Categoria: Approfondimenti

Riforma del lavoro, ecco punto per punto cosa riguarda i giovani

Da venerdì c'è un testo che illustra i contenuti della riforma del mercato del lavoro prossima ventura, così come immaginata dal governo Monti e proposta al Parlamento, che ora la dovrà discutere e probabilmente modificarla. Il 90% del dibattito pubblico, politico e televisivo si è incentrato nelle ultime settimane su un unico punto: la modifica dell'articolo 18, quella parte dello Statuto dei lavoratori che impone il reintegro, nelle aziende con più di 15 dipendenti, di chi contesta in Tribunale di aver subito un licenziamento illegittimo, cioè non motivato da «giusta causa o giustificato motivo». La Repubblica degli Stagisti, ben consapevole che l'articolo 18 non tocca che un'infinitesima parte dei lavoratori under 40, vuole invece focalizzare l'attenzione sulle disposizioni che toccano e riguardano davvero i giovani. E lo fa senza voli pindarici: a partire dal testo.  Contratti a tempo determinato  Sui contratti a tempo determinato (punto 2.1), innanzitutto, la prima proposta del ministro Fornero è evitare l'odiosa "pausa" di 15-20 giorni che le aziende usano per mettersi al riparo dalle cause quando fanno più contratti consecutivi alla stessa persona: «Il contrasto ad un’eccessiva reiterazione di rapporti a termine tra le stesse parti è perseguito tramite l’ampliamento dell’intervallo tra un contratto e l’altro a 60 giorni nel caso di un contratto di durata inferiore a 6 mesi, e a 90 giorni nel caso di un contratto di durata superiore (attualmente, 10 e 20 giorni)». Una misura sicuramente positiva. Inoltre «si stabilisce che ai fini della determinazione del periodo massimo di 36 mesi (comprensivo di proroghe e rinnovi) previsto per la stipulazione di contratti a termine con un medesimo dipendente vengano computati anche eventuali periodi di lavoro somministrato intercorsi tra il lavoratore e il datore/utilizzatore». Questo impedirà di saltabeccare da contratto diretto a contratto tramite agenzia interinale, eludendo la normativa, sempre con il solito obiettivo odioso di mettersi al riparo da possibili grane giudiziarie. D'altra parte però il limite dei 36 mesi apre uno squarcio poco promettente: potrebbe formarsi in breve tempo un piccolo esercito di "licenziati del 35esimo mese".Apprendistato e lavoro intermittenteSaltando il contratto di inserimento - perché il testo dice chiaramente che le risorse qui verranno concentrate «sui lavoratori ultra cinquantenni disoccupati da almeno 12 mesi», quindi non sui giovani - si passa all'apprendistato (punto 2.3) che viene indicato come il contratto su cui puntare per inserire gli under 30 nel mercato. Il testo Monti-Fornero propone l'introduzione «di un meccanismo in base al quale l’assunzione di nuovi apprendisti è collegata alla percentuale di stabilizzazioni effettuate nell’ultimo triennio (50%)», ma nulla viene detto sulle piccole imprese, quelle che prendono solo uno o due apprendisti all'anno: anche loro dovranno assoggettarsi a questo 50%? E quelle che in tutti questi anni non ne hanno mai presi? Sempre sull'apprendistato, altre due disposizioni sono l'innalzamento «del rapporto tra apprendisti e lavoratori qualificati dall’attuale 1/1 a 3/2» e la «durata minima di sei mesi del periodo di apprendistato». Per il resto, Monti e Fornero fanno riferimento al testo unico licenziato dal precedente ministro, Maurizio Sacconi, nel 2011.Per quanto riguarda il contratto di lavoro intermittente (punto 2.5), il deterrente all'abuso viene individuato nell’obbligo a «effettuare una comunicazione amministrativa preventiva, con modalità snelle (sms, fax o PEC), in occasione di ogni chiamata del lavoratore». Contratto a progettoAl punto successivo, il 2.6, c'è poi finalmente il lavoro a progetto. Per scoraggiare i datori di lavoro dall'abusare dei cocopro, il governo immagina di imporre una «definizione più stringente del “progetto”, che non può consistere in una mera riproposizione dell’oggetto sociale dell’impresa committente». Viene proposta una limitazione, seppur solo «tendenziale», all'utilizzo di questa tipologia contrattuale per «mansioni non meramente esecutive o ripetitive così come eventualmente definite dai contratti collettivi, al fine di enfatizzarne la componente professionale». Introducendo poi «una presunzione relativa in merito al carattere subordinato della collaborazione quando l’attività del collaboratore a progetto sia analoga a quella svolta, nell’ambito dell’impresa committente, da lavoratori dipendenti fatte salve le prestazioni di elevata professionalità»: in questo modo si dovrebbe evitare che le aziende inseriscano i nuovi entranti col cocopro mentre i dipendenti più anziani, incaricati di svolgere le stesse mansioni, sono invece correttamente inquadrati con contratti di lavoro subordinato. Infine, per questa tipologia di contratti non verrebbero più consentite le «clausole individuali che consentono il recesso del committente, anteriormente alla scadenza del termine e/o al completamento del progetto». Insomma nessun lavoratore a progetto potrebbe più essere licenziato prima della fine dello contratto. Ma la cosa forse più interessante di tutte rispetto al contratto a progetto è che Fornero si smarca dai suoi precedessori berlusconiani, e in particolare dal leghista Roberto Maroni, proponendo una interpretazione molto rigida rispetto alla sanzione da comminare ai datori di lavoro che fanno i furbi con questa tipologia: «È proposta, infine, una norma interpretativa sul regime sanzionatorio, che chiarisce, d’accordo con la giurisprudenza di gran lunga prevalente (ma superando la posizione già assunta dal Ministero del lavoro con la precedente circolare n. 1/2004), che in caso di mancanza di un progetto specifico il contratto a progetto si considera di lavoro subordinato a tempo indeterminato». E fine dei giochi.Discorso a parte invece per le novità rispetto ai contributi: «un incremento dell’aliquota contributiva IVS degli iscritti alla gestione separata Inps, così da proseguire il percorso di avvicinamento alle aliquote previste per il lavoro dipendente». Ma purtroppo questo aumento graverà con tutta probabilità sulle spalle dei lavoratori.Partite IvaAltra modalità frequentissima di lavoro autonomo - che però spesso maschera normali rapporti di lavoro dipendente - è la partita Iva (punto 2.7). Qui Monti e Fornero propongono l'introduzione di «norme rivolte a far presumere, salvo prova contraria (ferma restando, cioè, la possibilità del committente di provare che si tratti di lavoro genuinamente autonomo), il carattere coordinato e continuativo (e non autonomo ed occasionale) della collaborazione». Ad alcune condizioni ovviamente: che «essa duri complessivamente più di sei mesi nell’arco di un anno», che «da essa il collaboratore ricavi più del 75% dei corrispettivi (anche se fatturati a più soggetti riconducibili alla medesima attività imprenditoriale)» e infine che «comporti la fruizione di una postazione di lavoro presso la sede istituzionale o le sedi operative del committente». Sì ma cosa succederà, nelle intenzioni del governo, in caso venga appurato che le tre condizioni sussistono e che quindi la persona inquadrata come partita Iva è in realtà, salvo prova contraria, un collaboratore coordinato e continuativo, e sopratutto non autonomo? Qui il testo apre a un'insperata prospettiva: «Qualora l’utilizzo della partita Iva venga giudicato improprio, esso viene considerato una collaborazione coordinata e continuativa (che la normativa non ammette più in mancanza di un progetto), con la conseguente applicazione della relativa sanzione di cui all’art.69 comma 1 del Dlgs 276/03». Il comma citato, per