Categoria: Storie

"Io Lavoro", la job fair di Torino: ottima per chi cerca lavori manuali, ma poco utile per i laureati

Gianni e Luca hanno 27 anni e sono entrambi laureati in architettura al Politecnico di Torino. Come tanti coetanei, faticano a trovare un impiego: solo lavoretti sporadici, utili a mettere da parte qualche spicciolo, ma lontani anni luce dal loro percorso di studi. Eppure hanno dei curriculum ben fatti: in formato europeo, la foto in alto, curati dal punto di vista grafico. Quando hanno deciso di trascorrere il pomeriggio a "Io Lavoro", la fiera organizzata qualche giorni fa al Lingotto di Torino, giunta alla diciottesima edizione, ne hanno stampati una decina ciascuno, da lasciare a eventuali aziende interessanti e, soprattutto, interessate ai loro profili. Peccato che dopo un'ora trascorsa a girare fra gli stand, i cv dentro la cartellina siano sempre gli stessi. «Qui per noi non c'è nulla» confessano scoraggiati alla Repubblica degli Stagisti: «La maggior parte delle offerte riguarda altri settori, credevamo ci fossero agenzie diverse, queste non ci servono». In effetti, basta guardarsi intorno per capire che la maggior parte degli stand offre colloqui ad aspiranti animatori, estetisti, parrucchieri. O a soggetti interessati alla ristorazione, con decine di annunci rivolti a baristi, camerieri, cuochi, addetti alla cassa. La sensazione è che per tanti laureati non ci sia molto. Forse questa fiera non è pensata per loro o, più probabilmente, le aziende interessate ai cosiddetti "alti profili" preferiscono utilizzare canali diversi per la selezione. «Dopo aver consegnato il curriculum ho parlato delle mie esperienze, di quello che mi piacerebbe fare, dei miei interessi, speriamo vada bene» dice Mario, 33 anni, originario del sud Italia, laureatosi anche lui al Politecnico. Ad ascoltarlo sono due ragazze più giovani di lui, neolaureate. Si dicono tutti sorpresi - e in effetti è sorprendente - dalla giovane età di chi ha il compito di scegliere. Mario è ingegnere e quando è arrivato a Torino credeva che con una laurea al "Poli" non ci sarebbe stato nessun problema a trovare lavoro. Purtroppo per lui fino ad oggi le cose non sono andata così bene. Una fila lunghissima attira l'attenzione, è lo stand dell'Ascom Torino. I cartelli incollati con lo scotch ai pannelli che formano la struttura mostrano annunci, anche in questo caso, per baristi, camerieri, segretarie. «Ho fatto il barman per tre anni, poi il locale ha chiuso e sono rimasto disoccupato» racconta Lorenzo, 32 anni, della provincia di Torino. «Con i clienti me la cavo bene e conosco il mio mestiere, spero di trovare qualcosa. A mio parere il Salone è utile, soprattutto per chi cerca lavori dove conta la manualità. Inviare un curriculum a bar e ristoranti non serve, meglio andare di persona. Qui ci sono molti datori di lavoro, alcuni importanti, si risparmia molto tempo, in un pomeriggio fai tutto». A fare la coda insieme a lui c'è la fidanzata, impiegata in un negozio di abbigliamento come commessa. «Sono venuta anch'io, magari trovo qualcosa, mi piacerebbe lavorare con i trucchi, ne capisco di makeup». L'ultima edizione di "Io Lavoro" prima di questa di fine marzo si era tenuta lo scorso novembre al Pala Alpitour, e per gli organizzatori era stato un grande successo: più di 10mila partecipanti, 15mila colloqui offerti e un candidato su quattro che ha trovato una qualche forma di impiego. Molti nelle agenzie di animazione, che adesso in vista dell'estate offrono lavori stagionali a giovani profili. Questa dunque potrebbe rivelarsi una buona occasione per Paola, che si è diplomata l'anno scorso e ora è disoccupata. «Mi piacciono i bambini, potrei lavorare nei mini club dei villaggi turistici e magari fare anche un po' di vacanza». Sono davvero tanti in fila nell'area dedicata all'animazione. Chi esamina i candidati ha solo qualche anno in più e indossa magliette colorate. Quando Paola termina il colloquio sembra soddisfatta. «Credo sia andata bene, oltre a vedere il mio curriculum, mi hanno chiesto cosa mi piace fare, che tipo sono. Magari non è il lavoro della mia vita, ma sarebbe comunque una buona soluzione, l'importante è non stare fermi». Che l'animazione a "Io Lavoro" vada forte lo dimostrano i numeri della vigilia. I profili ricercati in questo settore, infatti, sono più di 6mila su 8mila opportunità di impiego complessive offerte dalla fiera. Un dato significativo che fa riflettere e che, in qualche modo, fotografa la situazione lavorativa del nostro Paese, sempre più frammentaria, incerta, da vivere alla giornata.  "Io Lavoro" per tanti va bene, è comunque un evento gratuito (nessun biglietto d'ingresso, basta iscriversi), mentre per altri non è utile perché taglia fuori alcuni mestieri importanti, come i due giovani architetti, o l'ingegnere. Rimane comunque una possibilità. Provare non costa niente e per l'esercito dei giovani in cerca di occupazione è comunque un tentativo.

Lezioni di stage dal Libano: «Si fa solo durante lo studio ed è pagato»

Per raccontare «dal di dentro» l'iniziativa del Bollino OK Stage, attraverso cui la Repubblica degli Stagisti incentiva le imprese a garantire ai giovani percorsi "protetti" e di qualità secondo i principi della Carta dei diritti dello stagista, la redazione raccoglie le testimonianze degli ex stagisti delle aziende che hanno aderito all'RdS network. Di seguito quella di Mohamad Ghaddar, libanese, oggi consulente SAP per Indra a Roma.Ho 29 anni e sono nato e cresciuto in Libano, a El Ghazieh. Ho frequentato una scuola superiore ad indirizzo socio economico e al termine, nel 2003, mi sono iscritto alla facoltà di Economia dell'università del Libano. Al terzo ed ultimo anno ho svolto due stage consecutivi, per un totale di tre mesi, occupandomi in entrambi i casi di accounting. Il primo, pagato e con il riconoscimento di crediti formativi, l'ho fatto in una banca, tramite l’università. Il secondo, di due mesi, invece è stata una mia iniziativa: sono stato ospitato in un’azienda di generatori per lavorare ai bilanci d’azienda e ai pagamenti dei fornitori, stavolta senza crediti ma sempre con un rimborso. La somma varia: trattandosi di studenti, alcune aziende rimborsano solo le spese di trasporto, altre invece corrispondono una cifra che va dai 200 ai 400 euro. A luglio 2007 ho ottenuto l'equivalente della laurea triennale italiana e ho subito trovato lavoro. Prima in una ong inglese con una sede nel sud del Libano, dove traducevo conversazioni e testi dall'arabo all'inglese e viceversa, stilavo report e gestivo la documentazione; il tutto per circa 800 euro al mese. Poi dopo un anno ho cambiato e sono passato al ruolo di sales associate in un'altra azienda di generatori, occupandomi di intermediazione acquisti-vendita, relazioni con clienti e fornitori, fatturazione... E dopo un altro anno ancora eccomi al terzo lavoro, stavolta come Research Analyst in una multinazionale di financial news and analysis, dove sono rimasto per tre anni. A differenza dell’Italia, il percorso lavorativo dei giovani libanesi non inizia con uno stage. Lo stage si fa solo durante lo studio per acquisire esperienza e crediti formativi. Si comincia subito con un contratto di lavoro, di solito dopo tre mesi di prova. Rimane vero però che il mercato del lavoro in Libano è piccolo e competitivo, e con la crisi molti laureati hanno iniziato a guardare al Golfo Persico, e oltre.Nonostante il lavoro andasse bene, dopo cinque anni ho preso una decisione importante: riprendere gli studi, e farlo all'estero, con la rassicurazione che il mio posto in azienda sarebbe stato ancora disponibile una volta laureato. A  settembre 2012 quindi mi sono trasferito in Italia e ho iniziato un MBA a Roma Tor Vergata - uno dei pochi che prevedeva lo svolgimento dei corsi in inglese. Tornare all’università, per di più in un Paese straniero, è stato un po’ uno shock, ma piano piano ho preso il ritmo, ho migliorato l'italiano e mi sono integrato al nuovo contesto. Tra i due sistemi universitari ci sono comunque grosse differenze: le università italiane sono molto focalizzate sulla teoria rispetto alla pratica, invece in quelle libanesi c'è più equilibrio, per questo lo stage è obbligatorio durante lo studio. Poi l'interesse principale degli studenti italiani è il voto: ripeterebbero un esame più di due volte, anche copiando, solo per avere un voto più alto. E il fatto che possono riprovarci finché vogliono, anche solo per migliorare il voto, secondo me rende meno oggettivo il sistema di valutazione. In Libano invece lo studente ripete l’esame solo nel caso in cui non l’ha passato, e non può rifiutare il voto. Né ci sono, in tema di diritto allo studio, agevolazioni su alloggio e mensa universitaria come in Italia, che ho trovato di grande aiuto.    Il mio primo e unico stage italiano è arrivato nell'ultimo semestre del master, a febbraio 2014, quando l'università mi ha proposto di candidarmi per una posizione semestrale in area consulting a Roma, presso Indra, multinazionale di consulenza e servizi tecnologici alle aziende. Dopo un paio di settimane dall'invio del cv sono stato contattato per un primo colloquio, in ateneo, poi per un secondo più approfondito in sede. Ho ricevuto la risposta definitiva a metà aprile e il 12 maggio ho iniziato lo stage come SAP consultant, con un rimborso di 500 euro netti al mese e buoni pasto. Ho lavorato su progetti internazionali per gruppi italiani occupandomi principalmente del modulo di cost control di SAP, all'inizio con un po' di difficoltà legate alla lingua, ma tutti si sono dimostrati molto pazienti nelle spiegazioni. Intanto portavo avanti anche il master, che poi ho concluso a ottobre 2014, un mese prima che finisse anche lo stage.Non ero sicuro cosa aspettarmi dopo, ma quando mi è stato proposto un contratto di apprendistato di tre anni  ho accettato volentieri [l'80% degli stagisti Indra viene assunto al termine dello stage, ndr]: avrei continuato a lavorare in un'azienda che permette di crescere, con un buon clima di lavoro e con uno stipendio di 1600 euro lordi più buoni pasto, che mi consente di essere del tutto autonomo – divido un appartamento non lontano dalla metro con altri due lavoratori.  Vista la buona possibilità che mi è stata data, per il momento non ho intenzione di lasciare l’Italia: aspiro a continuare il mio percorso di consulente e spero un giorno di ricoprire la qualifica di Project manager. Insomma, non sapendo molto di come si svolge uno stage in Italia, ma giudicando solo la mia esperienza, per me l'ingresso nel mondo del lavoro è stato del tutto indolore.Testimonianza raccolta da Annalisa Di Palo   

