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Crescere in Digitale, 50mila iscritti e 150 stage già attivati: tutti i dettagli su come funziona il progetto

Crescere in Digitale, iniziativa promossa dal ministero del Lavoro, Google e Unioncamere con l’obiettivo di favorire l’occupabilità dei più giovani, tocca un’altra tappa importante: sono in fase di avvio gli stage previsti dal progetto. A oggi sono 150 quelli già attivati.  Facciamo però qualche passo indietro: la Repubblica degli Stagisti aveva già parlato di Crescere in Digitaleal momento del suo debutto. Il progetto per il 2016 prevede l'attivazione di 3mila tirocini della durata di sei mesi, per un importo mensile di 500 euro, presso aziende «prevalentemente di medie e piccole dimensioni, ma anche molte agenzie web», spiega Diego Ciulli, public policy manager di Google. Per le imprese che poi assumono i giovani tirocinanti è previsto un bonus fino a 12mila euro. Per aspirare al tirocinio è necessario essere iscritti a Garanzia Giovani e svolgere un corso di formazione a tema digital, che si chiude con un test.A conclusione del percorso formativo, i giovani che superano il test vengono selezionati per accedere ai laboratori sul territorio,  coordinati da Unioncamere e dal sistema delle Camere di commercio. I laboratori, 29 in tutta Italia, sono organizzati secondo le disponibilità di tirocini offerti dalle imprese e la numerosità dei giovani che nelle diverse realtà territoriali hanno superato il test a conclusione del percorso formativo,  su base provinciale o regionale e prevedono la partecipazione di 50 ragazzi a laboratorio. «Allo stato attuale, a fronte di oltre 50mila iscritti 3.200 persone hanno già superato il test», spiega Ciulli. Un numero sicuramente non enorme a fronte degli iscritti, dovuto anche al fatto che «il corso dura in totale 50 ore ed è impegnativo. È positivo che molti seguano i primi moduli perché arricchisce la loro formazione ed è abbastanza normale che ci sia una selezione durante il corso». Età media 25 anni, quasi la metà defli iscritti (47%) sono donne e il 54% proviene dal sud Italia. Qualora l’elenco dei potenziali partecipanti superi il numero di 50, viene predisposta una lista in ordine decrescente per punteggio. A parità di punteggio, vengono applicati i criteri di anzianità di iscrizione a Garanzia Giovani, anzianità anagrafica (avvantaggiando il meno giovane) e sesso (femminile). Nel corso dei laboratori si svolgono gli incontri con le imprese per i tirocini formativi, organizzati anche in collaborazione con il mondo delle associazioni di categoria. Il numero dei candidati selezionati complessivamente per gli stage non può superare il tetto dei 3mila tirocini fissati da Garanzia Giovani. A ogni impresa, come riportato sul sito del progetto, vengono associati tramite un sistema automatico cinque giovani tra quelli convocati, cioè i ragazzi che hanno ottenuto i punteggi più alti al test online e con le caratteristiche più vicine alla potenziale impresa ospitante. Di questi cinque ragazzi il team di Crescere in Digitale invia all’azienda i curricula e le schede di presentazione per una prima conoscenza del profilo dei ragazzi.Durante i laboratori sul territorio le imprese raccontano brevemente ai giovani la propria attività, con specifico riferimento al web, ed effettuano i cinque colloqui conoscitivi. Le aziende dopo i colloqui possono indicare tre preferenze. Quelle che non prendono parte al laboratorio e conoscere i candidati di persona, possono comunque ospitare un tirocinante, indicando le proprie preferenze sulla base dei curricula condivisi. Sono 2253 le imprese che hanno dato la disponibulità a ospitare tirocinanti.In questo momento, dopo i laboratori e i test, sta partendo con gli stage la terza fase. Nel corso degli stage i tirocinanti dovranno necessariamente svolgere «attività digitali, durante le quali lo stagista non è mai abbandonato a se stesso ma supportato da un team. I ragazzi sono infatti assistiti da una community online e da un tutor presso la Camera di Commercio, proprio per aiutare nel digitale anche le imprese più piccole».Al di là del rimborso spese e della rilevanza dell’esperienza formativa ci sono in concreto prospettive di assunzione?: «C’è il bonus per le imprese che assumono, ma non possiamo già identificare delle prospettive concrete. Sicuramente figure esperte di digital sono indispensabili in aziende del genere, il nostro impegno è in ogni caso quello di portare valore aggiunto» conclude Ciulli. In caso di successiva assunzione del tirocinante, infatti, le aziende possono beneficiare di incentivi fino a un massimo di 12mila euro.Sarà ora interessante seguire gli sviluppi dei percorsi formativi dei partecipanti al progetto per valutare quante imprese avranno poi successivamente inserito e fornito una concreta opportunità lavorativa ai tirocinanti. Chiara Del Priore

Stage alla Nato: 800 euro al mese di indennità, candidature aperte fino all'11 aprile

Rimangono ancora pochi giorni per candidarsi al prestigioso programma di stage 2017 della Nato. La quattordicesima call ha aperto a marzo e chiuderà l’11 aprile. Il percorso di formazione, offerto a ragazzi con almeno 21 anni residenti in uno dei paesi membri dell’alleanza che siano studenti in corso (o che hanno appena concluso i propri studi), si svolge all'interno dell’istituzione internazionale e va distinto da quelli offerti grazie al contributo di altre organizzazioni. Lo stage dura 6 mesi e  si svolge principalmente nel quartiere generale Nato a Bruxelles, o in alternativa là dove hanno sede le differenti sezioni.L’organizzazione offre opportunità a studenti di varie facoltà: oltre a studi legati alle facoltà di scienze politiche o relazioni internazionali interessano infatti laureandi di materie tecniche come ingegneria o areonautica e studi economici come economia, risorse umane e finanza. Le aree da coprire non finiscono qui: il sito invita a fare domanda anche a laureandi in informatica, web design, grafica e giornalismo, offrendo una più ampia gamma di possibilità. Anche le lingue richieste sono varie: il candidato ideale non solo conosce una delle lingue tradizionali dell’istituzione – inglese e francese – ma anche lingue meno frequentemente richieste come russo, ucraino e arabo.L’application form va completata online e mandata entro mezzanotte dell’11 aprile insieme al curriculum vitae e alla lettera di motivazione, indicando a quale divisione della Nato si è interessati. Qualora il candidato sia in possesso delle qualità necessarie viene informato dell’accettazione della sua candidatura e entro agosto 2016 riceve la notifica di essere stato ammesso alla preselezione. I candidati della selezione finale verranno informati sul successo o meno della loro richiesta entro ottobre 2016 e in base a quando vengano verificati i requisiti di sicurezza inizia il programma di stage (marzo o settembre 2017). Il nulla osta sulla sicurezza viene dato dall’autorità nazionale del paese dell’applicante ed è l’ultimo scoglio per il candidato, oltre all’assicurazione sanitaria.Ma quali possono essere i compiti degli stagisti? Tutto dipende dalle proprie conoscenze e da quale divisione si viene assegnati: in generale si parla di «aiutare nella scrittura e preparazione dei documenti ufficiali, la presenza e redazione di riassunti delle riunioni e delle conferenze», ma si legge sul sito anche di ricerca di informazioni, compiti di pubbliche relazioni,analisi dei media e servizi amministrativi. L’iter non è semplice o breve, ma senza dubbio la fatica del candidato viene premiata: lo stagista infatti ha diritto a 800 euro mensili e fino a 1200 euro di rimborso per spese di viaggio fino alla base dove svolgerà i propri compiti.Ben 15 diverse divisioni dell’alleanza offrono opportunità: dalla difesa alla comunicazione, dalla diplomazia alla sicurezza informatica, dal management alla comunicazione: qui si trova l'elenco completo. Stupiscono varietà e innovazione di alcuni ruoli: aiutare la creazione del nuovo quartiere generale, lavorare sul piano “shared service” per creare spazi di lavoro collaborativo tra finanza, HR e informatica per tutti i lavoratori dell’organizzazione. Uno stagista racconta sul sito la sua esperienza nel servizio traduzione: «La mia internship è stata un ottimo modo per completare lo studio dell’interpretariato che ho iniziato in università: ho capito come funziona un servizio di tradizione di alto livello e ho avuto l’opportunità di lavorare con traduttori professionisti che mi hanno guidato, aiutato e passato la loro esperienza. In sei mesi ho perfezionato le mie capacità e mi sono sentito parte del corpo: infatti alla fine del contratto mi è stata offerta una collaborazione temporanea e ho lavorato regolarmente per la Nato da quel periodo».La Repubblica degli Stagisti aveva già parlato dei tirocini Nato nelle precedenti call: negli ultimi anni una media di 5mila candidati si sono fatti avanti per gli 80 posti - divisi in due tranche - offerti annualmente. Non sono pochi i giovani italiani che si fanno avanti ogni anno (quasi 1900 candidati nel 2014 e circa 1300 rispettivamente nel 2012 e 2013) e di solito l’età media è superiore ai 21 anni richiesti dalla offerta, attestandosi intorno ai 25-26 anni. Tuttavia la grande richiesta non deve scoraggiare gli aspiranti stagisti: un’esperienza di questo tipo vale sicuramente un po' di sana competizione.L'immagine in testa all'articolo è di Gac - Amc in modalità Creative CommonsL'immagine all'interno dell'articolo è di European Parlament in modalità Creative Commons