la cronaca, prescrive che «i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa instaurati senza l'individuazione di uno specifico progetto, programma di lavoro o fase di esso […] sono considerati rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato sin dalla data di costituzione del rapporto». Insomma, una bomba: in queste poche righe il testo Monti-Fornero sembra abolire i cococo e prescrivere che tutte le collaborazioni coordinate e continuative debbano essere riqualificate come rapporti a tempo indeterminato. Forse la Repubblica degli Stagisti pecca di ottimismo? L'auspicio è che non arrivi qualcuno a smentire, sminuire, circoscrivere.Associazione in partecipazione e lavoro accessorioIl punto successivo (2.8) è dedicato al contratto di associazione in partecipazione: «Si prevede di preservare l’istituto solo in caso di associazioni tra familiari entro il 1° grado o coniugi», quindi finalmente di vietare che con questa tipologia i negozianti possano assumere commessi al di fuori del contratto nazionale del commercio (opzione sempre più frequente: una storia così per esempio è raccontata nel capitolo «Contratti, al potere la fantasia» nel libro Se potessi avere mille euro al mese).Per quanto riguarda il lavoro accessorio (2.9), il governo intende «restringere il campo di operatività dell’istituto e a regolare il regime orario dei buoni (voucher)». Con una buona notizia che però più che i giovani riguarda gli immigrati di qualsiasi età: «Si intende inoltre consentire che i voucher siano computati ai fini del reddito necessario per il permesso di soggiorno». Tirocini formativiInfine, gli stage: come già anticipato, il punto centrale è che il governo vuole emettere delle «linee guida per la definizione di standard minimi di uniformità della disciplina sul territorio nazionale». Si va quindi verso una nuova normativa che aggiorni sia il dm 142/1998 sia il recente articolo 11 del decreto legge 138/2011, che tante polemiche ha sollevato sopratutto a causa della successiva circolare ministeriale. Resta però aperto il nodo dei contenuti di queste linee guida: il ministro ha dichiarato in più di un'occasione di avere intenzione di abolire gli stage post-formazione e quelli gratuiti, ma in questo primo testo non vi sono dettagli. Ammortizzatori socialiUn'altra grande parte di riforma che andrà a toccare i giovani sarà quella che riguarda gli ammortizzatori sociali e in particolare l'introduzione dell'Aspi, l'assicurazione sociale per l’impiego (punto 4.1). Però attenzione a cantare vittoria. «L’ambito di applicazione viene esteso – tra i lavoratori dipendenti - agli apprendisti e agli artisti, oggi esclusi dall’applicazione di ogni strumento di sostegno del reddito». Considerando che i contratti di apprendistato attivati annualmente sono poco più di 200mila, e che gli artisti sono più o meno lo stesso numero, significa che l'ampliamento del raggio d'azione della copertura in caso di disoccupazione viene estesa davvero pochissimo. Risulta a questo punto poco comprensibile come la Fornero in conferenza stampa, la settimana scorsa, abbia potuto parlare di un passaggio «da 3 a 12 milioni di potenziali aventi diritto»: sulla base di quali conteggi? Inoltre, poco sotto si legge anche che i requisiti per accedere all'Aspi saranno fin troppo stringenti: «2 anni di anzianità assicurativa ed almeno 52 settimane nell’ultimo biennio». A parte il fatto che per un artista lavorare "ufficialmente" per 6 mesi all'anno è molto raro, resteranno comunque fuori tutti coloro che hanno lavorato a singhiozzo - o con tipologie contrattuali differenti, per esempio alternando contratti a progetto a somministrazione a tempi determinati. Tutte queste esclusioni non permettono dunque di considerare l'Aspi un vero sistema «universalistico», anche se la sua introduzione rimane un fattore molto positivo, così come la modulazione del contributo e la limitazione nel tempo, orientata a configurarlo non come una misura assistenzialistica "eterna", ma come un sostegno temporaneo durante la ricerca di nuovo lavoro. Il governo si affretta a precisare che «con riferimento ai collaboratori coordinati e continuativi, pur esclusi dall’ambito di applicazione dell’Aspi, si rafforzerà e porterà a regime il meccanismo una tantum oggi previsto». Al punto 4.2 infatti viene illustrato il meccanismo della «MiniAspi», cioè i trattamenti brevi: «Viene del tutto modificato l’impianto dell’attuale indennità di disoccupazione con requisiti ridotti, condizionandola alla presenza e permanenza dello stato di disoccupazione». Almeno Monti e Fornero si rendono conto dell'assurdità di pagare questo sussidio con un anno di ritardo: «L’indennità viene pagata nel momento dell’occorrenza del periodo di disoccupazione e non l’anno successivo». Requisito di accesso: «la presenza di almeno 13 settimane di contribuzione negli ultimi 12 mesi (mobili)».A fronte di tutto questo, la riforma prevede un aumento della contribuzione: «Aliquota aggiuntiva del 1,4% per i lavoratori non a tempo indeterminato.Lavoro femminileUn ultimo aspetto rilevante per i giovani è «la disposizione volta a contrastare la pratica delle cosiddette “dimissioni in bianco”» (punto 7.1), troppo spesso richieste alle giovani donne al momento dell'assunzione per tutelarsi in caso di futura gravidanza, e il rafforzamento del «regime della convalida delle dimissioni rese dalle lavoratrici madri». Per le neomamme c'è anche «l’introduzione di voucher per la prestazione di servizi di baby-sitting»: cioè una serie di buoni erogati dall'Inps, richiedibili «dalla fine della maternità obbligatoria per gli 11 mesi successivi in alternativa all’utilizzo del periodo di congedo facoltativo per maternità», per pagare una tata. Un segnale culturale importante, ma davvero troppo debole nella sua formulazione, è il congedo di paternità obbligatorio «riconosciuto al padre lavoratore entro 5 mesi dalla nascita del figlio», ma per un periodo davvero irrisorio: «tre giorni continuativi».Politiche attive e servizi per l'impiegoUn discorso a parte meriteranno le misure contenute nell'ultimo paragrafo del documento, quello dedicato alle politiche attive e ai servizi per l'impiego, che il governo si ripromette di riformare radicalmente. È indubbio che una maggior efficacia ed efficienza dei cpi comporterebbe un netto miglioramento della vitalità del mercato domanda-offerta di lavoro e andrebbe a tutto vantaggio dei giovani. Ma questa parte della riforma è al momento solamente abbozzata. In sostanza la riforma Fornero contiene molti spunti interessanti dal punto di vista dei giovani: sarebbe però potuta essere più incisiva, sopratutto dal punto di vista dello sfoltimento delle tipologie contrattuali (abolendone qualcuna), dell'universalizzazione del sussidio di disoccupazione, dell'intensificazione dei controlli - come giustamente si è fatto per il contrasto all'evasione fiscale. Il timore è che anche in Parlamento tutto il dibattito si concentri sulla questione dell'articolo 18, e venga lascia da parte la discussione di modifiche che potrebbero migliorare la vita di un numero molto maggiore di cittadini lavoratori.Eleonora VoltolinaPer saperne di più sulla riforma del lavoro, leggi anche:- Ma rilanciare l'apprendistato non basta- Abolire gli stage post formazione: buona idea ministro, ma a queste condizioni- Riforma del lavoro, il testo apre a nuove linee guida nazionali sugli stage- Riforma del lavoro, inutile senza quella degli stageE anche:- Università come agenzie per il lavoro a costo zero: una deriva da scongiurare- Tirocini, il costituzionalista: «Lo Stato potrebbe fare una legge quadro»- Apprendistato: coinvolge pochissimi laureati e spesso non garantisce vera formazione