«In Svezia per lo Sve ho scoperto il mio spirito di adattamento: se ora non trovo lavoro in Italia, ripartirò senza paura»

La Repubblica degli Stagisti prosegue la rubrica sullo Sve, con l'obiettivo di raccogliere e far conoscere le esperienze dei giovani italiani che hanno svolto il Servizio volontario europeo, una particolare - e ancora poca conosciuta - opportunità offerta dal programma europeo Erasmus+ ai giovani tra i 17 e i 30 anni. Grazie allo Sve, che copre i costi di viaggio, vitto, alloggio e garantisce un “pocket money” mensile per le spese personali, è possibile svolgere un'attività di volontariato, per un periodo dai 2 ai 12 mesi, in uno dei Paesi dell’Unione europea o in altri Paesi del mondo che hanno aderito al programma. Sono molti i settori nei quali i giovani possono impegnarsi: arte, sport, ambiente, cultura, assistenza sociale, comunicazione, cooperazione allo sviluppo e altri ancora. Per partire - dopo essersi candidati al progetto - è necessario avere un’organizzazione di invio in Italia (sending organization) e una di accoglienza nel Paese ospitante (hosting organization). Per avere maggiori informazioni sul Servizio volontario europeo, consigliamo di leggere la sezione dedicata dell’Agenzia nazionale per i giovani. Ecco la storia di Antonella Fasana.Ho 29 anni e sono di Rivarolo Canavese, in provincia di Torino. Dopo la maturità linguistica mi sono laureata nel 2009 in Scienze del Turismo e poi ho frequentato sempre all’università di Torino un master di primo livello in "Viaggi Mediterranei. Itinerari turistici, comunicazione e culture", che ho concluso nel 2010. Ho fatto la pendolare per tutto il percorso di studi e ho sempre lavorato. Già al liceo sono stata istruttrice di nuoto nella piscina del mio Comune e poi durante l’università ho cominciato a fare la babysitter, a dare ripetizioni di inglese e francese e a lavorare nei weekend come hostess per eventi e promoter nei centri commerciali.A gennaio del 2010, approfittando del fatto che il master era quasi finito e non dovevo più andare a lezione, ho iniziato il Servizio civile nazionale all’Acli provinciale di Torino. Per un anno sono stata impegnata nel progetto "Fusi Orari 2" , che coinvolgeva donne straniere immigrate, organizzando momenti di incontro e gite, offrendo supporto alla segreteria Acli per le pratiche burocratiche e la consulenza sul lavoro.Il Servizio civile si è poi trasformato in una collaborazione part-time durata due anni, attraverso la stipula di tre contratti: fino a dicembre 2012 sono stata la segretaria del Centro turistico Acli di Torino. Non ho solo svolto mansioni di segreteria, ma ho organizzato e promosso attività turistiche, facendo anche da accompagnatrice durante le gite. Inoltre ho dato supporto linguistico e logistico per la dodicesima edizione dei Campionati mondiali Fska di karate, che nel 2011 sono stati organizzati a Torino dall’Unione sportiva Acli. Mi sono trovata molto bene, all’Acli c’è sempre stato un bel clima di collaborazione, peccato che per l’aggravarsi della crisi, nonostante all’inizio sembrava ci fossero prospettive, non sono potuta rimanere lì a lavorare. Nel frattempo ho comunque continuato a fare la babysitter, l’hostess e la promoter, e a dare ripetizioni.Il Servizio volontario europeo l’ho scoperto per caso cercando su Internet progetti di mobilità internazionale, prima che mi scadesse il contratto con l’Acli. Non avevo mai sentito parlare dello Sve. Dopo avere letto che per partire era necessario trovare un’organizzazione di invio, mi sono informata sulle realtà locali scoprendo che il Comune di Torino, attraverso il suo Ufficio relazioni internazionali, era una sending organisation. Ho dunque partecipato ad un incontro informativo organizzato da loro, in cui tra l’altro hanno presentato gli enti con cui collaboravano.Così a inizio 2013 ho cominciato a mandare molte candidature, una quarantina, finché a maggio sono stata contattata dal Comune di Kungälv, una cittadina svedese di quarantamila abitanti, a pochi chilometri a nord di Göteborg. Ho fatto un colloquio su Skype e dopo due mesi di attesa mi è stato comunicato di essere stata scelta. Prima della partenza, il primo ottobre, il Comune di Torino ha organizzato due incontri di formazione.All’aeroporto di Göteborg mi ha accolto Annali, la mentor con la quale avrei poi collaborato moltissimo [foto a sinistra]. Mi ha portato a cena e poi siamo andate a conoscere la padrona della casa in cui avrei alloggiato durante i nove mesi del progetto, in cui io sarei stata l’unica volontaria. La hosting organisation aveva affittato per me una stanza molto spaziosa all’interno di una bella villetta con giardino, a  due passi dai boschi (in Svezia se non si sta in centro è un po’ dappertutto così), raggiungibile in dieci minuti di bus dalla sede principale del mio servizio. Oltre alla stanza avevo il bagno privato. Gun, la padrona di casa con cui condividevo cucina e sala, era una vedova di 75 anni, giovanile e in gamba. Questa convivenza è stata molto positiva, ho avuto la mia indipendenza ma allo stesso tempo ho sempre potuto contare su Gun e posso dire ormai di avere una nonna adottiva laggiù.Il mio progetto si chiamava "Young dimension on art & culture" e prevedeva l’organizzazione di attività ed eventi culturali per i giovani. Principalmente ho lavorato in un centro culturale di nome Mimers Hus, di proprietà del Comune, una struttura molto grande divisa in settori, che oltre ai vari uffici comprende il liceo del paese, la biblioteca, il teatro e la palestra. Durante la settimana ho lavorato però anche in altri centri giovanili e nelle scuole.In sostanza ero l’assistente della mia mentor Annali, responsabile per il Comune del settore cultura per bambini e ragazzi. Abbiamo organizzato insieme attività nelle scuole di grado inferiore e superiore e nei centri giovanili - come laboratori manuali per i bambini, giochi, organizzazione di mostre, festival, concorsi, spettacoli e cineforum. In particolare io mi sono occupata di corsi di danza, perché quando ero piccola ho fatto per più di dieci anni danza classica e hip hop. Questo è uno dei motivi per cui ero stata selezionata, e come progetto personale ho proprio sviluppato workshop di danza nei centri giovanili, oltre a un corso di italiano per stranieri nella biblioteca comunale.L’esperienza più emozionante è però nata per caso. Un’amica di Gun, la padrona di casa, mi ha chiesto se volessi visitare un liceo pubblico in cui studiano ragazzi affetti da disturbi mentali e fisici più o meno gravi. Così è stato organizzato un incontro, in cui mi sono state rivolte un sacco di domande sull’Italia, e poi sono stata invitata alla recita scolastica, a feste, alla cerimonia del giorno del diploma. Ed io ho offerto un paio di lezioni di hip hop durante le ore di educazione fisica, oltre ad un aiuto per preparare attività come gli spettacoli teatrali.A Kungälv ero l’unica volontaria ma ho avuto modo di conoscere molti altri colleghi durante i training  comuni che i volontari devono frequentare nel Paese in cui si trovano durante lo Sve, all’inizio dell’esperienza e poi a metà del percorso. A Göteborg mi sono ritrovata con ragazzi proveniente da molti Paesi, come Portogallo, Spagna, Georgia, Francia e Romania. Insomma non mi sono sentita sola, anzi a Kungälv ho vissuto in un contesto molto stimolante grazie all’alto numero di giovani coinvolti nel mio progetto. E poi con la mia organizzazione ci sono sempre stati molto dialogo e collaborazione, e mi è sempre stata data carta bianca sulle attività a cui volevo partecipare. Grazie alla cordialità intorno a me, mi hanno fatto sentire parte di un team.Certo all’inizio non è stato proprio facile, innanzitutto con la lingua, perché lo svedese è difficile e nonostante abbia trascorso là nove mesi sono riuscita ad assorbire solo una conoscenza di base. Ma per fortuna in Svezia l’inglese è sfruttabile praticamente con tutti. Così dopo un po’ non ho avuto difficoltà a stringere amicizie. Sono anche riuscita a gestire l’alto costo della vita svedese con il pocket money di 120 euro e i 300 euro per le spese alimentari. I miei risparmi personali li ho usati solo per i viaggi: ho visitato gran parte della Svezia e anche un po’ di Danimarca e Norvegia.Lo Sve per me non è stata solo una grande esperienza di vita che mi ha reso più indipendente, ma ha rappresentato anche una crescita professionale, perché ho lavorato in squadra, con obiettivi comuni da rispettare e un alto grado di versatilità da garantire. Inoltre ho migliorato nettamente l’espressione orale della lingua inglese e ho molta più fiducia nelle mie capacità, perché per me l’organizzazione di laboratori con i giovani hanno rappresentato una piccola sfida. Ho raccontato mese dopo mese la mia esperienza su Il Giro del Mondo in 80 Giovani, un blog del Comune di Torino che raccoglie varie testimonianze di ragazzi all’estero.Consiglio assolutamente di vivere l’esperienza dello Sve: serve a crescere a livello personale ma anche ad aumentare il proprio bagaglio professionale, oltre che quello culturale. Per questo credo che per scegliere lo Sve non si debba fossilizzarsi sul paese ospitante, ma piuttosto valutare la qualità del progetto e la serietà dell’organizzazione ospitante. È importante capire cosa l’organizzazione si aspetta da noi e quello che noi vogliamo ottenere dallo Sve. E se qualcosa non funziona bisogna dirlo, per valorizzare al meglio questa esperienza. Io ad esempio non mi trovavo molto bene in un centro giovanile e parlando con la mia mentor ho cambiato le attività, passando a lavorare da un gruppo misto di ragazzi dai 16 anni in su, ad uno di ragazze dai 12 ai 15 anni in condizioni di disagio. Certo io sono stato fortunata, la mia mentor era sempre presente. Parlando con altri volontari, invece, mi sono resa conto che ci sono organizzazioni ben meno serie.Dopo lo Sve sono tornata a vivere a Rivarolo con i miei genitori. Poco dopo il rientro, lo scorso settembre, sono ripartita, andando in Croazia come group leader per uno scambio giovanile su stili di vita, sport ed alimentazione. Poi ho ricominciato i miei lavoretti per essere economicamente indipendente, e nel frattempo ho iniziato a mandare decine e decine di curriculum. Vorrei lavorare nel settore turistico, per tour operator che si occupano in particolare di turismo sostenibile. Ho fatto recentemente qualche colloquio e spero di avere notizie positive: durante i colloqui ho notato molto interesse per lo Sve, di cui i selezionatori non sapevano nulla, e spero che questo rappresenti una possibilità in più per essere assunta.Mi do ancora qualche mese di tempo, e se in Italia non trovo nulla, cercherò lavoro all’estero. Ancora non so dove, ma non ho paura, deciderò al momento opportuno. In Svezia ho capito che non avrei problemi a vivere fuori dall’Italia per lungo tempo: grazie allo Sve ho scoperto di essere una persona che si adatta facilmente. Considerato ciò che questo progetto ha rappresentato per me, spero che dello Sve si parli sempre più spesso, a partire dalle scuole, per dare l’opportunità a quanti più giovani possibile di vivere un’esperienza unica.Testo raccolto da Daniele Ferro@danieleferro 

