Categoria: Approfondimenti

Informatica, spesso il lavoro perfetto per le persone autistiche: «Bisogna abbattere il muro dei pregiudizi»

Se cercare lavoro non è facile per nessuno, per le persone nel cosiddetto “spettro autistico”, cioè con un qualche tipo di disturbo del neuro-sviluppo – che solitamente coinvolge linguaggio, comunicazione, interazione sociale – ancora meno. Eppure le persone ASD, acronimo inglese che sta per “Autism Spectrum Disorder”, non sono propriamente “disabili”. Sono “neurodivergenti”: hanno un cervello che funziona in maniera differente. Non per forza peggio. Anzi, in alcuni casi e campi perfino meglio. E su questo meglio si basa Specialisterne, un progetto avviato una ventina d’anni fa da un ingegnere informatico danese, Thorkil Sonne, che per questa attività di imprenditoria sociale innovativa è stato anche nominato Ashoka Fellow. Puntare sui punti di forza. In particolare, formare le persone con sindrome di Aspeger affinché acquisiscano competenze informatiche, costruire per loro dei percorsi professionali ad hoc, e trovare aziende capaci di riconoscere questi talenti “nascosti” e valorizzarli. Dal 2017 Specialisterne esiste anche in Italia, e il suo primo cliente è stata proprio una delle aziende virtuose della Repubblica degli Stagisti: everis. La multinazionale spagnola già aveva avviato una collaborazione con Specialisterne nella sua sede di Barcellona; estenderla alla filiale italiana è stato quasi naturale: «Grazie alla particolare propensione all'inclusione delle diversità manifestata dal team di everis in Italia si è potuto partire con un primo progetto con dieci lavoratori a Milano» racconta Alvise Casanova, responsabile della direzione commerciale di Specialisterne: «Questo ha permesso di creare una sede stabile in Italia».Dal 2017 a oggi «abbiamo inserito quattordici persone con sindrome di Asperger dell’età media di 25 anni provenienti da tutta Italia» conferma Patrizia Manganaro, executive director di everis Italia [nella foto accanto, durante il Diversity Day cui everis ha partecipato proprio un paio di settimane fa]: «Attualmente ne abbiamo in forza undici, di cui dieci assunte con un contratto di somministrazione a tempo indeterminato e una assunta direttamente da everis a tempo indeterminato».«Siamo fieri di essere stati pionieri di questo progetto in Italia e la sfida dei prossimi anni è che anche altre aziende lo prendano come esempio, perché crediamo che la diversità costituisca una ricchezza e possibilità di crescita» continua Manganaro. E infatti a everis si sono aggiunte in questi quattro anni una quindicina di altre aziende, tra cui un’altra delle aziende dell'RdS network: Flex.Il lavoro di Specialisterne consiste nel selezionare e formare «consulenti qualificati in ambito digitali, IT ed amministrativi come ad esempio software testing, programmazione software, gestione di dati». Al momento Specialisterne ha uno staff di sei dipendenti a tempo indeterminato più trentacinque lavoratori somministrati, cioè assunti da Specialisterne – che è una agenzia per il lavoro a tutti gli effetti – e “prestati” appunto alle aziende clienti. «L‘idea alla base di Specialisterne» si legge sul sito «vuole dimostrare come le persone con autismo e condizioni simili possano contribuire in modo prezioso e sostanziale al mercato del lavoro, una volta ricevuti la comprensione e il sostegno necessari per eccellere».In everis, per esempio, i talenti provenienti da Specialisterne vengono assegnati a progetti di software testing application supporto e System monitoring: «Per loro natura le persone con sindrome di Asperger hanno innumerevoli punti di forza, tra cui il mantenere la concentrazione per periodi più lunghi della media, perseverare nello svolgere mansioni ripetitive, riconoscere modelli e patterns, individuare deviazioni in dati, informazione e sistemi, prestare molta attenzione ai dettagli e individuare errori che altri trascurano» conferma Manganaro: «Per questo motivo risultano particolarmente efficaci nello svolgimento di attività che richiedono meticolosità, schemi di lavoro ben definiti e precisione».Idem in Flex, che collabora con Specialisterne dal 2018. «Per quanto riguarda le persone che finora abbiamo inserito, in alcuni casi le mansioni prevedono lo svolgimento di attività costanti e regolari come l’esecuzione di alcuni test specifici su dispositivi elettromedicali per verificarne qualità e affidabilità» spiega Valeria Ferreri, regional HR business partner di Flex: «In altri casi si tratta di mansioni come software unit test, code review e code inspection, esecuzione di protocolli di system test, che richiedono un background universitario e la capacità di avere una visione di insieme. In generale, si tratta di mansioni che richiedono elevata cura al dettaglio e precisione».Per entrambe le aziende la collaborazione con Specialisterne non è una azione “spot”, fine a sé stessa. «S’inserisce in un percorso più ampio che stiamo portando avanti per promuovere la diversità in ogni sua sfaccettatura» conferma Manganaro di Everis: «Il nostro obiettivo è sempre stato quello di cambiare la percezione della diversità e identificarla come un valore aggiunto. L’inclusione della neurodiversità ci ha permesso non solo di avere risorse di talento, ma anche di migliorare le soft skills dei nostri manager che gestiscono questi talenti e di creare una cultura inclusiva di cui beneficiano tutti i dipendenti».In Flex, similmente, la collaborazione fa parte di una iniziativa più ampia chiamata “Flexibility Project”, avviata nel 2017: «Ciò che ci ha spinti come azienda ad avvicinarci alla tematica della neurodiversità e a lanciare questo progetto è il desiderio di valorizzare, in ambito lavorativo, il talento delle persone con neurodiversità. Caratteristiche generalmente associate ad autismo e sindrome di Asperger, come la precisione e l’attenzione ai dettagli, infatti, hanno rappresentato sin da subito un fit perfetto con alcune delle nostre posizioni, e sono di grande valore aggiunto nel settore hi-tech in cui operiamo». Tra il 2017 e oggi Flex ha inserito otto persone nell’ambito del progetto Flexibility – una tramite assunzione diretta, tre in stage, e quattro in somministrazione tramite Specialisterne: «Sono persone con diversi background lavorativi e scolastici ed età diverse. Alcuni sono ragazzi in età universitaria mentre altri sono adulti».In tutto Specialisterne ha inserito nel mondo del lavoro italiano una cinquantina di lavoratori «di tutte le età», specifica Alvise Casanova, «dal ventenne al cinquantenne con famiglia e figli. Alcuni, dopo un primo periodo in stage o in somministrazione, sono stati assunti direttamente dall'azienda in cui avevano iniziato il percorso». Ma come funziona in concreto la collaborazione? «È un lavoro a quattro mani con Specialisterne che consiste in una fase iniziale di preparazione del ragazzo al colloquio con l’azienda e un incontro congiunto people-recuiting e management» racconta Manganaro di everis: «Durante il colloquio, ponendo attenzione a fare domande dirette e specifiche, si ha l’obiettivo di indagare soft skills, potenzialità e competenze tecniche maturate, con lo scopo di scegliere insieme il progetto più adeguato e in linea alle loro caratteristiche. Ci tengo a precisare che le soft skills sono importanti quanto le competenze tecniche e non sono solo elementi da aggiungere al curriculum, bensì indispensabili per la crescita delle persone e dell’azienda stessa». E questo vale per tutti: neurodivergenti e non!In Flex, quando per una posizione si valutano le candidature che provengono da Specialisterne, «se i cv sono in linea con la posizione, valutiamo insieme con la coach di Specialisterne se i candidati possono essere un buon fit con il dipartimento» spiega Ferreri: «Poi li incontriamo in un normale colloquio in cui sono presenti un membro del nostro team Hr, il manager del team in cui è aperta la posizione e la coach di Specialisterne. Se il colloquio va bene procediamo con l’inserimento». A quel punto «Il primo giorno il nostro team HR li accoglie, dà loro il benvenuto, mostra l’azienda e racconta le nostre consuetudini. Dopodichè li presenta al team in cui sono inseriti» continua Ferreri: «La coach Specialisterne è presente in Flex il primo giorno e li supporta nell’inserimento. In Flex sono affiancati da un tutor, che spiega le mansioni e le attività, soprattutto nei primi giorni. In seguito la coach Specialisterne viene generalmente in azienda una volta a settimana per incontrarli e dare un supporto costante».Una cosa interessante è che le finalità del progetto non si esauriscono nella formazione e nel “collocamento” delle persone neurodivergenti, ma si allargano alla «sensibilizzazione sulla neurodiversità con iniziative volte a promuovere in azienda la diversità come risorsa e contrastare eventuali stereotipi e pregiudizi», come specifica Valeria Ferreri di Flex: «Nel corso di questi quattro anni abbiamo organizzato laboratori creativi, training specifici, webinar e workshop dedicati al tema, che hanno coinvolto oltre 200 dipendenti e manager». Perché le sfide e le criticità nel portare avanti un progetto del genere non mancano: all’inizio bisogna «abbattere il muro dei pregiudizi», conferma Ferreri, perché troppo spesso «si incontra ancora disinformazione e confusione sul tema». Ma ci sono anche grandi soddisfazioni: «I feedback positivi da parte di colleghi e dei manager» e poi, dal punto di vista delle persone provenienti dal canale Specialisterne, «la completa integrazione nei team in cui sono stati inseriti» dice ancora Ferreri: «Sia la collaborazione diretta con loro, sia tutti i momenti formativi e di sensibilizzazione hanno rappresentato una grande fonte di arricchimento per tutti i nostri colleghi».«Aiutare le persone con autismo e Asperger nel diventare consulenti informatici è per noi motivo di grande orgoglio» aggiunge Manganaro di everis: «Credo che la diversità, in ogni sua forma, ci renda davvero unici. Grazie a questa collaborazione oggi conosciamo meglio noi stessi, siamo tutti cresciuti come persone e abbiamo scoperto nuove consapevolezze!».E per il futuro? Il Covid paradossalmente non ha danneggiato l’attività di Specialisterne, anzi: «La richiesta delle aziende per inserire professionisti in ambito informatico è notevolmente aumentata nel 2021» dice Casanova «e questo ci ha permesso di formare ed inserire molti lavoratori in questi primi sei mesi dell'anno». Quello di cui il progetto ha bisogno per crescere, adesso, è avviare qualche «collaborazione con le scuole e università» e naturalmente trovare più «disponibilità delle aziende ad inserire nel loro staff persone neurodivergenti». Come hanno fatto everis e Flex, con grande soddisfazione.[La foto di apertura è tratta dal sito della Specialisterne Foundation]