Riforma del lavoro, il testo apre a nuove linee guida nazionali sugli stage

Finalmente c'è un testo. La riforma del mercato del lavoro di Elsa Fornero da venerdì sera è nero su bianco: 26 pagine che intendono ridisegnare il diritto del lavoro e gli ammortizzatori sociali. Ora la palla passa al Parlamento.Ma cosa dice la riforma rispetto agli stage? Il paragrafo che li riguarda si trova a pagina 8, al punto 2.10, e dice: «Nel rispetto dei profili di competenza regionale, si individuano, unitamente alle regioni stesse, misure rivolte a delineare un quadro più razionale ed efficiente dei tirocini formativi e di  orientamento, al fine di valorizzarne le potenzialità in termini di occupabilità dei giovani e prevenire gli abusi, nonché l’utilizzo distorto dell’istituto, in concorrenza con il contratto di apprendistato. Ciò tramite la previsione di linee guida per la definizione di standard minimi di uniformità della disciplina sul territorio nazionale. Potranno in ogni caso essere previste misure, riconducibili alla esclusiva competenza dello Stato, volte a disciplinare i periodi di attività lavorativa che non costituiscono momenti del percorso di tirocinio formativo, ad evitare un uso strumentale e distorto delle attività esclusivamente lavorative svolte nel tirocinio».Il governo insomma ufficializza ciò che la Repubblica degli Stagisti denuncia da oltre tre anni, e cioè che con l'attuale regolamentazione gli stage sono talmente più convenienti di qualsiasi altro contratto da affossare automaticamente l'utilizzo dell'apprendistato. È certamente positivo che si impegni a contrastare gli abusi e le distorsioni, e che si riprometta di definire gli standard minimi nazionali: sembra il preludio alla nostra richiesta di una legge quadro in grado di garantire a tutti i giovani italiani condizioni uguali in tutte le regioni italiani, evitando che la regolamentazione vada a macchia di leopardo e che vi siano macroscopiche differenze di diritti, doveri e regolamentazione di accesso da un territorio all'altro.Meno comprensibile è invece il passaggio sui «periodi di attività lavorativa» all'interno del tirocinio: come andrebbero individuati questi periodi? Lo stage è per sua natura un momento di formazione «on the job», che prevede che il giovane impari facendo. Che significa dunque il riferimento alle «attività esclusivamente lavorative svolte nel tirocinio»? La frase risulta criptica: lo stesso stage potrà essere in parte normato a livello regionale, per le ore in cui lo stagista ascolta e guarda il tutor e apprende, e in parte normato a livello statale, per le ore in cui mette in pratica ciò che ha appena imparato? Il rischio forte qui è di creare bizantinismi e livelli sovrapposti di regolamentazione e competenza, il che va nel senso opposto rispetto a quello di semplificare e garantire agli stagisti regole certe.Da rilevare, infine, che nel testo non appaiono le due grandi novità annunciate la settimana scorsa dal ministro Fornero, prima nella trasmissione «Che tempo che fa» e poi nella conferenza stampa di presentazione della riforma. E cioè l'intenzione di abolire gli stage post-formazione, permettendo gli stage solo se svolti durante un percorso formativo, e quella di contrastare gli stage gratuiti. Il fatto che le due disposizioni non appaiano nero su bianco non significa che il ministero guidato da Fornero e Martone non abbia intenzione di portare avanti queste proposte: bisognerà vedere però a questo punto cosa prevederanno le linee guida. Cioè attendere ancora.Eleonora VoltolinaPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Abolire gli stage post formazione: buona idea ministro, ma a queste condizioniE anche:- Università come agenzie per il lavoro a costo zero: una deriva da scongiurare- Riforma del lavoro, il ministro Fornero: «Non andrà in vigore prima del 2013»

Padova, le linee guida sui tirocini di qualità ci sono ma non vengono applicate

La Provincia di Padova ha approvato delle innovative linee guida per garantire tirocini di qualità. Peccato che non le applichi. O meglio, che le faccia valere solo per quei progetti di stage che vengono organizzati direttamente dai centri per l'impiego. Per tutti gli altri, che pure passano attraverso i cpi (che funge, come si dice tecnicamente in questi casi, da «soggetto promotore» del tirocinio) le linee guida restano lettera morta.Accade così che gli oltre 400 stage partiti in provincia di Padova tra la fine del 2011 e l'inizio del 2012 nell'ambito del bando regionale Welfare to Work, che pure ha visto i centri per l'impiego impegnati direttamente nell'attivazione, siano partiti senza rispettare in pieno il contenuto della delibera votata nel novembre scorso dalla giunta provinciale.Per fortuna almeno il criterio del rimborso spese è rispettato: la borsa mensile di 600 euro supera quella imposta dalle linee guida, che richiede un emolumento minimo di 300 euro per i diplomati e di 400 euro per i laureati. Ma lo stesso non si può dire per quanto riguarda l'impegno a promuovere «esclusivamente tirocini che abbiano un effettivo contenuto di orientamento e formativo», altro elemento qualificante del documento approvato dalla giunta provinciale. «Gli stage erano anche per camerieri, parrucchieri, commessi, idraulici: mi chiedo dove stia il progetto formativo», denunciava qualche settimana fa una lettrice sul forum della Repubblica degli Stagisti. I progetti attivati hanno in effetti riguardato anche professioni per le quali non è necessario un periodo di formazione lungo addirittura quattro mesi, che rischia anzi di trasformarsi in un vantaggio solo per l'azienda.Ma perché la provincia ignora così platealmente la propria deliberazione? «Si tratta di due questioni distinte» ha spiegato alla Repubblica degli Stagisti Giorgio Santarello [a destra nella foto, insieme all'assessore Barison], responsabile della direzione lavoro della provincia di Padova. «Noi come ente abbiamo approvato queste linee guida per tutti coloro che vogliono che i loro progetti di stage siano promossi dai centri per l'impiego, mentre Welfare to Work è un progetto speciale promosso con la Regione Veneto». E su quest'ultima iniziativa Santarello dice che «le linee guida non valgono». Secondo lui insomma le garanzie minime per gli stagisti nel padovano viaggerebbero a targhe alterne: sarebbero valide per i progetti di stage realizzati dalla a alla z dai cpi della provincia, e sparirebbero per i progetti lanciati da altri, anche se poi resi operativi dai centri per l'impiego. E la politica cosa dice? È d'accordo con questa interpretazione l'assessore Massimiliano Barison? Con lui, responsabile della Formazione e del Lavoro della provincia di Padova, la Repubblica degli Stagisti avrebbe voluto approfondire la questione. Senz'altro importante, visto che nel solo 2010 sono stati 5.145 gli stage attivati in questo territorio, di cui circa un quarto promossi dal cpi. Ma nonostante i ripetuti tentativi di contattarlo l'assessore non ha mai trovato il tempo per rispondere: secondo la sua segreteria era «impegnato in una vertenza». Per giorni e giorni.Ha risposto invece Paolo Giacon, il consigliere provinciale del Partito Democratico che con la sua mozione aveva innescato in autunno il processo sfociato nell'approvazione delle linee guida. «Se tutto questo corrisponde al vero, direi che non è possibile: il problema è infatti la qualità dello stage, elemento fondamentale». Perché «magari uno accetta 200 euro in meno, ma per un progetto che davvero lo qualifichi. Mentre qui si apre a professioni per le quali non serve un tirocinio, ma esistono altre tipologie di contratto». L'esponente dell'opposizione si ripromette di verificare come siano andate realmente le cose: «Presenterò una richiesta di accesso agli atti per capire cosa sia successo».Riccardo SaporitiPer saperne di più su questo argomento leggi anche:- La Regione Veneto avvia Welfare to Work: 1.250 stage con rimborso di 600 euro al mese per gli under 30- Oltre mille tirocini attivati in un mese: in Veneto stagisti a caccia di aziende- Provincia di Padova, la giunta detta le linee guida: stop agli stage gratuiti e niente stagisti nelle imprese non virtuoseE anche:- La legge 34/2008 della Regione Piemonte su mercato del lavoro e stage- La Toscana approva la nuova legge sugli stage: per la prima volta in Italia il rimborso spese diventa obbligatorio

