogo vuoi sia la tua casa. O, almeno, per me che ho bisogno di sentire di avere radici, è così». Il tema dell’emigrazione al nord per costruire un futuro professionale dunque torna anche qui, anche se privo del contrasto tra la generazione del “posto fisso”, rappresentata di solito dai propri genitori, e quella degli stagisti.Con il tempo Ida capisce che l’unico modo per sopravvivere alla nuova realtà lavorativa è adattarsi a quei colleghi, a quelle dinamiche lavorative, in generale a quella “nuova” vita che tanto sembra lontana da lei. «Ci vuole un po’ ad abituarsi, e noi abbiamo voluto raccontare proprio quel periodo, il periodo in cui ti adatti, cambi e, più in definitiva, cresci. Con tutte le sue contraddizioni». Da questa ultima affermazione deriva il messaggio chiave di tutto il libro: Ida dopo qualche mese rinuncia al contratto a tempo determinato che di lì a poco l’avrebbe portata all’assunzione per un contratto a tempo determinato presso la Show Factory: attirata dall'annuncio LinkedIn incentrato sulla ricerca di un'autrice, decide di riavvicinarsi, almeno in parte, al mondo dal quale proveniva. Da un lato «si rifiuta di sottostare a un contesto competitivo e alienante», dall’altro si trova a ricoprire sostanzialmente le stesse mansioni. «Credo che la realizzazione del sogno sia sopravvalutata. Il libro vuole mettere in luce questo tema più di ogni altro. Il messaggio è che, anche se la vita che fai non è quella che sognavi da bambina, è quella che potresti volere da adulta. E non c’è alcun problema in questo», conclude Canfailla.Un messaggio, che, chiariscono le autrici, non è una morale ma intende essere solo uno spunto di riflessione sul percorso, umano e professionale, delle tante Ida che conosciamo e che probabilmente sono anche in noi e nelle nostre scelte.Chiara Del Priore

L'orizzonte è chiaro per i GD: “Questo è il momento giusto per approvare la legge sui tirocini curricolari”

Giusto un mese fa era a Roma, alla guida di una piccola delegazione di giovani, per consegnare nelle mani del ministro del Lavoro Orlando la petizione per cambiare le regole sugli stage e gli apprendistati. Una campagna chiamata “Lo stage non è un lavoro” (quattro gli slogan: “Meno stage più diritti”, “Meno stage extracurricolari più apprendistati”, “Stop all’abuso degli stage” e “L’apprendistato come vero e unico contratto di formazione”) e sostenuta da ben 60mila persone, sopratutto giovani ma non solo, che hanno firmato per lanciare alla politica un messaggio: che l’occupazione giovanile, e in particolare la qualità del lavoro dei giovani, venga considerata una priorità. Ora Paolo Romano, segretario dei Giovani Democratici di Milano, ha un motivo in più per sperare che si stia andando nella direzione giusta: alla Camera è partito l’iter di discussione di un disegno di legge importantissimo, quello che mira a riordinare e aggiornare la normativa sui tirocini curricolari, introducendo nuove tutele tra cui quella dell’indennità minima obbligatoria.«È merito vostro!» esordisce: un attestato che fa piacere, perché riconosce la lunga battaglia che la Repubblica degli Stagisti porta avanti contro gli stage gratuiti; anche se in questo caso specifico il merito è sopratutto di Massimo Ungaro, parlamentare che ha scritto e presentato la proposta di legge (ormai ben oltre tre anni fa!), e degli altri deputati, Manuel Tuzi e Chiara Gribaudo in primis, che hanno dimostrato attenzione al tema degli stagisti durante questa legislatura.La notizia che finalmente la proposta di legge è stata “incardinata” nei lavori parlamentari la si attendeva da un bel po’: «Sapevamo che ci si stava provando, ne avevamo già parlato in primavera con Massimo Ungaro, sembrava che si fosse vicini» conferma Romano: «Il fatto che sia accaduto ora è stato una sorpresa che ci ha piacevolmente stupiti».Ora però bisognerà vedere se la legge riuscirà a passare oppure no. Per farlo, dovrà trovare sostenitori bipartisan prima alla Camera e poi al Senato. «Questa cosa mi preoccupa molto» non nasconde il segretario dei GD Milano, che è anche consigliere del Municipio 8 di Milano e membro della Direzione metropolitana del PD milanese, «perché soprattutto nel centrodestra, ma in generale purtroppo in maniera diffusa nel Parlamento, vedo su questo tema un conservatorismo forte. Ho sentito troppe persone dire “Eh vabbè ma se i tirocini curricolari avessero il rimborso spese non li attiverebbe mai nessuno”. Per cui penso che non sarà facile e che richiederà un lavoro di spiegazione, di informazione alla classe parlamentare non scontato su che cosa voglia dire oggi la Pdl Ungaro: le audizioni saranno fondamentali».Per Romano, che studente universitario 25enne incarna appieno la generazione che vive sulla propria pelle oggi la roulette russa degli stage, questo “cosa vuol dire” è semplice: dare più diritti ai tirocinanti curricolari, cercare di ridurre il più possibile il ricorso ai tirocini extracurricolari, stimolare le imprese ad assumere i giovani con veri contratti di lavoro, possibilmente con il contratto di apprendistato che offre tutele ma è anche conveniente per i datori.Ma come si convincono quelli che portano quell’obiezione, lo spauracchio che introducendo una indennità obbligatoria anche per i tirocini curricolari, le opportunità per gli studenti diminuirebbero? «Con un’ottica di insieme. Cioè facendo vedere che questa della proposta di legge Ungaro è una modifica dentro uno schema complessivo, nel quale prevedere per lo stage curricolare un rimborso spese va di pari passo col limitare l’utilizzo esagerato dello stage extracurricolare». Romano fa in particolare riferimento alla proposta di legge a prima firma Chiara Gribaudo, presentata lo scorso febbraio ma non ancora calendarizzata.«È evidente che se tu lasci l’offerta libera in entrambi i campi può essere vero che rendere gli stage curricolari rimborsati li renda meno appetibili degli extracurricolari, con cui può prendere magari un trentenne con molte competenze lavorative» invece che uno studente alle prime armi e con la testa concentrata sull'università, ragiona il giovane politico: «Ma nel momento in cui tu limiti gli stage extracurricolari, automaticamente la richiesta di stage si sposta verso quelli curricolari: e quindi puoi farli pagare. Il pdl Ungaro è importantissimo, e va raccontato che ci sono altre proposte di legge e altre azioni che lo rendono ancora più valido perché lo completano».Una delle preoccupazioni di Romano, che sta finendo la magistrale in Politics and policy Analysis all’università Bocconi, è quella del problema che gli stage curricolari obbligatori rappresentano, quando non è previsto un compenso, per gli studenti meno abbienti. In particolare gli studenti-lavoratori: «Uno studente universitario che lavora ed è obbligato a fare uno stage curricolare gratuito è uno studente universitario che deve lasciare l’università» afferma: «Gli studenti che lavorano full time per pagarsi gli studi non sono una realtà minoritaria nel nostro sistema, specie in alcune città: per il costo della vita, per la difficoltà di accesso ai fondi per il diritto allo studio». Il ragionamento è che «dove c’è uno stage obbligatorio, ma è curricolare quindi può essere gratuito», e specie se questo stage è full time, «uno studente lavoratore è costretto a scegliere tra lasciare il proprio lavoro e trovarsi in difficoltà economica per fare lo stage, o dover sospendere gli studi. Questa cosa è inaccettabile».Se passasse la proposta di legge Ungaro questa situazione non si potrebbe più verificare, perché gli stage curricolari potrebbero essere gratuiti solo se estremamente brevi – meno di un mese – e tutti gli altri dovrebbero essere pagati almeno 350 euro al mese.Pochi giorni dopo il “kickstart” in parlamento, il segretario del PD Enrico Letta si è augurato pubblicamente “che il 2022 sia l’anno in cui eliminiamo i tirocini gratuiti”. «Letta sta portando avanti con molta forza la battaglia “Lo stage non è un lavoro” che comprende tra le sue proposte anche la Pdl Ungaro» che già esisteva e che quindi i GD hanno “abbracciato”; all’interno di questa campagna, il punto dell’abolizione dei tirocini gratuiti «è nodale: finalmente un partito di centro sinistra che si occupa quasi quotidianamente degli stage e dell’entrata nel mondo del lavoro per noi giovani».  L’attenzione di Letta fa eco a quella di Orlando: «Il ministro si è preso degli impegni molto concreti sia sul lato degli stage sia sul lato dell’apprendistato» assicura Romano, riferendosi al momento della consegna delle 60mila firme, e ricorda che «su alcuni temi come gli stage extracurricolari su cui su cui il Parlamento non può deliberare direttamente, perché la competenza è in mano alle Regioni, il lavoro che può fare il ministero con la Conferenza delle Regioni diventa essenziale per portare a casa il risultato». Una cosa che invece il ministero potrebbe fare fin da subito, e che non costa e non necessita di accordo delle Regioni è riallargare anche ai tirocini curricolari l’obbligo di comunicazione obbligatoria: «È impossibile monitorare e gestire un processo se non si hanno i dati sul processo stesso!» concorda il segretario dei GD Milano. Questa del resto è una proposta che la Repubblica degli Stagisti porta avanti da molti anni.C’è però un piccolo problema: l’attuale Parlamento ha i giorni un po' contati. L’insieme di deputati e senatori forma la “legislatura” (siamo alla nr. 18) cominciata a marzo del 2018; il termine naturale sarebbe previsto per il marzo 2023, ma quasi tutti gli analisti politici concordano che, “sbrigata la pratica” dell’elezione del nuovo presidente della Repubblica, dopo poco si andrà a nuove elezioni. E ogni volta che cambiano gli equilibri politici, ogni volta che cambiano i parlamentari in carica, gran parte delle proposte di legge finisce nel dimenticatoio. «Da un lato la legislatura in scadenza vuol dire il rischio che tanto del lavoro vada perso», dice Romano, «Dall’altro però è un’arma, un’opportunità: vuol dire che questa è l’unica finestra che abbiamo e quindi possiamo dire con chiarezza a tutte e tutti che è questo il momento di organizzare eventi, fare pressione politica, firmare le nostre petizioni. Perché le cose devono cambiare ora. Abbiamo un orizzonte chiaro in cui concentrare i nostri sforzi: è questo il momento di approvare la legge sui tirocini curricolari».