Uno e buono: così il primo stage di Niccolò è diventato un inizio di carriera in PwC

Per raccontare «dal di dentro» l'iniziativa del Bollino OK Stage, attraverso cui la Repubblica degli Stagisti incentiva le imprese a garantire ai giovani percorsi "protetti" e di qualità secondo i principi della Carta dei diritti dello stagista, la redazione raccoglie le testimonianze degli ex stagisti delle aziende che hanno aderito all'RdS network. Di seguito quella di Niccolò Polcri, 26 anni, consulente finanziario in apprendistato per PricewaterhouseCoopers, a Milano.Sono nato nel 1989 a Sansepolcro, in provincia di Arezzo, dove ho abitato fino alla maturità scientifica, nel  2008; mi sono poi trasferito a Milano per l’università iscrivendomi Scienze bancarie, finanziarie e assicurative  alla Cattolica: una scelta legata sia alla reputazione dell’ateneo che al piano di studi offerto, completo e in linea con i miei interessi. Poi è innegabile che Milano offra molte opportunità, in primis sul fronte lavoro!Il caso ha voluto poi che l’inizio del periodo universitario abbia coinciso con l’inizio della crisi finanziaria, un problema per il mercato occupazionale ma anche uno stimolo per il mio interesse verso i temi economici e finanziari. In questi anni mi sono ho concentrato gli sforzi nel mantenere il ritmo degli esami e concludere nei tempi ordinari, convinto che il curriculum universitario fosse determinante per una buona futura esperienza di lavoro. Ho conseguito la laurea triennale ad ottobre 2011, mentre avevo già iniziato i corsi della laurea specialistica e due anni dopo è arrivata anche la laurea specialistica, con una tesi sperimentale che ha richiesto dieci mesi di lavoro per raccogliere ed elaborare i dati su assetti proprietari e pro ciclicità del leverage, due aspetti mai studiati congiuntamente dagli economisti. Ho discusso l’elaborato a dicembre 2013, ottenendo 109/110.Poi ho iniziato subito a inviare curriculum. Le mie uniche esperienze lavorative risailvano ai primi due anni del liceo, quando i weekend aiutavo i miei genitori nell’azienda tessile manifatturiera di famiglia, con mansioni manuali, soprattutto di magazziniere. Poi è stata la volta di un'azienda agricola. Non erano quindi esperienze legate al mio percorso di studio, ma sono state ugualmente formative: mi hanno aiutato a non dare niente per scontato e a lavorare sodo per ottenere dei risultati. E con quello che guadagnavo mi sono pagato le vacanze estive – magari lunghe, all’estero, per studiare inglese.  Finita l’università però sono andato mirato. La ricerca è avvenuta quasi solo su internet, sui siti web di banche e società di consulenza finanziaria, tra cui PricewaterhouseCoopers. Ho inviato il cv per l’area Advisory – Financial Services e dopo un  mese sono stato contattato per un colloquio.Ho sostenuto la selezione - test logico-matematico, colloquio di gruppo e test di inglese - a inizio febbraio e basti dire che il 19 dello stesso mese ero in azienda a raccogliere le prime indicazioni sui due progetti a cui mi sarei dedicato. Entrambi sono stati impostati su un intenso lavoro di squadra con i colleghi - con i quali ho instaurato un rapporto anche al di fuori dell’ambiente lavorativo - e sull'acquisizione graduale di fiducia, autonomia e sicurezza nelle attività. In particolare mi sono occupato di analisi del mercato bancario per identificare linee di sviluppo dei modelli di organizzazione della rete e di supportare lo sviluppo di un nuovo servizio bancario. Per i cinque mesi di stage ho percepito un rimborso spese di 850 euro lordi al mese, più buoni pasto; poi a luglio 2014, conclusa l’esperienza, mi è stato proposto di rimanere in PwC a partire dal successivo settembre, con un contratto di apprendistato di 2 anni con uno stipendio annuo lordo di 24mila euro e buoni pasto. Il costo della vita a Milano è alto, si sa, ma con questa retribuzione riesco a mantenermi completamente da solo, condividendo un appartamento con altre due persone. In futuro magari, potrò essere più autonomo anche in questo. Per gli stagisti il rischio è di collezionare tante esperienze una tantum senza possibilità di costruire un percorso strutturato di crescita, ma in PwC per me è stato diverso e adesso ho intenzione di continuare a lavorare con impegno e interesse. Così credo che il rapporto di mutuo investimento tra me e l'azienda possa continuare. Più in là, chissà, potrebbe esserci l’estero, un’esperienza fondamentale nel mio settore e, in una realtà internazionale come questa, un obiettivo a portata di mano.Testimonianza raccolta da Annalisa Di Palo