Tirocinio: una parola, tanti significati

Negli ultimi tempi si parla moltissimo di tirocini. Ma si rischia anche di fare confusione. Ecco una breve panoramica per sapere sempre di cosa si parla.Tirocini di formazione. Definizione completa: «tirocini formativi e di orientamento». Sinonimo più utilizzato: «stage». Con questo termine si indicano i tirocini più diffusi e noti, quelli che possono essere svolti in qualsiasi settore professionale, necessitando solo per l'attivazione di una convenzione e di un progetto formativo sottoscritto da un soggetto promotore (ad esempio un'università, un centro per l'impiego, un'agenzia per il lavoro) e un soggetto ospitante (cioè la struttura che ospiterà lo stagista: un'impresa privata, un ente pubblico, un'associazione non profit). Questo tipo di tirocini può essere svolto da chiunque stia compiendo un percorso di studi (es. studenti delle superiori, o universitari, o allievi di corsi e master), e in questo caso la durata massima è 12 mesi, oppure da chi abbia conseguito un diploma o una laurea da meno di 12 mesi. In questo caso la durata massima non può superare i 6 mesi, compresa l'eventuale proroga. I tirocini formativi e di orientamento sono normati dal dm 142/1998 e da alcune leggi regionali, e recentemente integrati dall'articolo 11 del decreto legge 138/2011 (poi trasformato in legge 148/2011). Il ministero del lavoro ha anche diramato lo scorso settembre una circolare (24/2011) contenente alcune indicazioni rispetto a una tipologia "parallela" di tirocini, definita «di cosiddetto reinserimento / inserimento lavorativo», aperta a persone disoccupate o inoccupate senza più il vincolo dei 12 mesi dal diploma o dalla laurea. Ma è in corso un dibattito sulla validità delle indicazioni di questa circolare, che tecnicamente non è una fonte di diritto. In generale, i tirocini formativi dovrebbero essere riservati a persone ancora prive di esperienza lavorativa. Il soggetto ospitante è tenuto a mettere a disposizione un tutor che segua assiduamente il percorso formativo in itinere. Anche il soggetto promotore deve designare un tutor, responsabile della procedura. Per questo tipo di tirocini non è previsto l'obbligo di erogare un rimborso spese a favore del tirocinante.Tirocini professionali. Definizione completa: "tirocini per l'accesso alle professioni regolamentate". Sinonimo più utilizzato: «praticantato». Qui si passa nel campo delle professioni cosiddette «regolamentate», che sono circa 150: quelle più classiche sono l'avvocato e il commercialista, ma sono compresi anche giornalisti e notai, ingegneri e geometri, architetti e farmacisti, controllori del traffico aereo, estetiste, maestri di sci e di snowboard, paesaggisti e restauratori, podologi e fisioterapisti. Nonché tutte le specialità mediche. L'elenco completo è allegato alla direttiva 2005/36/CE recepita con il decreto legislativo 206/2007. Per alcune di queste professioni è richiesto lo svolgimento di un tirocinio professionale, che il governo Monti si è ripromesso di sveltire e snellire. Nel decreto liberalizzazioni appena licenziato dal Senato e attualmente all'esame della Camera vi sono due riferimenti a questo tipo di tirocini, all'interno dell'articolo 9. Il primo riferimento sta dentro al quarto comma: «Al tirocinante è riconosciuto un rimborso spese forfettariamente concordato dopo i primi sei mesi di tirocinio». Il secondo riferimento è invece l'intero comma 6, in cui si legge: «La durata del tirocinio previsto per l’accesso alle professioni regolamentate non può essere superiore a diciotto mesi; per i primi sei mesi, il tirocinio può essere svolto, in presenza di un’apposita convenzione quadro stipulata tra i consigli nazionali degli ordini e il Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, in concomitanza con il corso di studio per il conseguimento della laurea di primo livello o della laurea magistrale o specialistica. Analoghe convenzioni possono essere stipulate tra i consigli nazionali degli ordini e il Ministro per la pubblica amministrazione e la semplificazione per lo svolgimento del tirocinio presso pubbliche amministrazioni, all’esito del corso di laurea. Le disposizioni del presente comma non si applicano alle professioni sanitarie, per le quali resta confermata la normativa vigente». Attenzione però: la legge non è ancora passata, quindi l'equo compenso e le altre disposizioni non sono ancora operative.Tirocini formativi attivi. Anche conosciuti con l'acronimo «tfa», sono una novità della gestione Gelmini del ministero dell'Istruzione e costituiscono al momento l'ultimo passaggio del percorso per poter insegnare nelle scuole secondarie di primo e di secondo grado. Si tratta di  corsi di durata annuale istituiti dalle università. Essi attribuiscono, tramite un esame finale – che ciascun candidato sostiene davanti a una commissione composta da docenti universitari, un insegnante “tutor” in ruolo presso gli istituti scolastici e un rappresentante dell’ufficio scolastico regionale o del ministero – il titolo di abilitazione all’insegnamento. I tfa sono organizzati in tre gruppi di attività: insegnamenti di materie psico-pedagogiche e di scienze dell’educazione; un tirocinio svolto a scuola sotto la guida di un insegnante tutor, comprendente una fase osservativa e una fase di insegnamento attivo; insegnamenti di didattiche disciplinari che vengono svolti in un contesto di laboratorio mirante a stabilire una stretta relazione tra l’approccio disciplinare e l’approccio didattico. L’accesso ai tfa è a numero chiuso ed è programmato annualmente dal ministero, secondo la previsione di esigenze di personale a livello regionale.  All'inizio di marzo il ministero ha reso noti i numeri per l’anno accademico 2011/2012: i posti disponibili per le immatricolazioni al tfa per l’insegnamento nella scuola secondaria di primo grado sono 4.275, definiti in ambito regionale per ciascun ateneo; per la scuola secondaria di secondo grado i posti sono invece 15.792. Possono partecipare alle selezioni per l'accesso i laureati vecchio ordinamento, i laureati specialistici o magistrali e i diplomati Isef (solo per i tfa in scienze motorie). In più sono ammessi, senza dover sostenere alcuna prova, anche i «congelati Ssis». Eleonora VoltolinaPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Aspiranti professionisti, con le liberalizzazioni si riduce la durata del praticantato. Ma scompare l'equo compenso- Alle nuove norme sui praticanti manca l'equo compenso, lo dice anche la commissione giustizia del Senato

Sconfiggere la precarietà, le idee dei Giovani Democratici per cambiare il mondo del lavoro