Recruiting online, come il Covid ha trasformato i colloqui di lavoro (e di stage): forse per sempre

Il Covid ha rivoluzionato le procedure di ricerca e selezione del personale, imponendo di svolgerle online. Alcune aziende erano già abituate a questa modalità, altre han dovuto implementarla da zero, oppure potenziarla. Tre aziende dell'RdS network raccontano questa transizione. «La selezione, in particolare degli stage, avviene oggi in modalità virtuale» conferma Giovanna Raffi, talent attraction specialist di Nestlé: «All’inizio è stato piuttosto complicato, abbiamo dovuto tutti adattarci a nuovi modi di selezione sia dal punto di vista tecnologico che di metodo per continuare a svolgere le nostre attività. Ma possiamo dire che oggi questa modalità si è trasformata in una nuova realtà». In Mercer, società di consulenza HR, le selezioni online erano invece già un'abitudine: «Proprio per la natura dei servizi che offriamo, siamo i primi a sperimentare nuovi modi di lavorare volti a lavorare in modo agile e flessibile» premette Paola Pagni, HR director di Mercer per l'Italia: «L’emergenza Covid non ha fatto altro che amplificare questa nostra caratteristica e in qualche modo ci ha trovato più preparati di tante altre realtà aziendali. Eravamo già abituati a fare recruiting attraverso videoconference per ottimizzare i tempi o per intervistare candidati in altre geografie». Idem in Flex: «Usavamo già procedure di recruiting online prima del Covid: il primo step di selezione infatti ha sempre previsto un colloquio tramite call o su Zoom, in quanto veniva – e viene tuttora – effettuato da nostri colleghi recruiter al di fuori dell’Italia» racconta Melissa Friedman, HR manager di Flex: «Gli step successivi erano invece effettuati in presenza nella nostra sede. Certo, venivano effettuati video colloqui anche qualora il candidato si trovasse lontano dalla nostra sede, ma l’intento era sempre quello di vedere di persona i candidati prima dell’offerta. Oggi invece il processo di selezione è effettuato tutto da remoto: le persone vengono assunte senza colloqui di persona».Il riferimento a Zoom non è casuale: la migrazione verso una modalità di recruiting tutta digitale ha significato infatti anche una impennata dell'utilizzo di strumenti di videocall e videoconferenze. «Durante le attività con le università abbiamo sperimentato diverse piattaforme: Flexa, Vfair, Zoom» snocciola Raffi [nella foto], che nel 2020 tra le altre cose ha portato avanti per Nestlé, insieme ai colleghi dell'ufficio HR, selezioni per oltre cento posizioni di stage: «Ogni piattaforma ha certamente aspetti positivi. Noi utilizziamo Microsoft Teams. È molto versatile e ci permette di sostenere colloqui con candidati che si trovano in altre regioni e anche con studenti che sono momentaneamente in altri Paesi per ragioni di studio. Il fatto che Teams sia l’applicazione al momento più utilizzata da scuole e università per la didattica a distanza ci assicura una buona fruizione».Ovviamente il fatto che i colloqui non avvengano più in presenza implica che i candidati (e i recruiter!) debbano saper utilizzare queste piattaforme, e saper affrontare e risolvere eventuali problemi di connessione. Ma la tecnologia, lato giovani, non sembra essere un problema: «I candidati sono a loro agio con l’uso delle tecnologie, non abbiamo mai riscontrato grandi barriere o resistenza da superare da parte loro» riflette Paola Pagni: «Certo non sempre la tecnologia “collabora” al meglio: le connessioni possono essere difficili, e questo si trasforma a volte in un’opportunità per valutare la flessibilità e il problem solving dei candidati. Più volte mi è capitato di effettuare interviste con il video e in contemporanea il telefono perché la connessione risultava scarsa». «Sia i candidati che i recruiter sono ormai abituati ad utilizzare Zoom, i problemi che possono riscontrarsi sono relativi alla connessione, oppure a volte candidati devono connettersi tramite cellulare perchè alcuni pc non sono dotati di webcam» concorda Friedman. Nell'esperienza di Nestlé, i giovani sono già “rodati” grazie all'utilizzo delle piattaforme in ambito universitario: «Molti di loro le utilizzano soprattutto per le lezioni online e non solo per colloqui con le aziende» spiega Raffi: «La tecnologia non è un ostacolo ma una modalità più veloce e dinamica e forse più ingaggiante per entrare in contatto con i ragazzi». Ma al di là del fatto che non si trovano più nella stessa stanza, la modalità digitale anziché di persona ha modificato la relazione tra recruiter e candidato? «Poco» secondo Mercer, sempre che il recruiter abbia «la sensibilità di creare un contesto aperto» e si dimostri «empatico e disponibile a superare la barriera del mezzo per creare un’atmosfera di fiducia e collaborazione». Ma la barriera, innegabilmente, esiste: e allora c'è bisogno talvolta di «una  maggiore empatia e un maggiore ascolto» dice Raffi di Nestlé: «È importante per il recruiter non lasciare nulla per scontato, essere ancora più trasparenti e talvolta anche più rassicuranti».  Anche nel “copione” dei colloqui giocoforza qualcosa è cambiato: «Prima di cominciare, con il candidato ci si confronta un po’ su come si sta affrontando la situazione attuale – ad esempio se si sta lavorando da casa oppure no, se si hanno figli in dad» racconta Friedman di Flex «così da recuperare il rapporto umano prima di iniziare con il colloquio vero e proprio. Inoltre, anche il fatto di fare il colloquio da casa in video call fa sì che si entri nella sfera personale dell’altro/a pur non vedendosi di presenza». E attenzione: «Da parte sua, il candidato non deve dimenticare che, malgrado il setting domestico e meno formale, si trova comunque in un contesto professionale che richiede comportamenti professionali formali e una buona preparazione all’intervista» ricorda Pagni [nella foto]: un consiglio prezioso per chi si appresta a sostenere colloqui online.«Per mettere a proprio agio i candidati ci presentiamo, raccontiamo loro la realtà Nestlé, la nostra filosofia» prosegue Giovanna Raffi «e dopo, in un clima disteso, incomincia il colloquio che verte soprattutto a conoscere il candidato, ad approfondire suoi interessi, percorso e obiettivi». «Le dimensioni che riteniamo debbano essere indagate con maggiore attenzione sono l’ingaggio e l’impegno del candidato» aggiunge Paola Pagni: «Sostenere un colloquio in azienda è un investimento di tempo e di coinvolgimento superiore, che potrebbe essere sottovalutato dal candidato se si tratta “solo” di connettersi in video».Lato azienda c'è comunque un gap che scaturisce dal fatto di non poter vedere in carne e ossa un candidato, farsene un’idea dal vivo. «All’inizio è stato complicato perché temevamo di perdere l’aspetto non verbale della comunicazione che in fase di colloquio certamente aiuta i candidati» riflette Raffi: «Ma non è così. La scelta di un candidato si basa sulla capacità di ragionamento, sulle sue skill e sull’abilità di sapersi adattare a nuove situazioni come può essere un colloquio a distanza e – non ultima – la gestione dello stress. Anche noi in qualità di recruiter abbiamo dovuto adattarci a questa nuova situazione e dopo un primo momento di rodaggio ora abbiamo pienamente preso confidenza con questa nuova modalità». Sulla stessa linea anche Paola Pagni di Mercer: «L’apertura, la disponibilità e la curiosità nella cassetta degli attrezzi del buon intervistatore non cambiano, e presto ci si abitua a sviluppare un’attenzione superiore che raccolga i messaggi soft anche attraverso il video». Mentre per chi era già prima del Covid abituato a svolgere i colloqui, quantomeno in parte, online questo gap non esiste: «I nostri recruiter sono abituati a non vedere di persona i candidati in quanto sono collocati geograficamente al di fuori dell’Italia e il primo step di selezione avviene sempre via call» dice infatti Melissa Friedman di Flex.A questo punto c'è da chiedersi se la situazione abbia avuto effetti anche sul volume delle candidature. Da una parte, essendo il numero di stage (e contratti di lavoro) diminuito molto nel 2020, logica vorrebbe che i candidati fossero più numerosi. Non va però sottovalutato l'effetto “demoralizzante” della pandemia, che può portare chi cerca lavoro a desistere ancor prima di inviare il proprio cv. Nel caso delle aziende che abbiamo sentito, fortunatamente l'effetto demoralizzante non si è verificato: tutte e tre hanno continuato a ricevere lo stesso numero medio di candidature di prima del Covid, anzi perfino superiore. Forse anche perché «persone residenti in luoghi più lontani sono più incentivate a candidarsi» riflette Friedman: in effetti, i candidati storicamente svantaggiati da una residenza in zone meno centrali, come il Mezzogiorno o le aree lontane dalle grandi metropoli, hanno visto nel recruiting e negli stage a distanza aprirsi una inaspettata finestra di opportunità. «Ma non possiamo dimenticare che tutti noi contiamo di tornare ad una normalità fatta di incontri di persona, vita di relazione nei nostri ufficio e viaggi di lavoro per incontrare i clienti» ricorda però Pagni: «I nostri candidati dovranno fare i conti anche con questi elementi e non dimentichiamo di parlarne in fase di colloquio». Gli effetti psicologici della pandemia, comunque, ci sono. Per esempio, i giovani sono preoccupati (e non a torto!) rispetto alla possibile riduzione della propensione delle aziende ad assumere dopo lo stage: «Spesso i candidati più junior ci chiedono se stiamo assumendo, se è possibile una conferma dopo lo stage nonostante il periodo» racconta per esempio Melissa Friedman [nella foto]. Ma a sorpresa “fiducia” è qui la parola chiave che ricorre più spesso. A Mercer i giovani appaiono «fiduciosi e con grandi speranze di superare il momento difficile e aprirsi a nuove opportunità. Abbiamo più volte constatato che proprio i giovani stanno pagando il prezzo sociale e di sviluppo personale più alto» spiega Paola Pagni «ma come sempre ci sorprendono dimostrando resilienza e visione oltre il momento difficile inaspettate». «Certamente la pandemia ha colpito in maniera più significativa le nuove generazioni che si affacciano nel mondo del lavoro» le fa eco Giovanna Raffi «ma riscontriamo una risposta positiva circa la loro determinazione e partecipazione. Anche per questo come Gruppo Nestlé siamo impegnati attraverso il nostro programma globale Nestlé Needs YOUth a continuare a fornire ai ragazzi opportunità e competenze per diventare protagonisti del domani». L'obiettivo di Nestlé è di aprire da qui al 2025 1400 posizioni lavorative e attivare altrettanti nuovi stage. Oltre ai colloqui di persona, cioè al sistema “annuncio-ricezione candidature-convocazione a colloquio” che fino a prima dello scoppio del Covid era la “normalità”, la pandemia ha modificato anche altri canali di recruiting, come per esempio i career day. Nel 2020 per esempio Nestlé ha partecipato a dodici career day e una trentina di altri eventi con scuole e università: «Anche in questo contesto la modalità virtuale e le nuove piattaforme tecnologiche hanno certamente facilitato a non interrompere le attività». Anche Mercer ha avuto diverse esperienze di career day online: «Abbiamo apprezzato lo sforzo delle università che si sono adattate a queste nuove modalità» riflette Pagni: «Siamo stati felici di poter sfruttare il momento d’incontro, ma dobbiamo ammettere che ci sono mancati i momenti di scambio, di incontro di persona e lo spirito che si vive nei corridoi e negli spazi dei career day tradizionali. Quei momenti erano vere opportunità di incontro, mentre i career day virtuali ci sono sembrati più transazionali che opportunità di relazione. Certo, abbiamo tutti sperimentato nuovi strumenti, e possiamo immaginare che ci sarà spazio e modo di migliorare e trarre il meglio anche da questa nuova modalità».E quando questa pagina sarà voltata, e si potrà vivere in un mondo nuovamente Covid-free, che succederà ai coloqui online? Molti si chiedono se i cambiamenti nei procedimenti di recruiting imposti dalla situazione di pandemia verranno immediatamente abbandonati, tornando subito ai colloqui di persona. Ma c'è anche chi pensa che si andrà verso una modalità di procedure di recruiting “mista”. «In Nestlé abbiamo fatto un grande passo avanti in termini di innovazione e processi tecnologici: pensiamo che in futuro una modalità mista che adotti i vantaggi del colloquio in presenza ai nuovi strumenti tecnologici a disposizione sia necessaria e anche indispensabile» dice Raffi: «La capacità di adattamento e di flessibilità di un’azienda nel combinare queste modalità rappresenterà un vantaggio importante nell’attirare talenti». Non molto diverso il punto di vista di Mercer: «L’emergenza Covid ci ha messi a dura prova nell’anno passato, ma ci ha anche offerto opportunità di innovazione; sarebbe un peccato rinunciare del tutto alle nuove possibilità che abbiamo scoperto» dice Pagni: «Post Covid posso immaginare che manterremo le innovazioni che ci offrono maggiore agilità e flessibilità, come le interviste in videoconferenze, e le combineremo con gli incontri di persona».«L’esperienza Covid ha cambiato molto del nostro lavoro» conclude Raffi: «Certamente vedevamo già un cambiamento nelle modalità di recruiting e di parlare con i giovani nel corso degli anni, ma la pandemia ha provocato un’accelerazione molto rapida. Anche per un’azienda come Nestlé, da sempre molto attenta alle innovazioni come lo smart working o la digitalizzazione, ha rappresentato una sfida impegnativa che però abbiamo affrontato con determinazione e passione. Il modello virtuale ci ha permesso di garantire la continuità ma non è la sola strada che stiamo ipotizzando per il futuro post-emergenza sanitaria, che richiede di riscoprire l’empatia e il calore del colloquio di persona senza però perdere il patrimonio di innovazione che abbiamo costruito».