Garanzia Giovani, 124 milioni per il SELFIEmployment: ecco perché richiedere la misura autoimpiego conviene oggi più che mai

In questi giorni Garanzia Giovani, il grande programma di matrice europea pensato per supportare i giovani al di fuori di percorsi di studio e senza lavoro, ha tagliato il traguardo del milione di iscritti (la possibilità di iscriversi continua anche adesso): ora più che mai ministero del Lavoro e Regioni hanno sulle spalle l'onere di soddisfarne le aspettative. Alcuni sono stati già “serviti”: più o meno 300mila giovani hanno potuto scegliere in una rosa – spesso più ristretta del previsto – di azioni, dai corsi di formazione agli stage, dal supporto per esperienze all'estero al servizio civile. Una è rimasta invece a lungo sottoutilizzata: quella del supporto all'autoimpiego. Cioè la misura che dovrebbe fornire una formazione specifica per mettersi in proprio, per esempio aprendo una startup.Da metà gennaio è partita una iniezione di fondi proprio su questo filone: si chiama “SELFIEmployment” e ha una dotazione finanziaria di 124 milioni di euro. Invitalia ha messo a punto i dispositivi attuativi - cioè i destinatari, i requisiti formali di accesso, le attività finanziabili, le agevolazioni concedibili, il tutoraggio - e online ci sono una serie di FAQ molto dettagliate che rispondono a ogni dubbio degli aspiranti beneficiari.Il Fondo è destinato in prima battuta a 4.200 iscritti a Garanzia Giovani che abbiano usufruito di un percorso di accompagnamento all'avvio di un'impresa, che potranno presentare domanda di finanziamento al Fondo e otterranno prestiti a tasso zero (da 5mila a 50mila euro) senza garanzie personali e con un piano di ammortamento fino a 7 anni.  «La misura sarà totalmente paperless e “a sportello”, cioè aperta fino a esaurimento delle risorse disponibili» specificano da Invitalia: «Le istruttorie dei business plan prevedono una prima fase che stabilisce l’ammissibilità del progetto, che di fatto verifica il possesso dei requisiti formali e la regolarità della documentazione inviata, e una seconda fase che ne dà una valutazione di merito, fondata sulla sostenibilità economico-finanziaria e la coerenza interna. I tempi di erogazione delle agevolazioni dovrebbero corrispondere a 30 giorni dalla presentazione del progetto».Ma esistono, quantomeno sulla carta, 4.200 iscritti a Garanzia Giovani che abbiano già usufruito di un percorso di accompagnamento all'autoimpiego? Macché: «il numero di 4.200 destinatari è una stima indicativa della capienza dello strumento finanziario, considerando un importo medio dei prestiti erogati pari a 30mila euro circa» spiega il ministero del Lavoro alla Repubblica degli Stagisti. In realtà la situazione attuale del numero di persone che hanno completato i percorsi di accompagnamento all’autoimpiego e all’autoimprenditorialità (in termini tecnici: «a valere sulla Misura 7.1 del Programma Operativo Nazionale Iniziativa Occupazione Giovani») è sideralmente al di sotto di 4.200. A fine 2015, infatti, solamente 459 giovani avevano usufruito in tutta Italia di questa misura, nella maggior parte dei casi in Friuli (159), in Toscana (87), in Sardegna (86) e in Molise (77). Intere Regioni - tra cui anche Puglia, Veneto, Campania, Piemonte! - stando alla documentazione dello staff di Poletti non avevano attivato nemmeno uno di questi percorsi. Ma adesso, giura il ministero, si corre per mettersi in pari: «Di concerto con Unioncamere stiamo predisponendo ulteriori percorsi di accompagnamento all’autoimpiego e all’autoimprenditorialità da erogarsi con modalità uniformi su tutto il territorio nazionale». Dunque “SELFIEmployment” sarebbe capace di soddisfare 4.200 giovani, ma attualmente esistono in Italia solamente poche centinaia di persone che rispondono ai requisiti per fare richiesta di questi finanziamenti. Da qui, un consiglio spassionato a chi è iscritto a Garanzia Giovani: se avete anche un minimo di propensione al lavoro autonomo vi conviene fare richiesta della misura «autoimpiego». Nei prossimi mesi, sembra proprio essere quella che metterà a disposizione più opportunità e sulla quale ci sarà meno competizione. Non sarà certo questo a “salvare” Garanzia Giovani, ma certamente potrà soddisfare qualche migliaio di iscritti.Eleonora Voltolina

20 anni di Sve, finora 100mila partecipanti: così si promuove «il dialogo tra culture»