Dieci proposte per riformare a costo zero un mercato dove addirittura un terzo dei lavoratori è precario. E sempre più vecchio. Il problema: i contratti temporanei, che non solo impediscono di progettare serenamente il proprio futuro, ma per giunta non sempre prevedono indennità di malattia e maternità e garantiscono poche tutele di fronte alla mobilità. Se ne è parlato sabato scorso a Roma nell'ambito di «Generazioni ad alta risoluzione», conferenza dedicata ai giovani e alla precarietà organizzata dai Giovani democratici in collaborazione con Lavoro&Welfare e l'associazione 20 maggio.Un evento anticipato dalla pubblicazione di un contributo dedicato a «Flessibilità e precariato in Italia», realizzato da Patrizio Di Nicola, docente alla Sapienza di Roma, con Alessandra Cataldi e Gianluigi Nocella, dottorandi nello stesso ateneo. Lo studio racconta di un Paese dove se 14,7 milioni di persone hanno un contratto a tempo indeterminato, ce ne sono oltre cinque milioni occupate in base alle forme più diverse: collaborazioni, praticantati, stage, finte partite Iva. Tutte accomunate da un unico elemento: la precarietà.Una condizione che nel corso degli ultimi anni è andata aumentando. Elaborando dati forniti dagli enti pensionistici e previdenziali, Istat e enti di ricerca privati, il rapporto mette in luce come tra il 2004 ed il 2010 il numero di lavoratori a tempo sia cresciuto del 14 per cento. Una tendenza che si conferma anche per il 2010, in piena crisi economica: gli atipici sono aumentati dell'1,3%, i tempi determinati del 4,3. E questo in un contesto che ha visto ridursi di quasi un punto percentuale le persone con un'occupazione.Una precarietà che cresce, ma soprattutto che invecchia. Il 67,7% dei titolari di un contratto a tempo determinato ha tra i 30 ed i 49 anni, la stessa età del 47,9% degli atipici. «Il lavoro atipico non è più un 'rito di passaggio' verso quello dipendente», si legge nel rapporto. Nel 2008 a rimanere intrappolati in un'occupazione senza tutele era il 54,6% dei lavoratori, oggi siamo al 59. Tra il 2007 ed il 2010 la percentuale di coloro che sono riusciti a trasformare la precarietà in stabilità è calata dell'8,4%.E gli stage? Nel corso del 2010, secondo questo studio, ne sono stati attivati più di 310mila, circa 90mila nell'industria, il resto nei servizi. Mancano però all'appello, come sottolineato più volte da Repubblica degli Stagisti, quelli attivati nella pubblica amministrazione e nel non profit. Comunque: circa la metà dei tirocini attivati nel privato ha interessato aziende con meno di dieci dipendenti, capaci di garantire un'assunzione ad appena il 12,8% dei tirocinanti (anche se in realtà i dati Unioncamere Excelsior parlano del 12,3% di rapporti trasformati in un contratto di lavoro). Decisamente meglio è andata a coloro che hanno attivato uno stage in grandi aziende con più di 500 occupati: uno su quattro è riuscito ad essere assunto al termine del progetto.Magrissima consolazione di fronte ad un quadro a tinte davvero fosche. Gd, Lavoro&Welfare e associazione 20 maggio però non si sono limitate a descrivere la realtà, ma hanno elaborato un decalogo di proposte che vogliono rendere migliori le condizioni di lavoro dei giovani e dei precari. Piccole riforme a costo zero ma in grado, secondo gli ideatori, di portare grandi cambiamenti nelle vite delle persone.Il primo passo consiste nel superare gli abusi, stabilendo ad esempio che le attività manuali possano essere svolte solo come dipendenti ed abolendo le cosiddette 'dimissioni in bianco'. Ma soprattutto eliminando ogni eccezione oggi prevista per i contratti a progetto, ovvero quelle scappatoie che consentono di utilizzare la formula cocopro per rapporti prolungati nel tempo, privi di ogni tipo di progettualità. Altro tema, il costo del lavoro discontinuo. La proposta è di equipararlo a quello dei contratti collettivi per le categorie iscritte alla gestione separata, di aumentarlo del 15% rispetto a quello di un dipendente per tutte le altre situazioni. In questo modo, viene stimato un aumento di 108 milioni nelle entrate dell'Inps e di 100 milioni per il fisco.Viene proposta una riforma dell'apprendistato, da trasformare in contratto unico d'inserimento formativo della durata di sei anni. I primi tre con salario più basso e contributi meno onerosi, i successivi con i contributi previsti fino al 2011 e, soprattutto, un'assunzione a tempo indeterminato. Al termine del contratto dovrebbe poi svolgersi un'esame che attesti la formazione del lavoratore. Infine, si propone di estendere a tutti i lavoratori il sostegno al reddito in caso di disoccupazione. I costi di quest'operazione, non certo 'indolore' per le casse dello Stato, sarebbero coperti dalle maggiori entrate derivate dall'aumento del costo del lavoro precario, una delle misure proposte nel decalogo.Si tratta in poche parole di invertire quella tendenza tutta italiana che ha declinato la flessibilità solo come un modo per «ammorbidire le tutele a garanzia del lavoro e a ridurne il costo». Il modello da seguire è la flexicurity danese: «La necessità di conciliare le esigenze del sistema  produttivo con l’importanza assoluta che il lavoro ricopre nella vita delle persone dovrebbe portare a un  modello virtuoso in cui flessibilità e sicurezza non siano necessariamente alternativi».Riccardo SaporitiPer saperne di più, leggi anche:- Chi ha paura del contratto unico? Panoramica dei vantaggi della flexsecurity per i giovani italiani- Elsa Fornero, ritratto del nuovo ministro del Lavoro: avanti con il contratto unico e il welfare per i precariE anche:- Riforma del lavoro, inutile senza quella degli stage- Ventenni e riforma del lavoro, parla l'ideatore della lettera a Monti

Il conflitto generazionale secondo Ian McEwan: a sorpresa nel nuovo romanzo Solar

Un vecchio barone della Fisica senza più stimoli, aggrappato al prestigio di un premio Nobel ottenuto anni prima. Un uomo ormai lontano dallo studio, dalla ricerca, dall'innovazione e preoccupato più che altro di monetizzare il suo prestigio a suon di incarichi, consulenze e inviti a convegni in hotel a cinque stelle in giro per il mondo. Un giovane ricercatore di provincia, idealista e ancora puro, che ha sviluppato un innovativo sistema di energia solare e che nel professore vede un guru a cui affidare le sue idee, un mentore con cui svilupparle per migliorare il mondo e la vita dell'umanità. A sorpresa l'ultimo romanzo di Ian McEwan, gigante della letteratura contemporanea inglese e autore di bestseller come Cortesie per gli ospiti, L'amore fatale ed Espiazione, racconta sottotraccia un esplosivo conflitto tra generazioni. Al centro di Solar infatti, pubblicato pochi mesi fa da Einaudi, c'è un episodio di insopportabile gerontocrazia - il furto che un vecchio compie ai danni di un giovane. ll furto forse peggiore, quello di un'idea. Un'idea in cui il professore ladro, lungi dal farsi intenerire dall'afflato ambientalista, cerca sopratutto il modo per fare soldi e restare a galla in un mondo accademico-scientifico che lo sta ormai emarginando.Le idee non hanno età, è vero. Ma guarda caso statisticamente le migliori vengono sempre dalle menti più giovani: prova ne sia che il premio Nobel viene sì consegnato solitamente a vecchietti col bastone, ma per ricerche svolte e scoperte fatte decenni prima, nel pieno fulgore della loro immaturità scientifica.Il personaggio di McEwan, Michael Beard, non fa eccezione: le pagine che descrivono il momento dell'ispirazione, dei calcoli, della passione messi in campo per costruire il suo teorema, la "conflazione", sono ambientate in un lontano passato - quando il futuro Nobel ha 21 anni, pochi soldi in tasca, e convive con la prima delle sue mogli in un posto scalcinato condividendo l'appartamento con una coppia di neogenitori alle prese con due gemelli perennemente urlanti. Tra pianti di bambini, ristrettezze economiche e crisi matrimoniali il 21enne Beard mette tutto se stesso nella Fisica, elaborando la teoria che gli varrà vent'anni dopo il super premio (qui l'unico dettaglio poco credibile: quasi nessuno in effetti riesce a prenderlo prima dei 50 anni). Genio a vent'anni, star del panorama scientifico a 40, ma quello che il libro racconta è il Beard dei 50 e poi 60: sempre più cialtrone, disinteressato allo studio, opportunista, venale. Nel declino avviene l'orrendo furto. E illuminante risulta, a un certo punto, il tentativo ormai disperato di negare di aver fatto passare per sua l'idea del giovane Tom Aldous: «Durante la nostra collaborazione, io pensavo e parlavo, e lui scriveva. Anche nella nostra era democratica la scienza rimane un sistema gerarchico, refrattario al livellamento. Occorre accumulare troppa competenza, troppo sapere. Prima di trasformarsi in un vecchio rimbambito, lo scienziato più anziano tende a saperne più del giovane, in base a parametri misurabili oggettivamente. Aldous era un modesto post-doc. Potremmo dire che era il mio amanuense». E di fronte alla minaccia di essere trascinato in causa per il furto dell'idea, il Nobel rincara la dose: nessun tribunale, urla all'avvocato della controparte,  si berrebbe  «la storia di un dottorando che si inventa da solo un lavoro di questa portata».Il vecchio trombone, distrutto dal suo ego, ha dunque dimenticato che anche lui aveva meno di trent'anni al momento del suo exploit scientifico. Forse é la natura umana: invecchiando si comincia a pensare che un giovane sia troppo inesperto per poter creare qualcosa di incredibile. E allora lo si sminuisce, trattandolo come maldestro e incapace e ancora irrimediabilmente immaturo. Il grave é che lo pensino perfino quelli che a venti-trent'anni hanno creato cose incredibili, e in ragione di quelle cose hanno potuto ottenere posti di responsabilità e potere. Il libro di McEwan è ambientato in Inghilterra, e racconta quindi quella che sembra un'eccezione. In Italia invece questa storia è purtroppo la regola: ancora non riusciamo a scrollarci di dosso, in Parlamento e nelle altre istituzioni, all'università come ai vertici dell'imprenditoria e dei sindacati, quegli ex giovani emersi negli anni Settanta che non hanno alcuna intenzione di farsi da parte. E troppi di questi ex giovani - a volte in pubblico, più spesso in privato - sminuiscono i (veri) giovani che lavorano con loro e per loro, spesso fornendo le idee e le soluzioni più innovative e acute. Li trattano appunto come se fossero «amanuensi e modesti post doc». Appropriandosi giorno dopo giorno delle loro intuizioni, dei loro scritti, del loro lavoro. Spesso e volentieri traendo profitti da queste appropriazioni indebite - quasi sempre peraltro compiute, a differenza del libro, con  l'avallo del derubato, rassegnato a dover pagare questo fio per fare gavetta e poter aspirare, un giorno o l'altro, a prendere il posto del caro vecchio. Con buona pace del ricambio generazionale.Eleonora Voltolinaper saperne di più su questo argomento, leggi anche:- La gerontocrazia avvelena l'Italia: se i migliori sono i più anziani, la gara è già persa in partenza- Per rifare l'Italia bisogna partire dal lavoro e dalle retribuzioni dei giovani