Reddito di cittadinanza, è compatibile con un tirocinio?

Così come per l'indennità di disoccupazione – la Naspi – possono sorgere dubbi anche riguardo la compatibilità dei redditi derivanti da tirocinio con altre misure a favore di soggetti svantaggiati. Tra queste il reddito di cittadinanza, percepito – i dati sono di febbraio – da 1 milione e 370mila nuclei familiari, per un totale di 3 milioni e 138mila persone coinvolte. E per cui il quesito da porsi è se sia compatibile o meno con il tirocinio, qualora quest'ultimo fosse corredato da rimborso spese. La risposta è sì: «Il reddito di cittadinanza è compatibile con lo svolgimento di attività lavorativa, quindi anche con i tirocini» conferma alla Repubblica degli Stagisti Donato Lorusso dell'ufficio stampa Inps. Se si può lavorare, giocoforza sarà ammesso anche lo stage in concomitanza con l'erogazione della misura, «e la prestazione quindi continuerà a essere corrisposta nel medesimo ammontare», prosegue Lorusso, a prescindere dalla presenza di un eventuale rimborso spese e dalla sua entità (per i tirocini curriculari il rimborso d'altronde non è obbligatorio). Nessun intoppo dunque per la lettrice Alessandra, che alla redazione della RdS chiede: «Percepisco il reddito di cittadinanza da un mese e inizierò uno stage curriculare: devo comunicarlo?». No, non è necessario perché «non esiste alcun obbligo di comunicazione verso l’Inps» fanno sapere dall'istituto. E «i redditi derivanti da tirocinio non sono soggetti agli obblighi di comunicazione previsti dalla legge 26/2019». Lo stesso afferma la circolare Inps del 23 marzo 2019: «Si precisa che non devono essere comunicati i redditi derivanti da attività socialmente utili, tirocini, servizio civile, nonché da contratto di prestazione occasionale e libretto di famiglia». Né tantomeno avrà rilevanza la durata dello stage (nel caso della lettrice, sei mesi). Solo qualora «il tirocinio dovesse trasformarsi in un contratto di lavoro soggetto agli obblighi di comunicazione, sarà onere del beneficiario comunicare i redditi derivanti dal rapporto sorto, a pena di decadenza dal beneficio» prosegue Lorusso.Stesso discorso per l'entità del rimborso. Scrive la lettrice che «il rimborso spese ammonterà a 500 mensili», dunque 3mila euro totali che entreranno a far parte del suo reddito annuale. Un importo che non incide sulla corresponsione del reddito di cittadinanza, almeno sul momento. «Come tutti i redditi da lavoro» chiarisce l'ufficio stampa, «gli introiti derivanti da tirocinio andranno successivamente valorizzati in sede Isee». Sono gli indicatori economici di ciascun nucleo familiare a determinare infatti il diritto al sussidio. Ma un eventuale aumento dei propri redditi non avrà una conseguenza immediata: «Gli eventuali effetti si produrranno sul RdC tra due anni, in ottemperanza di quanto disposto dal regolamento Isee, per cui il calcolo è sui redditi del secondo anno precedente la dichiarazione». L'Isee è infatti un complesso meccanismo che prende in considerazione diversi elementi, patrimoniali e reddituali, riferiti però alle annualità precedenti, non quelle in corso. La stessa circolare già menzionata chiarisce che «il Rdc è compatibile con lo svolgimento di attività lavorativa da parte di uno o più componenti il nucleo familiare, fatto salvo il mantenimento dei requisiti previsti». Solo se si superassero i requisiti economici si decadrebbe insomma dal beneficio. Vale a dire, non rientrare più nello schema di paletti che determinano l'Isee. Per il reddito di cittadinanza, non bisogna superare un valore Isee pari a 9360 euro riferito al nucleo familiare di appartenenza e contemporaneamente bisogna avere un patrimonio immobiliare inferiore ai 30mila euro; un patrimonio mobiliare al di sotto dei 6mila euro; un reddito del nucleo sotto la soglia dei 6mila euro annui. Tutti parametri da tarare a seconda poi delle particolarità della famiglia, inclusi aspetti quali il numero di componenti, la presenza di disabili o il mutuo da pagare. In particolare, per un giovane tirocinante che percepisce il reddito di cittadinanza, le circostanze possono essere due. La prima è che viva a casa dei genitori, e faccia parte dunque dello stesso nucleo familiare: in quel caso il reddito derivante da tirocinio concorrerà alla composizione del reddito familiare e dunque al diritto della famiglia a percepire il sussidio. Se invece il giovane vivesse da solo e fosse affrancato dai genitori, allora sarà solo la sua indennità di stage a essere calcolata ai fini Isee, e a determinare dunque l'accesso alla misura. Utile ricordare poi che, a differenza che per i tirocini, per il lavoro vero e proprio la presenza di reddito va invece comunicata all'Inps «entro trenta giorni dall’inizio dell’attività stessa» chiarisce la circolare Inps del 2019. Nel caso del lavoro dipendente, il reddito «è desunto dalle comunicazioni obbligatorie, di cui all'articolo 9 bis del decreto legge 510/1996». Per quello autonomo invece «il reddito è individuato secondo il principio di cassa, come differenza tra i ricavi e i compensi percepiti e le spese sostenute nell'esercizio dell'attività» e va comunicato – pena la decadenza dal beneficio – «entro quindici giorni dalla fine di ogni trimestre». Ilaria Mariotti