Stage all'Assemblea parlamentare Osce: da Napoli Anna arriva fino a Copenaghen per costruirsi un futuro internazionale

Iniziare una carriera all’interno di un’organizzazione europea, si ma quale? L’Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) con rappresentanze in 57 Paesi, offre  varie opportunità ai laureati con profilo internazionale: il bando per candidarsi è aperto proprio in questo periodo. E Anna Di Domenico ha saputo sfruttare la sua...Ho 25 anni, vengo da un piccolo comune in provincia di Napoli e sono per metà tedesca. Ora vivo a Copenhagen, in Danimarca, dove lavoro come Research Fellow presso l’Assemblea Parlamentare dell’Osce. Sono sempre stata una ragazza intensamente curiosa. Amo viaggiare, mettermi alla prova, e fin da piccola sognavo di poter vivere in paesi diversi. Per gli studi ho deciso di rimanere in Italia, ma ho soddisfatto la mia vocazione “estera” dopo il liceo, laureandomi in Relazioni internazionali all’Orientale di Napoli: nel maggio 2013 ho terminato la specialistica. Sono soddisfatta del mio percorso accademico: ha ampliato notevolmente i miei orizzonti e sento di possedere le conoscenze teoriche necessarie nel campo degli affari internazionali, ma mi sono personalmente sempre sentita oppressa da luogo in cui forse ho vissuto per  troppo tempo.Infatti, viaggi a parte, ho fatto la mia prima esperienza all’estero prima di terminare l’università: era il 2011 e sono stata selezionata per un tirocinio di qualche mese alla Rappresentanza Permanente d’Italia presso la Nato, che si trova a Bruxelles. Poi sono tornata altre due volte in questa città, sempre come tirocinante: prima per la Rappresentanza della regione Campania e poi per il Servizio europeo di azione esterna, uno degli ambitissimi posti da stagista della Commissione Europea.Ho saputo dell’opportunità all’Assemblea Parlamentare dell’Osce per caso. Era aprile dell’anno scorso e mi trovavo a Londra per un paio di mesi. Lavoravo per una Ong e mi piaceva molto. Ma la certezza che fosse una cosa temporanea mi spingeva a cercare altro. Rispetto ad altre organizzazioni, questa proposta dell’Osce mi sembrava più conveniente, già  per l’ammontare del rimborso (564 euro mensili) e l’alloggio compreso. Così ho inoltrato la domanda. Mi hanno proposto un colloquio di cui mi ricordo benissimo: era il giorno del mio compleanno! A fine luglio ho ricevuto la mail con la proposta ufficiale ed ero felicissima di poter iniziare questa esperienza e trasferirmi in una città che non conoscevo.Mi sono trasferita a Copenhagen nel settembre 2014 e sono qui da ormai sei mesi. Vivo in uno dei due alloggi riservati ai  cinque giovani selezionati per ogni sessione, che è situato in quartiere centrale ed elegante. Non posso immaginare un’esperienza migliore di questa. La formalità richiesta non intacca in alcun modo la familiarità che si è creata tra i colleghi nel corso del tempo. L’ambiente è molto stimolante, fatto di persone competenti e disponibili a formare stagisti, che sono considerati effettivamente come una risorsa in più, al pari di ogni altro membro del team: ci vengono concessi ampi margini di autonomia e responsabilità e veniamo consultati in merito a questioni che interessano le aree geografiche e tematiche che ognuno di noi copre. Ho da poco ricevuto conferma dell’estensione del mio "contratto" di stage per altri sei mesi, per la quale avevo a lungo sperato e duramente lavorato. E dopo? Sarei pronta a restare in Danimarca o spostarmi in un altro paese. Fino a un anno fa mandavo molte domande anche in Italia, nella speranza di trovare qualcosa di stimolante. Ma mi hanno offerto solo tirocini non rimborsati o sottopagati. In più il clima di sfiducia, di delusione e disillusione mi ha spinta a non guardare più al mio paese come possibile meta futura. Vedo molti dei miei amici, con la mia stessa formazione e simili esperienze, faticare per trovare poco o niente. E quel poco non è neanche pienamente formativo. Personalmente, mi sento di aver trovato un mio certo equilibrio fuori dall’Italia, spostandomi di paese in paese, dove, per fortuna, non mi sono mai sentita un’estranea, o un “expat”, termine che ora va così di moda. Sicuramente la doppia nazionalità mi aiutato a rendere il distacco fisico dal mio paese meno doloroso e, a conti fatti, posso dire che la forte determinazione mi ha aiutato molto di più della preparazione. Prima di ricevere dei “si”, sapete quanti “no” ho ricevuto? Decine.Mi sento senz’altro molto fortunata rispetto a tanti miei coetanei, giovani brillanti e con voglia di fare, che purtroppo non hanno avuto l’opportunità di svolgere esperienze professionali tanto rilevanti. É stato spesso frustrante e demoralizzante. Posso comprendere chi si ferma e decide di tentar altro. Ma se davvero si vuol lavorare nel campo delle relazioni internazionali, bisogna accettare che è un ambiente altamente competitivo ed essere soprattutto pronti a lasciare tutto e partire da un giorno all’altro, se un’opportunità dovesse presentarsi. testimonianza raccolta da Silvia Colangeli

«Grazie allo Sve ho imparato a insegnare con l'educazione non formale»