Apprendistato: coinvolge pochissimi laureati e spesso non garantisce vera formazione

In Italia ci sono 542mila giovani assunti con un contratto di apprendistato. Ma meno della metà di loro riuscirà a passare al tempo indeterminato. I numeri relativi all'evoluzione di questi rapporti di lavoro dimostrano infatti che sono sempre meno quelli che si trasformano in "posto fisso". Non è tutto: il XII rapporto di monitoraggio dell'Isfol - Ministero del lavoro conferma la scarsa attenzione alla formazione. E il fatto che l'apprendistato sembri essere precluso ai laureati. Il documento contiene i primi risultati di un'analisi che ha messo a confronto due generazioni di apprendisti, quella cioè che ha iniziato la propria esperienza nel 2001 e quella che l'ha cominciata nel 2005. Obiettivo: scoprire la situazione di questi lavoratori a cinque anni dalla firma del contratto. Un primo dato da mettere in evidenza riguarda il fatto che undici anni fa furono 235mila i rapporti attivati nell'arco dei dodici mesi: numero sceso, dopo un lustro, a 225mila. Si tratta di un dato che oscilla: nel 2008 c'era stato un "quasi boom", con 386mila contratti avviati, crollati però nel 2010 a 289mila. Tornando all'analisi 'generazionale': i dati forniti dagli enti previdenziali evidenziano come l'81,5% di coloro che hanno iniziato come apprendisti nel 2001 fosse ancora attivo dopo cinque anni e solo uno su sette non avesse cambiato qualifica professionale. La generazione successiva, invece, dopo lo stesso lasso di tempo vede impiegato il 77,8% dei lavoratori. E in quasi un caso su otto il regime contrattuale non è stato modificato. In altre parole: quei giovani dopo ben cinque anni sono ancora apprendisti.Un altro dato molto significativo è relativo a quanti sono riusciti a trasformare il rapporto di lavoro in un contratto a tempo indeterminato: la generazione 2001 è riuscita ad ottenere un posto fisso nel 44,9% dei casi, dato che per chi ha cominciato cinque anni più tardi è sceso al 40,4%. Cresce, invece, il ricorso a rapporti di lavoro dipendente che lo studio Isfol ricomprende nella dicitura generica di «altro tipo di contratto». Una formula che, escludendo il tempo indeterminato, si declina giocoforza in rapporti temporanei più o meno precari. Per coloro che hanno iniziato l'apprendistato nel 2001, sempre dopo cinque anni dall'avvio, questa situazione si è verificata nel 12,7% dei casi. Percentuale che sale al 17,7% tra coloro che fanno parte dell'infornata 2005. In altre parole, convivono due tendenze: si riducono gli apprendisti che riescono ad ottenere il posto fisso, aumentano coloro che invece terminano quella che dovrebbe essere un'esperienza formativa e, non riuscendo ad essere confermati in azienda, finiscono nell'universo del precariato.I dati più generali, quelli cioè che riguardano la totalità dei 542mila titolari di un contratto di apprendistato, parlano però di un incremento del 12,3% delle trasformazioni in rapporti di lavoro a tempo indeterminato registrato nel 2010. Possibile questa contraddizione? «Le due analisi sono molto diverse e questo giustifica i risultati», spiega Sandra D'Agostino, responsabile della struttura Metodologie e strumenti per le competenze e le transizioni di Isfol e curatrice del rapporto. «In quest'ultimo caso si confrontano i risultati di due annualità con attenzione al totale delle trasformazioni avvenute nell'anno, a prescindere dall'anzianità dei contratti di apprendistato. Nel primo, invece, si segue il totale degli ingressi di un anno per verificare cosa accade in quelli successivi».I contratti di apprendistato, in questo periodo, sono uno degli argomenti sul tavolo delle trattative tra il governo e le parti sociali sul tema della riforma del mercato del lavoro. Il ministro Elsa Fornero ha affermato di voler agire perché aumentino di numero e diventino un momento di formazione e non di flessibilità in entrata. L'esponente dell'esecutivo ha toccato un nervo scoperto: stando ai dati Isfol, appena il 25,2% dei titolari di questo tipo di rapporto viene effettivamente avviato ad attività formative, con picchi negativi dello 0,5% in Sardegna e del 4,4% in Campania. L'apprendistato infatti è una forma di contratto che prevede che il lavoratore non sia costantemente impegnato in azienda. Dovendo apprendere un mestiere, la legge prevede che svolga molte ore di formazione ogni anno. Ma questo avvviene in un caso su quattro. Il rapporto non entra nel merito delle motivazioni che portano a questo risultato, ma si limita a sottolineare che «i sistemi formativi implementati sul territorio nazionale appaiono adeguare i volumi di offerta».Resta da evidenziare infine un dato preoccupante: l'apprendistato non è un contratto per i laureati. Lo si era visto già nei risultati contenuti nell'XI rapporto Isfol, in base al quale nel 2008 solo il 5,5% degli apprendisti era laureato. In pratica, uno su venti. E oggi? Questo dato è scomparso. Il XII rapporto limita la rilevazione  sul titolo di studio agli apprendisti che davvero vengono coinvolti in attività formative. Un elemento che nel 2010 ha riguardato poco più di 136mila giovani inseriti in azienda con contratti di questo tipo. Ebbene, appena il 7% di questi ha un'istruzione universitaria. Un elemento certamente tra i più problematici: dopo anni di studio i laureati, vedendosi chiusa la porta dell'apprendistato - un contratto che, pur con tanti difetti, assicura retribuzioni dignitose, contributi, ferie pagate, malattia e maternità, permessi e tfr, e  in un caso su tre porta all'assunzione a tempo indeterminato - finiscono nel mare magnum del precariato. Quando va bene. Perchè in agguato ci sono anche gli stage, magari senza rimborso, quasi sempre senza sbocchi, e sopratutto senza controlli.Riccardo SaporitiSe ti ha interessato questo articolo, leggi anche:- Luci e ombre del contratto di apprendistato - una buona occasione, ma preclusa (o quasi) ai laureati- Apprendistato questo sconosciuto – Tiraboschi: «No allo stage come "contratto di inserimento": per quello ci sono oggi altri strumenti»E anche:- Contratti di apprendistato in calo, nasce un sito per rilanciarli- Elsa Fornero, ritratto del nuovo ministro del Lavoro: avanti con il contratto unico e il welfare per i precari