Salario minimo, avrebbe senso in Italia se non valesse per lavoratori autonomi e parasubordinati?

Quando si parla di salario minimo gli animi si infervorano tra sostenitori e detrattori. Il tema è spinoso perché non tutti sono d’accordo sul fatto che garantire a chiunque svolga un lavoro – di qualsiasi tipo – il diritto a una paga minima (mensile, oppure oraria) sotto la quale non si possa per nessun motivo andare sia positivo per le dinamiche del mercato del lavoro. I detrattori pensano che danneggi l’economia, limitando la libertà dei datori di lavoro di concordare salari adeguati con i loro dipendenti e collaboratori, addirittura favorendo il lavoro nero. I sostenitori ribattono sottolineando che attraverso il salario minimo si riducono le possibilità che i lavoratori, specie quelli più fragili, vengano sfruttati e si ritrovino a lavorare per una retribuzione troppo bassa rispetto alla prestazione offerta.Ma dentro al salario minimo c’è una questione ancor più spinosa e ancor più aperta, apparentemente insolubile. E cioè: il salario minimo va applicato a tutti i lavoratori, o solo quelli subordinati? (Spoiler: in Italia il salario minimo porterà davvero un cambiamento positivo solo se tutelerà tutti. Anche gli autonomi.)Piccolo recap: si definiscono subordinati, secondo il diritto del lavoro italiano, quei lavoratori che vengono assunti appunto con un contratto di tipologia subordinata, che li pone quindi nel ruolo di dipendenti rispetto al datore di lavoro. Questo inquadramento come dipendenti comporta diritti e doveri: la persona assunta viene posta all’interno di un organigramma, con una gerarchia a cui rispondere, orari di lavoro – stabiliti dal datore – da rispettare, una sede di lavoro – sempre definita dal datore – presso cui recarsi per svolgere le proprie mansioni. A fronte di tutto ciò, il lavoratore subordinato ha diritto a una retribuzione fissa (solitamente mensile, talvolta oraria) più tutte le varie ed eventuali integrazioni previste dal suo contratto, che fa riferimento al contratto collettivo di lavoro del settore in cui il datore di lavoro opera, più l’eventuale contratto integrativo, cioè quello “di secondo livello”. Tale retribuzione è certamente legata anche alla produttività del singolo lavoratore, alla sua capacità di svolgere attività lavorative specifiche; ma principalmente quel che viene pagato è il tempo del lavoratore e la sua disponibilità a eseguire, nello spazio e tempo dato, le mansioni che gli vengono affidate.Il contrario – per così dire – del lavoro subordinato è il lavoro autonomo. In questo caso tra datore di lavoro e lavoratore si instaura un rapporto diverso, in cui il lavoratore mantiene una sua autonomia, che si precisa in alcune specifiche caratteristiche come il fatto di non dover rispondere alla linea gerarchica aziendale, poter decidere in autonomia quando e dove lavorare; e soprattutto  dover rispondere sostanzialmente solo del proprio lavoro finito, cioè del progetto per il quale il datore di lavoro l’ha ingaggiato.  La tipologia di lavoro non subordinata è pensata per essere applicata su lavoratori indipendenti (“autonomi”, appunto; in alcuni settori professionali li si chiama anche “freelance”) che abbiano una competenza in un determinato ambito professionale e che quindi siano in grado di svolgere autonomamente la prestazione e offrirla al datore di lavoro “chiavi in mano“. L'esempio classico qui è la storiella del tecnico che ripara un computer, mettendoci solo pochi minuti, e sulla fattura da mille euro scrive “1 euro per serrare una vite, 999 per sapere quale vite serrare”. È proprio in questo grande insieme che, quantomeno in Italia, si annida una grandissima parte del lavoro sottopagato.In Italia il salario minimo per decenni non è esistito proprio perché, data la date le caratteristiche del mercato del lavoro italiano, non se ne sentiva più di tanto la necessità: le organizzazioni sindacali supplivano – e tuttora suppliscono – a questa mancanza definendo all’interno dei contratti collettivi di lavoro di ogni settore dei minimi, cioè il famoso “minimo sindacale”, che altro non è se non la paga più bassa prevista dai contratti collettivi che poi va ovviamente ad aumentare secondo tabelle prestabilite a seconda del ruolo svolto in azienda e dell’anzianità di servizio. Dunque di fatto in Italia il salario minimo è rappresentato da tanti salari minimi quante sono le tante “retribuzioni base” previste dalle decine di contratti collettivi (quello del commercio, metalmeccanico, ristorazione, e così via).I sostenitori del salario minimo in Italia specificano che non tutte le professioni, e quindi non tutti i lavori, hanno un contratto collettivo di riferimento; e inoltre che vi è una percentuale di lavoratori subordinati che ancora oggi può essere pagata troppo poco. In effetti, si calcola che vi sia un 10-15% di lavoratori con contratto subordinato che non è tutelato da “minimi sindacali”, e che quindi è a rischio sfruttamento. Ed è anche vero che vi sono dei contratti collettivi con minimi estremamente bassi, il che danneggia i lavoratori di quei settori. Ma è evidente che la grande maggioranza dei lavoratori subordinati in Italia è già tutelata. Prova ne sia che negli ultimi due decenni c’è stata una vera e propria fuga dal contratto subordinato (specie quello più tutelante di tutti per il lavoratore, e cioè il contratto a tempo indeterminato). Sulla base della innegabile esigenza delle aziende di poter disporre di modalità meno “stabili” con cui inquadrare i lavoratori ci sono state riforme normative (la legge Biagi è la più nota) che hanno introdotto ex novo – o “formalizzato” meglio – modalità di lavoro più flessibili. Contratti di collaborazione a progetto (cocopro), contratti di collaborazione coordinata e continuativa (cococo), collaborazioni a partita Iva, associazioni in partecipazione... In troppi casi queste nuove tipologie contrattuali sono state utilizzate in maniera truffaldina dai datori di lavoro, solo per pagare di meno i lavoratori. È proprio nei cococo, cocopro e nelle collaborazioni a partita Iva infatti che si annida molto spesso lo sfruttamento più spudorato.Tanto è vero che in Italia, patria degli azzeccagarbugli, ci siamo pure inventati la dicitura “contratti parasubordinati”, per dire sostanzialmente che ad alcuni lavoratori si chiedono prestazioni di lavoro subordinato offrendo un contratto di lavoro subordinato, e invece ad altri lavoratori si chiedono prestazioni di lavoro subordinato ma... inquadrandoli con un contratto di lavoro autonomo. Che però non è proprio-proprio autonomo, e dunque… chiamiamoli “parasubordinati”, dai. Ovviamente i contratti “parasubordinati” sono contratti di serie B, con retribuzioni solitamente più basse, contributi a carico del datore di lavoro più bassi (talvolta addirittura inesistenti), niente tredicesima, niente tfr, niente ferie pagate.La domanda è: ha senso pensare a una legge sul salario minimo, se già a monte si pensa a questa legge come un modo per tutelare esclusivamente i lavoratori subordinati? È un po’ come fare una legge contro il razzismo, con tante buone intenzioni per carità, ma che punisca solo chi discrimina, per dire, le persone orientali. E tenere fuori dal raggio di tutela della legge tutte le persone di altre etnie, a cominciare da quelle di colore che sono anzi più spesso il bersaglio di atti di razzismo. Ecco, fare una legge sul salario minimo che non includa i lavoratori autonomi sarebbe più o meno come fare una legge che condanni gesti razzisti ma solo verso una specifica categoria, perfino minoritaria, di persone potenzialmente esposte a crimini razzisti; e lasciando scoperti tutti gli altri.Se dobbiamo finalmente arrivare a una legge sul salario minimo, che questa legge tuteli davvero tutti. È difficile, certo. Trovare il modo per rendere applicabile un salario minimo su rapporti di lavoro che per loro natura non contano (quantomeno sulla carta) le ore di lavoro, a favore di lavoratori che non “timbrano il cartellino”, è complesso: noi della Repubblica degli Stagisti abbiamo una proposta, altre possono essere messe sul tavolo, l'importante è trovare una quadra. Ma non escludere i lavoratori autonomi dal raggio d'azione del salario minimo prossimo venturo è l’unico modo per contrastare davvero il lavoro sottopagato, stante la peculiarità della situazione italiana in cui la piaga delle retribuzioni troppo basse si annida proprio tra le pieghe dei contratti “atipici”. Se alla fine prevarrà la modalità rinunciataria, e anche in Italia si procederà con l'approvazione di un salario minimo limitato alle persone con contratto subordinato, certo ci sarà qualche decina di migliaia di lavoratori che ne trarrà beneficio. Ma la stragrande maggioranza di chi davvero è sottopagato resterà senza tutela.L'immagine è di Ivan Radic, tratta da Flicr in modalità Creative Commons