Vent'anni di servizio volontario europeo, due decenni di partenze di giovani tra i 18 e i 30 anni per esperienze di volontariato in tutto il mondo. «Centomila viaggi registrati finora» dice Luigi Bobba, sottosegretario al Lavoro, all'evento di celebrazione del ventennale organizzato a Roma dall'Agenzia giovani, l'ente incaricato di distribuire i fondi europei destinati a progetti legati alla mobilità delle nuove generazioni. In primis Erasmus+, in cui è confluito lo stesso Sve, che garantisce un anno all'estero tra i più formativi, di quelli che possono cambiare la vita. Con differenze marcate rispetto al più classico e conosciuto Erasmus («che ha visto in trent'anni tre milioni di partenze» ha ricordato ancora Bobba).Lo si capisce dal racconto di alcuni dei partecipanti intervenuti all'incontro – che ha visto tra i relatori anche Silvia Costa [nella foto a destra], parlamentare europea, Cinzia Zaccaria del dipartimento Gioventù e servizio civile, il presidente dell'Agenzia Giovani Giacomo D'Arrigo. «Ho conosciuto tante persone diverse e le ho potute aiutare» racconta Emiliano Marega, 32enne con problemi di disabilità, impegnato per nove mesi a Alvines, in Spagna, con l'associazione Anfass di Pordenone, che tutela i diritti dei disabili. Marega si è occupato di insegnamento non formale dell'inglese e dell'italiano, «cosa che mi ha permesso di mettere a frutto i miei studi». Ma sono sopratutto i risvolti umani ad aver segnato il suo soggiorno spagnolo, al fianco di altre persone in difficoltà, come la volontaria italiana che «accompagnavo a fare la spesa».Helena Chamier, 22enne polacca, sta invece svolgendo i suoi dodici mesi di percorso a Treviolo, vicino Bergamo, con la cooperativa Aeper. Qui aiuta i bambini che provengono da famiglie in condizioni di disagio sociale e economico e li affianca nelle attività quotidiane: «preparazione dei pasti, aiuto dei compiti, laboratori pomeridiani» per esempio. Un momento cruciale del suo cammino di vita per lei che – come tanti partecipanti allo Sve – non poteva permettersi il più classico Erasmus. Lo Sve si caratterizza infatti per la copertura totale delle spese che si devono sostenere dal momento in cui si parte. Se negli scambi internazionali si riceve di solito una borsa mensile piuttosto contenuta, per il volontariato le condizioni prevedono invece di norma vitto e alloggio gratuito all'interno della struttura ospitante, oltre a un piccolo rimborso per gli extra e alla copertura delle spese di viaggio (per il 2016 sono oltre dodici milioni i fondi a disposizione, tutti stanziati sul pacchetto Erasmus+).Il contesto non è però quello dei party universitari da studente Erasmus. È il senso di appartenenza a una comunità l'insegnamento che questi giovani portano a casa: a Marco Meloni, 26enne di Cagliari, è successo per esempio di andare a Rosario in Argentina come cooperante per l'associazione no profit TDM 2000 della sua città, e collaborare così alla riqualificazione di uno dei quartiei più popolari del centro urbano e alla creazione di percorsi di inserimento per famiglie svantaggiate.«È un'emozione ascoltare questi ragazzi»: per Cinzia Zaccaria «il significato di questa esperienza è la creazione di un modello diverso che alla solitudine e all'emarginazione contrappone la forza delle relazioni umane». L'effetto è che «si matura nella personalità, si impara a dare il giusto valore ai problemi che tendiamo a ingigantire quando ci troviamo chiusi in un ambiente». E si creano «ponti interculturali».Su questo aspetto ha molto insistito anche Silvia Costa: «La solidarietà e la fiducia reciproca sono le fondamenta su cui l'Europa si deve tenere» ha detto. Nell'intervento della Costa – tra i più appassionati – anche il riferimento all'emergenza profughi («le misure per la sicurezza senza il dialogo interculturale non bastano» ha ricordato sottolineando il ruolo dello Sve in questa direzione) e alla necessità di dare risalto all'attività dei giovani che operano in questo contesto: «Ci vorrebbe una striscia quotidiana in tv di ragazzi che parlano delle loro esperienze in Europa, è una ricchezza che stiamo sprecando». Anche perché non si tratta di una minoranza, se è vero «come dicono alcune statistiche che un giovane su quattro in Europa svolge o è interessato a iniziare attività di volontariato». Una visibilità su cui è al lavoro anche Ang, ha chiarito D'Arrigo [nella foto a sinistra], grazie «alla collaborazione con Mtv e alla nascita di una web tv».Lo sve è anche alternativa ai tradizionali canali di ricerca del lavoro. Per chi sente la vocazione del sociale, cimentarsi in un'organizzazione no profit all'estero può significare trovare la propria strada anche professionale. Così è stato per i tre "testimonial": Marco Meloni oggi lavora come project manager per un'azienda di comunicazione e per una società di progetti formativi; Helena Chamier vorrebbe restare in Italia e dare un futuro alle capacità che sta affinando; e Emiliano Marega è diventato insegnante abilitato di lingua inglese. L'evento stesso è stato occasione per «puntare i riflettori sull'importanza dello Sve, che arricchisce il bagaglio dei giovani da un punto di vista sociale, culturale e professionale perché consente di acquisire competenze spenidibili sul mercato del lavoro». Ilaria Mariotti 

Servizio civile in un altro Paese europeo: parte la sperimentazione con le prime 50 opportunità

Si chiama servizio civile nazionale ma si può svolgere anche all’estero. E, da quest’anno, con un’opportunità in più: si potrà partire e mettersi in gioco in un altro Paese dell’Unione europea. Sono 50, infatti, i volontari che verranno selezionati per l’iniziativa sperimentale europea “International Volunteering Opportunities for All” (da cui l'acronimo: Ivo4All). La scadenza, meglio dirlo subito, è molto stretta: le candidature si chiudono mercoledì 16 marzo alle ore 14. Ma in ballo c’è l’offerta per un’esperienza di formazione internazionale: sei mesi complessivi di servizio civile, di cui quattro effettivi all’estero e due di formazione in Italia per cimentarsi in vari settori della cittadinanza attiva, in un contesto europeo, coperti da una retribuzione mensile pari a 433,80 euro (che viene considerata un compenso a tutti gli effetti ai fini del reddito imponibile, con successiva possibilità di riscatto dei contributi), più un’indennità di 15 euro per ogni giorno di effettiva permanenza all’estero, il rimborso delle spese di viaggio e vitto e alloggio assicurati. La possibilità di svolgere il servizio civile nazionale oltreconfine non è nuova, anche se forse poco conosciuta: nel 2014, stando ai dati del Dipartimento della Gioventù e del Servizio Civile Nazionale della Presidenza del Consiglio, sono partiti in 477 (su oltre 15mila volontari), verso tutti i continenti. La particolarità dell’iniziativa Ivo4All sta nel target a cui è rivolta: le candidature sono sì aperte a tutti i giovani tra i 18 e i 28 anni, ma hanno un occhio di riguardo per coloro che hanno minori opportunità sociali: «L’intento è di suscitare l’interesse per l’esperienza del servizio civile nei giovani che ad oggi non la considerano appetibile» spiega alla Repubblica degli Stagisti Patrizia De Bernardis, dirigente del Servizio Accreditamento e Progetti del Dipartimento della Gioventù e Servizio civile nazionale: «Spesso, ad esempio, chi sceglie il servizio civile ha una buona istruzione e buone conoscenze linguistiche. Questo progetto è sperimentale perché mette il focus sull’inclusione: per la prima volta vuole raggiungere e offrire un’opportunità a chi magari ha un livello di istruzione meno elevato, una conoscenza linguistica meno buona o si trova nella cosiddetta categoria dei Neet», gli under 30 non impegnati nello studio, né in esperienze di lavoro né di formazione.L'opportunità è aperta a tutti i cittadini Ue e a quelli non comunitari regolarmente soggiornanti. I criteri di selezione, però, come specificato nell’allegato 7 del bando, prevedono l’attribuzione di un punteggio in più in presenza di alcune condizioni, comunque non obbligatorie, relative al livello di reddito (a seconda della certificazione Isee), alla residenza in una delle cosiddette Regioni a “obiettivo convergenza” e cioè Calabria, Campania, Puglia e Sicilia; e infine, l’iscrizione al programma Garanzia Giovani. «Abbiamo deciso di limitare l’esperienza a sei mesi e di mantenere le destinazioni all’interno dei confini europei» aggiunge De Bernardis «proprio per cercare di facilitare al massimo chi magari non è mai stato all’estero prima d’ora».Espandere a livello europeo gli orizzonti del servizio civile è un concetto che piace agli Stati. Ivo4All parte ora come progetto europeo sperimentale dentro Erasmus+, con la Francia come capofila e Italia, Lituania, Lussemburgo e Regno Unito tra i partner. Ma sarà anche l'apripista ideale per un altro progetto più ambizioso, questa volta solo tra Italia e Francia. La firma l'hanno messa direttamente i presidenti Renzi e Hollande nel vertice di questi giorni a Venezia. La dichiarazione d'intenti darà il via alla definizione di un progetto pilota italo-francese per permettere a 100 giovani volontari tra italiani e francesi in servizio civile di effettuare un'esperienza di mobilità. Con la speranza, ha rimarcato Luigi Bobba, sottosegretario al lavoro con delega alle politiche giovanili, che diventi «un primo passo verso un sorta di  Erasmus del Servizio civile». Ma come funziona il progetto Ivo4All? I 50 posti messi a disposizione in Italia sono distribuiti in sei progetti di altrettante organizzazioni: “Mobilità senza frontiere” e “L’Europa siamo noi” delle Acli (rispettivamente 6 e 4 posti); “Europa Trasmontana” di Cesc Project (8 posti); “Young Action” di Amesci (16 posti); “NOI (Nuove Opportunità Internazionali)" della Provincia di Foggia (4 posti) e, infine, il progetto “GIVE (Giovani Volontari Internazionali in Europa – 2015)” di Focsiv (12 posti). La selezione viene effettuata sulla base di titoli (che attribuisce fino a 30 punti) e di un colloquio motivazionale attitudinale (altri 30 punti). La candidatura può essere inviata per un solo progetto e va indirizzata direttamente all’ente che promuove l’iniziativa, con tre modalità: via mail da un indirizzo di posta elettronica certificata, con i documenti allegati in pdf; a mezzo raccomandata a/r; oppure consegnata a mano. Non può candidarsi chi sta svolgendo o ha già svolto in passato il servizio civile nazionale, anche all’interno di Garanzia Giovani, o chi lo abbia interrotto prima della scadenza prevista. Escluso anche chi ha rapporti o collaborazioni lavorative con l’ente che realizza il progetto. Tutta la documentazione è disponibile online, sul sito del Dipartimento della Gioventù e del Servizio civile nazionale: alla domanda (allegato 2) va allegata la fotocopia di un documento di identità e una scheda (allegato 3) con l’elenco dei titoli (di studio, di esperienze e tirocini) e requisiti (di reddito, residenza e/o inquadramento nel programma Garanzia Giovani) di cui si è in possesso. Titoli e requisiti devono essere poi presentati entro e non oltre il colloquio orale di selezione. Il colloquio sarà svolto dall’ente a cui è stata inviata la candidatura e mira ad accertare le motivazioni alla partecipazione e l’interesse nel progetto, oltre ad approfondire studi ed esperienze lavorative e di volontariato del candidato, l’interesse nello svolgere esperienze all’estero, la conoscenza delle lingue straniere e le caratteristiche del nucleo familiare, cioè studi e reddito degli altri componenti della famiglia. Il punteggio minimo per essere ritenuti idonei è pari a 18/30. Sarà poi il Dipartimento Gioventù e Servizio civile a predisporre i contratti, sulla base delle graduatorie inviate dagli enti stessi. La partenza dei volontari è fissata a partire dall’11 aprile prossimo, a seconda dei tempi di selezione e di inizio dei progetti. Ciò vuol dire che potrebbe essere possibile uno slittamento in avanti delle partenze. Una volta selezionato il gruppo di volontari, i quattro mesi all’estero saranno preceduti da una formazione pre-partenza in Italia, che comprende, come spiega il bando, «un periodo di formazione generale non inferiore a 30 ore, un corso di lingua straniera (inglese, francese, spagnolo o portoghese, a seconda del Paese dove si realizza il progetto) della durata di tre settimane che si svolgerà a Roma, e un periodo di formazione specifica inerente le attività previste nel progetto, da effettuare presso l’ente titolare del progetto prescelto». In questo modo «vogliamo seguire nel modo più completo possibile i ragazzi, che saranno divisi in piccoli gruppi e affiancati da un tutor», precisa De Bernardis. Resta ferma l’intenzione di avvicinare al servizio europeo chi forse non ci avrebbe nemmeno mai pensato, favorendo così l’inclusione sociale: «L’obiettivo fondamentale del progetto» secondo il sottosegretario Bobba «è lo sviluppo  di esperienze  che consentano di ampliare la dimensione europea del servizio civile. L’analisi e la valutazione dei risultati ci consentiranno di comprendere quali siano i principali ostacoli ad una maggiore mobilità dei giovani con minori opportunità e, di conseguenza, di come favorirli,  nell’accesso alle opportunità dell’Unione europea».Maura Bertanzon@maura07 Foto di copertina e prima immagine in alto a destra da: serviziocivile.provincia.foggia.it 