Oltre mille tirocini attivati in un mese: in Veneto stagisti a caccia di aziende

In Veneto gli stagisti sono così bravi che si trovano da soli l'azienda in cui svolgere il tirocinio. Alla Direzione lavoro regionale spiegano così il successo di Welfare to Work, bando per il reimpiego di disoccupati under 30 che nel giro di poco più di un mese ha esaurito i 1.250 posti messi a disposizione - assegnati dunque al ritmo di oltre trenta ogni giorno, domeniche e festivi compresi.Offrendo rimborsi spese totalmente a carico degli enti pubblici, quindi a costo zero per le aziende, l'appetitoso bando si è aperto il 23 novembre ed è stato chiuso il 5 gennaio, quando le domande pervenute nei centri per l'impiego delle sette province erano già 1.317, ben 67 in più di quelle effettivamente finanziate con i tre milioni che lo stato ha messo a disposizione della Regione. Tanto che quest'ultima ha deciso di integrarli con fondi propri, garantendo così una risposta a tutte le richieste pervenute. Ad oggi i tirocini attivati sono 1.205, dei quali 471 hanno preso il via prima della fine del 2011. Quelli mancanti, che la regione quantifica in 37, partiranno entro l'inizio di marzo, visto che il progetto prevede che i tirocini inizino entro due mesi dalla chiusura del bando. Ci sono poi una ventina stage non partiti entro il termine fissato e quasi 50 che si sono conclusi prima della scadenza naturale. Rispetto a quest'ultima fattispecie, è difficile spiegare le ragioni di una chiusura anticipata del progetto. Anche perché il modulo che le aziende devono compilare prevede solo tre opzioni: dimissioni, licenziamento e 'altro' - senza, dunque, approfondire le cause che hanno portato all'abbandono.Ma com'è possibile che in così poco tempo siano partiti così tanti tirocini? Non sarà che qualche azienda ha fatto incetta di stagisti, risparmiando così sulla manodopera per i quattro mesi di durata delle borse? «Sono poche le imprese che hanno attivato più di una posizione e comunque all'interno dei numeri consentiti dalla normativa», spiegano dalla Direzione lavoro della Regione Veneto. Il riferimento va alla legge 142 del 1998 che, al comma 3 dell'articolo 1, stabilisce che le aziende con un massimo di cinque dipendenti a tempo indeterminato non possono avere più di un tirocinante alla volta. Numero che sale a due per le realtà che abbiano da 6 a 19 assunti, mentre per quelle di dimensioni maggiori gli stagisti non possono superare il 10 per cento della forza lavoro. Ad ogni modo, ribadisce chi ha seguito il bando, quello delle aziende con più di una borsa «non è un dato significativo».Il boom di Welfare to Work si spiegherebbe piuttosto col fatto che «l'aspirante stagista andava in cerca di un'azienda disposta ad accoglierlo. Così quest'ultima, quando si è rivolta al centro per l'impiego, non ha richiesto più una disponibilità generica a prendere parte al progetto, ma ha fatto direttamente richiesta per una persona specifica». Una procedura che ha snellito ancora di più l'iter perché, di fronte ad una richiesta con tanto di nome e cognome, le province non hanno dovuto svolgere il lavoro di preselezione previsto dal bando. In altre parole, non hanno cercato diversi profili confacenti alle richieste da sottoporre all'azienda per la scelta dello stagista.Non è tutto. Secondo la Direzione lavoro, anche la scelta di aver messo in concorrenza le diverse province ha contribuito ad una così veloce assegnazione dei posti disponibili. Il bando infatti non fissava alcun criterio di suddivisione territoriale dei progetti: le domande sono state accolte semplicemente in base all'ordine di presentazione. Col risultato che alcuni enti si sono impegnati più di altri: a Padova per esempio sono stati attivati ben 401 progetti, praticamente un terzo delle borse disponibili. I dati forniti dalla Direzione lavoro raccontano di un'azione intensa anche a Rovigo (294), Treviso (280) e Vicenza (162). In altre realtà, invece, l'attenzione al bando Welfare to Work è stata scarsa, come nelle province di Venezia con 91 stage attivati e di Verona con 69, o addirittura quasi nulla. È il caso di Belluno, dove sono partiti appena 20 stage. I 1.317 progetti avviati grazie a WtW rappresentano comunque una minima parte di quelli attivati in Veneto: stando al rapporto Excelsior UnionCamere «Formazione continua, tirocini e stage attivati nel 2010», questa regione è infatti una di quelle in cui le imprese private fanno maggiormente ricorso agli stage e nel 2010 il numero complessivo è arrivato a 39mila - un risultato secondo solo a quello lombardo (69mila). Quasi un quinto delle aziende venete ha attivato percorsi di tirocinio, contro una media nazionale del 13,3%. Ma appena uno stage su dieci si trasforma in un'assunzione, contro una - già bassissima - media nazionale del 12,3%. La speranza ora è che la W di "work" venga onorata e che per i partecipanti all'iniziativa le cose vadano diversamente. Se alla fine infatti venissero assunti solo 130 giovani su 1300, una grande parte dei milioni di euro serviti per finanziare il progetto sarebbero stati buttati al vento. Ma per conoscere i dati sul placement bisognerà aspettare giugno, quando tutti gli stage saranno terminati.Riccardo SaporitiPer saperne di più su questo argomento leggi anche:- La Regione Veneto avvia Welfare to Work: 1.250 stage con rimborso di 600 euro al mese per gli under 30E anche:- La legge 34/2008 della Regione Piemonte su mercato del lavoro e stage- La Toscana approva la nuova legge sugli stage: per la prima volta in Italia il rimborso spese diventa obbligatorio

E dopo Campus Mentis la proposta che non ti aspetti: uno stage a pagamento

Ci sono cose che, partecipando ad un career day, un giovane non si aspetta. Come sentirsi chiedere dei soldi per attivare stage full time fino a dodici mesi in aziende estere, anche all'altro capo del mondo. Eppure anche questo è successo. E non a un career day qualunque, ma al Campus Mentis dell'ex ministero della Gioventù, la tregiorni di incontro domanda-offerta di lavoro che fa della qualità di laureati e aziende partecipanti il suo bollino distintivo. Protagonista della vicenda è una piccola tour operator romana, l'Avec, che a distanza di un mese dalla conclusione dell'edizione milanese del campus,  alla luce di un «importante workshop internazionale», ricontatta via mail quanti hanno sostenuto il colloquio. Non con un'offerta di lavoro però, bensì con tre proposte di «stage professionali» all'estero. Tutto ok? Non proprio, dal momento che, lungi dal prevedere un compenso per il giovane, gli stage prevedono anzi una quota di adesione che va dai 900 ai 1.800 euro, valida per un periodo di permanenza all'estero a scelta tra i due e i dodici mesi. Mete previste: Stati Uniti, Australia e Inghilterra.Per chi sogna l'America, ad esempio, l'Avec ha elaborato una proposta di stage da 1.800 euro, che finanzierebbero: esame del candidato, servizio di orientamento e consulenza, assistenza per l'ottenimento del visto, assistenza durante lo stage. La durata è a discrezione dell'aspirante stagista: una flessibilità che non sorprende, dal momento che andrebbero a suo carico le voci di spesa più consistenti – viaggio di andata e ritorno, alloggio, vitto, trasporti, assicurazione sanitaria (a cui è bene pensare se si vive oltreoceano per un po'). Praticamente tutto. Facendo due conti, nell'ipotesi di uno stage trimestrale, ai 1.800 euro da versare all'agenzia turistica si aggiungerebbero più o meno altri 5mila euro, per un'uscita totale di quasi 7mila euro. Un «vantaggio professionale» un tantino costoso. Soprattutto se si hanno tra i 21 e i 25 anni, come richiesto dal programma, che per altro ammette solo laureandi e laureati da non più di un anno. Per quel che riguarda i profili ricercati, ce n'è per tutti: Drive your success è il miniprogramma nel settore automobilistico; The sky is the limit quello nell'industria aerospaziale; con Make a difference  ci si avvicina al  no profit; con Build the future all'architettura.Stessa varietà di settori anche per gli «stage professionali» in Australia, a Sidney o Melbourne: finanza, ingegneria, turismo, risorse umane, marketing, legge. Per due mesi la quota di adesione è di 870 euro; se la durata raddoppia la cifra sale a 1.120, per arrivare a 1.600 euro per stage di sei mesi. Soldi che di nuovo ricompensano l'Avec del disturbo di selezionare e assistere i candidati. Questa volta però viene garantita anche l'assicurazione (non viene specificato se medica o di altro tipo) e una lettera di referenza da parte dell'azienda ospitante. Il limite di età è di 26 anni e, a differenza del programma statunitense, cade il limite della laurea conseguita da non più di un anno. E c'è anche la possibilità di frequentare corsi intensivi di lingua inglese, a parte ovviamente: «info e quotazioni su richiesta». Per chi invece non vuole allontanarsi troppo c'è sempre un evergreen, Londra: 945 euro per  avviare stage dai due ai sei mesi in tutti i settori: dall'arte alla ristorazione, dal marketing al no profit; e poi legge, giornalismo, pubblicità. I quasi mille euro di quota questa volta comprendono anche una settimana di alloggio in doppia (in zona 1 e 2 si precisa, quindi centrale) «estensibile a richiesta». Una richiesta che costerebbe 180 euro a settimana, 720 al mese: per una doppia, un prezzo esoso persino per Londra centro. Voli, vitto, trasporti rimangono a carico dell'intern, che per uno stage di media durata deve mettere in conto almeno 5mila euro.Utilizzare la parola «stage» per definire un corso a pagamento, per quanto di notevole disinvoltura, non è illegale; tecnicamente l'Avec può farlo (inesistente invece la categoria di «stage professionali»: la riforma ferragostana distingue solo tra tirocini «curriculari» e non). Ma il punto è un altro: se il web è una giungla e ci si aspetta di trovare un po' di tutto, da un costoso e selettivo career day ministeriale certe sorprese sono indigeste. E le domande nascono spontanee: con quali criteri vengono selezionate le aziende che partecipano a Campus Mentis? Vengono effettuati controlli sulla qualità dell'offerta lavorativa e monitoraggi sugli sbocchi occupazionali? La Repubblica degli Stagisti ha girato questi e molti altri interrogativi a Fabrizio D'Ascenzo, direttore di Impresapiens, il centro di ricerca della Sapienza che organizza Campus Mentis [leggi qui l'intervista completa]. Sul caso Avec il professor D'Ascenzo aveva promesso di fare chiarezza. La promessa è stata mantenuta, e qualche giorno fa alla redazione è arrivato il verdetto: «A seguito della vostra segnalazione, è stata inviata alla azienda che mi avete evidenziato una lettera di esclusione». La speranza naturalmente è che questa decisione dissuada altre imprese dal tentare di utilizzare Campus Mentis per procurarsi nominativi di giovani a cui poi provare a vendere prodotti o servizi, anziché proporre occasioni di lavoro.Annalisa Di PaloPer saperne di più su questo argomento, leggi anche: - Campus Mentis, D'Ascenzo: «Facciamo orientamento, non placement» E anche:- Campus Mentis, 9 milioni di euro dal ministero della Gioventù per investire sui nuovi talenti: ma il gioco vale la candela?- Ecco il backstage della tappa di Milano del maxi career day sponsorizzato dal ministero della Gioventù- Stage a pagamento: un lettore chiede «help» alla Repubblica degli Stagisti- Aspiranti giornalisti, attenzione agli annunci di stage a pagamento in Rete: la richiesta di help di tre lettori