Calo degli stage, sorpresa: il Covid ha fatto più danni al Centro-Nord che al Sud

I numeri ufficiali relativi alla situazione dello stage in Italia – secondo i dati inediti del ministero del Lavoro pubblicati qui sulla Repubblica degli Stagisti sono stati 234.513 i tirocini extracurricolari attivati in Italia nel 2020, un terzo in meno dei quasi 356mila che erano partiti nel 2019 – sono interessanti da analizzare anche secondo la variabile geografica, per scoprire in quali Regioni si è verificato un calo maggiore o minore.Il Covid ha avuto chiaramente un impatto importante sul mondo dello stage; facendo un confronto tra il 2019, ultimo anno Covid-free, e il 2020, si scopre che le opportunità si sono ridotte del 34%. Ma questo è un dato medio; non dappertutto le cose sono andate proprio così.E se è vero che nessun posto è rimasto immune dalla bastosta del Covid, guardando i dati spacchettati Regione per Regione si trovano delle sorprese. La più macroscopica è che il Covid ha impattato molto di più sulle Regioni “ricche” d’Italia, quelle con mercati del lavoro più vivaci, dove le opportunità sono calate molto più della media. Mentre le Regioni del Mezzogiorno – quelle dove di solito il lavoro è più difficile da trovare e i tassi di disoccupazione giovanile e femminile sono molto alti e tanti giovani fuggono… – sono state quelle che hanno registrato l’impatto minore.L’esempio più eclatante è la Calabria. La Regione più povera d’Italia è anche quella dove i tirocini sono calati di meno in assoluto: si sono ridotti solo del 20%, con poco meno di 10mila tirocini extracurricolari attivati nel 2020 contro i quasi 12.500 che erano partiti nel 2019. Un impatto quindi di ben quattordici punti percentuali più “tenue” di quello registrato in media in tutta Italia.E poi, a seguire, Sicilia con -23% (poco più di 10.500 nel 2020 contro i 13.681 dell'anno precedente) e Basilicata con -26% (appena al di sotto dei 2.500, nel 2019 erano stati 3.286). L’unico territorio del Nord Italia in cui si ritrovano risultati simili è la Provincia autonoma di Bolzano, in Trentino Alto Adige, con un calo pari al 26% comparando i poco più di 2mila tirocini partiti nel 2020 con i quasi 3mila del 2019. L’Abruzzo chiude il 2020 con un -27% (poco meno di 5mila stage nel 2020, nel 2019 il numero aveva sfiorato i 7mila); la Campania con un -28: qui le attivazioni di tirocini sono state appena sopra 17mila nel 2020 quando l’anno prima erano state 23.736.Sono entrambe al centro Italia le due Regioni che invece hanno patito di più in assoluto l’impatto del Covid sul mondo dello stage registrando un -42%, ben otto punti percentuali più della media nazionale. Si tratta della Toscana, dove nel 2020 sono partiti solo poco meno di 9mila tirocini extracurricolari rispetto ai quasi 15.500 che erano stati avviati nel 2020, e l’Umbria con numeri un po’ più contenuti – 3.278 contro 5.670 – ma il medesimo risultato percentuale.Vi sono poi altri tre territori, tutti al Nord, che hanno registrato cali significativamente più importanti della media; si tratta della Valle D’Aosta, della Provincia autonoma di Trento e del Friuli Venezia Giulia. In particolare, pur con numeri microscopici, nella piccola Regione a statuto speciale posta all’estremo nord ovest dell’Italia, al confine con Francia e Svizzera, il calo del numero di tirocini extracurricolari attivati è stato del 41%; 277 stage avviati nel 2020 contro i poco meno di 500 che avevano preso il via nel 2019. Poi la Provincia autonoma di Trento, in Trentino Alto Adige, con un -40%; un risultato ben diverso rispetto alla “sorella” Bolzano, dato che a Trento gli stage sono passati dai 2.228 del 2019 ai 1.343 del 2020. E poi il Friuli Venezia Giulia con -39%: 2.701 stage nel 2020 contro i circa 4.500 del 2019.Lazio e Puglia si attestano su un calo del 38%, dunque quattro punti percentuali più della media: in Lazio sono stati attivati nel 2020 21.299 tirocini, quando nel 2019 erano stati un po’ al di sopra dei di 34.500; in Puglia poco più di 14mila contro 22.721.Due punti percentuali in più della media (-36%) anche per altre due Regioni del Nord, Piemonte e Lombardia. In Piemonte sono partiti circa 21.500 quando ne erano stati avviati quasi 33.500 nel 2019. E in Lombardia, da sempre la “capitale” degli stagisti italiani – sul suo territorio si svolge mediamente un quinto degli stage di tutta Italia – i percorsi extracurricolari attivati sono stati circa 47.500 nel 2020, quando l’anno prima erano stati 74.380.L’unica regione che che si pone perfettamente nella media è il Veneto – altro territorio numericamente importantissimo nell’ “universo stage” italiano – dove nel 2020 gli stage attivati sono stati 25.245 contro i circa 38.500 del 2019. Ma qui si possono citare anche il Molise con un punto percentuale in più (-35%, poco più di mille contro oltre 1.500) e Marche e Sardegna con un punto percentuale in meno, dunque -33%. In particolare nelle Marche i tirocini avviati nel 2020 sono stati 6.809, mentre erano stati un po’ più di 10mila nel 2019; in Sardegna appena sopra 5mila contro i circa 7.500 del 2019.Liguria ed Emilia Romagna restano invece un poco sotto la media, entrambe con un -32% (in Liguria 7.588 stage nel 2020 contro i poco più di 11mila del 2019, in Emilia-Romagna 20.705 contro 30.665).A questo punto la domanda chiave è una: com’è possibile che “l’effetto Covid” sui tirocini, con conseguente calo delle opportunità, si senta più nelle Regioni che economicamente stanno meglio? Dove sono stati mandati gli stagisti in Calabria, Sicilia, Basilicata? C’erano davvero aziende che stavano così bene da aprire le braccia agli stagisti, come se il Covid non avesse creato problemi o quasi? O forse sono stati inseriti, come spesso è accaduto in passato, in maxi-programmi di stage negli enti pubblici, pagati dallo Stato e con scarse prospettive di inserimento lavorativo successivo? Come si spiegano questi dati?

«Si può essere felici lavorando in smartworking: una nuova sfida anche per il sindacato», parola di un ex sindacalista