Il lavoro si cerca online e sui social network, ma le aziende faticano a capirlo: con qualche bella eccezione

Alcuni passi in avanti verso le nuove tecnologie ma ancora poco coraggio per le aziende italiane nell'utilizzo di strumenti innovativi per la ricerca di personale: questa la sintesi dell’ultimo studio annuale OTaC – Online talent communication per l’Italia, ad opera di Potentialpark, istituto di ricerca con sede a Stoccolma specializzato nello studio delle esigenze dei candidati nella ricerca online di lavoro. I risultati dell'indagine – condotta dal settembre 2015 al gennaio di quest’anno – sono stati presentati alla stampa pochi giorni fa e mostrano che in generale le aziende hanno fatto progressi rispetto agli anni precedenti, cercando di avvicinarsi ai comportamenti dei giovani, ma senza crederci fino in fondo. Non realizzando, quindi, vera innovazione nel recruitment. Allo studio quest’anno hanno partecipato quasi 24mila studenti e neolaureati di tutto il mondo; l’Italia, con oltre 5mila partecipanti, si è attestata come primo paese al mondo per numero di risposte. E proprio in riferimento specificamente all'italia Potentialpark rileva che nel 2015 c’è stato un generale investimento delle imprese italiane nell’attuazione di strategie di miglioramento della loro comunicazione e selezione online. E se le aziende investono di più sulle piattaforme digitali, le risposte non tardano ad arrivare. Le pagine “Lavora con noi” continuano a essere il centro delle strategie di comunicazione delle aziende e ben l’80% dei candidati utilizza proprio la sezione career come fonte primaria per acquisire informazioni. Con un piccolo incremento rispetto al 2014 sull’affidabilità rispetto a quello che viene pubblicato. Al primo posto, quindi, c’è proprio internet, seguita dagli eventi in campus e dai contatti sui professional network come Linkedin.E proprio il social network professionale per eccellenza sembra subire un calo: rispetto all’anno precedente una persona su dieci ha deciso di non usarlo per candidarsi a una posizione di lavoro, facendo scendere dalla terza alla quarta posizione questo canale a favore dei portali di lavoro online.Nonostante i miglioramenti, le aziende, però, sono ancora timide e poco innovative nello sfruttare internet, preferendo non prendere in considerazione i nuovi comportamenti social dei giovani. Se, infatti, il 53% dei candidati italiani usa Instagram regolarmente, solo il 19% delle aziende è disposto a utilizzare questo canale per il recruitment. Perdendo quindi la possibilità di intercettare quella percentuale di candidati. Altro tema: gli smartphone usati anche per la ricerca di lavoro. In un anno è salito di quasi dieci punti percentuali il dato di quanti usano proprio un dispositivo mobile per accedere a un sito carriera. Questo spiega perché il numero di aziende (79 in totale quelle studiate in Italia) che hanno lavorato per rendere mobile-friendly le loro pagine web sia quasi raddoppiato. Fermandosi, però, a poco più della metà del campione.Lo studio OTaC fornisce alle aziende tre suggerimenti per cercare di colmare il gap con i candidati. Per prima cosa, arricchire gli annunci di lavoro pubblicati sui siti aziendali. Spesso e volentieri, infatti, manca la parte dedicata all’esperienza del candidato, che è invece presente sui siti di lavoro dedicati alle candidature online. Ed è qui che le aziende dovrebbero intervenire, proponendo testimonianze che aiutino nel processo decisionale. Ricordandosi che i form online sono utilizzati dal 75% del campione, in crescita di quasi dieci punti rispetto all’anno precedente. Poi accelerare il cambiamento: quindi rassegnarsi al fatto che lo smartphone è sempre più utilizzato ed è impensabile che la sezione career non sia accessibile dal cellulare o che lo sia ma con meccanismi lunghi. Infine, accettare di fare campagna sui social network di moda: Instagram ma anche Twitter e soprattutto Whatsapp, usata dal 96% degli intervistati.  Ma qual è la realtà che quest’anno ha osato di più ed attratto i giovani? Su tutte vince Accenture, che ha adattato il proprio sito carriera per un uso tramite smartphone e rinforzato la presenza sui social media. Seguita da Roche e L’Oreal, che mette ben in evidenza anche le testimonianze di chi ha avuto esperienze lavorative in azienda. Nella classifica di Potentialpark trovano posto anche alcune aziende che aderiscono all’RdS network, e che quindi offrono agli stagisti un buon rimborso spese e delle ottime chance di assunzione a fine stage. Sono EY, Nestlé, Elica e PwC, rispettivamente al 12, 15, 16 e 19° posto.«Non si può più fare a meno dei social: il mondo evolve, e così anche il modo di fare selezioni. Perciò siamo presenti sui principali social network e abbiamo deciso di aprire altri canali come Instagram, Twitter, Pinterest e una piattaforma Linkedin che a livello Hr è il principale strumento grazie al quale negli ultimi due anni abbiamo chiuso una decina di selezioni» spiega Julia Sciuto, education ed employer branding manager di Elica. «Senza dimenticare il nostro sito dedicato alle risorse umane, che resta la prima piattaforma grazie alla quale facciamo molte selezioni».I social «facilitano tantissimo nella comunicazione immediata: se siamo presenti a un career day un tweet diventa molto immediato. Ed è il connubio tra tutti i social che fa la differenza. Per esempio noi usiamo molto Instagram per gli eventi o per far vedere com’è la nostra azienda, per far conoscere il nostro mondo anche da un punto di vista di clima lavorativo». E investire sui social, come lo studio OTaC dimostra, conviene. «Grazie ai social abbiamo molte più informazioni a disposizione. Se mi arriva un curriculum posso trovare subito su Linkedin o Facebook un riscontro. E succede anche per i ragazzi. Quando li accolgo al centralino vedo subito che anche senza presentarmi mi hanno riconosciuta, perché è evidente che anche loro fanno ricerche per esempio su Linkedin. Per noi la ricerca dei curriculum adatti è molto facilitata. E i candidati grazie ai tanti canali social riescono ad avere subito un vero e proprio storytelling dell’azienda».É la dimostrazione che i consigli dello studio OTaC, sopratutto quello di fare campagne sui social, hanno effetti positivi anche nella selezione del personale. Da un punto di vista di employer branding, quindi di come l’azienda viene percepita dai potenziali lavoratori, ormai i social network sono fondamentali per trasmettere l’idea che quel posto di lavoro sia il migliore per fare carriera.  Marianna Lepore[nella foto in alto, il team internazionale di Potentialpark presente alla conferenza: da sinistra Elisabeth Wicklin, Guillame Caramalli, Marco Del Canale, Viola Baldoni, Antoine Lhosmot, Ulrike Weiter]