Reddito minimo garantito: ce l'hanno tutti tranne Italia, Grecia e Bulgaria

In Europa siamo tra i pochissimi a non averlo. È il reddito minimo garantito, qualcosa di molto diverso dal sussidio di disoccupazione. Riguarda infatti anche i giovani, chi cioè, nel mondo del lavoro non è ancora entrato, mentre il secondo impone che una persona abbia lavorato per un determinato periodo perché possa richiederlo e ottenerlo.Il ministro Elsa Fornero ha dichiarato più volte di voler lavorare alla sua introduzione, a patto che sia inserito «in un pacchetto più ampio» di misure. Resta però ancora da capire quanto la sua convinzione possa diventare parte integrante del programma di governo.Per ora sta di fatto che in Italia quello che può essere chiamato anche «reddito di cittadinanza» rimane un’utopia, mentre in altri Paesi europei è una realtà radicata. In Gran Bretagna, ad esempio, a partire dai 18 anni chi non ha un’occupazione o lavora meno di sedici ore a settimana ha diritto al cosiddetto income-based jobseeker's allowance. In pratica qualsiasi maggiorenne in cerca di lavoro si può iscrivere a un Jobcentre governativo (quello che in Italia è chiamato ufficio di collocamento); finchè l’ufficio non gli trova un lavoro, per un massimo di 182 giorni, può godere di un sussidio sociale settimanale che va dalle 53 alle 105 sterline [da 250 a poco più di 500 euro al mese], in base all’età e allo stato civile. Nel 2005 nel Regno Unito il 1,8 % della popolazione in età lavorativa percepiva il reddito minimo garantito (Minimum wage statistics, European Commission, Eurostat).Si chiama Revenu minimum d'insertion (Rmi) il reddito minimo garantito vigente in Francia ed è destinato a chi ha più di 25 anni ed è senza un lavoro o percepisce uno stipendio al di sotto di una soglia minima. La misura consiste in un’integrazione del reddito di circa 425 euro mensili ma il contributo è variabile e, per esempio, sale nel caso di coppie con figli a carico (in tal caso può arrivare a superare i mille euro). Dal 2009 il l’Rmi è stato sostituito dal Revenu de solidarité active (Rsa) che garantisce 466 euro mensili a persone senza reddito sopra i 25 anni. Nel 2005 in Francia il 16,8% della popolazione francese in età lavorativa percepiva tale sussidio (Minimum wage statistics, European Commission, Eurostat).Non solo reddito minimo: l’Arbeitslosengeld tedesco garantisce a chi ha più di 16 anni e meno di 65, ed è senza lavoro, anche le spese d’affitto e di riscaldamento. La quota base ammonta a 299 euro per cittadini fino a 24 anni e 374 per chi li ha superati. Ma una famiglia con due figli e padre disoccupato può sorpassare i 1.665 euro al mese. Durante il periodo in cui si riceve il sussidio si è ovviamente obbligati ad accettare offerte di lavoro.Ancora più generoso il sistema norvegese. Nel Paese scandinavo lo stato sociale offre ai suoi cittadini lo Stonad til livsopphold, una sorta di «reddito di esistenza», senza limiti di età che garantisce un importo mensile di circa 500 euro. Senza particolari restrizioni, è vero. Ma se la Norvegia è uno dei pochi Paesi ad avere oggi un’organizzazione funzionale è anche perché lo stato è sì assistenziale, ma non fa elemosina a nessuno. Dunque a chi ha la concreta possibilità di inserirsi nel mondo del lavoro il sistema non garantisce il sussidio. Il Paese scandinavo ha un occhio di riguardo particolare nei confronti delle ragazze madri a cui, oltre al reddito minimo, garantisce le spese per il mantenimento del bambino, quelle d’affitto e per terminare gli studi, in modo che la scelta di tenere o meno il figlio non sia dettata da motivazioni di carattere economico.Una qualche forma di reddito minimo esiste oggi in tutti i Paesi dell’Unione Europea, con esclusione del nostro, della Grecia e della Bulgaria. Sono ben quattro i provvedimenti comunitari che sollecitano questa misura di politica sociale; il primo è del ‘92 ed è una «raccomandazione» del Consiglio europeo sulle politiche di protezione sociale. L’ultimo è un documento della Commissione del 2008, relativo «all’inclusione delle persone fuori del mercato del lavoro». Le norme che i vari stati si sono dati sono differenti così come gli effetti che hanno prodotto. L’Inghilterra, l’Olanda, la Germania e i Paesi scandinavi sono quelli che hanno attuato politiche di inclusione sociale ed economica da più lungo tempo e con esiti più apprezzabili.Nel settembre 2010 lo European anti poverty network ha steso un progetto internazionale in tema di «minimum income» che parte con l’asserzione: «Un reddito minimo garantito per una vita dignitosa è un diritto fondamentale e un prerequisito per sradicare povertà ed esclusione sociale» e prosegue: «contraddicendo la raccomandazione adottata dal Concilio nel 1992 la maggior parte degli schemi esistenti di reddito minimo garantito non assicurano un’entrata adeguata per tutti. In alcuni Paesi non ci sono nemmeno». E l’Italia è uno di questi. L’Ente europeo ha dunque prodotto una serie di proposte per attivare una direttiva europea in fatto di reddito minimo garantito. Ma per ora, a un anno dalla sua stesura, nulla si muove.Giulia CimpanelliPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- A Parigi la conferenza internazionale sull'occupazione giovanile promossa dallo European Youth Forum: intervista al vicepresidente Luca Scarpiello- Reddito minimo garantito, parte la raccolta firme della Cgil per ripristinare la legge sperimentale in Lazio. Con due ombre: il costo spropositato e il rischio di assistenzialismo- Elsa Fornero, ritratto del nuovo ministro del Lavoro: avanti con il contratto unico e il welfare per i precari