Nel giro di poco più di un anno è passato da oggetto semi-misterioso a modalità di lavoro entrata prepotentemente nella quotidianità di molti di noi. Stiamo parlando dello smartworking, uno dei temi più dibattuti da un po’ di tempo a questa parte, a ragione. Se infatti prima del Covid 570mila lavoratori in Italia erano in regime di smartworking oggi si parla di oltre cinque milioni di persone (dati Osservatorio smartworking Politecnico).Lo racconta Marco Bentivogli, ex segretario generale della FIM CISL protagonista di alcune tra le vertenze sindacali più complicate e note in ambito industriale, da Ilva a Whirlpool, attuale coordinatore di Base Italia, associazione finalizzata alla promozione e la realizzazione di iniziative di ricerca su temi economici, giuridici, sociali e ambientali a livello nazionale, nel suo libro Indipendenti. «Guida allo smartworking» (Rubbettino, 2020), raccontato nel corso di una conversazione con La Repubblica degli Stagisti.La scelta del titolo è subito spiegata: «Lo smartworking è un percorso di innovazione che incentiva l’autonomia del lavoratore. Va distinto dal telelavoro, che è quello che abbiamo visto più spesso in questi mesi mentre le aziende che avevano adottato il vero smartworking già prima della pandemia hanno retto molto meglio la crisi. Già in condizioni normali, infatti, è proprio la mancanza di autonomia a soffocare produttività e benessere delle persone al lavoro, da qui il titolo del libro. Nonostante nel lavoro agile sia ancora più decisiva la relazione, il lavoro di gruppo, la capacità di coordinamento, con gli altri. Urge quindi un salto di qualità dei processi di apprendimento: le organizzazioni e le imprese che creano dipendenze sono nocive, ingabbiano le energie migliori degli esseri umani. Per questo avere lavoratori indipendenti, responsabili e felici deve diventare un obiettivo generale».La pandemia ha senz’altro fatto da «acceleratore» per lo smartworking in molte aziende, segno che probabilmente in passato qualcosa era mancato: «è mancato sicuramente il coraggio anche se in ambito tecnologico la paura dell’innovazione è un sentimento ricorrente nel nostro Paese. Oggi dibattiamo sul fatto che i robot ruberanno o meno posti di lavoro in fabbrica ma nell’Italia del 1978 la produzione della Fiat Ritmo era completamente automatizzata. L’industria 4.0 è un’evoluzione di quegli automatismi: tutto è perennemente connesso, i robot possono dialogare fra loro e con l’uomo», continua Bentivogli.In un contesto di crescente importanza degli strumenti tecnologici si assiste però a una progressiva crescita dell’età media della popolazione residente, 45,7 anni al primo gennaio 2020 e a una parallela diminuzione delle nascite. Chi ha a che fare con lo smartworking non è quindi solo il giovane, padrone degli strumenti tecnologici, ma anche chi sta o deve pian piano imparare a conviverci tutti i giorni. Come fare allora? Per Bentivogli la chiave è «un grande piano di reskilling dei lavoratori over 50. Dall’autunno scorso in poi, credo che, in Italia, un’importante parte del mondo produttivo si trovi in grosse difficoltà, con il rischio di chiudere, mentre un’altra parte è nelle condizioni di correre e di crescere. Dovremo vedere come il nostro Paese sarà in grado di attivare strumenti per interpretare questo momento e mettere in atto politiche pubbliche di accompagnamento all’innovazione. Bisogna evitare la doppia sconfitta: quella di chi perderà il lavoro in aziende fuori dal gorgo dell’innovazione e quelle che invece accelereranno senza accompagnare le persone nella loro riqualificazione professionale».La completa affermazione dello smartworking deve quindi fare i conti da un lato con un importante lavoro di «alfabetizzazione digitale» di buona parte della popolazione, dall’altra con un cambiamento di approccio nel mondo aziendale, che privilegi l’autonomia del lavoratore sulla logica del controllo: «La mentalità di chi governa l’impresa va cambiata anche perché le nuove tecnologie rendono sempre più complesso misurare la produttività in termini di ore di presenza e di pezzi prodotti dalla singola persona. I vecchi modelli, quindi, si dimostrano superati».Insomma la logica del cartellino deve necessariamente lasciare il passo a una dimensione che fa leva sull’autonomia delle persone, superando un approccio molto radicato nel panorama lavorativo nazionale. Il confronto con l’estero, Europa e in generale mondo, che emerge dal libro, mostra che in Italia esiste forse un tema di cultura del lavoro, come spiega Bentivogli: «C’è un grande problema culturale a cui si può rispondere solo con la formazione. Spesso, a mo’ di provocazione, sostengo che bisognerebbe tassare l’ignoranza. Un paradosso con cui vorrei sottolineare come si debba forzare sul diritto soggettivo alla formazione, che deve essere inserito in tutti i contratti di lavoro, anche quelli più brevi, e deve assurgere al rango di diritto umano».Per permettere il «vero» cambiamento serve allora una svolta, partendo da quella che Bentivogli definisce «una nuova cultura di gestione delle imprese» : «per diffondere nuovi concetti ritengo essenziale la creazione di ecosistemi 4.0, che favoriscano l’incrocio e la crescita dei vari fattori abilitanti, compresa una nuova cultura di gestione delle imprese e di formazione dei lavoratori. Mi riferisco, per esempio, ai Competence Center del ministero dello Sviluppo economico, il cui sviluppo è in forte ritardo rispetto ai tempi previsti, oppure ai Digital Innovation Hub, che sono realtà scarsamente integrate nei territori in cui sono state create. Strutture di questo tipo dovrebbero favorire la sedimentazione delle competenze nel territorio e non essere soltanto interfacce propedeutiche all’innovazione. Se non ci riusciamo, la maggior parte del tessuto del lavoro in Italia, che è costituito dall’86% di persone attive in aziende con meno di 15 dipendenti, resterà escluso o, comunque, troppo lontano dall’accesso agli strumenti culturali necessari per entrare in percorsi innovativi di questo tipo».Un secondo aspetto da cui ripartire è il ripensamento del ruolo del sindacato: «Nella mia precedente vita da sindacalista ripetevo spesso che se anche nel sindacato qualcuno pensa che la fatica, la serialità, l’usura delle mansioni siano spazi da difendere con i denti, si perderà l’occasione di espandere la sfera dell’umano. Accettare la sfida significa ripensare il mondo del lavoro, ma non è detto che mettere in discussione vecchi totem e aprirsi alla tecnologia debba costare in termini di occupazione. Oggi possiamo tutelare l’occupazione solo se siamo capaci di diventare un soggetto che partecipa, insieme con gli altri attori del mondo produttivo, al grande progetto per definire in che cosa consisterà il lavoro del domani. Se la logica con cui verranno costruite le nuove architetture industriali sarà soltanto tecnologica ed economicista, andremo incontro a soluzioni inefficaci, perché escluderemo la parte più profonda dell’uomo, che consiste nella sua umanità».Chiara Del Priore

Dieci anni di dati sugli stage in ottica di genere, ecco come il Covid sta penalizzando le donne

Le opportunità di tirocinio sono diminuite da quando è scoppiata la pandemia: nel dettaglio, confrontando il 2020 con il 2019, il Covid ha cancellato circa un terzo delle attivazioni. Ma per le donne va un po’ peggio che per gli uomini. Il Covid ha infatti modificato la distribuzione delle opportunità di tirocinio per genere, invertendo una tendenza che nel corso degli anni era sempre stata molto paritaria. Ecco una panoramica: dei 210.209 tirocini attivati nel 2011, primo anno per cui esistono dati ufficiali, 111.080 – pari al 52,8% – avevano riguardato stagiste e 99.129 – pari al restante 47,2% – stagisti. Le donne avevano dunque avuto accesso, quell'anno, a quasi il 6% di opportunità di stage in più rispetto agli uomini. Nel 2012 donne erano ancora in vantaggio di oltre quattro punti percentuali: rappresentavano il 52,3% dei beneficiari di percorsi di tirocinio extracurricolare (90.031 su un totale di 172.249) con gli uomini fermi a 47,7% (82.218 su 172.249). Nel 2013 la situazione si era fatta più equilibrata, con le donne comunque sempre in leggero vantaggio: 50,7% a 49,3%. 103.451 stagiste su 204.081, mentre gli stagisti quell’anno erano stati 100.630. 2014, ancora sostanziale parità e ancora donne sopra di un punto percentuale, 50,5% contro 49,5%: nel dettaglio, 105.614 stagiste e 103.632 stagisti sul totale di 209.246. Idem nel 2015: donne 50,7%, uomini 49,3%; in numeri assoluti, 329.192 stagisti in totale – il balzo in avanti dovuto all’avvio, nel maggio dell'anno precedente, di Garanzia Giovani – di cui 166.791 donne e 162.401 uomini. Il 2016 è l’anno della parità perfetta “fifty-fifty”: 159.093 stagiste e 159.580 stagisti (il totale era 318.673). Nel 2017 ancora parità quasi perfetta, anche se per la prima volta le donne passano in “minoranza”: 49,8% donne (in valori assoluti, 184.412 su un totale di 370.495, il numero più alto mai registrato di tirocini in un decennio) e 50,2% uomini (186.083). Nel 2018 le donne scendono ancora di uno 0,2 percentuale: le stagiste sono infatti 172.619 e rappresentano il 49,6% dei 347.889 tirocini extracurricolari attivati quell’anno, mentre gli stagisti quell’anno sono il 50,4% (175.270). Il dato viene ribaltato l’anno successivo: nel 2019 infatti le stagiste donne nel 50,4% dei casi (179.223 su 355.863) e uomini nel restante 49,6% (176.640). I dati sono tratti dai Rapporti sulle comunicazioni obbligatorie del ministero del Lavoro pubblicati nel corso degli anni (che talvolta, peraltro, riportano anche numeri differenti da un anno all’altro – anche se di poco per fortuna).Fino ad arrivare ai dati inediti che la Repubblica degli Stagisti ha appena ottenuto dal ministero del Lavoro e che riguardano le attivazioni di tirocini extracurricolari nel 2020. 2020, anno del Covid. 2020, anno in cui le donne hanno rappresentato solo il 48,7% dei beneficiari di stage, sulla totalità dei 234.513 percorsi attivati: gli stagisti maschi sono stati invece 120.209, pari al 51,3%.È il differenziale più alto mai registrato dal 2012, con la differenza che allora era un differenziale di quattro punti percentuali a favore delle donne; mentre ora è un differenziale di due punti e mezzo (per la precisione 2,6%) a favore degli uomini.Insomma, da quando è scoppiata la pandemia le donne hanno patito un po’ più degli uomini il calo delle opportunità di tirocinio. Per esempio, la variazione del numero delle opportunità di tirocinio extracurricolare causata dal Covid confrontando i dati del 2020 con quelli del 2019 è pari a -34%, ma in realtà a ben guardare le attivazioni a favore di donne sono scese del 36% (114.304 nel 2020 contro le 179.223 registrate nel 2019) mentre quelle a favore di uomini sono scese soltanto del 32% (120.209 nel 2020, erano state 176.640 nel 2019). L’andamento si comprende ancor meglio considerando i dati trimestre per trimestre. Se il calo generale nel primo periodo dopo lo scoppio della pandemia, e cioè il secondo trimestre 2020, è stato pari a -73% (contando la riduzione del numero di attivazioni di stage in tutta Italia, tra il 1° aprile e il 30 giugno 2020, e confrontando questo numero con lo stesso periodo dell'anno precedente), per le donne è stato -75% mentre per gli uomini “solo” -71%. Similmente, nel terzo trimestre – quello della piccola “ripresa” estiva – la riduzione generale è stata del 12%: ma per le donne è stata -14%, per gli uomini -10%. E infine l’ultimo dato, ben più preoccupante: nel quarto trimestre del 2020 le attivazioni si sono ridotte del 26%. Ma per le donne questa riduzione è stata pari a -30%. Quattro punti percentuali in più del dato generale, e ben nove punti in più del dato riguardante i soli maschi: per loro il calo di opportunità tra ottobre e dicembre 2020 è stato soltanto del -21%.Cosa significa questa panoramica? Significa che nell’ultimo decennio –  il 2011 è il primo anno per il quale si dispone di dati certi del ministero del Lavoro – i tirocini extracurricolari sono stati, per molte ragioni, un’oasi di parità di genere. Ma nei momenti di crisi questa parità vacilla: come se fosse necessario assicurare le opportunità prima di tutto ai maschi e solo in seconda battuta, se ce ne sono abbastanza, anche alle donne.