Esplode il 1° marzo sui social network la battaglia contro gli stage gratis all'Onu

Stagisti non pagati costretti a sobbarcarsi spese elevate in città costose pur di fare esperienze importanti e formative che potrebbero dare quel quid in più nel proprio futuro lavorativo: il problema riguarda non solo l’Italia, come più volte la Repubblica degli Stagisti ha testimoniato. Ma coinvolge anche gli stagisti di uffici all’estero molto prestigiosi, come tutti quelli che affollano i palazzi dell’Onu. Tirocinanti che da anni protestano per cercare di far introdurre un rimborso spese.La Repubblica degli Stagisti sostiene da sempre questa battaglia: già parecchi anni fa pubblicò una “black list” degli organismi internazionali che non pagavano gli stagisti. Due anni fa ha sollevato il caso degli stage gratis nella sede romana dell’Unhcr, e l’attenzione nel denunciare l’iniquità degli stage gratuiti è sempre stata altissima. L’estate scorsa abbiamo seguito da vicino il caso dello stagista in tenda a Ginevra, che stava facendo uno stage gratuito all’Onu, e grazie ad anni di articoli e campagne per richiedere tirocini retribuiti presso le ambasciate e i consolati in giro per il mondo la nostra testata è riuscita a portare a casa, in Italia, l’introduzione di un minimo rimborso spese per gli stage svolti al ministero degli Esteri, in ambasciate e consolati (i cosiddetti “tirocini Mae-Crui”, oggi “Maeci-Crui”).  Esempi che mostrano la vicinanza della Repubblica degli Stagisti alla battaglia portata avanti dai tirocinanti degli uffici delle Nazioni Unite. Che fino ad oggi, nonostante le manifestazioni e i sit-in e l’appoggio ricevuto in rete e dal vivo, non sono riusciti ad ottenere molti risultati. Ecco allora che la Fair internship initiative (un gruppo di ex e attuali stagisti delle Nazioni unite che portano avanti una battaglia per ottenere stage di qualità e retribuiti all’interno dell’Onu) ha ideato una campagna sui social media che vedrà il suo massimo risultato domani, martedì 1° marzo. «Il 29 febbraio a New York c’è un evento molto importante, il Comitato Quinto, ovvero la Commissione dell’assemblea generale con responsabilità per l’amministrazione e le questioni di bilancio che consiglia quali misure adottare alle agenzie specializzate. È la migliore occasione al momento per ottenere qualche cambiamento concreto nelle politiche sui tirocini alle Nazioni Unite, da quando è nata la Fair internship initiative un anno fa» spiega alla Repubblica degli Stagisti Fernanda Dutra, che ha curato la campagna mediatica. «È arrivato il momento di mostrare all’Onu che questo tema è appoggiato non solo dagli stagisti di Ginevra e New York. Così abbiamo pensato a una campagna sui social media in cui centinaia di persone possono dire che appoggiano questa battaglia e vogliono vedere un cambiamento».E in effetti l’appoggio non sembra mancare. A pochi giorni dalla data di scadenza già 320 persone hanno deciso di condividere il messaggio su Thunderclap: «#ZeroDiscrimination also means equal opportunities at the UN. I support Fair Internship Initiative #UNpaidIsUNfair» (tradotto: Zero discriminazioni significa anche opportunità uguali all’Onu. Appoggio la Fair Internship Initiative “non pagato è ingiusto”). «Lo scopo della campagna social è quello di sensibilizzare l'opinione pubblica su questo tema» aggiunge Fernanda Dutra, «e in questo senso abbiamo già raggiunto l’obiettivo. Con l’appoggio ricevuto raggiungeremo sui social oltre 700mila persone, senza aver pagato un solo centesimo per promuovere questa campagna». Il meccanismo è semplice: chiunque può registrarsi su Thunderclap con il proprio account Facebook o Twitter, appoggiando il messaggio. Poi il 1° marzo, la piattaforma «pubblicherà nello stesso istante il messaggio sugli account di chi lo ha appoggiato, creando un’ondata di attenzione».  Ma la campagna non si esaurisce qui: è stata creata, infatti, una pagina dal nome «Our Stories» (le nostre storie), dove si scoprire le condizioni vissute da questi stagisti, principalmente in città costose come Ginevra e New York. E leggere, ad esempio, la storia di Kara, arrivata a Ginevra per seguire un master grazie a un prestito del governo americano, ma costretta a tornare negli Stati Uniti dopo mesi di doppi lavori per pagarsi tutto, visto l'unico stage trovato era alle Nazioni Unite ma totalmente gratuito. Una delle tantissime storie simili di quanti sono entrati e usciti dai palazzi Onu. Basti pensare ai costi a cui questi giovani sono sottoposti: «Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità gli stagisti possono vivere a Ginevra con circa 1800-2000 franchi svizzeri» dice amara Fernanda alla Repubblica degli Stagisti. Ma la cifra che l’organizzazione identifica come “costo medio” in realtà «è ben al di sotto della soglia di povertà che nella stessa città è di 2200». Per questo è nata la Fair internship initiative: per dare voce e risonanza alla condizione vissuta da troppi stagisti fino ad oggi. E per lo stesso motivo si è deciso di lanciare questa campagna mediatica. «Il Comitato Quinto dell’assemblea generale dell’Onu  è l’unico organo che può cambiare la politica degli stage, considerando l’atteggiamento attendista e restio del segretario» spiega Matteo De Simone di Fair internship initiative Geneva alla Repubblica degli Stagisti. «Perciò chiediamo sostegno a tutti: la FII di New York ha incontrato più di trenta delegazioni e siamo in contatto con la presidenza della Staff Union e con Un Youth Envoy. Anche se ad oggi l’unico stato membro che ha appoggiato in maniera ufficiale questa battaglia è stato la Francia», grazie all'incessante impegno del collettivo Génération Précaire: «Gli altri stati membri ci sostengono in maniera non ufficiale e premono perché i contributi esistenti, il budget dell’Onu è di circa 42miliardi di dollari, (ndr. come spesa totale in un anno, mentre come spese per staff e categorie professionali per il 2013 arrivava a quasi 5 miliardi di dollari) vengano usati meglio e ritengono che ci sia margine di manovra per istituire una borsa per i tirocinanti a copertura delle spese». Un’idea che potrebbe radicalmente cambiare la vita dei tanti stagisti passati attraverso questi tirocini, ma che non ha ricevuto ad oggi l’appoggio del segretariato, convinto che «gli stati debbano istituire una nuova linea di budget che si aggiunga ai contributi esistenti». Un interessante articolo sul perché l'Onu non paga i suoi stagisti, e quanto costerebbe se lo facesse, è apparso sull'Economist, nell'agosto del 2015, dove si scrive che per farlo le Nazioni Unite dovrebbero trovare i soldi: circa 13milioni di euro l'anno. Non proprio bruscolini. Al momento, quindi, la battaglia di Fair internship initiative è portata avanti senza grandi supporti pubblici: anche il giordano Ahmad Alhendawi, 31 anni, rappresentante speciale delle Nazioni Unite per i giovani ha dato un appoggio non particolarmente convinto, limitandosi a dire che «la politica degli stage delle Nazioni Unite andrebbe rivista» e che «dovremmo cercare di richiamare più persone dal Sud del mondo». Una posizione neutra probabilmente dovuta al fatto che anche in questo ufficio ci sono molti stagisti, non pagati. E allora mentre il web si prepara a esplodere il 1° marzo con centinaia di messaggi a favore di tirocini economicamente sostenibili, le proteste non mancheranno anche dal vivo. A Ginevra ci sarà un simbolico campeggio in Place des Nations davanti all’Onu, mentre a New York i giovani andranno in giro con zaini da trekking distribuendo materiale informativo.  Il messaggio che deve passare è chiaro: allineare le condizioni di lavoro dei collaboratori più giovani ai valori che le Nazioni Unite rappresentano. E quando si parla di collaboratori più giovani non pagati, si fa riferimento a più di 4mila persone, secondo il report pubblicato proprio dall’Onu. I dati, però, non sono aggiornati visto che il numero è riferito al 2012-13 e si è ancora in attesa che venga pubblicato il nuovo report, che sarebbe dovuto uscire due anni fa. Proprio i dati delle Nazioni Unite mostrano che di queste oltre 4.500 persone impiegate a costo zero, ben 3900 erano stagisti, la stragrande maggioranza donne. Ma quel che più spaventa è che questi dati non prendono in considerazione gli stagisti nelle agenzie specializzate, come Unesco, Fao, Ilo, solo per citarne alcune. Motivo che fa quindi pensare a un numero decisamente maggiore. Per questo è arrivato il momento di reagire, di far sentire la propria voce e portare avanti una battaglia che la Repubblica degli Stagisti sostiene da molti anni: i tirocini devono avere sempre un rimborso spese, perché il lavoro – anche nella fase del training on the job – va sempre pagato e mai sminuito. E poi perché altrimenti si finisce con il lasciare fuori da questa opportunità centinaia di giovani qualificati che non hanno alle spalle una famiglia in grado di sostenerli e permettergli di svolgere uno stage gratis, magari alle Nazioni Unite, con la speranza che sia l’inizio di una brillante carriera. @MariannaLeporeEnglish text here