Salario minimo per tutti: una proposta per applicarlo sia ai dipendenti sia ai collaboratori

Esimi studiosi e ricercatori, economisti e giuslavoristi ed esperti di politiche del lavoro, ci si spaccano la testa da anni: può esistere un salario minimo applicabile anche ai lavoratori autonomi?I problemi sul tavolo sono riassumibili in due grandi sottoinsiemi: teorici e pratici.I problemi teorici sono legati all’enorme eterogeneità del gruppo dei lavoratori autonomi. Qui dentro, per capirci, stanno insieme l’idraulico che fa un servizio a domicilio per riparare un lavandino; il giornalista freelance che scrive alla sua scrivania un articolo per una testata per cui collabora, e il suo collega giornalista freelance che scrive l’articolo però magari dall’altra parte del mondo, in modalità “inviato volontario”. C’è il consulente che fa formazione ai dipendenti di un’azienda e c’è il grafico che per quella stessa azienda disegna la brochure o la pagina pubblicitaria. C’è chi ha bisogno di strumenti per il suo lavoro e chi no. C’è chi lavora da casa sua e chi invece presso il committente, e in questo secondo insieme vi sono quelli che lavorano lì per un periodo di tempo limitato e quelli che invece hanno una loro scrivania, orari predefiniti, e sostanzialmente mimano un rapporto di lavoro subordinato senza averne però il contratto.Tutti questi lavoratori autonomi sono profondamente differenti: hanno percorsi di formazione e titoli di studio differenti, competenze differenti, la loro collaborazione con il committente varia dall’essere una tantum all’essere continuativa e regolare. Alcuni di questi lavoratori autonomi hanno decine, talvolta centinaia di committenti nell’arco di un anno; altri ne hanno pochi, qualcuno è addirittura quel che si dice “monocommittente”, cioè la totalità o quasi totalità del suo reddito annuale proviene da un solo datore di lavoro.Dunque il problema teorico numero 1 nell’applicare il salario minimo anche agli autonomi è: qual è il minimo giusto? Una cifra che non sia troppo alta (se applicata a mansioni di scarso valore aggiunto e per le quali non è necessaria grande preparazione) e però contemporaneamente non sia troppo bassa (se applicata a mansioni di valore aggiunto più alto). Già, qual è il salario minimo giusto? In Francia e in Germania hanno al momento due cifre praticamente identiche (1.590 euro lordi al mese lo Smic francese, 1.585 euro il MiLoG tedesco). Si tratta di un salario applicabile solo ai subordinati (guarda un po’) ma fissa un parametro: che sotto quella cifra una persona che lavora a tempo pieno non debba poter guadagnare. La cifra – francese e tedesca – si può anche leggere come grossomodo 400 euro a settimana, 80 euro al giorno, 10 euro l’ora.E qui si arriva al problema pratico. Come si fraziona il salario minimo su attività, quelle autonome, non solo profondamente diverse una dall’altra ma anche caratterizzate da tempistiche molto diverse? Si può pagare all’ora la riparazione di un tubo? E un articolo giornalistico quanto vale all’ora? Quando si compra qualcosa, si compra solo la prestazione o anche una parte del lavoro di formazione/preparazione che il lavoratore ha dovuto fare per poter effettuare la prestazione? Si paga solo la prestazione o anche una frazione degli strumenti (le attrezzature, i device informatici…) che a quel lavoratore sono necessari per la sua attività? Come si fa a calcolare il giusto compenso per un collaboratore che svolge la sua prestazione da remoto, e che magari nella stessa giornata, al suo computer, porta avanti lavori per più di un committente?Una soluzione potrebbe essere quella di introdurre l’obbligo di un accordo scritto per qualsiasi tipo di collaborazione, squisitamente autonoma o “parasubordinata” (che aggettivo ridicolo…). In questo accordo le parti dovrebbero concordare per iscritto l’impegno orario percentuale previsto perché il lavoratore possa svolgere il lavoro che il committente gli affida. Un 100%? Un 50%? Un 10%? Ecco allora che il salario minimo risulterebbe applicabile. Perché in caso l’accordo (poniamo, un cococo) prevedesse una collaborazione intensiva, a tempo pieno per due mesi, vuol dire che il lavoratore avrebbe diritto a una retribuzione almeno pari al salario minimo espresso nella sua forma mensile, per i due mesi di lavoro. Se sull’accordo scritto le parti convenissero un impegno di 2 giorni a settimana di quel lavoratore autonomo sulle attività richieste dal committente, il compenso minimo equivarrebbe a una cifra non inferiore al 40% del salario minimo – espresso nella forma settimanale, per tutte le settimane di collaborazione. E se invece la prestazione fosse molto piccola – l’esempio dell’articolo di giornale torna utile – si tratterebbe di concordare per iscritto quante ore il collaboratore prevede di passare su quel lavoro, e la cifra concordata non potrebbe andare al di sotto del salario minimo (espresso nella forma oraria) moltiplicato per il numero di ore indicate.In questo modo ci sarebbe una “prova”: un documento attesterebbe quanta parte del suo tempo un determinato lavoratore autonomo prevede di passare su ogni singola collaborazione, e la forma scritta permetterebbe a tutte le parti di essere più consapevoli della posta in gioco.Certo, come in tutte le leggi – e specie quelle che regolamentano il lavoro – ci sono punti deboli. Esistono innumerevoli modi per depotenziare, aggirare, ignorare questa indicazione; a cominciare dalla prevedibile circostanza in cui datori di lavoro scorretti obbligassero i collaboratori ad accettare e controfirmare documenti con indicata una percentuale di tempo di lavoro previsto inferiore al vero, per poterli pagare di meno. Ma l’idea è che l’esistenza di un salario minimo aiuti anche i lavoratori stessi a prendere coscienza del valore monetario del loro lavoro, e ad essere sempre meno disponibili a farsi sottopagare. Vedere un tempo di lavoro nero su bianco su un accordo scritto, e poi vederlo rinnegato nella realtà dei fatti, potrebbe portare una parte di lavoratori autonomi a non subire più in silenzio. Inoltre, una forma scritta permetterebbe finalmente anche controlli da parte degli ispettori del lavoro, dando loro strumenti per stanare infrazioni e illegalità e tutelare anche i lavoratori autonomi, e non solo quelli subordinati, dal rischio di sfruttamento.Questo meccanismo potrebbe essere applicato a tutte le fasce di lavoratori autonomi “a rischio sfruttamento”, tenendo fuori per esempio coloro che hanno avuto, nei due o tre anni precedenti, un reddito superiore a una certa soglia (es. 50mila euro), per i quali oggettivamente è evidente dai dati che il rischio di essere sottopagati non sussista. In questo modo i lavoratori autonomi che forniscono prestazioni ad alto valore aggiunto, e che non hanno bisogno di uno strumento come il salario minimo perché riescono a concordare coi loro committenti compensi adeguati, non si sentirebbero “umiliati” da un salario minimo che dal loro punto di vista verrebbe inevitabilmente percepito come ridicolmente basso (“Il mio lavoro non vale certo 10 euro all’ora, o 80 euro al giorno!”). Ma per chi si arrabatta tra collaborazioni saltuarie e committenti col braccino corto, un punto di riferimento certo, una legge che dica chiaramente che il lavoro non può essere pagato meno di tot, sarebbe molto importante per uscire dallo sfruttamento e dalla situazione di “working poor”.

