Chiara Del Priore
Scritto il 09 Dic 2019 in Approfondimenti
lavoro libri mondo del lavoro università e lavoro
Non si considera uno scrittore, più un «cantastorie» e il suo non è tanto un libro, quanto piuttosto un «bigino». Già dalle prime risposte si comprende come Jobber, uscito lo scorso giugno per la casa Educationflow, e il suo autore Matteo Fini si stiano già ritagliando un posto a sé nel mondo dell’editoria, in particolare quella che parla di lavoro.
Fini ha quarantuno anni, e alle spalle esperienze nel mondo dell’università e delle aziende. Oggi si occupa di formazione e risorse umane e gestisce una realtà chiamata Flowbox, che fa formazione e consulenza per professionisti.
Jobber più che un libro è, come lo definisce lo stesso autore, un non-libro, che nasce «perché sono matto. È il mio terzo libro pop, dopo «Università e puttane» [casa editrice Priuli e Verlucca] e «Non è un paese per bamboccioni» [Cairo Publishing], escludendo i libri accademici, ma non mi considero uno scrittore: sono più un cantastorie. Io racconto quello che vedo e vivo. È sempre stato così per tutti i miei libri. Elaboro a modo mio e regalo al lettore delle storie e degli spunti, poi ognuno ci vede quello che vuole. Infatti anche Jobber nasce da quello che ho visto e vissuto in tanti anni nel mondo del lavoro e delle aziende, rielaborato in modo che faccia sorridere, pensare, incavolare.... in un commento uno ha scritto che è un “Fantozzi moderno” e per me che sono cresciuto nel mito di Villaggio è solo un onore, quasi blasfemo!», racconta.
E infatti, leggendo le prime pagine del libro risulta subito chiaro al lettore quale delle due strade verrà battuta tra riflessione e rabbia: Jobber è assimilabile a un aforismario, con pagine di riflessioni che, a ben vedere, avrebbero potuto essere sintetizzate in almeno la metà dello spazio.
Da qui si comprende perché Fini lo definisce un non-libro: «Jobber è un libro di spunti. Però ogni spunto aveva bisogno di un suo spazio e di una sua dignità. Mi piaceva l’idea del bigino, del manabile, quasi del rosario... volevo che fosse bello. Bello da leggere ma anche da tenere sul comodino. Per questo ha il formato di un libro vero, ha una copertina con un’illustrazione originale del grande Daniele Mantellato e ha una storia. È come un libro di poesie. Inizialmente pensavo di venderlo a tre euro, proprio perché sono poche pagine e poche parole». In effetti, solo centotrenta pagine: «Però poi ho pensato che ogni forma d’arte ha una sua dignità che non ha nulla a che vedere con la lunghezza o la durata. E allora ho deciso di dargli un costo da libro vero. Non è che November Rain dei Guns ‘n’ Roses costa più di Imagine dei Beatles perché dura nove minuti anziché tre. Sono entrambe fuori a 0,99 su Spotify poi ognuno gode come vuole. Jobber è come andare al cinema. Spendi nove euro, leggi, poi se non ti piace è come aver visto un brutto film. Capita. Ma per ora per fortuna non è capitato tanto!».
Sfogliando le pagine si susseguono massime che potrebbero essere prese dalla vita lavorativa di ciascuno di noi. Si può intravedere il collega o il proprio capo nei personaggi di cui si (s)parla in modo sempre ironico, spesso addirittura sarcastico, ad esempio, l'abitudine di restare fino a tardi in ufficio o di riempire discorsi e presentazioni di inglesismi. L’impressione è quella di una presa di distanza da due mondi, l’università e le aziende, di cui l’autore ha fatto e continua a fare parte. «Io scrivo quello che vedo. E se vivi il mondo accademico o quello aziendale non puoi evitare di parlare di certi costumi e certe usanze davvero intollerabili. Io racconto, poi ognuno si fa la propria idea».
Ma come si fa a trovare una strada e a innescare processi positivi? «Investendo sulle persone. Sullo studio, la competenza. Valorizzando le storie personali e uscendo dalle logiche incellofanate, impolverate e impomatate e tremendamente lente tipiche della piccola media impresa italiana che tutto omologa e livella verso il basso».
Per i più scettici qualche spiraglio, alla fine, c’è: «Le eccezioni esistono, come in tutte le cose. Ma quando ho scritto Jobber ero sicuro che tutti rivedessero se stessi e che soprattutto rivedessero il proprio collega o il proprio capo, specie come protagonista negativo. Ma del resto il bello è che, parafrasando Eminem, “There’s a Jobber in all of us”».
Chiara Del Priore
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