L'indennità di stage è compatibile con la Naspi? Le risposte regione per regione

Il “sussidio di disoccupazione”, cioè il sostegno economico erogato a chi perde il lavoro finché non ne ritrova un altro, è stato al centro di molti cambiamenti normativi negli ultimi anni. Ha mutato più volte nome - Aspi, MiniAspi, adesso “Naspi” - e la platea dei potenziali beneficiari si è allargata, andando a comprendere anche i giovani precari che prima ne erano quasi sempre esclusi.Ma tutti questi cambiamenti hanno generato anche molta confusione, specialmente rispetto a un punto: la compatibilità con il compenso che si percepisce per uno stage.Ovviamente infatti si ha diritto la Naspi quando non si ha un lavoro, e dunque non si percepisce una retribuzione. Ma lo stage non è un lavoro; e le somme mensili che gli stagisti ricevono non sono “retribuzioni”. Le si può chiamare “indennità”, oppure “rimborsi spese forfettari”, “borse di studio”, “borse lavoro”… Tante definizioni per intendere una sola cosa: una somma periodica attribuita allo stagista come corrispettivo della sua partecipazione all'attività di stage.Da un paio d'anni, erogare una indennità ai propri tirocinanti non è più facoltativo, almeno per quanto riguarda i tirocini extracurriculari: anche grazie a un lungo lavoro di pressione della Repubblica degli Stagisti, nel corso del 2014 tutte le Regioni si sono adeguate all'accordo raggiunto in sede di Conferenza Stato - Regioni, e hanno stabilito ciascuna una indennità mensile minima a favore degli stagisti (anche se purtroppo restano fuori dalle tutele i curriculari). Dunque il numero di giovani che ricevono un compenso per lo stage è aumentato, anche se non ci sono rilevazioni statistiche al riguardo. Era inevitabile che questi due elementi scatenassero un cortocircuito: i giovani hanno (più di prima) accesso a stage con indennità, e hanno (più di prima) accesso alla Naspi. Che succede dunque quando si comincia uno stage mentre si percepisce la Naspi?Lo stage non è un contratto di lavoro, e l'indennità non è uno stipendio: ma è comunque un «reddito assimilabile a reddito da lavoro dipendente», almeno fiscalmente. E lo Stato italiano vuole evitare di sprecare risorse, permettendo una cumulabilità tra il sussidio e indennità. Con una eccezione: i tirocini attivati all'interno dell'iniziativa Garanzia Giovani, che godono di condizioni particolari, tra cui appunto la compatibilità del compenso con eventuali trattamenti di sostegno al reddito come la Naspi.Qui sul Forum della Repubblica degli Stagisti negli ultimi tempi sono venuti molti lettori a porre domande su questo tema: per questo abbiamo deciso di dedicare un approfondimento giornalistico alla compatibilità tra Naspi e indennità di stage. Abbiamo suddiviso la grande mole di informazioni raccolte in tre articoli, firmati da Paolo Ribichini, caratterizzandoli secondo un criterio geografico:→ Italia settentrionale→ Italia centrale→ Italia meridionalePurtroppo, la maggior parte delle persone a cui ci siamo rivolti per chiedere informazioni e dettagli – dirigenti locali dell'Inps, responsabili dei centri per l'impiego… – ha scelto di non rispondere, malgrado le molte email e telefonate di sollecito. Questo ha reso il nostro lavoro più difficile, e anzi chiediamo a tutti i lettori che si fossero trovati nella situazione di ricevere una risposta su questo tema di condividerla qui con noi, sul Forum, per poter arricchire in itinere questo approfondimento.Infine, una considerazione. Nella maggior parte dei casi, come leggerete, la non-compatibilità tra Naspi e indennità comporta la “soppressione” di quest'ultima. Cioè per lo stagista percettore di Naspi decade il diritto a ricevere l'indennità. Probabilmente la ratio di questa decisione è che la Naspi è solitamente più alta dell'indennità di stage: e dunque tenere la Naspi e lasciare l'indennità è nella maggior parte dei casi conveniente, a livello economico, per lo stagista.Il problema però è che la Naspi la paga lo Stato (cioè tutti noi), mentre l'indennità di stage la pagano i singoli soggetti ospitanti (cioè, in maggioranza, imprese private). L'effetto perverso di far decadere l'indennità trasforma tutti gli stagisti percettori di Naspi in “stagisti gratis”, a disposizione delle aziende e a carico dello Stato. Può essere che questo spinga le aziende a scegliere di accogliere in stage percettori di Naspi? E' probabile. Questo è un bene? Noi della Repubblica degli Stagisti non ne siamo così sicuri: da anni infatti diciamo che fornire stagisti gratuitamente non responsabilizza i soggetti ospitanti, e che anzi quando c'è un investimento economico diretto dell'azienda sullo stagista, si alzano anche le probabilità di assunzione al termine del percorso formativo. Insomma, l'obiettivo di rendere più appetibili i percettori di Naspi per le aziende è condivisibile, ma la strategia rischia di generare effetti distorti.Non è poi chiarissimo cosa succeda, in concreto, a qualcuno che riceve sia la Naspi sia l'indennità, magari perché l'azienda ospitante non sapeva dell'incompatibilità. Gli potrebbe essere richiesto, in futuro, di rendere quanto ricevuto? L'azienda ospitante potrebbe incorrere in sanzioni? La Repubblica degli Stagisti sta sottoponendo queste domande a esperti in temi fiscali, e tornerà presto sull'argomento con ulteriori dettagli.Intanto, buona lettura con la panoramica della situazione da Nord a Sud.[L'immagine dell'Inps è tratta da Flicr, foto di Stefano Corso in modalità Creative Commons]

Curiosità, passione, creatività e studio: i giovanissimi devono ripartire da qui per «Allenarsi per il futuro»

