AAA stagista vegano cercasi: quanto è legale chiedere dettagli personali ai colloqui?

Marianna Lepore

Marianna Lepore

Scritto il 15 Set 2017 in Approfondimenti

colloquio LAV recruiting selezione del personale stage

Si può selezionare un dipendente o uno stagista in base a caratteristiche che, almeno apparentemente, hanno poco a che fare con il ruolo da coprire in azienda? Se lo sono chiesti in tanti leggendo le polemiche che un annuncio di ricerca per uno stagista per sei mesi all’interno della Lega Anti Vivisezione italiana ha suscitato. Tra i requisiti: titolo preferenziale la scelta vegana. Un elemento discriminatorio? Il presidente della Lav, Gianluca Felicetti, in un’intervista si è difeso dicendo «l’annuncio rispetta in pieno la nostra filosofia del rispetto globale dei diritti degli animali», e aggiungendo che essere vegani è indispensabile per rappresentare l’associazione.

Eppure non è usuale ficcare il naso nelle abitudini alimentari di un candidato. La Repubblica degli Stagisti ha voluto fare chiarezza, e capire con certezza se una richiesta del genere da parte di un datore di lavoro sia legale oppure no. La risposta, lo anticipiamo, è: “probabilmente sì”.

«A livello normativo vige un principio ben chiaro di non discriminazione e di attuazione di una direttiva comunitaria per cui è vietata la discriminazione diretta e indiretta per varie questioni, tra cui le convinzioni personali. E io ritengo che la scelta vegana possa chiaramente rientrare tra le convinzioni personali» spiega alla Repubblica degli Stagisti Chiara Vannoni, avvocata presso lo studio legale Rosiello di Milano.

La normativa prevede delle deroghe, ma queste vanno calate nell’attività da svolge
re. «Se ho un locale notturno e tra i requisiti chiedo la conoscenza di una determinata tecnica di difesa allora non è una discriminazione, perché è in relazione all’attività che dovrò far svolgere» continua Vannoni: «La Lav chiede che la scelta vegana sia condivisa, ma è ovvio che bisogna capire che tipo di attività svolgerà il dipendente. Ad esempio, se starà dietro una scrivania, il fatto che non sia vegano ma solo vegetariano non vedo come possa influire nelle mansioni che andrà a svolgere».

È d'accordo anche Francesco Bacchini, docente di diritto del lavoro presso l’università Bicocca di Milano: «Sarebbe stato diverso se avessero fatto lo stage per trovare un addetto al centro di elaborazione dati. Lì non dovrebbe interessare a nessuno se sei vegano: dovresti poter mangiare... anche la marmotta!», scherza.


Bacchini richiama alcuni riferimenti importanti per capire di cosa si stia parlando:
l’articolo 20 della Carta dei diritti fondamentali dell’unione europea, l’articolo 3 della Costituzione italiana, l’articolo 15 dello Statuto dei lavoratori e il decreto legislativo 216 del 2003, «che è quello relativo all’attuazione della direttiva europea sulla parità di trattamento in materia di disoccupazione e delle condizioni di lavoro». Nell’ordinamento italiano ed europeo «vige il principio del divieto di discriminazione su una serie di elementi fondamentali a tutela della persona tra cui il sesso, il genere, l’età, l’appartenenza politica e le convinzioni personali. Sulle prime dunque la richiesta della scelta vegana sembrerebbe discriminatoria».

Anche se i riferimenti normativi citati si applicano a un rapporto di lavoro, mentre lo stage non lo è, rientra comunque nelle condizioni di assunzione e selezione. «Quando viene proposto uno stage, essendo questa proposta finalizzata a selezionare e quindi avere più
chance di assunzione, essa rientra nel campo di applicazione del decreto 216 del 2003. E quindi deve rispettare le regole sancite per un accesso al mondo dell’occupazione in modo non discriminatorio. Quindi le proposte devono rispettare la parità di trattamento indipendentemente da sesso, religione, età e convinzioni personali. E la scelta vegana è chiaramente una convinzione personale».

C’è poi da analizzare la risposta data dal presidente Lav, secondo cui chi
vuole lavorare per loro deve condividere appieno le loro convinzioni. È ammissibile? «Il decreto 216 esclude la discriminatorietà di determinati elementi quando questi sono imprescindibili per la natura dell’attività lavorativa o per il contesto in cui è esplicata. Però la norma al comma 3 dell’articolo 3 ribadisce che devono essere rispettati i principi di proporzionalità e ragionevolezza». Quindi? «Il dubbio che il requisito della Lav non sia ragionevole e proporzionale in relazione al fatto che le attività svolte da Lav possono essere legittimamente perseguite anche da chi vuole bene agli animali ma non è vegano, c’è. Ma la scelta di dire che costituisce titolo preferenziale ma non sostanziale mi fa propendere per una previsione che tutto sommato, al di là dei dubbi proprio sul principio di proporzionalità e ragionevolezza, non ci sia una chiara e sicura discriminazione».

Molto più “light” sarebbe stata la questione se l’annuncio avesse esplicitato solo il divieto di consumare alimenti non vegani nella sede di lavoro.
«Sarebbe stata una questione riguardante le regole interne dell’ufficio» commenta l’avvocato Vannoni, «e lì non vedo grandi ostacoli».