Figli minori, da gennaio al via l'assegno unico universale: nel frattempo si può richiedere la misura ponte

Rivoluzione in vista per i sussidi dell'Inps alle famiglie con figli minori. A partire dal prossimo gennaio entrerà in vigore la misura universale unica per i figli, prevista dal Family Act della ministra delle Pari opportunità e famiglia Elena Bonetti. Il decreto attuativo è stato approvato lo scorso 18 novembre, e prevede che le domande possano essere presentate a partire da gennaio 2022, con i primi pagamenti in arrivo però da marzo. Nel frattempo è già attiva una misura ponte, il cosiddetto assegno temporaneo figli minori, per cui le domande si sono aperte ufficialmente a luglio scorso e si chiuderanno il 31 dicembre. «Finalizzata a dare un sostegno immediato alla genitorialità e alla natalità» si legge sul sito Inps, la misura «è stata adottata in attesa dell’attuazione dell’assegno unico e universale che dovrà riordinare, semplificare e potenziare le misure a sostegno dei figli». Quello attuale è dunque un assegno previsto in via provvisoria. Beneficiarie saranno quelle fasce di contribuenti che non percepiscono gli assegni familiari (Anf), destinati a essere invece riassorbiti nella nuova riforma. Gli 'Anf', sono stati finora appannaggio esclusivo di chi avesse un contratto di lavoro dipendente, escludendo gli autonomi.Gli assegni però saranno spazzati via con l'assegno unico, che arriverà a tutti – una volta entrato a regime – senza fare differenze in base alla tipologia di contratto di lavoro. Mentre di quello attuale, appunto "temporaneo" e in vigore fino a dicembre 2021, beneficeranno solo gli autonomi. «L’assegno temporaneo è incompatibile con l’assegno al nucleo familiare (Anf) previsto dalla legge 153/1988», chiarisce alla Repubblica degli Stagisti l'ufficio stampa Inps. Nello specifico «l’assegno temporaneo spetta a lavoratori autonomi, disoccupati, coltivatori diretti, coloni e mezzadri, titolari di pensione da lavoro autonomo, e nuclei che non hanno uno o più requisiti per godere dell’Anf» è scritto sul sito.Qualora insomma uno dei due genitori percepisca un assegno familiare tramite il proprio contratto di lavoro da dipendente, non sarà possibile per l'altro genitore – per esempio titolare di partita Iva – richiedere l'assegno temporaneo. A meno che «non venga meno il rapporto di lavoro dipendente per licenziamento o dimissioni: a quel punto l'altro genitore, se autonomo, potrà fare richiesta per l'assegno unico», spiegano dall'Inps. Del resto al momento - «pur non essendo possibile dirlo con certezza» avvertono dall'Istituto - uno dei principali motivi di diniego delle domande «è probabilmente il fatto che il minore faccia parte di un nucleo che percepisce l'Anf». Resta invece la compatibilità dell'assegno temporaneo con il reddito di cittadinanza e le altre misure a sostegno della genitorialità.Non tutte le richieste dunque hanno esito positivo. Le domande di assegno temporaneo pervenute all’Inps a fine ottobre «risultano essere 607.422, relative a un totale di 1.017.543 minori», si legge nel comunicato diramato dall'istituto di previdenza. Di queste ne sono state accolte «580mila, mentre altre 66mila circa sono in attesa di integrazione da parte dei richiedenti perché incomplete o con errori sanabili». Respinte o fatte decadere sono le «domande relative a circa 228mila minori». Le domande «per altri 143mila minori, delle quali circa 104mila pervenute a ottobre, sono in corso di definizione».L'altro requisito per accedere alla misura è la soglia Isee, che non deve superare i 50mila euro. In base a tale griglia sono anche definiti gli importi: «Fino a un Isee pari a 7mila euro gli importi spettano in misura piena» confermano dall'Inps: «Vale a dire sono pari a 167,5 euro per ciascun figlio», maggiorati di 50 euro in caso di presenza di disabili oppure a partire dal terzo figlio. Gli assegni variano infatti anche «in base alla numerosità del nucleo familiare». I versamenti relativi a ogni singolo figlio scendono progressivamente man mano che sale la soglia Isee alla quale si appartiene. Si raddoppiano fino a due figli, e prevedono maggiorazioni dal terzo in poi. Se si appartiene a un nucleo con un Isee intorno ai 10mila euro e l'importo per il primo figlio è di 135 euro, l'asegno per la presenza anche di un secondo figlio sarà pari a 270 euro. Ma se i figli fossero tre, allora l'importo stanziato per ogni minore crescerà fino a 180 euro circa, tanto da far percepire alla famiglia circa 540 euro. «Si tratta di uno strumento che ci avvicina alle realtà europee più virtuose in termini di sostegno economico alle famiglie con figli» è il commento di Alessandro Rosina, ordinario di Demografia all'università Cattolica del Sacro Cuore e autore del libro Crisi Demografica, politiche per un Paese che ha smesso di crescere, edito da Vita e Pensiero. La riforma «è rivoluzionaria per l'Italia perché finalmente supera la frammentarietà passata e aumenta le risorse destinate alle famiglie, tanto più di fronte alle difficoltà e alle incertezze prodotte dalla crisi sanitaria». Prima della pandemia l'Italia «destinava l'1,1 per cento del Pil alla voce famiglia con figli, la metà rispetto alle media Ue eun terzo se si guarda alla Germania». Ma attenzione, la riforma «va considerata non come un punto di arrivo, ma di partenza».  La richiesta può essere fatta tramite Caf oppure direttamente sul sito Inps accedendo con le proprie credenziali Spid. In queste settimane sono già in corso i pagamenti relativi «a luglio e agosto e, in presenza dei requisiti, verranno erogate le mensilità spettanti fino a dicembre» precisano dall'Inps. Più nel dettaglio, stando al comunicato, «risulta pagato quasi il 100 per cento delle rate di luglio, agosto e settembre per le richieste pervenute a luglio e agosto, e oltre l’80 per cento delle rate di luglio, agosto e settembre per le domande pervenute a settembre». Il totale della spesa, prosegue la nota, ammonta a oltre 225 milioni di euro. Cosa accadrà quando la misura passerà da provvisoria a definitiva? Che fine faranno le altre misure per la famiglia? Dall'Inps specificano che «la legge delega 46/2021 al Governo per l’introduzione dell’assegno unico prevede il graduale superamento o soppressione di misure quali l’assegno ai nuclei familiari con almeno tre figli minori, l'assegno di natalità, il premio alla nascita, le detrazioni fiscali, gli assegni per il nucleo familiare».In particolare andrà a sparire anche il fondo di sostegno alla natalità, «inteso a favorire l'accesso al credito delle famiglie con uno o più figli, nati o adottati a decorrere dal 2017, mediante il rilascio di garanzie dirette, anche fideiussorie, alle banche e agli intermediari finanziari, e che ha una dotazione di 13 milioni di euro per l’anno 2020 e 6 milioni di euro annui a decorrere dall’anno 2021». Intanto, per chi avesse fatto domanda dell'assegno temporaneo entro il 31 ottobre saranno riconosciuti anche gli arretrati a partire dal mese di luglio, data di attivazione della misura. Mentre per chi inoltrerà la richiesta da inizio novembre sarà versato solo la mensilità corrente e quelle successive fino a dicembre. Ilaria Mariotti 

Italia nel pieno di un “inverno demografico”, neanche il Covid ha fermato gli espatri