Un bambino si allena da subito per imparare a gestire il futuro perché ogni giorno per lui è un apprendimento continuo. Eppure quella curiosità e quello stimolo che gli permettono di apprendere e capire a un certo punto scompare. È da questa constatazione che si sviluppa «Allenarsi per il futuro – Idee e strumenti per il lavoro che verrà», pubblicato dalla casa editrice Rubbettino e scritto a quattro mani da Stefano Cianciotta, editorialista e opinionista economico attualmente docente di comunicazione e crisi all’Università di Teramo, e Pietro Paganini, professore aggiunto in Business Administration alla John Cabot University.  «La scuola dovrebbe aiutare i ragazzi stimolandoli a una formazione continua: che non significa che ogni giorno devono imparare una poesia, ma che ogni giorno devono confrontarsi in modo critico con quello che gli sta intorno» spiega Stefano Cianciotta [nella foto a destra] alla Repubblica degli Stagisti. «Se pensiamo che gli anni più importanti della formazione un ragazzo non li passa con la sua famiglia ma a scuola, allora capiamo l’importanza che ha nella costruzione del suo pensiero».Eppure la scuola intesa come palestra è diventata negli anni «un luogo dove si frenano le passioni e l’intuito dei giovani», intendendo per “scuola” tutto il sistema della formazione, compresa quella universitaria e post universitaria. «A nostro giudizio in questi ultimi 30 anni si è abbandonato quell’equilibrio tra preparazione umanistica e competenza scientifica che di fatto aiutava il sistema italiano ad emergere. E alla fine tutto il sistema della formazione ha fatto dei passi indietro molto evidenti. Una volta aiutava a elaborare un giudizio critico, ora non più. Ma dovrebbe tornare a farlo, abituare lo studente al problem solving, al lavoro di gruppo: elementi che preparerebbero a gestire le crisi che si verificano nel mondo del lavoro».Cosa che oggi, secondo l’analisi dei due autori, non succede: anzi Cianciotta e Paganini arrivano a scrivere che la scuola «uccide l’inclinazione umana alla curiosità». Un metodo per porre fine a tutto questo potrebbe essere quello di puntare sull’aggiornamento e la formazione continua, ma quello che è più importante è far innovare quotidianamente lo studente in classe. «È una cosa che non si fa più. Oggi, 2016, il sistema della formazione in Italia si basa in prevalenza ancora su nozioni, che i giovani però recuperano su Youtube. Continuare a fare così significa creare le condizioni per cui il ragazzo torni dalla scuola molto svogliato». Mentre oggi un insegnante dovrebbe essere un motivatore e un leader, «per aiutare i ragazzi a capire davvero che cosa sta accadendo all’interno di questa società sempre più complessa».Non si parla, però, solo di scuola nel libro, ma anche di formazione, un tema su cui in Italia da anni si dibatte, introducendola ad esempio come obbligatoria per gli iscritti agli ordini professionali. Ed è qui che Cianciotta sottolinea il controsenso: «Nel momento in cui la formazione diventa un adempimento burocratico, perde tutti i connotati di critica e logica che invece sono alla sua base. Una persona si forma per imparare, conoscere, confrontarsi. Mentre il sistema della scuola come quello della formazione degli insegnanti queste cose non le fa più. Come non lo fa la formazione continua per gli iscritti agli ordini professionali: sono iscritto a quello dei giornalisti e scorrendo l’elenco delle attività di formazione solo una lezione su dieci è interessante. Le altre sono spesso questioni legate alla burocrazia». Questo però non significa che studiare, formarsi e specializzarsi non serva a nulla. Tutt’altro, su questo punto gli autori sono concordi: tanto da scrivere che le correnti di pensiero che suggeriscono di non formarsi ed entrare immediatamente nel mondo del lavoro «sono fesserie senza alcuna base scientifica» perché i «dati e i pochi esempi che vi raccontiamo ci stanno dicendo esattamente l’opposto». Studiare è necessario, anche per imparare a costruire e usare quelle macchine che parzialmente ci sostituiranno. Proprio dall’esigenza di dare «un orientamento scolastico» nasce il libro. «Siamo entrambi insegnanti a contratto all’università, dove abbiamo portato la nostra attività privata. E dove ci siamo confrontati con studenti che arrivati al terzo-quarto anno non sapevano ancora cosa fare. Avevano fatto tre anni di università e di fatto non avevano realizzato nulla! Non è possibile. Come non è possibile che la mia facoltà abbia la stessa offerta formativa di vent’anni fa, quando io mi sono laureato. È evidente che il sistema della formazione così non funziona e può produrre solo dei disoccupati».All’incontro tra i due autori si è poi aggiunta la partecipazione al progetto di orientamento scolastico Allenarsi per il Futuro, creato nel 2014 dalla multinazionale Bosch, cui poi si è aggiunta l'agenzia per il lavoro Randstad, con l’obiettivo di favorire un nuovo approccio culturale al passaggio scuola – lavoro, che ha dato «la voglia di terminare il testo nel più breve tempo possibile». Il progetto promuove alcune iniziative che cercano di orientare i giovani attraverso la formazione pratica e i tirocini in azienda. Ma soprattutto attraverso gli incontri con sportivi di vario genere che mostrano come «dietro alle storie di successo non c’è il caso ma tanto, tanto sacrificio, che deve essere rinnovato quotidianamente sia che ci si alleni per imporsi alle Olimpiadi o nella vita professionale di ogni giorno». Nel primo anno di attività il progetto ha raggiunto 100 scuole e 10mila studenti, attivando 250 tirocini formativi. Numeri che mira a replicare anche per il 2016.Un nuovo percorso, dunque, nel rapporto tra mondo della scuola e delle aziende, quello raccontato sia dal progetto di orientamento sia dal libro. Perché il sistema della formazione andrebbe riformato, anche se sono state proprio le riforme degli ultimi anni che non sono riuscite ad affrontare o risolvere i problemi. «Quello che leggiamo quotidianamente sui giornali conferma che la riforma Berlinguer è stata un grandissimo fallimento» dice convinto Cianciotta alla Repubblica degli Stagisti. «Doveva elevare il numero di laureati in Italia per equipararli a quelli europei, privilegiando la quantità a scapito della qualità. Il mercato però ha bocciato la triennale, perché nessuno prende un ingegnere o avvocato triennale, così i cinque anni diventano nel biennio una replica dei tre anni precedenti. Il sistema si è appiattito verso il basso e anche il sistema della scuola primaria, oggettivamente da sempre all’avanguardia, comincia ad avere questo tipo di deficit».Anche l’opinione sulla “Buona scuola” non è positiva. «Apprezziamo lo sforzo riformatore, l’impegno al cambiamento», scrivono gli autori, però «è un pacchetto di norme poco coraggiose. Ma forse se ne comprende il perché, viste le reazioni spropositate e conservatrici dei sindacati e del personale scolastico». Il vero problema di tutte le riforme, non solo dell’ultima «ma anche della Gelmini e di Berlinguer», è di aver sbagliato target, focalizzando sugli insegnanti e non sugli studenti. «Già questo fa capire che da oltre 40 anni le riforme della scuola venivano svolte in funzione di una corporazione», spiega Cianciotta. «Anche sulla Buona scuola, a un certo punto il dibattito si è concentrato sul comportamento del preside nei confronti dei docenti e sulla possibilità che qualcuno venisse spostato di 300 km. Non si è parlato abbastanza di qualità dell’insegnamento e di rivisitazione dei piani dell’offerta formativa. Mentre il tema su cui ci si dovrebbe focalizzare è cosa andiamo a produrre all’interno di quello spazio e cosa i fruitori di quella università o scuola si aspettano. Nessuno ha interrogato gli studenti».Eppure per migliorare la scuola si potrebbe cercare di applicare, come gli autori suggeriscono nel libro, anche la teoria dell’economista Hanushek, ovvero licenziare periodicamente il 10% peggiore degli insegnanti per sostituirlo con un gruppo di colleghi migliori. «L’hanno fatto Blair e in parte Obama, quindi i principali paesi del mondo occidentale hanno utilizzato questo espediente» spiega Cianciotta «e secondo noi si potrebbe fare. In Italia però non si riesce nemmeno a licenziare un impiegato pubblico che palesemente timbra per quattro colleghi, si apre solo un procedimento che non prevede l’espulsione automatica... Su queste premesse, è ovvio che sia molto complicato creare dei sistemi di valutazione».Forse licenziando una piccola percentuale di docenti, introducendo una retribuzione migliore «perché oggettivamente gli insegnanti italiani sono pagati molto male», e dando di nuovo ai professori la possibilità di applicare la logica e la creatività, si potrebbe cambiare qualcosa. Il sistema ha «equiparato l’insegnante a un impiegato del catasto. Ma dall’altra parte non ci sono carte, ci sono persone che chiedono di ricevere stimoli per costruirsi un percorso umano, sociale e professionale. Proprio in questo periodo di crisi economica l’investimento sulla qualità della formazione avrebbe garantito al nostro Paese quantomeno un cambio di paradigma».Il messaggio finale diretto ai giovani è che «in questo momento storico un futuro devono inventarselo», spiega Cianciotta. Tra 10-15 anni l’Italia cosa sarà: un paese industriale o che punta sulle energie rinnovabili? «Non si sa e questa mancanza di visione crea un tale livello di confusione per cui gli investimenti stranieri latitano e ai giovani non si riesce a dare un orientamento». Per questo motivo i giovani dovrebbero cominciare fin da subito ad «allenarsi per il futuro» e ad usare come parole chiave per la propria formazione passione e creatività. Parole che tornano più volte nel testo e che Stefano Cianciotta definisce i «termini che qualificano la mia attività». Gli stessi termini con cui la scuola dovrebbe far confrontare i giovani ogni giorno, «a prescindere se farai il fisico nucleare o il calciatore o l’impiegato pubblico: tutto è dignitoso. Non abbiamo bisogno che tutti siano dei super scienziati, ma di persone che prima a scuola e poi nell’attività professionale mantengano alto il livello di passione, creatività e curiosità. Proprio quello che la scuola, purtroppo, non fa».   Marianna Lepore