Stage, il Covid cancella nel 2020 60mila opportunità per gli under 25: tutti i dati del calo per classe di età

Gli stage sono calati di un terzo a causa del Covid. Sono i numeri inediti che il ministero del Lavoro ha fornito alla Repubblica degli Stagisti: una diminuzione del 34% del numero di attivazioni di tirocini extracurricolari confrontando quelli avviati tra il 1° gennaio e il 31 dicembre del 2020 e quelli avviati nello stesso periodo dell’anno precedente.     Ma il calo è uniforme per tutte le età? La risposta è no. I giovani sono molto più colpiti, in proporzione, rispetto agli adulti. Si vede proprio una tendenza lineare: più si sale di età, più l’effetto del Covid sembra meno forte. Dunque i più penalizzati, quelli per cui le opportunità sono calate maggiormente, sono proprio quelli per cui lo stage è più importante: i giovani, che hanno meno esperienza nel mercato del lavoro e più bisogno di arricchire il proprio cv. In termini assoluti, la classe di età degli under 25 ha visto cancellarsi di botto oltre 60mila opportunità di tirocinio.Mentre al contrario il dato in un certo senso clamoroso è che gli “anziani”, cioè gli stagisti ultra 55enni, hanno visto ridursi solamente del 20% le opportunità di stage. Ben quattordici punti percentuali meno della media.In particolare, se si guarda il calo delle attivazioni considerando singolarmente le quattro classi anagrafiche in cui il ministero del Lavoro suddivide tutte le persone che fanno stage, si scopre che per gli under 25 il calo è stato del 36%. In numeri assoluti nel 2020 sono stati perse oltre 60mila opportunità per questa fascia di età: risultano infatti essere stati attivati poco più di 107.500 tirocini a favore di persone al di sotto dei 25 anni, quando nel 2019 questo numero aveva rasentato 169mila. La classe immediatamente successiva, che comprende le persone che hanno tra 25 e 34 anni, ha patito un calo del 33%: nel 2019 erano stati circa 128.500, a causa del Covid il numero è sceso un po’ al di sotto degli 86mila.Per gli stagisti (o aspiranti tali) tra i 35 e i 54 anni l’impatto è stato del -32%: i dati 2020 parlano di po’ più di 33mila tirocini extracurricolari partiti per persone in questa classe di età, circa 16mila meno che l’anno precedente.Ma il risultato più inaspettato, come anticipato, è quello degli stagisti attempati: le persone di più di 55 anni che sono state avviate in stage, pur poche dal punto di vista numerico, in termini percentuali hanno visto una riduzione delle opportunità molto contenuta: solamente un -20%. Per la precisione, sono stati circa 8mila i tirocini per over 55 che hanno preso avvio nel 2020, mentre nel 2019 erano stati un po’ meno di 10mila.Dal punto di vista della parità di genere, dei 234.513 percorsi formativi extracurricolari partiti nel 2020 il 48,7% ha riguardato donne e il 51,3% ha riguardato uomini, con una leggera diminuzione delle opportunità per le donne se si considera che nel 2019 la proporzione era stata praticamente perfetta 50-50, anzi con un leggero vantaggio – 50,4% – per le donne.Guardando i dati con la lente incrociata del genere e delle classi di età emerge che nel 2020 gli stagisti under 25 sono stati nel 55,5% maschi e solo nel 44,5% femmine: i ragazzi in effetti erano di più anche nel 2019, ma il dato si era fermato a 53,5% contro 46,5%. La situazione si ribalta nella classe di età successiva: gli stagisti tra i 25 e i 34 anni sono in prevalenza – 54% dei casi – femmine (nel 2019 erano state il 55%). Prevalenza di donne anche nel cluster di stagisti 35-54enni: nel 2020 hanno rappresentato il 52,6% del totale (nel 2019 erano state il 55%), mentre gli uomini si sono fermati a 47,4% (45% nel 2019). Nel segmento di stagisti più “attempati” invece, gli over 55, la netta prevalenza è di uomini: 66,4% del totale, e solo il 33,6% donne; quindi oltre due stagisti anziani su tre sono uomini (nel 2019 il dato registrato era stato: 64% uomini, 36% donne).Dunque accanto al dato eclatante che gli stage per persone avanti con gli anni sono calati, a causa della pandemia, molto meno degli stage per persone giovani, vi è anche da registrare la tendenza a privilegiare i maschi per le opportunità di stage in giovane età (cioè quando lo stage sarebbe più “appropriato”).Cosa significano questi dati? Perché, in una situazione di contrazione delle opportunità di stage, esse calano per i giovani in maniera più marcata rispetto a quanto calino per adulti? La spiegazione probabilmente sta nel fatto che gli stage per over 55enni sono, salvo rari casi, “non fisiologici”. Cioè non sono il frutto “naturale” del mercato del lavoro – giovani che devono aumentare le proprie competenze professionali per rendersi appetibili per i datori di lavoro, aziende che cercano giovani da formare e utilizzano il conveniente inquadramento dello stage per avere meno vincoli rispetto a un contratto di lavoro – bensì il frutto di specifici programmi di “riconversione professionale”, spesso pagati con soldi pubblici, altrettanto spesso svolti in strutture della pubblica amministrazione. Questi stage per persone adulte-quasi-anziane assomigliano sovente, purtroppo, a dei “depositi” dove scaricare persone scarsamente occupabili in attesa che raggiungano l’età per la pensione, quando sono scadute tutte le altre possibilità di ammortizzatori sociali. E dunque qui non sorprende che ci sia una netta prevalenza di uomini: le donne, si sa, incontrano molto spesso ostacoli che le espellono in anticipo dal mondo del lavoro, primo fra tutti la difficoltà di conciliare maternità e lavoro.Certo, ci potrebbero essere anche altre spiegazioni: ma quali?L'immagine a corredo dell'articolo è di David Ingram [da Flickr in modalità Creative Commons]

Stage e Covid, nel terzo trimestre più di attivazioni per gli adulti e meno per i giovani

