Specchio specchio delle mie brame, qual è l'ateneo migliore di tutto il reame?

Giada Scotto

Giada Scotto

Scritto il 23 Ago 2017 in Approfondimenti

#attendibilità #classifiche #università

Siamo ormai a metà estate e, come ogni anno, sono iniziate a uscire le prime note quanto criticate classifiche che valutano gli atenei al fine di stilare una graduatoria che elegga i migliori e i peggiori per l’anno accademico appena trascorso. Uno strumento che nasce con l’intento di fornire agli studenti e alle loro famiglie un canale d’orientamento nella scelta del corso di studi più adatto e al quale viene data sempre più rilevanza, non tanto però – sembra – da parte dei giovani, quanto piuttosto dalle agenzie che se ne occupano e dalle università stesse.

«L’utilizzo delle classifiche da parte degli studenti è limitato, se si tiene anche conto che la mobilità territoriale in Italia per motivi di studio è contenuta» conferma alla Repubblica degli Stagisti Ferruccio Biolcati Rinaldi, docente di Sociologia generale all’università di Milano, che qualche anno fa ha preso parte a uno studio proprio sui ranking universitari: «A consultare maggiormente queste classifiche sono gli studenti che provengono da famiglie di ceto sociale medio-alto, che hanno quindi probabilmente già esperienza del sistema accademico – perché qualcuno in famiglia è già laureato – e possono sfruttare l’insieme delle proprie relazioni sociali per ottenere informazioni di prima mano. Gli studenti provenienti dai ceti medio-bassi, che sono più poveri di informazioni, sono invece quelli che meno le consultano». Non si può dire certo la stessa cosa degli atenei che ottengono un buon piazzamento, i quali si affrettano a rendere noti i risultati delle classifiche pubblicandoli sulle home page dei propri siti.

Ma quali sono e, soprattutto, quanto è lecito fidarsi di tali graduatorie, affidando ai loro risultati una scelta così importante come quella dell’università? Secondo Biolcati la cosa migliore è «utilizzarle con consapevolezza, cercando di capire cosa stanno classificando – università nel loro complesso, dipartimenti, facoltà ecc. – e su quali parametri si basa la classifica nell’ambito della ricerca e/o didattica, considerandone l’estensione territoriale – più è ampia più si rischia di confrontare situazioni molto diverse – e tenendone presente sia il ranking, cioè la posizione in classifica, sia il rating, il punteggio ottenuto, poiché spesso le differenti posizioni in classifica enfatizzano differenze di punteggio anche minimali».

L’universo delle classifiche si mostra in effetti molto articolato. Se, per quanto riguarda l’Italia, se ne possono contare tre, all’estero il numero sale notevolmente, offrendo ai giovani un panorama di risultati ampio ma spesso così diversificato da indurre in confusione.

Le classifiche italiane di riferimento sono quelle stilate da Censis, istituto di ricerca socio-economica che opera prevalentemente su incarico di enti pubblici, Il Sole24Ore, società privata che stila da vari anni una propria graduatoria, e Anvur, l’Agenzia nazionale pubblica di valutazione del sistema universitario e della ricerca la cui classifica (che prende in analisi la ricerca nelle università per cicli di 4 anni) è utilizzata dal Miur per stabilire la quota di finanziamenti da destinare a ciascun ateneo.

A saltare all’occhio, non appena si prova a confrontare le graduatorie 2016 di Censis e Il Sole24Ore e la VQR 2011-2014 di Anvur, è la grande differenza nel posizionamento degli atenei, soprattutto per quanto riguarda Il Sole24Ore. Fatta eccezione, infatti, per le università di Padova e Bologna, che occupano le prime posizioni in tutte e tre le classifiche guadagnandosi un riconoscimento condiviso, le università premiate da Censis e Anvur come quelle di Firenze, Torino e Milano, si trovano in gran parte, nella graduatoria de Il Sole24Ore, oltre il 15esimo posto. A occupare la testa della classifica del quotidiano economico è invece l’università di Verona, assente nella top 5 di Censis e Anvur così come nella parte alta delle classifiche internazionali.

Differenze del genere possono a prima vista sorprendere. Ma tutto appare più chiaro se si dà un’occhiata alla metodologia e ai parametri valutativi scelti da ciascuna agenzia: la classifica Censis valuta infatti gli atenei dopo averli suddivisi in base alla dimensione – mega, grandi, medi e piccoli – e allo “status” statali, politecnici, non statali –, mentre Anvur propone una graduatoria specifica per aree di ricerca.

Il Sole24Ore, infine, pubblica un’unica classifica per tutte le università, distinguendo solamente tra statali e non statali. Se già questo lascia intuire la difficoltà nel raffrontare le graduatorie, la distanza nei parametri adottati sancisce chiaramente la loro incomparabilità: si passa infatti da criteri come il «giudizio dei laureandi sui corsi di studio», preso in considerazione da Il Sole24Ore, alla «funzionalità dei siti web d’ateneo» del Censis, per terminare con la bibliometria anvuriana che valuta l’«impatto» della ricerca in base alla rilevanza della rivista di pubblicazione.