La Repubblica degli Stagisti prosegue la rubrica sullo Sve, con l'obiettivo di raccogliere e far conoscere le esperienze dei giovani italiani che hanno svolto il Servizio volontario europeo, una particolare - e ancora poca conosciuta - opportunità offerta dal programma europeo Erasmus+ ai giovani tra i 17 e i 30 anni. Grazie allo Sve, che copre i costi di viaggio, vitto, alloggio e garantisce un “pocket money” mensile per le spese personali, è possibile svolgere un'attività di volontariato, per un periodo dai 2 ai 12 mesi, in uno dei Paesi dell’Unione europea o in altri Paesi del mondo che hanno aderito al programma. Sono molti i settori nei quali i giovani possono impegnarsi: arte, sport, ambiente, cultura, assistenza sociale, comunicazione, cooperazione allo sviluppo e altri ancora. Per partire - dopo essersi candidati al progetto - è necessario avere un’organizzazione di invio in Italia (sending organization) e una di accoglienza nel Paese ospitante (hosting organization). Per avere maggiori informazioni sul Servizio volontario europeo, consigliamo di leggere anche la sezione dedicata dell’Agenzia nazionale per i giovani. Ecco la storia di Pietro Boccongella.Sono nato trent’anni fa a Lanciano, in provincia di Chieti. Ho sempre detto di voler fare l’insegnante e finalmente ci sto riuscendo, anche grazie alle opportunità che mi ha offerto l’Unione europea. Attraverso lo Sve in Bulgaria ho realizzato che le possibilità di lavorare nel campo dell’educazione sono tantissime, non solo nella scuola. Ma guarda caso, tornato dallo Sve in Bulgaria lo scorso novembre, a gennaio ero a Modena per una supplenza in un liceo.Il mio obiettivo futuro è quello di portare l'educazione non formale a scuola e combinarla con una metodologia formale, perché credo che l'istituzione scolastica vada rinnovata anche dall’interno. Lo Sve rappresenta finora la più bella esperienza della mia vita, perché mi ha reso più maturo. Ma le mie esperienze sono state molte ed è bene partire dal principio.Dopo la maturità scientifica mi sono trasferito a L’Aquila, dove all’università ho studiato Storia sia alla magistrale sia alla specialistica, conclusa nel 2011 con 110 e lode. Poi, dopo un’ardua selezione, sono stato ammesso per il Tfa, il Tirocinio formativo attivo, un corso di abilitazione all’insegnamento per il quale, tra il 2012 e il 2013, mi sono diviso tra l’Aquila, dove frequentavo il corso, e Lanciano, dove svolgevo il tirocinio nel liceo scientifico. Così ho ottenuto l’abilitazione all’insegnamento di Storia e filosofia nei licei. Nel frattempo avevo già iniziato a studiare per una seconda laurea magistrale in Scienze dell’Educazione, sempre all’Aquila. Mi mancano pochi esami e dovrei laurearmi entro l’anno.Il mio trampolino di lancio nel mondo dell’Unione europea è stato l’Erasmus. Nel 2008 sono stato nove mesi a Innsbruck, in Austria. Grazie a questo progetto è nata in me la coscienza sociale e politica di essere cittadino europeo, rafforzando allo stesso tempo quella italiana. Lasciare la mia città natale ha però favorito anche un grande senso di attaccamento ad essa. Il profumo della mia terra è per me così forte che lo sento, sempre, non appena arrivo a casa. Un’altra fruttuosa esperienza è stato il progetto Comenius, che permette a studenti e insegnanti di confrontarsi con la formazione all’estero. Tra il 2012 e il 2013 sono stato dieci mesi ad Heidelberg, in Germania, lavorando come assistente di lingua e cultura italiana in un liceo linguistico. Sono riuscito a incastrare questo progetto con il Tfa all’Aquila, imparando a progettare una didattica che lasci spazio alla creatività degli studenti.Provengo da una famiglia umile e mi sono sempre mantenuto da solo. A sedici anni ho iniziato a lavorare in pizzeria. Con il tempo sono arrivato a lavorare in ottimi ristoranti, guadagnando anche bene, ed anche oggi mi basta una telefonata per tornare a fare il cameriere. Dunque non ho seguito affatto le orme dei miei genitori: ho preferito rincorrere il mio istinto e le mie inclinazioni, riempiendo comunque di orgoglio e soddisfazione la mia famiglia. Un grande aiuto sono state anche le collaborazioni lavorative di 150 ore in università e soprattutto le borse di studio.Da anni volevo fare lo Sve, ma l’aspetto economico mi aveva sempre frenato. Poi però mi sono informato meglio, ho fatto due conti e capito che con la copertura delle spese offerta dal programma potevo fare un’altra esperienza all’estero anche senza guadagnare soldi nel frattempo. Così un giorno di ottobre del 2013 mi sono presentato al Centro servizio volontario di Chieti. Mi hanno spiegato che sarei potuto partire a breve: c’era un progetto di un anno approvato in Bulgaria ma la ragazza già selezionata si era ritirata all’ultimo momento. Ero un po’ spaventato all'idea di dover partire subito per un paese di cui non sapevo nulla. Ma dopo due settimane ero a Burgas, città sul Mar Nero.La mia associazione ospitante è stata la piccola e giovane Mackenzie Association. Pochi giorni dopodi me è arrivata Ripi, la mia collega di Sve, anche lei di 29 anni. Veniva dalla capitale dell’Armenia, Jerevan, ed era una ragazza completamente diversa da me. Lavorare insieme e convivere non è stato facile, ma anche grazie a Ripi ho imparato ad ascoltare e ad osservare di più, a parlare se le cose non sono chiare, scoprendo che il dialogo è la più grande risorsa dell’essere umano. Ho anche capito che i conflitti possono essere costruttivi e necessari. Il progetto Sve si chiamava "Teaching tolerance" e il nostro compito era andare in diversi licei della città di Burgas: attraverso l’educazione non formale, utilizzando giochi di ruolo, brainstorming, teatro e altre attività cooperative, aprivamo dibattiti su tematiche come il razzismo, i diritti umani, gli stereotipi, la violenza, o discutevamo di argomenti storici, analizzandoli da diversi punti di vista. Durante il progetto siamo stati anche in scuole di altre città come Cavarna, Vidin e Vratza.In estate abbiamo lavorato alla realizzazione di un piccolo manuale, "Te.To.", nel quale abbiamo raccolto in inglese le migliori attività svolte per creare uno strumento valido per chiunque volesse cimentarsi con l’educazione non formale. In estate abbiamo inoltre attivato una summer school per alcuni bambini della periferia di Burgas, realizzando giochi, disegni, attività manuali, laboratori di geografia europea, educazione ambientale e giardinaggio. È stato un successo.Inoltre di venerdì facevamo da facilitatori per un gruppo di studenti: li aiutavamo a progettare qualsiasi attività che potesse avere un risvolto sociale. Per esempio abbiamo organizzato un pomeriggio di festa italo-armeno e un progetto di dialogo intergenerazionale, portando gli studenti liceali in alcune case di riposo: un’occasione di racconto e di confronto tra due mondi diversi, uno che ha vissuto le restrizioni del comunismo e l’altro in pieno clima liberista.Infine, come progetto personale, ho insegnato cultura e storia italiana in un istituto bilingue, spesso utilizzando una metodologia non formale. Tutto quello che ho fatto nel mio Sve era scritto nel progetto. Grazie anche alla flessibilità che consente il programma, poi, ho viaggiato molto, visitando gli altri volontari europei sparsi per il paese e osservando come lavoravano le altre associazioni. La rete di conoscenze mi ha permesso di tenere da solo un workshop per adulti sull’educazione non formale, in un festival sulla tolleranza a Rebrovo. È stata una grande soddisfazione.Sono stato persino in Israele, organizzando il viaggio con altri volontari Sve, e ho visitato in Bulgaria il campo profughi di Harmanli, dove arrivano migliaia di richiedenti asilo di origine siriana. Dal punto di vista economico lo Sve mi ha garantito una certa indipendenza. Ricevevo in tutto 240 euro: 65 come pocket money e il resto per comprare il cibo. Potevo vivere discretamente: ho avuto bisogno di attingere dai miei risparmi solo perché ho deciso di viaggiare e di non vivere sempre con moderazione. Unica nota negativa, ho dovuto anticipare alcune spese odontoiatriche, perché l’assicurazione prevede che sia il volontario a coprire i costi, che poi gli vengono rimborsati.Grazie allo Sve ho imparato a preparare e adattare le attività da svolgere in classe, a essere il punto di riferimento di un gruppo, a moderare le discussioni, ad essere più risoluto, a prendermi responsabilità e ad esercitare la mia creatività. Ho imparato a parlare di fronte alle persone, ad essere attento alla comunicazione non verbale, ai gesti di chi mi ascolta. Lo Sve mi ha poi certamente fatto crescere dal punto di vista dell’apprendimento delle lingue straniere. Ho imparato ad esprimermi con frasi semplici in bulgaro, perché a scuola era necessario. In generale, poi, stando a contatto con tanti volontari da tutta Europa, ho imparato vocaboli di diverse lingue. La cosa di cui vado più fiero è avere compreso di possedere un elevato livello di abilità sociali, qualità non tangibili ma che sono basilari per essere un bravo professionista, in qualsiasi campo. La cosa entusiasmante del mio Sve è che sono riuscito a sviluppare relazioni in molti casi profonde con gli altri ragazzi europei: continuiamo a cercarci e con molti di loro sono legato da una speciale energia che so mi accompagnerà per tutta la vita.La mia hosting organization mi aveva offerto di rimanere a lavorare con loro, ma si trattava di un’attività part time. Così, nel novembre 2014, sono tornato a Lanciano. Subito ho approfittato ancora dei programmi di mobilità europea per l’apprendimento permanente. In passato avevo già partecipato a scambi giovanili in Georgia e Bosnia, e lo scorso dicembre sono stato in Portogallo, a Porto, per un training come youth worker. Poi mi hanno chiamato per la supplenza di un mese in un liceo di Modena. E a febbraio sono ripartito per l’estero, andando in Turchia per un altro training sul lavoro con i giovani. Queste esperienze, anche brevi, sono molto importanti per la mia formazione. Ora sono a Lanciano ed aspetto una nuova chiamata per insegnare. È un peccato che non ci siano progetti per il reintegro dei giovani rientrati dallo Sve e strumenti per far fruttare le loro energie. Questo è un aspetto al quale credo che le istituzioni dovrebbero porre attenzione. Ad esempio gli ex volontari potrebbero fare formazione nelle scuole, dopo aver frequentato un training mirato. Mi piacerebbe anche che università e centri di formazione riconoscessero lo Sve con crediti formativi, e che fossero più flessibili con gli appelli d’esame per chi fa volontariato.Io comunque continuo a muovermi. Spero di essere chiamato al più presto per una supplenza, ma intanto sono stato selezionato per partecipare al progetto "Clandestine integration". Se la raccolta fondi si concluderà bene come sembra, navigherò in barca a vela per una tratta dei due mesi previsti in totale, con l’obiettivo di diffondere nel Mediterraneo la cultura dell’accoglienza e dell’integrazione.Testo raccolto da Daniele Ferro@danieleferro 