L'Italia sembra vivere un lungo e ormai inesorabile 'inverno demografico'. A ribadirlo ancora una volta è la sedicesima edizione del Rapporto Italiani nel mondo, edito dalla Fondazione Migrantes e presentato nei giorni scorsi a Roma, finalmente in presenza dopo un anno di stop a causa della pandemia. «I nostri territori si stanno spopolando sempre di più» commenta Delfina Licata, sociologa e curatrice dello studio, «dalle zone interne verso i centri urbani, da sud a nord, e dall'Italia verso l'estero». Ne consegue che l'unica Italia che continua a crescere «è quella che risiede strutturalmente all'estero» conclude lo studio, per lo più composta da giovani. L’Italia «è oggi uno Stato in cui la popolazione autoctona tramonta inesorabilmente» si legge ancora. E lo stesso vale per la popolazione immigrata, anch'essa ferma «complice la crisi economica, la pandemia, i divari territoriali e l’impossibilità di entrare legalmente». La popolazione iscritta all'anagrafe estera, l'Aire, risulta aumentata nell'ultimo anno del tre per cento, del 13,6 negli ultimi cinque anni, e dell'82 per cento dal 2006, primo anno di pubblicazione del rapporto. Così, a gennaio 2021, la comunità di residenti all'estero ammontava a quota 5 milioni e 652mila unità, «il 9,5 per cento degli oltre 59,2 milioni di italiani residenti in Italia». Se si considerano anche gli italo-discendenti si raggiunge la cifra di 80 milioni di persone, un insieme la cui «portata umana, culturale e professionale è di valore inestimabile» secondo le parole del messaggio inviato dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella all'evento di presentazione.Si registra così nell'ultimo anno per l'Italia una perdita complessiva di quasi 384mila residenti, mentre l'estero ne guadagna 166mila. A lasciare il Paese «sono i giovani nel pieno della loro vitalità personale e creatività professionale». Una mobilità che riguarda soprattutto chi ha tra i 18 e i 34 anni (42 per cento) e chi tra i 35 e i 49 anni (23 per cento). Il 50 per cento di questi è partito per motivi di espatrio, pur essendovi una larga fetta di residenti all'estero che è tale perché lì è nata: sono quasi il 40 per cento. Un dato da registrare è infatti anche la maggiore presenza femminile tra gli expat, e lo spostamento di interi nuclei familiari, spesso con figli minori. «A inizio 2021 è ancora più evidente il processo di assottigliamento della differenza di genere iniziato già sedici anni fa quando le connazionali iscritte all’Aire erano il 46,2 per cento» scrivono i ricercatori. Il numero è poi risalito fino «a oltre 2 milioni e 700mila iscrizione» rappresentando il 48,1 per cento del totale Aire. Un processo quello in corso che può ritenersi non solo di «femminilizzazione», ma anche di «familiarizzazione». Partono donne alla ricerca di realizzazione personale e professionale, ma «vi sono anche tanti nuclei familiari con figli al seguito».Una rete di spostamenti di per sé positiva – se non fosse che non prevede rientro, trasformandosi dunque in una perdita incolmabile. Diventando «strutturale e non circolare come sarebbe invece auspicabile» sottolinea Licata. Neppure la riduzione inevitabile degli espatri dovuta alla pandemia ha veramente posto un freno alle partenze. Il ridimensionamento certo c'è stato, ma ha riguardato «solo le vere partenze, il numero cioè di chi ha materialmente lasciato il Paese per andare all'estero». E che è sceso di 21mila unità nel 2020 rispetto al 2019. Ma le contrazioni più significative sono riferite solo a anziani e minori sotto i dieci anni, soggetti più fragili da mettere al riparo rispetto al rischio rappresentato dalla pandemia. Chi parte, parte sopratutto per destinazioni vicine: Europa in primis. Il che sarebbe un non problema perché così «i giovani italiani iniziano a sentirsi europei e si crea sempre di più una cultura condivisa» ha sottolineato la giornalista Maria Cuffaro [nella foto sotto] intervenendo alla presentazione. Il nodo si presenta al rientro, quando e se avviene: «I ragazzi si ritrovano con una società cristallizzata, dove vigono metodi e culture di trent'anni fa». E questo «è respingente». Così la via per il futuro continua a essere l'estero, e per superare «la piramide demografica rovesciata in cui ci troviamo ci vorranno intere generazioni». Ai primi posti come mete continuano a piazzarsi Regno Unito, Germania e Francia, che da soli coprono il 52 per cento delle destinazioni degli espatri. Supera il Brasile la Svizzera, che segna quest'anno l'ingresso di circa 8.100 connazionali. Una crescita marcata è segnalata infine nel Regno Unito, che presenta un saldo positivo rispetto all'anno precedente con un più 33 per cento di iscrizioni, ancora una volta concentrate nella fascia 18-45 anni (67 per cento). Un dato curioso mettendo in conto la Brexit, ma presto spiegato: «Si tratta della presenza italiana tipica per il Regno Unito» chiariscono i ricercatori della Fondazione Migrantes: «Giovani e giovani adulti, nuclei familiari con minori che la Brexit ha obbligato a far emergere attraverso la procedura di richiesta del settled status». Vale a dire «un permesso di soggiorno a tempo indeterminato per chi può comprovare una residenza continuativa sul territorio inglese da cinque o più anni». Un ultimo effetto dell'emergenza sanitaria globale sono stati i rientri forzati di chi aveva «un progetto migratorio acerbo unito a un inserimento occupazionale non certo». Tipico il caso di chi era impiegato nel turismo e nella ristorazione. «I dipendenti assunti da poco tempo perché di recente arrivo all’estero o inseriti con contratto a tempo determinato o non regolare, o in nero» è scritto nel rapporto, «non hanno avuto scampo e sono stati falcidiati dall’epidemia». Perdendo il lavoro, «l’unica strada percorribile è stata quella di fare ritorno».Ilaria Mariotti 

Assunzioni post stage, che contratti vengono fatti agli stagisti?