Forum degli italiani nel mondo, una nuova «grande rete» per supportare chi vive all’estero

L’Italia non è solo un paese di immigrati, ma anche, e si potrebbe azzardare, soprattutto, emigrati: come cent'anni fa, anche se in modo totalmente diverso. Secondo l’ultimo Dossier statistico sull’immigrazione a cura del centro studi Idos, riferita ai dati del 2014, gli italiani all’estero crescono più degli stranieri in Italia: due anni fa sono aumentati maggiormente (155mila unità in più) rispetto agli immigrati nel nostro Paese (92mila in più). Intrecciando invece i dati Istat e quelli provenienti dai principali paesi che ospitano gli emigrati, «al netto dei profughi che sono arrivati nel nostro Paese, il rapporto tra emigrati italiani verso l’estero e immigrati che arrivano in Italia per lavoro è di tre a uno. Un dato ignorato, o sottaciuto, da molti». A dirlo senza mezzi termini è Pietro Lunetto, membro della Comune del Belgio, un progetto finalizzato all’integrazione dei migranti italiani a Bruxelles e dintorni. Lunetto, 40 anni, è un ricercatore chimico e vive in Belgio da cinque: si occupa di fenomeni migratori per passione e per questo fa parte del consiglio direttivo del neonato Faim, Forum delle Associazioni Italiane nel Mondo, rappresentanza sociale delle associazioni degli italiani all’estero. Di recente ha avuto luogo la seconda riunione ufficiale del Forum. Ma per ripercorrerne la storia bisogna risalire all'estate scorsa, quando oltre 250 persone di tutto il mondo e circa 1500 associazioni, «quasi la metà del tessuto associativo degli italiani emigrati, che secondo le stime del ministero degli Esteri ammonta a circa 4mila singole organizzazioni», spiega alla Repubblica degli Stagisti Lunetto, hanno deciso di dare vita a una nuova realtà finalizzata alla tutela di chi vive fuori dal nostro Paese. Per diverse ragioni, tra cui «la ripartenza massiccia dell’emigrazione dai paesi dove peggiori sono le situazioni economiche verso i paesi più ricchi, oltre a un rapido e ulteriore smantellamento delle politiche per gli italiani all’estero e all’affievolimento progressivo del rapporto delle istituzioni italiane con l’associazionismo». Per questo il Forum, il cui dettaglio delle attività sarà definito nell’Assemblea generale in calendario ad aprile, ha già tracciato alcuni ambiti di azione, tra cui «la costruzione di progetti e partenariati tra gli aderenti al Forum, e il rafforzamento della cooperazione con le regioni italiane, oggi per legge ampiamente competenti sul tema emigrazione». Senza dimenticare un aspetto fondamentale al giorno d'oggi: «lo sviluppo di un’adeguata comunicazione interna alla rete associativa con una piattaforma che consenta di scambiarsi informazioni». Il Forum, provvisoriamente regolamentato da una bozza di statuto, al momento è gestito da un coordinamento di circa 10 persone rappresentative di altrettante associazioni, cui si sono aggiunte altre 12 associazioni per garantire una rappresentanza territoriale a livello mondiale. Ma chi sono gli emigrati di oggi e a chi parla il Forum? Va subito chiarito che gli Stati Generali dell’Associazionismo degli italiani all'estero, come sono stati ribattezzati, non guardano solo a quella che potrebbe essere definita l’emigrazione «colta», ma «a tutta la nostra comunità emigrata, composta sì dai cosiddetti cervelli in fuga, ma anche di emigrazione meno scolarizzata», spiega Lunetto. Un’ampia platea di cui tra l’altro non fanno parte solo gli under 30: «La nuova migrazione non è fatta solo di giovani, ma esiste una fetta consistente di over 45 che torna a emigrare per ragioni economiche, spesso con figli e famiglie al seguito e riproducendo una casistica già conosciuta di problemi di integrazione». Va da sé che vissuti ed esigenze differenti richiedono piani d’azione diversi e, a una prima impressione, potrebbe essere proprio questa una delle principali criticità legate all’attività del Forum. Nell’ultimo incontro, in cui è stato stabilito l’allargamento a 10 nuove associazioni,  è emersa ad esempio una differente concezione dell’associazionismo da parte dei giovani, che «hanno un modo meno strutturato e più liquido di vivere l’associazionismo. Questo comporterà la messa a punto di strategie di coinvolgimento diverse rispetto a quelle dell’associazionismo meno recente», spiega Lunetto. I giovani sono in ogni caso soggetti da non sottovalutare nell'ambito delle dinamiche dell'associazionismo, anche perché sono sempre più numerosi quelli che guardano oltre i confini nazionali. Il Rapporto Giovani dell'Istituto Toniolo qualche giorno fa ha diffuso dati interessanti in questo senso: più del 50% del campione afferma che l'emigrazione sia l'unica opportunità di realizzazione e oltre l'88% si dichiara disposto a emigrare stabilmente pur di migliorare le proprie condizioni di vita e di lavoro.Inoltre il gran numero di associazioni, con caratteristiche e background non sempre simili potrebbe essere un limite all’adozione in maniera univoca di strategie e decisioni. Il Forum ha una struttura molto articolata: «Le più grandi federazioni di associazioni che ne fanno farte sono le Acli, la Filef, l'Istituto Fernando Santi, la Fondazione Migrantes. Filef e Istituto Santi sono espressione dell'associazionismo progressista, mentre gli altri fanno riferimento al mondo dell'associazionismo cristiano. Raggruppano tutte la maggior parte dell'associazionismo storico, per intenderci quello scaturito dalle ondate migratorie precedenti a quella attuale, e hanno tutte una presenza a livello mondiale, nei diversi continenti dove l'emigrazione è stata più massiccia».Il lavoro del Forum va avanti in vista di aprile, quando è prevista la definizione delle linee di programma del prossimo quadriennio e la composizione degli organismi che dovranno gestire le attività di quel periodo: «Nella bozza di statuto sono previsti tre organismi principali, cioè l'assemblea congressuale, che raggruppa i rappresentanti di tutti i soci; il consiglio direttivo, composto da 35 membri che formano una specie di parlamentino del Forum; e infine il comitato di coordinamento, formato da circa 9-11 persone, eletto dal consiglio direttivo».   Il Maeci è uno degli interlocutori principali, insieme alle diverse istituzioni italiane come il parlamento e il Cgie – organismo rappresentativo con il ruolo di tramite tra gli italiani all'estero e le proprie rappresentanze locali e le istituzioni italiane – con cui il Forum dovrebbe rapportarsi. Riuscirà ad attivare un canale di comunicazione efficace?Chiara Del Priore