Il panorama che si trova davanti uno studente alle prese con la scelta dell’università è dunque già abbastanza vario in base alle classifiche nazionali, e le cose non migliorano spostando lo sguardo su quelle internazionali: la speranza è infatti quella di chiarirsi le idee sembra destinata a rimanere delusa.

Le principali classifiche a livello internazionale sono cinque: la più nota è forse l’Arwu stilata dall’università di Shanghai, seguita da QS, pubblicata dalla compagnia inglese specializzata in educazione Quacquarelli Symonds, Times Higher Education – settimanale britannico che si occupa di istruzione superiore –, Cwur che è un Centro di studi per le classifiche universitarie mondiali con sede negli Emirati Arabi Uniti, e l’ultima arrivata U-Multirank, istituita dalla Commissione Europea e finanziata dal programma Erasmus+.

I risultati sono anche qui contrastanti e le poche conclusioni tratte dalle classifiche italiane vanno a scontrarsi con risultati internazionali per la maggior parte differenti. Le sole “certezze” restano l’università di Padova e l’Alma Mater di Bologna, che si piazzano tra le prime università italiane in 4 classifiche su 5.

Neanche loro, però, sembrano riuscire a “metter tutti d’accordo”
: nessuna delle due rientra infatti neanche nella top 10 di U-Multirank, la cui graduatoria risulta in molti casi, data la metodologia utilizzata, molto distante dalle altre: la classifica europea prevede infatti che, qualora non sia possibile per un’università valutare uno dei parametri considerati, essa venga automaticamente declassata all’interno della classifica generale. Ciò conduce a una differenza con le altre graduatorie che non può non dare da pensare, visto che questa classifica è nata proprio con l’intento di contrastare le critiche rivolte alle altre proponendo criteri – come la percentuale dei laureati, il tempo per completare il percorso di studi e l’occupazione dei laureati nella regione in cui si trova l’università – che accertino le effettive condizioni di vita e di studio degli studenti. Viene dunque da chiedersi a chi dare ragione.

Le differenze proseguono infatti su tanti nomi.
Ad ottenere un buon piazzamento in tutte le graduatorie internazionali tranne che in quella di U-Multirank sono sia l’università La Sapienza di Roma che la Statale di Milano; riesce invece a strappare una buona posizione in tutte le classifiche, compresa U-Multirank - dove è al terzo posto -, il Politecnico di Milano, che subisce tuttavia in quest'ultima l’inaspettato sorpasso del Politecnico di Bari, assente nella top 10 di tutte le classifiche e ultimo nella sezione “Politecnici” del Censis.

A scatenare anche qui l’enigma delle incongruenze nei risultati sono i parametri adottati: emblematico il caso Arwu, che affida il 30% della valutazione degli atenei alla «qualità dell’educazione» misurata in base al numero di premi Nobel e medaglie Fields vinti da allievi ed ex-allievi anche decenni fa.  Per QS, invece, il 40% della valutazione complessiva è data dalla «reputazione accademica» ottenuta tramite l’interrogazione di specialisti. Anche Times inserisce tra i criteri la «reputazione», ma il risultato finale è diverso da quello di QS proprio in virtù dei differenti pareri venuti dagli specialisti interrogati.

Su quale fare più affidamento, dunque? Se è vero che parametri come l’opinione degli specialisti sono soggettivi e parzialmente verificabili, siamo sicuri che gli oggettivi premi Nobel e medaglie Fields siano realmente i migliori criteri da prendere in considerazione per valutare un’università? Forse, per uno studente disorientato, sarebbe più importante vedere la qualità dell’insegnamento, le possibilità di occupazione e l’internazionalizzazione.

Eppure queste classifiche continuano a moltiplicarsi e a suscitare interesse, sollevando così il dubbio che nascondano altri vantaggi.  «Si tratta di benefici molto diversi, impossibili da confrontare»
sostiene Biolcati: «Le università che ottengono dei buoni piazzamenti possono derivarne certamente grandi vantaggi economici, anche se qui la questione è il peso che la politica dà a questi strumenti di valutazione e come decide di applicarli. Anche le imprese private coinvolte in questo tipo di operazioni cercano ovviamente di trarne un vantaggio economico, come dimostra anche il fatto che spesso le classifiche sono solo un pezzo di una più ampia offerta di servizi nel campo dell’higher education. Tuttavia si spera che anche gli studenti possano trarre vantaggio da questa offerta di informazioni. L’importante è che non si creino collusioni a danno di qualcuno degli attori coinvolti, e su questo deve vigilare prima di tutto la comunità accademica nel suo complesso».

Giada Scotto

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