Esistono ben pochi dati pubblici rispetto alle assunzioni post stage, e nessuna rilevazione puntuale anno dopo anno su questo aspetto che determina l'efficacia dello strumento dal punto di vista occupazionale. Dunque degli stage attivati in un dato anno – poniamo, quello appena passato: il 2020 – non si conosce ad oggi il numero di quelli che hanno avuto come esito una assunzione, e tantomeno si hanno dettagli sulle tipologie contrattuali utilizzate più frequentemente. Invece si tratta di informazioni importanti per poter capire la reale efficacia dello strumento dello stage dal punto di vista dell’occupazione (giovanile e non solo). La Repubblica degli Stagisti ha posto questa domanda al ministero del Lavoro. La prima risposta che ha ricevuto è contenuta in una tabella, datata marzo 2021, intitolata “Rapporti di lavoro attivati entro i sei mesi dalla fine del tirocinio ed entro il 31/12/2020”. La tabella riporta i dati suddivisi per anno, affiancando il 2019 e il 2020; ma poiché la rilevazione dei dati si ferma alla fine del 2020, di fatto i dati relativi a quell’anno non sono utilizzabili (perché non registrano tutti i contratti attivati entro sei mesi dalla fine dei tirocini attivati nel 2020, che possono aver scavallato il limite del 31 dicembre 2020 ovviamente, ed essere stati stipulati nel 2021).Dunque, iniziamo questo articolo fornendo i dati inediti relativi alle tipologie contrattuali utilizzate per assumere gli stagisti del 2019.Nel 2019 risultano essere partiti 355.863 tirocini extracurricolari. Secondo i dati del ministero, il 43% delle persone impegnate in questi tirocini ha ottenuto un contratto entro i 6 mesi dalla conclusione dell’esperienza formativa on the job: circa 154mila contratti (in una tabella il ministero riporta 154.255, in un’altra 154.308; la discrepanza potrebbe essere un semplice refuso), 154mila dicevamo contratti stipulati – grossolamente tra i primi di gennaio del 2019 e il dicembre del 2020 – a seguito di stage attivati nel corso del 2019.In questo caso il ministero ha considerato sia le assunzioni “presso stesso datore” sia le assunzioni “presso datore differente”. Ma la domanda è: con che tipo di contratto vengono assunti questi stagisti?Raramente con contratto a tempo indeterminato – ma questo non dovrebbe sorprendere nessuno. Dei poco più di 154mila ex stagisti 2019 assunti entro 6 mesi dalla fine del tirocinio, infatti, solo 18.497 hanno ottenuto direttamente il tempo indeterminato: si tratta del 12% del totale degli stagisti assunti. E non sorprende nemmeno la leggera prevalenza (52,5%) di maschi “beneficiari” di questo tipo di contratto.La maggioranza degli stagisti viene assunta a tempo determinato (44% dei casi) o con contratto di apprendistato (39%). In particolare, sono 67.445 le persone che hanno fatto uno stage nel 2019 e che sono state assunte a tempo determinato (sempre nei primi sei mesi dopo lo stage): in questo caso quasi il 54% di questi contratti riguarda ex stagiste, mentre solo poco più del 46% riguarda ex stagisti. Purtroppo nella tabella fornita dal ministero è impossibile suddividere questi 67.445 contratti a tempo determinato per durata: dunque sono conteggiati insieme i contratti di tutte le durate, da quelli di poche settimane allo “standard” dei 12 mesi.L’apprendistato invece è stato utilizzato in quasi 60mila casi – per la precisione 59.815, il 39% del totale di queste 154mila assunzioni – e qui i maschi invece sono in prevalenza (53% contro 47%).Vi sono poi 2.255 “contratti di collaborazione” (1,5%), per la maggioranza offerti a donne (oltre 6 persone su 10 assunte così sono appunto ex stagiste) e infine 6.296 assunti che ricadono nella categoria “altro”, quindi senza che il ministero specifichi la tipologia contrattuale post tirocinio.Il ministero ha poi inviato a giugno 2021 alla Repubblica degli Stagisti un’altra tabella, sempre su questo tema, fornendo dati inediti sul “Numero dei rapporti di lavoro attivati nel 2019 e nel 2020 a seguito di una precedente esperienza di tirocinio avuta nei tre anni precedenti” con dettagli relativi al genere, alla classe di età, e anche alla distanza tra lo stage e il contratto.In questo caso, attenzione, si parla di contratti di lavoro stipulati nel 2019 solo “presso stesso datore” a qualsiasi distanza temporale dalla fine del tirocinio, prendendo in considerazione i tirocini fatti non solo nel 2019, ma anche nel 2018 e nel 2017 (a patto che rappresentino il primo contratto di lavoro dopo il tirocinio).  E allo stesso modo, di contratti di lavoro stipulati nel 2020 “presso stesso datore” a qualsiasi distanza temporale dalla fine del tirocinio, prendendo in considerazione i tirocini fatti non solo nel 2020, ma anche nel 2019 e nel 2018.  Il ministero riporta nel 2019 129.600 assunti a seguito di uno stage. Noi calcoliamo quindi che ciò voglia dire che nel 2019 la percentuale di assunzione post stage “presso stesso datore” sia quantificabile in 15,6%, e che nel 2020 tale percentuale risulti scesa a 13,5% (in questo articolo abbiamo spiegato nel dettaglio gli incroci di dati e i calcoli che ci hanno portato alle due percentuali).Secondo questi calcoli, il Covid ha dunque diminuito di due punti percentuali a livello assoluto, e del 14% circa a livello relativo, la probabilità di vedersi offrire un contratto dopo il tirocinio.Va evidenziato che il tasso di assunzione post stage calcolato da noi della Repubblica degli Stagisti, malgrado non possa essere confrontato in maniera diretta perché basato su dati non omogenei, differisce drammaticamente da quello riportato nei due Rapporti sui tirocini che l’Anpal ha pubblicato nel 2019 e nel 2020. Nel primo, che contiene dati aggregati dei tirocini extracurricolari del quadriennio 2014-2017, tale dato è quantificato in 33,6%. Nel secondo rapporto, pubblicato pochi mesi fa coi dati sempre aggregati dei sei anni tra il 2014 e il 2019, la percentuale post stage “presso stesso datore” è indicata in 29,9%. In entrambi i casi Anpal ha tenuto conto delle CO pervenute al ministero del lavoro entro sei mesi dalla fine di un tirocinio durato oltre 13 giorni e terminato da almeno sei mesi.(Il tasso riportato da Anpal è anche simile a quello attestato dal Rapporto Excelsior di Unioncamere – riferito ai soli tirocini svolti in imprese private, sebbene in questo caso anche curricolari – che risulta 33,1% per il 2017, 34% per il 2018 e addirittura 36% per il 2019).Ma secondo Grazia Strano, alla guida della Direzione generale dei sistemi informativi, dell’innovazione tecnologica, del monitoraggio dati e della comunicazione del ministero del Lavoro, questa non omogeneità è inevitabile – e anzi sarebbe perfino inopportuno uno dei passaggi che la Repubblica degli Stagisti ha utilizzato per il suo calcolo (e cioè la “sottrazione” delle assunzioni effettuate negli anni precedenti al denominatore totale), passaggio che ha l'effetto di rendere un po' più vicino il dato a quello di Anpal.Tornando alla tabella inedita fornita a giugno 2021 alla Repubblica degli Stagisti dal ministero del Lavoro, delle assunzioni di entrambi gli anni presi in esame, la maggioranza – pari al 46% del totale nel 2019, 44% nel 2020 – è stata formalizzata attraverso un contratto di apprendistato. 46% dunque nel 2019, con 59.919 apprendistati attivati complessivamente di cui 32.151 giovani uomini (qui sì che possiamo dire “giovani”, dato che questa tipologia contrattuale può essere utilizzata solo su persone che non hanno ancora compiuto 30 anni) che, dopo aver fatto (di recente o anni prima) uno stage sono diventati nel 2019 apprendisti; 27.768 le giovani donne divenute apprendiste (54% dei contratti di apprendistato post stage a favore di uomini, 46% a favore di donne).La percentuale di utilizzo dell’apprendistato sul totale delle assunzioni effettuate risulta 44% invece nel 2020, con 40.845 apprendistati, di cui il 55% (22.488) uomini.A breve distanza dal contratto di apprendistato, come contratto più utilizzato per assumere gli ex stagisti c’è il tempo determinato. Il 37% (47.938) delle 129.600 assunzioni 2019 risulta a tempo determinato, con i maschi qui in minoranza (44%) e 56% di beneficiari femmine; percentuale quasi identica l’anno successivo, con 35.562 delle 92.285 assunzioni 2020 formalizzate attraverso questo tipo di contratto, pari al 38,5%, e anche qui femmine in maggioranza (54%).Solo il 13,5% (17.541 in numeri assoluti) risulta essere a tempo indeterminato nel 2019, e il 14% nel 2020 (12.648 in numeri assoluti), curiosamente con la stessa identica percentuale di distribuzione per genere – 53% di beneficiari maschi e 47% femmine – in entrambi gli anni.Le collaborazioni risultano pressoché irrilevanti (nemmeno l’1% nel 2019, giusto l’1% nel 2020), e i contratti di cui non viene specificata la tipologia (e che ricadono quindi nella definizione “altro” nella tabella del ministero) sono per entrambi gli anni il 2% circa.Tutti questi numeri e percentuali ci dicono che i contratti più usati per assumere persone che hanno fatto, di recente o fino a tre anni prima, uno stage nella stessa realtà dell’assunzione sono l’apprendistato (tra il 39% e il 46% dei casi) e il tempo determinato (tra il 37 e il 44%). Gli ex stagisti assunti a tempo indeterminato sono pochi, tra il 12 e il 14%. Le altre tipologie contrattuali sono residuali.Fin qui i numeri inediti. Ma qualcosa rispetto alle tipologie contrattuali più utilizzate per assumere gli stagisti era contenuto anche nei due Rapporti sui tirocini pubblicati dall'Anpal nel 2019 e 2021. Prendendo quello più recente, che contiene i dati sull'esito dei tirocini attivati nei sei anni tra il 2014 e il 2019, si trova una tabella che riporta i dati sulle “Tipologie contrattuali della prima occupazione trovata entro 3 mesi dalla fine del tirocinio”. In questa tabella il tempo determinato si attesta in prima posizione a 38,8% seguito dall'apprendistato (31%), dal tempo indeterminato (14,9%) e la somministrazione al 9,7%. Le collaborazioni sono ferme al 2%, e infine c'è un 3,5% di “altri contratti”.Cosa emerge da tutti questi dati? Probabilmente che il tempo determinato è ancora troppo frequente – e ciò non va bene, specialmente se da dati più precisi (che attualmente non sono disponibili) dovesse emergere una grande quantità di contratti a tempo determinato molto corti, di pochi mesi. E in secondo luogo, che per valutare in maniera veloce e tempestiva il grande tema dell’efficacia occupazionale dei tirocini i dati sulle assunzioni post stage dovrebbero essere elaborati e pubblicati ogni anno.Gli altri articoli di questo approfondimento: - Quante probabilità ho di essere assunto dopo uno stage? La verità è che non si sa (ma si potrebbe)- Il Covid diminuisce di 3 punti e mezzo la probabilità di essere assunti post stage: i dati inediti- Stage e contratto di lavoro subito nello stesso anno, i dati inediti 2019 e 2020- Assunzioni post stage entro un mese, i dati inediti (ma senza tasso)- Tasso di assunzione post stage a sei mesi, dati a confronto- Quanti vengono assunti dopo uno stage curricolare? Non si sa- Fare un tirocinio a cinquant’anni serve per trovare lavoro?- Quanto vengono pagati gli stagisti? E quelli che ricevono indennità più alte vengono assunti più spesso?- Stage per persone adulte, solo con dati chiari si può dire se servono o no - e fare policy di conseguenza- Conteggiare gli assunti post stage, le difficoltà non diventino scuse per tenere i cittadini al buio- Efficacia degli stage, serve trasparenza: ecco i dati che vanno resi pubblici

Fare un tirocinio a cinquant’anni serve per trovare lavoro?