Nel terzo trimestre del 2020 sono partiti 68.514 tirocini (si intendono qui solo degli extracurricolari, quelli svolti al di fuori dei percorsi di studio: gli unici che vengono contati e monitorati a livello ufficiale): il 12% in meno rispetto allo stesso periodo del 2019. Un calo molto contenuto, anche in ragione del fatto che in quei mesi – tra luglio e settembre – sono state recuperate tutte le attivazioni che erano state congelate nel trimestre precedente, in pieno primo lockdown. Ma le opportunità favoriscono tutte le fasce di età? Analizzando i dati inediti che la Repubblica degli Stagisti ha ricevuto dal ministero del Lavoro dal punto di vista anagrafico, facendo un confronto col III° trim 2019 l’età media delle persone avviate in stage nel 2020 è un po’ aumentata. Per la fascia di età degli under 25 il numero di attivazioni tra luglio e settembre è diminuito del 17%, e  per quella immediatamente successiva – 25-34 anni – del 10%; per i 35-54enni le attivazioni sono rimaste praticamente identiche, mentre per la classe over 55 i tirocini sono addirittura saliti del 20%.In particolare, meno di 35mila – per la precisione 34.801 – dei 68.514 tirocini attivati nel terzo trimestre 2020 in Italia hanno riguardato persone al di sotto dei 25 anni: il 51% del totale. L’anno prima, nello stesso periodo, gli under 25 avevano rappresentato il 54% del totale. Peraltro queste opportunità per i giovanissimi non sono distribuite affatto equamente a livello di genere: a fronte di poco più di 20mila stage attivati a favore di ragazzi, infatti, sono stati solo  14.750 gli stage attivati a favore di ragazze. Insomma 42% di opportunità per giovani donne, contro 58% di opportunità per giovani uomini. Curiosamente, anche nel terzo trimestre dell’anno precedente si era verificata una situazione molto simile: sui  42.208 tirocini attivati a favore di under 25, ben il 57% aveva riguardato ragazzi e solo il 43% ragazze.Proseguendo nella disamina anagrafica: 22.546 sono stati i tirocini attivati a favore di persone tra i 25 e i 34 anni, il che rappresenta un altro 33% della torta. Le stagiste femmine qui sono un po' più numerose, 12.055 contro 10.491: vale a dire 53,5% di opportunità per le donne, 46,5% per gli uomini. In questo caso i dati sono praticamente identici, confrontando i numeri di questo trimestre con quelli dello stesso trimestre dell’anno precedente, sia per quanto riguarda la proporzione di questa fascia di età sul totale, sia per quanto riguarda la percentuale di donne tra i 25 e i 34 anni coinvolte in percorsi di stage.Infine, nel terzo trimestre 2020 sono stati attivati oltre 11mila stage per persone adulte o addirittura quasi anziane: si tratta di un dato non entusiasmante se si pensa che nello stesso periodo dell’anno precedente questi “casi” di stagisti anziani erano stati un numero simile, 10.773, ma su un totale più numeroso, rappresentando quindi solo il 14% del totale, mentre nel terzo trimestre 2020, quindi in epoca Covid, sono aumentati di due punti percentuali raggiungendo il 16%.In particolare nel terzo trimestre 2020 un po’ più di 9mila attivazioni di tirocinio hanno coinvolto cittadini tra i 35 e i 54 anni, e 2.154 sono stati gli stagisti (sic) over 55. Nella fascia di età 35-54 si rileva una parità di genere quasi perfetta (50,5% donne, 49,5% uomini), mentre i 2.154 stagisti anziani sono uomini in oltre due casi su tre (64,5%). Il dato è praticamente identico all’andamento dei tirocini per persone senior avviati nel terzo trimestre 2019: in quel caso c’erano stati 1.796 stage per over 55, e il 62% aveva riguardato uomini.In linea generale, dunque, anche dal punto di vista anagrafico l’analisi delle attivazioni di stage del terzo trimestre del 2020 in Italia conferma il tentativo di “rientro alla normalità” dopo il tonfo del secondo trimestre, in pieno lockdown. Ma per avere ben chiaro il quadro di come il Covid abbia impattato sull’occupazione giovanile e sull’universo stage bisognerà aspettare di avere i dati anche del quarto trimestre 2020, e poter fare dunque un bilancio complessivo di tutto l’anno 2020, comparandolo con il 2019.[La foto a corredo di questo articolo è di ThisisEngineering RAEng, tratta da Unsplash][La foto di apertura di questo articolo è di Annie Spratt, tratta da Unsplash]

Contratto di apprendistato usato un po' più che in passato, ora il Recovery Plan potrebbe rilanciarlo

L'apprendistato non è più la pecora nera del mercato del lavoro italiano, e negli ultimi anni sembra aver conosciuto un certo miglioramento. Stando ai dati più recenti «l’occupazione in apprendistato si attesta sui 429mila rapporti di lavoro in essere, facendo registrare un aumento del 12,1 per cento rispetto all’anno precedente», come rileva l'ultimo monitoraggio disponibile dell'Istituto per le analisi delle politiche pubbliche Inapp, risalente al 2019 e riferito però a due anni prima, il 2017 quindi. Per il prossimo studio si dovrà attendere la primavera. Allo stato si tratta di un «andamento positivo» si legge ancora, «confermato dalle quasi 325mila assunzioni nello stesso anno, che segnano un aumento del 22 per cento sul 2016».Un trend «in controtendenza con la decrescita verificatasi tra il 2010 e il 2015, quando le assunzioni erano passate da 285.378 a 203.570», ovvero quasi 30 punti percentuali sotto. Numeri appena sopra la sufficienza: perché se è vero che nel 2013 l'Isfol (antenato dell'Inapp) registrava 300mila apprendisti all'anno, per di più in calo rispetto al passato, nel 2012 gli apprendistati in essere erano oltre mezzo milione. Quanto invece alla distribuzione sul territorio, la crescita più sostenuta degli apprendisti, che nella maggioranza dei casi sono maschi (57,7 per cento) e con un'età media di 24 anni, si è verificata al Sud (più 18 per cento), contro il più dieci per cento di Centro e Nord. La risalita dell'apprendistato ha una spiegazione pratica, e cioè che in precedenza questo strumento «aveva sofferto la concorrenza delle misure di decontribuzione previste per le assunzioni con contratto a tempo indeterminato inserite nella legge di bilancio 2015» spiega alla Repubblica degli Stagisti Marco Granelli, presidente di Confartigianato [nella foto a destra]. Sgravi poi esauriti a partire dal 2017, e di lì la corsa all'apprendista. Che potrebbe però intensificarsi ancora, considerando come per gli imprenditori che applicano l'apprendistato «i vantaggi sono duplici» come illustra alla Repubblica degli Stagisti Vincenzo Silvestri, presidente della Fondazione consulenti del lavoro, [nella foto a sinistra]: «Si paga un’aliquota fissa del 10 per cento per i contributi Inps, molto inferiore rispetto a quella ordinaria» e in più «il lavoratore può essere sotto inquadrato fino a due livelli inferiori rispetto alla qualifica da conseguire». Esiste anche uno sconto sul piano fiscale «perché l’apprendistato non si computa ai fini dell’Irap».Il sospetto è però che l'apprendistato possa aver subito, negli anni, la concorrenza di un inquadramento ancora più vantaggioso per chi deve assumere, perché di fatto meno costoso, ovvero il tirocinio. Silvestri lo esclude: «Si tratta di modelli che rispondono a esigenze diverse» sottolinea, «tanto è vero che la naturale finalizzazione di un tirocinio è proprio l’apprendistato, e se non si sfrutta l’apprendistato la colpa non è da attribuire al tirocinio, ma all’azienda che non ha interesse a proseguire il rapporto». Della stessa opinione Granelli, secondo cui «i tirocini sono un momento di formazione e di orientamento a stretto contatto con le aziende, al fine di facilitare la transizione dalla scuola al lavoro». L'apprendistato viene dopo «e la concorrenza sleale si verifica solo quando il tirocinio viene utilizzato in maniera distorta». Sarà, ma nel 2017 si contavano in Italia 368mila attivazioni di stage extracurriculari (al netto dei curriculari, che non rientrano nei monitoraggi), raddoppiate rispetto alle 185mila del 2012. La direzione che andrebbe presa «affinché l'apprendistato venisse più considerato dalle imprese è quella di sburocratizzarlo» sintetizza Silvestri, «soprattutto nelle versioni del primo e terzo tipo». Vale a dire quella per la qualifica e il diploma professionale e quella per l'alta formazione e la ricerca, le tipologie che prevedono l'alternanza tra i banchi di scuola o dell'università e il lavoro in azienda. Utilizzate poco o nulla, perché – evidenzia il rapporto Inapp – «oltre il 97 per cento dei rapporti di lavoro in apprendistato è di tipo professionalizzante», il secondo tipo, quello che non prevede nessun laccio con il mondo della scuola o accademico. Non a caso il rapporto indica anche che ben un quarto degli apprendisti risulta occupato nell'industria, il 21 per cento nel commercio al dettaglio e all'ingrosso e nell'autoriparazione, e infine il 17 per cento nell'alloggio e ristorazione.  «Il professionalizzante di fatto è un contratto di inserimento con la maggior parte della formazione on the job e, quindi» continua Silvestri, «più semplice da attuare e con molti meno vincoli». Dello stesso parere Granelli, per cui «l’apprendistato di primo livello sconta la presenza di un quadro regolatorio frammentato, oltre a oneri burocratici e economici tali da renderlo poco appetibile». Quello di alta formazione, «di nicchia per i suoi piccoli numeri», andrebbe comunque mantenuto «per il valore in termini di innovazione e competitività». E se si passasse a una unica tipologia? Per Granelli sarebbe «un errore perché le tre classi rispondono ognuna a finalità che concorrono a rafforzare la competitività e la produttività del sistema economico e, nel contempo, a sostenere l'occupazione». Ciò su cui si deve puntare è invece a «affiancare le imprese nell'investimento, con un contributo a copertura del costo dell'apprendista per l'apprendistato di primo livello, e con una decontribuzione totale per i primi tre anni di contratto per il professionalizzante». Non serve, a detta del presidente di Confartigianato, neppure un'altra riforma: si può semplificare la gestione del rapporto di lavoro nell'apprendistato di primo livello «partendo dall’impianto già esistente del Jobs Act». Se una riforma serve è quella «del sistema di orientamento, che guidi verso percorsi formativi che tengano conto delle prospettive occupazionali». La formazione professionale, prosegue Granelli, «rappresenta ancora una scelta residuale, per cui opta soltanto l’11,9 per cento degli studenti, a fronte del 57,8 per cento dei licei e del 30,3 per cento degli Istituti tecnici».C'è però da ben sperare. Il neopremier Mario Draghi parlando al Senato ha detto che «è stato stimato in circa 3 milioni, per il quinquennio 2019-23, il fabbisogno di diplomati di istituti tecnici nell'area digitale e ambientale». In più, fa presente Silvestri, «è scritto sui progetti di riforma legati al Recovery Plan che si potenzieranno gli Its e il sistema dell’alta formazione legata alle università». Allora sì che «l’apprendistato potrà trovare la sua giusta collocazione e rinascita».Ilaria Mariotti 

Uno stage da mille euro al mese al ministero, senza possibilità di assunzione: buona opportunità o trappola?