Quattrocento eyewear, il fashion Made in Italy incubato da Speed Mi Up

La rivista Forbes l’ha inserita nelle 15 startup da tenere d’occhio nel 2015. Perché agli innamorati dell’Italian style vuole offrire il lusso di occhiali 100%  Made in Italy, ma ad un prezzo accessibile. Si chiama Quattrocento eyewear la startup di Eugenio Pugliese e Sharon Ezra, che sta crescendo all’ombra di Speed Mi Up, l’incubatore dell’università Bocconi e della Camera di Commercio di Milano che proprio in questi giorni ha aperto il bando per la selezione 2015. Nel nome di Quattrocento c'è un rimando allo spirito del Rinascimento, quando il tocco dell’artigiano si confondeva con quello dell’artista, fondendo bellezza e capacità di innovazione. “Starting the Second Renaissance” è il motto che accoglie i visitatori del loro portale. Ed è questa l’ispirazione che guida i due soci, entrambi 27enni: occhiali artigianali, realizzati da piccole aziende italiane. E venduti online, a 105 euro, completi di lenti graduate, con la possibilità di provarli e mandarli indietro. «Il mondo sta cambiando: non sono in molti ad essere disposti a spendere troppo per occhiali di qualità. Quella dell’occhiale è un’industria con molti passaggi. Vogliamo tagliarli, per abbattere i costi, proponendo però un prodotto valido e dando lavoro a piccole realtà altrimenti schiacciate dalla concorrenza globale e dal made in China», spiega Eugenio Pugliese, business developer del progetto, calabrese di nascita, milanese di adozione, con studi di finanza alla Bocconi e una tradizione familiare nel settore. Sharon l’ha incontrata in un wifi cafè: lei, israeliana d’origine, è stilista e designer, ed ha alle spalle esperienze nell’alta moda e un master all’istituto milanese di moda e design Marangoni. La sua mano disegna le collezioni di Quattrocento, realizzate poi con materiali come l’acciaio inox laserato e l’acetato plasmati su linee geometriche e ultralight. Finanza e design: il mix delle loro esperienze è stato il seme che ha fatto nascere il business plan di Quattrocento. E li ha portati a cercare investitori non solo in Italia ma in tutto il mondo. Sette business angels hanno creduto nel progetto, tra cui realtà internazionali come Kima Ventures e Avishai Abrahami, e che hanno consentito ai due imprenditori ventenni di radunare un capitale di 250mila euro con cui partire. Quattrocento eyewear è nata ufficialmente nell’ottobre 2014, con la forma di srl innovativa. E Speed Mi Up in tutto questo? Fondamentale soprattutto per i servizi di consulenza nel marketing strategico e per la garanzia di indipendenza finanziaria: «Cercavamo un incubatore a Milano, luogo determinante per un progetto come il nostro a metà tra il tech e il fashion. Per noi, poi, era fondamentale trovare un incubatore che non entrasse nel capitale, per non avere ingerenze nella struttura societaria», precisa Pugliese, che non si scandalizza di fronte al contributo mensile di quasi 600 euro che Speed Mi Up richiede alle startup che incuba: «È lo scotto per non avere appunto ingerenze. Ma in fondo è la stessa cifra che spenderemmo solo per avere degli spazi di coworking». Nella fase di selezione, racconta, conta la validità del business plan. «E’ importante inserire dati completi ma sintetici. Il nostro business plan era già pronto perché l’idea l’avevamo già maturata. Questo ci ha consentito di entrare in una shortlist di venti finalisti, di discutere il nostro progetto di fronte al Comitato e di risultare poi tra i cinque progetti vincitori». Quattro mesi di training, con lezioni e seminari per assimilare i segreti del marketing e del business strategico, seguiti poi dalla supervisione di un professore della Bocconi in qualità di tutor. «Abbiamo ricevuto un grande supporto: un percorso che non avremmo fatto altrimenti». E che ha portato i due a lanciare il sito internet, fulcro dell’attività di Quattrocento, nel novembre scorso. L’attività è partita ufficialmente solo a gennaio, con un marketing online spinto. Nel curriculum, la partecipazione a tre eventi fieristici e un team che si è già allargato a cinque persone. «Al momento siamo ancora dentro Speed Mi Up. Non voglio dare numeri ufficiali: è ancora troppo presto. Non so ancora quando raggiungeremo il breakeven. Come fondatori, ne ricaviamo il minimo per vivere e cerchiamo di reinvestire tutto in marketing» confida Pugliese: «Però i risultati di questi primi mesi sono già importanti». Citazioni su riviste internazionali e testimonial come i tre tenorini de Il Volo, vincitori dell’ultimo festival di Sanremo, costellano già il profilo Facebook dell’azienda. Lo sguardo però adesso è puntato sui mercati esteri, Inghilterra e Germania soprattutto, con l’intenzione di rivolgersi poi oltre i confini europei - verso Stati Uniti, Sud Africa e Corea del Sud. Eugenio Pugliese e Sharon Ezra non sembrano temere concorrenti, anche i più agguerriti come gli americani di Warby Parker: «Sono forti, ma vendono occhiali fatti in Cina. Noi puntiamo sull’origine del prodotto. Ci rivolgiamo a chi vuole spendere in modo intelligente». Maura Bertanzon 