Nei documenti pubblici del ministero del Lavoro che forniscono annualmente dati sull’esito dei tirocini – praticamente solo le poche paginette del capitolo “Le esperienze di lavoro: i tirocini extracurriculari” nel Rapporto annuale sulle Comunicazioni obbligatorie – vi è solo una traccia di informazioni su quanto serva effettivamente un tirocinio a trovare lavoro. La percentuale di assunzione post stage, insomma, è “occultata”, molto spesso con l'obliqua, implicita giustificazione che la finalità primaria dello stage non è l’inserimento lavorativo bensì la formazione.Ma c’è una classe di stagisti per cui questo discorso davvero non ha senso. Si tratta degli stagisti adulti, quelli che fanno uno stage dopo i 35-40 anni. In questo caso è impossibile negare che la finalità principale è proprio quella: fornire a queste persone adulte, rimaste disoccupate, delle nuove competenze in modo da permettere loro di ritrovare il più velocemente possibile un posto di lavoro, una retribuzione, e di non avere troppi buchi nella propria posizione previdenziale.Il Rapporto sui tirocini extracurricolari realizzato da Anpal in collaborazione con Inapp, pubblicato nel 2021, attesta che il 10,5% dei quasi 2 milioni di tirocini (1.968.828) avviati in Italia nei sei anni tra il 2014 e il 2019 ha coinvolto persone con più di 40 anni. Significa che quasi 207mila ultraquarantenni in quei sei anni – per la precisione: 206.727 – hanno fatto almeno un tirocinio. L’Anpal specifica anche che questi 207mila sono prevalentemente (54,3%) uomini, e solo nel 45,7% dei casi donne, motivando che “la diversa intensità di partecipazione al mercato del lavoro nelle fasce della popolazione più matura» determina una prevalenza della componente maschile nella “classe estrema” «delle persone con almeno 40 anni».Se si aggiunge il 3,8% di 35-39enni coinvolti in tirocinio nei sei anni presi in esame da Anpal, che equivale a poco meno di 75mila persone, si raggiunge la cifra di 281.542 stagisti over 35 nel periodo 2014-2019: in media 47mila all'anno.E gli stagisti adulti-quasi-anziani sono di anno in anno più numerosi. Secondo i dati del Rapporto annuale sulle comunicazioni obbligatorie del ministero del Lavoro, che a differenza del Rapporto Anpal fornisce i numeri anno per anno, in particolare nel 2019 54.128 persone al di sopra dei 35 anni hanno fatto uno stage in Italia: oltre 45mila tra i 35 e i 54 anni e quasi 9mila con oltre 55 anni. Il 16% del totale delle 334.595 persone avviate in stage nel corso del 2019 ha riguardato dunque persone over 35.Il Covid ha ridotto questi numeri, ma di poco: nel 2020 gli stagisti 35-54enni sono stati oltre 31mila, e gli over 55 più di 7mila (per un totale di 38.269). Facendo la proporzione si scopre che gli stagisti  “adulti-quasi-anziani” sono relativamente addirittura aumentati, tra il 2019 e il 2020: non in numeri assoluti ovviamente, ma in rapporto con le altre classi di età,  rappresentando oltre il 17,5% di tutti i 222.475 stagisti di quell’anno (il numero degli stagisti è ogni anno un po' inferiore al numero totale degli stage attivati, che per esempio come visto in altri articoli per il 2020 è 234.513, perché capita che una stessa persona ne faccia più di uno nello stesso anno).Dunque abbiamo un esercito di 40-50mila persone adulte, alcune quasi anziane, che ogni anno vengono coinvolte in percorsi di tirocinio extracurricolare. E attraverso questo strumento puntano a un solo obiettivo: trovare lavoro.Come accennato, dati ufficiali non ce ne sono. Ma la Repubblica degli Stagisti ha ottenuto dal ministero del Lavoro dei numeri inediti su una particolare tipologia di assunzioni. Si tratta di persone “fortunate” che hanno realizzato una doppietta stage+assunzione nello stesso anno: cioè che hanno “avuto” (cioè avviato, svolto e cessato) un tirocinio  in un dato anno e poi sfociato in quello stesso anno in un’assunzione. Tutto non solo nello stesso anno solare ma anche tutto nello stesso posto di lavoro – cioè, con la terminologia del ministero, “presso stesso datore”.Si tratta di una fattispecie ovviamente piuttosto infrequente, di cui abbiamo già parlato in un altro articolo di questo corposo approfondimento sull'efficacia occupazionale dei tirocini. Ma qui vogliamo spulciare la tabella inedita del ministero del Lavoro focalizzando l’attenzione sulle classi di età, e in particolare su quanto questa doppietta capiti agli stagisti adulti.Vi sono 51.232 assunzioni nel 2019 che sono legate a una “precedente esperienza di tirocinio avuta nello stesso anno” e nello stesso posto. Per il 2020 lo stesso dato è pari a  24.645: la drastica diminuzione – un dimezzamento in pratica – è senz'altro da ascrivere al Covid, da un lato per la riduzione generale del numero di attivazioni di tirocini, dall’altro lato per la minore propensione all’assunzione da parte delle aziende.Delle 51.232 assunzioni “in doppietta” del 2019, 4.363 hanno riguardato persone tra i 35 e i 54 anni, pari all’8,5% del totale. Delle 24.645 del 2020, 2.225 hanno riguardato persone tra i 35 e i 54 anni: il 9%. Non è un risultato ottimale. Lo si può dedurre semplicemente dal fatto che non è proporzionato alla quota di 35-54enni avviati in tirocinio sul totale di quegli anni: tale quota sfiora il 14%, con 45.324 persone di quella fascia di età sui 334.595 tirocinanti complessivi del 2019, e 31.044 sui 222.475 del 2020.Se abbiamo il 14% di stagisti di quell’età sul totale degli avviamenti in stage di un certo anno, sarebbe buono avere almeno la stessa percentuale di stagisti poi assunti sul totale delle assunzioni in doppietta di quel dato anno. Se la percentuale è più alta, vuol dire che quella classe di età performa bene come inserimento lavorativo post stage (quantomeno nella formula speciale della doppietta). Se la percentuale è più o meno simile, vuol dire che performa in maniera media. Ma se la percentuale degli assunti è più bassa, vuol dire che qualcosa è andato storto. Per quanto riguarda l’efficacia occupazionale dei tirocini per gli stagisti “supersenior”: 502 assunzioni (l’1% del totale) hanno coinvolto nel 2019 persone ultra 55enni: ma la quota di stagisti con 55 anni e oltre quell’anno era stata di oltre il 2,5% (8.804 su 334.595). Dunque le occorrenze di assunzione sono nettamente inferiori alle occorrenze di stage.Nel 2020 ci sono state 256 assunzioni in doppietta (di nuovo, l’1% del totale) per persone ultra 55enni: e anche qui la proporzione non è buona, perché in realtà la quota di stagisti con 55 anni e oltre nel 2020 è stata di oltre il 3% (7.225 su 222.475).Questo tipo di assunzione in doppietta, per la cronaca, ha il suo massimo successo per la classe di stagisti tra i 25 e i 34 anni. In questo caso la probabilità di ottenere stage+assunzione nello stesso anno è decisamente più alta se confrontata alla quota di persone 25-34enni complessivamente avviate in stage in un dato anno, che sono in media il 36% del totale (nel 2019 ci sono stati 120.372 tirocinanti in quella fascia di età, pari appunto al 36% dei tirocinanti di quell’anno; nel 2020 il numero era 81.194, il 36,5% del totale).Guardando alla tabella del “Numero dei rapporti di lavoro attivati nel 2019 e nel 2020 a seguito di una precedente esperienza di tirocinio avuta nello stesso anno” si scopre che questa fascia di età è super-rappresentata nella circostanza delle assunzioni “in doppietta”: nel 2019 sono stati 23.016 le assunzioni post stage di questo tipo che hanno riguardato 25-34enni, addirittura il 50% delle 51.232 totali. E nel 2020 non è andata molto diversamente: sono state 11.281 le “doppiette” che hanno riguardato 25-34enni, quasi il 46% delle 24.645 totali.Secondo questo particolare scenario – che, ricordiamolo, non è esaustivo di tutti gli esiti di tutti i tirocini del 2019 o del 2020: si limita a fotografare il buon esito di quelli che sono partiti, si sono svolti, si sono conclusi e si sono trasformati in assunzione nello stesso anno e nello stesso posto –  fare un tirocinio extracurricolare non è poi così utile agli adulti per essere assunti.Ovviamente per poter dire con certezza se il tirocinio è davvero poco utile per trovare lavoro bisognerebbe che il ministero rendesse pubblici dati più precisi (di cui dispone, attraverso il sistema delle Comunicazioni obbligatorie): innanzitutto prendendo in considerazione anno per anno tutti i tirocini trasformati in contratto, non solo quelli in cui anno di inizio del tirocinio, anno di fine del tirocinio e anno di assunzione coincidono. Poi, fornendo anche il numero delle assunzioni “presso datore diverso”. E infine, fornendo dettagli sulla tipologia contrattuale utilizzata per assumere gli stagisti senior.Gli altri articoli di questo approfondimento:- Quante probabilità ho di essere assunto dopo uno stage? La verità è che non si sa (ma si potrebbe)- Il Covid diminuisce di 3 punti e mezzo la probabilità di essere assunti post stage: i dati inediti- Stage e contratto di lavoro subito nello stesso anno, i dati inediti 2019 e 2020- Assunzioni post stage entro un mese, i dati inediti (ma senza tasso)- Assunzioni post stage, che contratti vengono fatti agli stagisti?- Tasso di assunzione post stage a sei mesi, dati a confronto- Quanti vengono assunti dopo uno stage curricolare? Non si sa- Stage per persone adulte, solo con dati chiari si può dire se servono o no - e fare policy di conseguenza- Quanto vengono pagati gli stagisti? E quelli che ricevono indennità più alte vengono assunti più spesso?- Conteggiare gli assunti post stage, le difficoltà non diventino scuse per tenere i cittadini al buio- Efficacia degli stage, serve trasparenza: ecco i dati che vanno resi pubblici