Un avviso di selezione del Ministero dei beni culturali per cercare quaranta tirocinanti sotto i trent'anni interessati al lavoro di archivio e digitalizzazione – la finestra per le candidature si è chiusa l'altroieri – ha evidenziato luci e ombre di un settore che la grave crisi ha messo in ginocchio, ma che tanto bene non stava neanche prima.«Nei fatti nulla di nuovo»: è netta Rosanna Carrieri, venticinque anni, portavoce dell’associazione Mi riconosci? Sono un professionista dei beni culturali che già a dicembre aveva pubblicato sul proprio sito un duro commento contro questa selezione. «È da anni che il Mibact continua a utilizzare selezioni di questo tipo chiedendo lavoratori specializzati e mascherando questo con bandi temporanei per giovani. Quest’ultimo, poi, è quasi inaccessibile perché si richiedono requisiti altissimi, una laurea di base in archivistica e poi punteggi aggiuntivi per contratti di ricerca, collaborazioni con il ministero, pubblicazioni. Un bando limitante perché è difficile, purtroppo, avere questa esperienza al di sotto dei ventinove anni. Nel piano di rilancio del ministero, poi, è prevista una forte digitalizzazione del sistema, ma nei fatti la si vuole fare sfruttando i 40 giovani che risponderanno all’avviso». Anche l’Associazione nazionale archeologi intravede luci e ombre su questa selezione: «Se da un lato è una formidabile occasione di formazione, con un rimborso spese non scandaloso per uno stage, e qui siamo nel campo delle luci, ci sono poi elementi che destano perplessità: perché il titolo di specializzazione, che è teoricamente più professionalizzante del dottorato, viene valutato meno di quest’ultimo che è un titolo accademico puro?» chiede Oriana Cerbone, quarant'anni, vice presidente nazionale dell'Ana con delega al lavoro e all'ufficio stampa. Sul fatto che si affidi il compito importante della digitalizzazione a uno stagista Carrieri precisa: «Più che un tirocinante sono richieste figure specializzate. Il ministero non lo dice, ma sta cercando dei lavoratori e si gioca a tappare i buchi con stagisti, lavoratori occasionali, senza assumere ma riempiendo i vuoti con impieghi per periodi limitati. Sul piano della digitalizzazione c’è molta confusione forse perché negli anni sono stati fatti dei piani poi rimasti nel cassetto». «Un tirocinante già pienamente formato dall’accademia – e questa è la figura richiesta – è sicuramente in grado di svolgere il compito della digitalizzazione, purché sia realmente supervisionato da personale esperto» pensa invece Cerbone. L’Associazione nazionale archeologi non vede necessariamente in questo bando l’offerta di un lavoro mascherato da stage: «Non riteniamo scandalosa la pratica del tirocinio formativo, purché non si esaurisca in questo la strategia del ministero per procedere nella digitalizzazione del patrimonio culturale». E sul perché il ministero riproponga un bando su cui la Corte dei Conti aveva già espresso forti perplessità nel 2016, ipotizza che ciò sia frutto di una “distrazione”: «Diversamente dovremmo pensare che qualcuno si sia convinto di poter agire in contrasto con l’indicazione degli organismi di controllo dello Stato».C'è anche chi giudica questo bando di tirocini positivamente. «Questo è un momento di grandissima difficoltà, in cui l’organico del ministero è sottodimensionato soprattutto in uffici che hanno una grandissima rilevanza per tutti noi qual è quello degli archivi. Fare i bandi è purtroppo lunghissimo, e il rischio è tenere chiusi gli archivi o non cominciare mai il lavoro di digitalizzazione: abbiamo tentato di adottare graduatorie di altre realtà, di fare delle proroghe per trovare degli archivisti, ma non ci siamo riusciti perché devono avere delle qualifiche molto alte» spiega Flavia Nardelli, deputata 74enne che oggi siede in Commissione Cultura alla Camera, già presidente di quella stessa Commissione e per oltre vent'anni segretaria generale dell’Istituto Luigi Sturzo. Nardelli precisa che non si tratta semplicemente di riprodurre in digitale un documento, ma di «metadatare: quindi il documento va studiato, vanno indicate le parole chiave, contestualizzate, un lavoro molto importante che rende gli archivi una straordinaria ricchezza, ecco perché si cercano persone con una qualifica molto alta. Ed ecco perché non mi scandalizzo» che per queste attività siano previsti degli stage: «Sono convinta che sono comunque delle esperienze straordinarie che si troverà poi il modo di utilizzare. Se fossi un giovane con quei requisiti confesso che parteciperei, perché sarebbero dentro una realtà che sta cambiando, un mondo importantissimo, perché gli archivi oggi hanno bisogno di personale ed è evidente che ora non riusciamo ad assumerli ma che un’esperienza del genere consentirà poi di essere avvantaggiati».Il riferimento è alle conoscenze che si apprendono direttamente sul campo, mettendo in pratica i compiti su cui in tanti hanno studiato o si sono specializzati, ma anche alla possibilità di riconoscere poi questa esperienza nei fatti «con un impegno da parte nostra a cercare di riconoscere dei crediti nei concorsi pubblici». Una prospettiva interessante, ma che non mette d'accordo tutti. L'Ana per esempio la giudica molto pericolosa: «Che la partecipazione allo stage di oggi costituisca titolo preferenziale in altri concorsi domani è un rischio. Dato che l'accesso al bando prevede una soglia a ventinove anni, se ciò avvenisse sfocerebbe in una discriminazione verso i professionisti ben formati già over trenta. Su questo le associazioni di categoria dovranno fare buona guardia».Rimane il nodo che il ministero stia ripetendo un bando che ha molte similitudini con un progetto già sviluppato nel 2013 e 2015 su cui addirittura la Corte dei Conti aveva espresso forti perplessità: «Abbiamo una domanda di lavoro pazzesca negli archivi e un’offerta di ragazzi preparatissimi, di grande competenza che non riescono a occupare quei posti di lavoro. Domanda e offerta di lavoro non si incontrano» commenta Nardelli: «O troviamo altre formule, magari facendo dei corsi concorsi, ma i bandi così come sono previsti dalla pubblica amministrazione sono lunghissimi, costano tanto, hanno dei contenziosi che si trascinano per anni, diventano un problema oggettivo», e aggiunge: «Siamo molto attenti alle carenze di organico in un settore delicatissimo come quello degli archivi. La storia è qualcosa che non possiamo eliminare dalle nostre vite, ma di fronte a questa carenza di personale, alle difficoltà per i tempi lunghi di bandire dei concorsi e all’urgenza di preparare persone che sappiano affrontare questi temi molto complessi di una metadatazione degli archivi, non mi sento di rimproverare questa procedura».In ogni caso questo tirocinio avrà la funzione di «insegnare un mestiere» e consentirà l’avvio di un percorso di digitalizzazione altrimenti rimandato. Flavia Nardelli sottolinea l’importanza che uno stage del genere può avere nella in una carriera lavorativa e quanto al fatto di reclutare stagisti mettendo nero su bianco di non avere intenzione – né possibilità – di assumerli risponde pragmaticamente: «Ho visto giovani fare stage di questo tipo con dei privati con condizioni meno limpide e meno trasparenti. Se il ministero in un momento di crisi del settore fa una cosa di questo tipo in modo trasparente lo trovo positivo e non negativo».Insomma il tirocinio da mille euro al mese è il massimo che il settore pubblico possa offrire, in questo momento. Perché alla fine, come spesso capita, il problema principale – specie nel settore culturale – è la mancanza di investimenti e finanziamenti. Per questo Rosanna Carrieri dell’associazione Mi riconosci? Sono un professionista dei beni culturali ricorda la loro proposta lanciata un anno fa: la costituzione di un sistema culturale nazionale che comporti una rivoluzione del settore. «Le istituzioni culturali sono essenziali perché generano benessere – perciò non andrebbero considerate come un costo ma come un aspetto fondamentale per la collettività. Ci dovrebbe essere maggiore apertura alla ricerca, alla valorizzazione del patrimonio culturale e tornare a internalizzare i lavoratori».Anche l’Associazione nazionale archeologi sottolinea la necessità di una sufficiente dotazione economica. «C’è bisogno di innovazione sia nella dotazione digitale che nei processi di messa a disposizione del pubblico degli strumenti cognitivi per godere del diritto alla fruizione del patrimonio culturale» indica Oriana Cerbone. «E del coinvolgimento di forze nuove e fresche, sia attraverso una più corposa dotazione di personale dipendente a tempo indeterminato, essenziale per programmare, sia attraverso il coinvolgimento intelligente delle forze del libero mercato».Un problema, quello della carenza di organico, che ricorre più volte nei ragionamenti di Flavia Nardelli: «Abbiamo bisogno di personale preparato e giovane che integri i dipendenti ormai ridotti con il tempo. Una carenza trasversale per tutto il ministero: musei, archivi, biblioteche: è un problema molto grande». Gli stagisti possono tamponarlo, per qualche tempo: ma non possono, verosimilmente, essere la soluzione.Marianna Lepore