E a proposito del requisito del veganesimo Bacchini sottolinea come oggi «la discriminazione nella selezione è uno dei punti più delicati dell’intera disciplina discriminatoria collegata al lavoro, proprio perché si pone in un momento in cui si viene scelti o respinti nella ricerca di un lavoro. Un soggetto assunto non è obbligato ad essere socio e può non aderire alla filosofia della onlus. Però, ricordiamo che il legislatore proprio nel decreto 216 del 2003 ha indicato che ci possono essere secondi principi di ragionevolezza delle situazioni nelle quali la prestazione del lavoro necessita dell’adesione alla filosofia dell’organizzazione. Direi anche in questo caso senza il bisogno di diventare soci della onlus. Secondo me ci può stare, è chiaro che si può aver a cuore la protezione e il rispetto degli animali senza essere necessariamente vegani».

Stesso discorso, secondo l’avvocata Vannoni e il professor Bacchini, se il caso avesse per esempio riguardato un’associazione religiosa che avesse messo come titolo preferenziale l’appartenere a quella religione, o
un’associazione lgbt che avesse esplicitato una preferenza per candidati omosessuali. Vannoni però precisa un punto: «Il datore di lavoro si basa su quello che io dichiaro, e quindi queste richieste lasciano il tempo che trovano. Come posso dimostrare di essere vegano? Lo dico ma magari non è così. È ovvio che il rapporto di buona fede e correttezza è alla base, ma sono principi talmente evanescenti che la prova diventa intangibile».

Bacchini fa notare, peraltro, come la Lav abbia intelligentemente inserito
il veganesimo tra i titoli preferenziali ma non esclusivi , così da mettersi «al riparo da una evidente violazione delle regole antidiscriminatorie dell’accesso al posto di lavoro».

Ma se un datore di lavoro può inserire in un annuncio la richiesta di requisiti così personali, come si garantisce il rispetto dell’articolo 8 dello statuto dei lavoratori?
«A rapporto di lavoro già stipulato le tutele sono decisamente più forti. Pensiamo ai primi clamorosi casi di licenziamento nelle scuole cattoliche confessionali o ai casi dei docenti dell’università cattolica del Sacro Cuore che diventati protestanti sono stati costretti ad andarsene
». Ancora una volta torna lo stesso concetto: «Il problema si pone in relazione a che tipo di mansioni svolgi. Se per quelle mansioni è necessario che tu aderisca e trasmetta l’ideologia, allora la discriminazione è legittima. Altrimenti non lo è».

La sottile linea che stabilisce la differenza qual è? «La deroga, non solo nostra ma europea, intende trovare un equilibrio difficile tra il divieto di discriminare e le caratteristiche intrinseche manifestate palesemente dalle organizzazioni. Una onlus di protezione di animali non è così evidente che possa stabilire un requisito come quello del veganesimo» continua il suo ragionamento Bacchini: «Se fosse stata l’associazione nazionale vegani d’Italia non avrei avuto nessuna remora nel dire che poteva starci. Ma qui qualche dubbio ce l’ho. E anche loro ce l’hanno, perché dire “titolo preferenziale” significa evitare che qualcuno dica che è discriminatorio. Bisogna poi chiedersi se in uno stage di sei mesi un requisito preferenziale è essere vegani».

Anche l’avvocata Vannoni ricorda che affianco all’articolo 8 dello Statuto dei lavoratori oggi ci sono tutta una serie di altre norme di derivazione comunitaria il cui impianto discriminatorio è particolarmente significativo. «L’Unione europea è molto attenta alla questione delle discriminazioni. E a prescindere dalla Lav, purtroppo capita ancora spesso di avere situazioni in cui il datore di lavoro faccia le famose indagini preassuntive, nella stragrande maggioranza dei casi con richieste a donne in età fertile di dichiarare di non essere incinta al momento dell’assunzione».

Un datore di lavoro fino a che punto può indagare sulle abitudini personali di un potenziale dipendente? «Può farlo se le mie abitudini e inclinazioni di vita hanno una qualche forma di ripercussione nel mondo del lavoro e allora può verificare se c’è una interferenza. Altrimenti no» spiega Vannoni. Ma il grado di libertà nella scelta di un dipendente è ancora abbastanza ampio. «Gli annunci di lavoro devono essere rivolti a entrambi i sessi, ma per il resto la valutazione è sempre discrezionale. A parità di candidati, perché venga scelto un uomo e non una donna... è sempre discrezionale».


Anche l’età, ad esempio, non andrebbe chiesta.
«Posso indicarla se è congrua al tipo di conttratto che ti propongo, per esempio l’apprendistato fino a 29 anni. Ma se devo assumere con contratto di lavoro subordinato normale, allora già quella richiesta diventa discriminatoria. La lettura dei limiti è estremamente significativa», spiega Bacchini.


Le abitudini e le caratteristiche personali, secondo Vannoni, semplicemente non si chiedono. «Non si inseriscono tra i requisiti perché la persona deve portare la sua esperienza, competenza e capacità. La ricerca del personale dovrebbe operare nelle scelte di merito rispetto alle capacità della persona. E anche chiedere esperienze mirabolanti per degli stage è un segno parossistico. Lo stage dovrebbe essere rivolto alla formazione di una persona».


Marianna Lepore

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