Quanto vengono pagati gli stagisti? E quelli che ricevono indennità più alte vengono assunti più spesso?

Fino a pochi anni fa gli stage gratuiti in Italia erano completamente legali. Si poteva prendere uno stagista, anche per un tempo lungo – fino a un anno! Perfino due se si trattava di uno stagista “fragile”, con qualche disabilità o in situazione di difficoltà! – e non dargli un euro.Con la Repubblica degli Stagisti ci siamo a lungo battuti perché questa gratuità fosse messa fuori legge, e tra il 2012 e il 2014 abbiamo ottenuto dei grandi risultati: è stata sancito dalla Conferenza Stato-Regioni, e poi ratificato da ogni Regione, l’obbligo di erogare una indennità mensile a tutti i tirocinanti extracurricolari. Con delle somme minime stabilite da ciascuna Regione, che variano dai 300 euro al mese della Sicilia agli 800 al mese del Lazio.La battaglia contro gli stage gratuiti non è conclusa, perché restano ancora scoperti gli stage curricolari: a questo proposito l’auspicio è che cominci al più presto, dopo oltre tre anni di attesa, l’iter di discussione della proposta di legge a prima firma Massimo Ungaro che verte proprio sulla necessità di offrire più tutele ai tirocinanti curricolari, a cominciare da un emolumento mensile.Ma almeno per i tirocini extracurricolari adesso il compenso è un diritto. E allora la domanda a questo punto, a oltre cinque anni dall’entrata in vigore delle nuove normative, è: quanto vengono pagati gli stagisti italiani?Il ministero lo sa. Almeno in teoria, ha questo dato – se non al millimetro, con una buona approssimazione. Perché anche i tirocini extracurricolari devono essere comunicati per legge attraverso la CO, la comunicazione obbligatoria. La CO si fa compilando un form che si chiama “modello Unilav”. Questo form ha dei campi facoltativi e poi dei campi obbligatori, che non si possono non compilare. Dall’inizio del 2014 il campo “retribuzione / compenso” è divenuto obbligatorio.Questo cosa vuol dire? Vuol dire che chi compila la CO per comunicare l’avvio di un tirocinio extracurricolare è tenuto a inserire nel campo “retribuzione / compenso” il valore relativo all’emolumento dello stagista. L’unico caso in cui è consentito evitare di compilare questo campo, utilizzando il valore “0”, è quello in cui lo stagista sia un soggetto che percepisce un qualche assegno di sostegno al reddito (come specificato dallo stesso ministero del Lavoro in questa FAQ). Dunque il soggetto ospitante che compila la CO deve inserire in quel campo la cifra che erogherà allo stagista: solitamente viene inserita quella complessiva, moltiplicando l'ammontare dell'indennità mensile per il numero di mesi di durata del tirocinio.Perché è importante sapere quanto vengono pagati gli stagisti? L’elenco delle ragioni è lungo.Innanzitutto, perché in questo modo si avrebbe un’idea di quanto i soggetti ospitanti (cioè i posti che “ospitano” di fatto gli stagisti: le aziende private, gli enti pubblici, le associazioni non profit etc) pagano i loro stagisti. E si potrebbe quindi delineare una mappa chiara dei settori in cui gli stagisti vengono pagati di più e di quelli in cui vengono pagati di meno.Allo stesso modo, pubblicare in maniera trasparente i dati sui compensi degli stagisti permetterebbe anche di capire territorio per territorio se i limiti minimi previsti dalla normativa regionale sono adeguati, oppure magari troppo bassi.Sapere quanto gli stagisti vengono pagati servirebbe poi per approfondire il tema della sostenibilità economica degli stage: perché quando svolge un tirocinio una persona affronta sempre delle spese, che siano di alloggio (in caso sia fuorisede), di trasporto, di pranzo fuori. Queste spese vengono coperte dalla somma che la persona in stage riceve mensilmente come indennità? Conoscere i dettagli sugli emolumenti degli stagisti permetterebbe di rispondere a questa domanda.Pubblicare questo dato sarebbe importante anche per capire se è vero che gli stagisti pagati meglio sono anche quelli che più spesso vengono assunti.Dal sondaggio «Identikit degli stagisti italiani» realizzato nel 2009 dalla Repubblica degli Stagisti insieme all'Isfol era emerso infatti come il rimborso spese (allora non obbligatorio) fosse direttamente proporzionale alle prospettive di inserimento. La maggioranza assoluta degli stage in cui non era previsto nemmeno un euro di rimborso spese risultava essersi conclusa senza assunzione; all’estremo opposto, allo stage non era seguita una assunzione solo nel 3,7% dei casi quando allo stagista era stato erogato il rimborso più alto (oltre 750 euro al mese) e nel 7% dei casi quando l’emolumento era compreso tra 500 e 750 euro.È davvero così? È ancora così? Gli stage meglio pagati sono anche quelli che più frequentemente portano a un lavoro? L’investimento economico che un soggetto ospitante fa su uno stagista, pagandolo bene, è una cartina di tornasole rispetto alla sua maggiore intenzione, in caso di performance positiva, di assumere poi la persona dopo il tirocinio?Il ministero ha le risposte. Basta che renda pubblici i dati contenuti nelle CO al campo “retribuzione / compenso”, e che li incroci con i dati sulle CO di assunzione che fanno seguito a tirocini presso lo stesso datore.Con questi dati si potranno fare riflessioni più accurate sull’importanza del compenso, per gli stage, nell’ottica dell’utilizzo di questo strumento come veicolo di inserimento lavorativo. E si potrà valutare finalmente la sostenibilità economica degli stage, settore per settore e territorio per territorio.Qui gli altri articoli di questo approfondimento:- Quante probabilità ho di essere assunto dopo uno stage? La verità è che non si sa (ma si potrebbe)- Il Covid diminuisce di 3 punti e mezzo la probabilità di essere assunti post stage: i dati inediti- Stage e contratto di lavoro subito nello stesso anno, i dati inediti 2019 e 2020- Assunzioni post stage entro un mese, i dati inediti (ma senza tasso)- Assunzioni post stage, che contratti vengono fatti agli stagisti?- Tasso di assunzione post stage a sei mesi, dati a confronto- Quanti vengono assunti dopo uno stage curricolare? Non si sa- Fare un tirocinio a cinquant’anni serve per trovare lavoro?- Stage per persone adulte, solo con dati chiari si può dire se servono o no - e fare policy di conseguenza- Quanto vengono pagati gli stagisti? E quelli che ricevono indennità più alte vengono assunti più spesso?- Conteggiare gli assunti post stage, le difficoltà non diventino scuse per tenere i cittadini al buio- Efficacia degli stage, serve trasparenza: ecco i dati che vanno resi pubbliciLa foto che correda il pezzo è di World's Direction, tratta da Flickr in modalità Creative Commons