Tra giornalismo ed economia, Francesca quadra il cerchio nel marketing Ferrero

Per raccontare «dal di dentro» l'iniziativa Bollino OK Stage, attraverso cui la Repubblica degli Stagisti incentiva le imprese a garantire ai giovani percorsi "protetti" e di qualità secondo i principi della Carta dei diritti dello stagista, la redazione raccoglie le testimonianze degli ex stagisti delle aziende che hanno aderito all'RdS network. Di seguito quella di Francesca Bernardini, oggi assunta con contratto di apprendistato nel marketing Ferrero, a Pino Torinese.  Ho 26 anni e sono toscana, come tutti notano non appena sentono il mio accento: sono arrivata a Torino per lavoro quasi due anni e mezzo fa, da una città di mare, Viareggio. Fin da piccola mi ha sempre contraddistinto una grande autonomia e voglia di indipendenza, che mi ha spinto a cercare mille interessi e cose da fare. La prova più concreta di questa indole ha trovato espressione nel giornalismo, mia prima e grande passione.Interessata ad approcciarmi al settore, terminata la maturità al liceo classico – un percorso sperimentale con potenziamento delle materie scientifiche - nell’estate 2007 mi sono presentata alla redazione locale del quotidiano La Nazione, chiedendo di poter andare lì per imparare. Ho cominciato così a collaborare con la testata, seguendo la cronaca locale e ottenendo dopo pochi mesi un contratto di collaborazione che mi ha poi portato nel giro di due anni a prendere il tesserino di giornalista pubblicista. Ero di fatto una freelance precarissima con partita iva, pagata ad articolo e in base alla lunghezza.Nello stesso periodo ho cominciato l’università: mi sono iscritta a Economia e commercio all’università di Pisa, in modo da avere – come tutti più o meno ironicamente mi consigliavano – una sorta di piano B: insomma, ho messo in valigia un mix di conoscenze e competenze che, col senno di poi, credo mi sia servita. In parallelo, sempre decisa a essere quanto più possibile indipendente, affiancavo all’università e al giornalismo anche piccoli lavoretti occasionali, come ripetizioni, hostess e cameriera a chiamata.Nella primavera 2010 ho aggiunto al curriculum una prima esperienza di stage: non sapevo bene cosa fare dopo la laurea triennale, che sarebbe arrivata di lì a poco, e per essere sicura della scelta che mi solleticava, cioè la specializzazione in marketing, avevo mandato diversi cv in zona chiedendo di poter fare uno stage formativo, anche gratuito, in quell’ambito. Sono quindi approdata in una giovane società di comunicazione, Stops, dove per un paio di mesi mi sono occupata dell’organizzazione di un evento dedicato agli amanti di surf e skate, ricevendo anche a fine stage - considerando però che non era un’attività a tempo pieno - un compenso complessivo di circa 600 euro. Poco dopo, a ottobre 2010, è arrivata la laurea e l’iscrizione al corso magistrale in Marketing e ricerche di mercato sempre a Pisa. Pur continuando le mie attività collaterali, mi sono appassionata sempre più alla materia, e soprattutto alla prospettiva del lavoro che avrei potuto fare dopo. Sapevo che per cercare invece un futuro nel giornalismo avrei dovuto trasferirmi a Milano o Roma, ma avevo ancora l’università da finire: mi sono quindi concentrata al massimo su questa, e poi le cose hanno preso una piega diversa.All’ultimo tuffo, ho deciso di fare domanda per il bando Erasmus, ed ho vinto la borsa per Parigi. A gennaio 2012, ultimo semestre della specialistica, mi sono quindi allontanata per la prima volta da casa ed ho vissuto un’avventura incredibile e bellissima, in cui ho imparato davvero cosa significa cavarsela da soli. Sicuramente senza il sostegno economico dei miei genitori non sarei potuta andare, perché la borsa copriva ben poco dell’elevato costo della vita parigina, ma ho cercato di dare il mio contributo sfruttando a pieno l’occasione formativa e lavorando saltuariamente come baby sitter, ricevendo veramente tanto – a livello umano e culturale – dai bimbi di cui mi sono occupata.Festeggiato l’ultimo esame universitario con baguette e vin rouge, ho ricominciato a mandare in giro il cv, presa dall’entusiasmo, per trovare uno stage sul quale fare la tesi di laurea magistrale. Ho cercato anche annunci su Repubblica degli Stagisti, e proprio grazie ad una candidatura inviata tramite questo sito mi hanno convocato quasi subito da Ferrero per i primi test di ragionamento scritto, logico e matematico, e poi per un colloquio individuale: con il TGV ho fatto andata e ritorno due volte da Parigi a Torino! Era giugno, e non ho più avuto notizie dall’azienda praticamente per tutto il periodo estivo, però poi a inizio settembre mi hanno richiamato, dicendo che le selezioni erano andate bene e che cercavano uno stagista curriculare per la funzione New Media, quella che si occupa della presenza online di tutte le marche dell’azienda.Per me, un sogno: potevo unire il marketing alla passione per la comunicazione. Lo stage, di tre mesi, prevedeva un rimborso di 250 euro mensili, più alloggio, mensa e palestra gratuite. Al termine di questi tre mesi e raccolto anche il materiale per la tesi, sono tornata a casa - era la vigilia di Natale 2012 - senza sapere cosa avrei fatto di lì a breve: se dedicarmi solo alla stesura della tesi, se cercare lavoro a Parigi, di cui mi ero innamorata, se provare in altre realtà aziendali…Invece, il feedback positivo del mio tutor aveva sortito il suo effetto, e sono stata convocata di nuovo in Ferrero per un altro colloquio. Si trattava sempre di uno stage, ma questa volta semestrale e finalizzato all’assunzione, all’interno della divisione che si occupa di testare sul punto vendita i nuovi prodotti, in modo da valutarne il potenziale per futuri lanci industriali. Avrei pressoché messo da parte il mondo della comunicazione a vantaggio di un’esperienza più in linea con i miei studi. Mille euro netti di rimborso spese, palestra gratuita e residence per le prime tre settimane - il tempo di trovare una casa in affitto - completavano l’offerta.   A febbraio 2013 ho cominciato quindi l’ultimo stage della mia vita, che a settembre dello stesso anno si è trasformato in un contratto di apprendistato triennale, con una Ral di 29mila euro annui, suddivisi in 14 mensilità. Dopo essermi occupata per breve tempo di progetti sperimentali per le praline e i pastigliaggi, da ormai più di un anno e mezzo seguo le sperimentazioni Kinder: il nostro compito è quello di accogliere i nuovi prodotti che si affacciano sul mercato, studiandone il contesto di riferimento ed escogitando i necessari test su punto vendita, così da misurarne le performance. In sostanza, siamo una piccola azienda nell’azienda, in quanto gestiamo a 360° i prodotti e progetti che ci vengono affidati: dalle analisi di mercato e della concorrenza, alla definizione dei criteri di scelta dei panel test, dai rapporti con la forza vendita e i fornitori, al monitoraggio dei dati di sell-in e sell-out.La sede di lavoro è a Pino Torinese, fuori Torino, e i benefit non mancano: con un’offerta che va dalla palestra interna gratuita alla mensa, passando per assicurazione sanitaria e convenzioni esterne, credo che Ferrero sia davvero un’azienda illuminata e che tiene alle sue risorse. Per non parlare dell’esperienza formativa che offre a chi lavora in un contesto di simili dimensioni. Dopo un primo periodo in cui ho abitato in centro a Torino, mi sono trasferita poco più di un anno fa con il mio ragazzo in un posto più tranquillo e comodo per andare a lavoro: il fatto di lavorare entrambi ci permette di mantenerci da soli, di avere tutto sommato un buon tenore di vita, e di fare anche qualche sogno ad occhi aperti e progetti per il futuro. Naturalmente sento la mancanza della mia famiglia, degli amici e del mare; ma so che per me questa è stata la scelta giusta. Il momento è difficile, ma sono convinta che intraprendenza, determinazione e disponibilità sono le doti fondamentali per riuscire ad ottenere qualcosa di buono nel mondo del lavoro. Mettiamoci in gioco, dobbiamo avere il coraggio di accettare le sfide e di fare qualche sacrificio. Dalla loro, anche le aziende possono fare molto: iniziative come quelle dell'RdS network sono ormai indispensabili eppure ancora poco diffuse. È importante invece che le imprese qualifichino il lavoro svolto da studenti e giovani laureati, dando loro un po’ di fiducia verso il futuro. Nessuno lavora volentieri gratis, e nemmeno se non ha speranze di rimanere nell’azienda per la quale si sta impegnando. Testimonianza raccolta da Annalisa Di Palo

Belgio, giovane ingegnere assunto dopo lo stage Eurodyssée: «La crisi in Italia massacra le imprese edili»

Non solo Erasmus. Compie trent'anni il portale Eurodyssée, promosso dall' Assemblea delle regioni, che offre ai ragazzi diplomati dai 18 ai 30 anni l'opportunità di un corso di lingua e di uno stage rimborsato in varie parti d'Europa. Grazie alla sua "Eurodissea", Michele Chieli, giovane umbro laureato in ingegneria, è riuscito a trovare lavoro: la Repubblica degli Stagisti ha raccolto la sua storia.Ho 28 anni e sono originario di Città di Castello, uno dei comuni più popolosi della provincia di Perugia. Oggi vivo a Namur, il capoluogo della Vallonia, in Belgio e lavoro nell’azienda che mi ha accolto quasi un anno fa come stagista Eurodyssée.Ho fatto il liceo scientifico e mi sono laureato a Perugia, in ingegneria civile, nell’estate 2012. Ma, al contrario di quanto si potrebbe pensare nemmeno un titolo di studio come il mio, ottenuto quasi in tempo e con una votazione molto alta, in Italia garantisce certezze. A peggiorare la situazione ha contribuito la crisi del settore edile, che sta massacrando le imprese e gli studi che si occupano di costruzioni. Spesso anche chi nel nostro paese vorrebbe assumere non può.A queste condizioni, come qualsiasi altro neolaureato, ho iniziato con un tirocinio in un’altra città umbra: rimborso minimo e tanto lavoro. Dopo sette mesi ho interrotto lo stage per allargare i miei orizzonti e arricchire il mio curriculum con un’esperienza all’estero e un livello più professionale d’inglese. Ho vissuto un paio di mesi a Londra, ma non mi sono messo a cercare uno studio d’ingegneri: ho fatto il cameriere e un corso, in quel momento volevo migliorare la lingua e vivere fuori dall’Italia. Un’esperienza breve, ma positiva, che mi ha incoraggiato a trovarne altre da fare all’estero.Non mi ricordo precisamente come sono venuto a sapere di Eurodyssée: forse me ne ha parlato un amico o avevo letto qualcosa su un giornale locale. Da queste prime informazioni ho capito che la residenza in una delle regioni aderenti costituisce il requisito fondamentale per partecipare. Poi ho dato un' occhiata al sito e ho verificato che fortunatamente l'Umbria è fra le due regioni italiane che aderisce a Eurodyssée. Inizialmente non avevo capito bene come funzionasse: infatti ho mandato la candidatura per il Canton Ticino, che non accoglie italiani perché ha incluso il plurilinguismo fra gli obiettivi dei suoi scambi. A chiarirmi le idee ci hanno pensato i ragazzi dell’Aur, l’ente umbro che si occupa del progetto, che mi hanno aiutato a cercare l’offerta che faceva al caso mio. Oltre all’inglese, avevo anche una conoscenza base di francese e mi sono messo a guardare le offerte delle regioni belghe: quella dello studio dove attualmente lavoro era davvero interessante e ho deciso di mandare l’application. Pochi mesi dopo sono partito.In Belgio gli stagisti Eurodyssée ricevono una borsa di 770 euro e gli stage durano 5 mesi. Il primo mese invece, se non sei francofono, ti coprono il costo dell’alloggio in un ostello e del corso di lingua a Bruxelles. E’ una situazione conviviale che ti mette subito a tuo agio e ti aiuta a superare le difficoltà che chiunque parta da solo si trova ad affrontare il primo periodo all’estero. Dopo il corso a Bruxelles, mi sono spostato a Namur per iniziare lo stage: la città è più piccola e offre meno divertimenti di una capitale, ma a lavoro mi sono trovato davvero bene. In ufficio parlo soprattutto francese e un po' d'inglese con alcuni clienti, in alcuni casi si usa anche il fiammingo.L'ambiente era giovane e stimolante, fatto di persone serie, disponibili a formare gli stagisti. Questa è la grossa differenza che noto con l’Italia e non credo di parlare solo del mio settore: ti vedono come un’opportunità su cui investire, non come un peso. La società in cui lavoro conta circa 200 dipendenti, ha altre sedi in Europa e in Africa e non mi dispiacerebbe continuare a crescere al suo interno. Ho fatto capire quasi subito di essermi trovato bene, ho lavorato tanto e, finiti i 5 mesi, mi hanno proposto un contratto a tempo determinato, che scadrà a metà maggio. Prendo circa 1400 euro al mese: niente di esorbitante, ma uno stipendio onesto per una persona che inizia a lavorare. Non penso che uno studio di medie-piccole dimensioni avrebbe potuto offrirmi lo stesso salario in Italia. So di essere stato molto fortunato. Ho sentito altri meno soddisfatti di me: infatti conta tantissimo l’ambiente professionale e non sono tutti così accoglienti, magari scrivono che farai una cosa e invece ti ritrovi a svolgere altre mansioni, meno professionalizzanti. Ma Eurodyssée cerca di tutelare al massimo chi parte: pochi altri progetti ti garantiscono un rimborso così alto, un corso di lingua e un controllo sugli enti che ospiteranno i ragazzi. Io consiglierei a chi parte di scegliere più in base all’offerta che al luogo. Dopo non escludo niente, ma di certo non tornerò in Italia a fare uno stage sottopagato. Il mio paese mi manca. Ma ora che con Eurodyssée ho allargato le mie prospettive professionali e di vita, non escludo di trasferirmi in un altro stato per un lavoro che m’interessa.testo raccolto da Silvia Colangeli

Centro per l'impiego di Terni, nella città d'acciaio che sfida la crisi

Dopo Torino, Prato e Siracusa, il viaggio della Repubblica degli Stagisti all'interno dei centri per l'impiego italiani prosegue facendo tappa a Terni.   Anche Terni, la città d’acciaio che fin dall’800 è legata indissolubilmente alla fabbrica, si è piegata dinanzi alla crisi. Nel settembre 2014, una persona su cinque residente in provincia risultava iscritta al Centro per l’impiego: circa 36 mila individui, duemila in più rispetto all’anno precedente. Numeri che risentono anche dei licenziamenti operati dalla ThyssenKrupp, l’azienda siderurgica tedesca che dà lavoro a centinaia di persone. Così, lo scorso ottobre trentamila cittadini sono scesi in piazza contro i tagli che rischiano di mettere in ginocchio la comunità. Meno occupati significa più lavoro per i centri per l’impiego. In provincia ne operano due, a Terni e Orvieto, dove lavorano complessivamente 61 persone, che si occupano di politiche del lavoro e formazione professionale.  «L’intermediazione tra domanda e offerta riguarda solo una piccola parte del nostro lavoro» dice alla Repubblica degli Stagisti Maurizio Agrò, dirigente del settore Politiche formative e del lavoro: «Ci occupiamo anche di attività amministrativa, orientamento, formazione, cassa integrazione, collocamento obbligatorio ed altre attività». Come in molti altri cpi d’Italia, è complicato risalire alla percentuale di disoccupati che trovano un lavoro dopo essersi rivolti agli ex collocamenti. «Anche perché gran parte dei 36 mila iscritti non vengono trattati dai servizi per l’impiego» fa notare Agrò: «Magari si rivolgono ai nostri sportelli per ricevere i trattamenti di disoccupazione, come accade agli insegnanti precari, oppure per ottenere l’esenzione dalla mensa scolastica. Se valutiamo solo i disoccupati che hanno ricevuto dal servizio almeno un colloquio o uno strumento di tirocinio e formazione, la percentuale di persone che poi trovavano un lavoro è molto alta, fino al 65%». Da più di dieci anni il cpi mette insieme politiche del lavoro e formazione e i risultati ottenuti permettono oggi di “galleggiare”, quando altre realtà affondano. «Gli ultimi tre anni non sono stati felici, ma resistiamo» spiega il dirigente «anche grazie al successo di iniziative come le work experience, il fiore all’occhiello del nostro ufficio». Si tratta di percorsi formativi della durata di 6 mesi dedicati a profili medio-alti (diplomati tecnici, ingegneri, architetti...), che prevedono una borsa di studio da 800 euro pagata dalla Provincia ed erogata dal Centro per l’impiego. Le aziende avanzano le loro domande, impegnandosi al termine del percorso ad assumere la persona. «Se non rispettano l’impegno non possono partecipare al bando successivo» dice Agrò. «In questo modo siamo riusciti a costruire un elenco virtuoso e oggi molte delle aziende con sui siamo in contatto rispettano gli impegni». Quest'anno, secondo le previsioni, si attiveranno dai 100 ai 120 percorsi e almeno la metà dovrebbero andare a segno. Per le work experience non esistono limiti di età: vi partecipano soprattutto ragazzi, ma ci sono anche persone di 40-50 anni, quest’ultime in forte aumento. «Ogni anno pensiamo anche a elaborare le comunicazioni aziendali, individuando i profili professionali più richiesti, quelli che creano occupazione nel territorio. Un prodotto costruito in modo artigianale, ma molto efficace». Il cpi di Terni è un modello funzionante, che però rischia di essere messo in discussione dalla riforma del mercato del lavoro. «L’importante è non scindere il connubio politiche del lavoro-formazione, che devono procedere a pari passo» dice Agrò: «Al momento la riforma è in fase di attuazione, con alcuni decreti delegati approvati e altri in corso di adozione. L’obiettivo dovrebbe essere quello di dirottare le risorse dalla politiche passive a quelle attive: 35 miliardi per le prime sono troppi rispetto al miliardo per quelle attive. Ad ogni modo, mi sembra che la riforma contenga degli elementi positivi, dall’alleggerimento delle politiche passive, al contratto a tutele crescenti fino al ridisegno degli ammortizzatori. È una riforma che potrebbe avere effetti molto positivi sul mercato del lavoro».Intanto, il programma Garanzia giovani ha prodotto più luci che ombre: «Ha posto l’attenzione sul grande problema della disoccupazione giovanile» riassume Agrò «dopo che il precedente programma operativo 2007/13 si era occupato più di politiche passive e cassa integrazione. Contiene anche i segnali di un nuovo approccio riformista alle politiche attive e al sistema di gestione, introducendo il modello pubblico/privato. Peccato però che non tutti i territori siano pronti a recepire un impatto così innovativo. Inoltre, alcuni meccanismi, come la gestione dei tirocini formativi, sono molto macchinosi e complessi». Al 7 gennaio 2015 per Garanzia Giovani in provincia di Terni sono pervenute 4640 adesioni. Sono stati convocati per un colloquio 1910 ragazzi, 252 hanno scelto di non presentarsi, mentre in 198 casi gli operatori del centro hanno appurato che non si trattava di neet. Per quanto riguarda, invece, i patti per l’erogazione delle misure di Politiche attive del lavoro, al 31 dicembre 2014, sempre in provincia di Terni risultano attivati 1137 percorsi. Di questi, 191 sono “formativi” e destinati a giovani di età compresa tra i 15 e i 18 anni. Completano il quadro 179 servizi civili, 340 tirocini extra curriculari e 417 percorsi di formazione mirati all’inserimento lavorativo. Sulla nascita dell’Agenzia nazionale del lavoro prevista dal Jobs Act, il responsabile ternano si dice favorevole: «Le politiche del lavoro fino ad oggi non sono state governate a livello centrale; ogni territorio ha operato autonomamente e non è mai stata creata una banca dati nazionale. Credo sia indispensabile recuperare questa capacità di gestione, così da garantire servizi di qualità quanto più possibile uniformi in tutto il Paese».