Categoria: Approfondimenti

Medici specializzandi e tirocinanti psicologi, la lunga gavetta delle professioni sanitarie

Invidiati dai giovani professionisti italiani, i medici sono l'unica categoria a cui la legge garantisce una retribuzione – 1.765 euro netti mensili - per il tirocinio di specializzazione. La svolta è arrivata con una direttiva europea del '93 recepita nel '99, ma applicata in Italia solo dal 2006 dopo una lunga battaglia. Risultato: oggi i camici bianchi godono di garanzie che per altre figure, come gli psicologi, restano un sogno. La Repubblica degli Stagisti ha messo a confronto i due percorsi. L'ingresso alle specializzazioni in medicina – 5mila posti all'anno distribuiti tra le varie discipline – si può tentare dopo tre mesi di abilitazione e l'esame di Stato. Per chi ce la fa, scatta un contratto di formazione annuale e rinnovabile al superamento di un esame, in grado di assicurare «condizioni più che soddisfacenti». Al di là dello stipendio, «tra i più alti per un giovane ad un anno dalla laurea» come  spiega Daniele Indiani, vicepresidente della Federspecializzandi, «ad essere pagati sono anche i contributi alla gestione separata dell'Inps. Le ferie non sono previste, ma si possono far ricadere nei 30 giorni di assenza “per motivi personali”. E, in caso di infortunio o gravidanza, con allontanamento superiore a 40 giorni consecutivi - fino a un anno - viene garantito il trattamento fisso di 1500 euro». Alle selezioni partecipa la maggioranza dei 7-8mila dottori licenziati ogni anno dall'università.  Tanto che, secondo l'osservatorio del Miur, a tre anni dalla laurea a specializzarsi è addirittura il 98,6% del totale. Senza questo ulteriore step infatti non si può ottenere nessuna titolarità di ruolo, nemmeno come medico di famiglia.L'impatto col lavoro, però, resta duro anche per i neospecializzati. «Finiti gli studi» racconta Indiani «fatta eccezione per radiologi e anestesisti di cui attualmente c'è carenza, si aprono le porte della precarietà, con contratti semestrali a 1200 euro». Ecco allora il paradosso: lo specializzato guadagna meno dello specializzando. «Finisce che, pur in linea con gli studi, ci si trova disoccupati a 32 anni, ed è un problema». Anche perché in agguato ci sono i tempi morti. Negli ultimi cinque anni, i concorsi per l’accesso alle scuole di specializzazione si sono svolti sempre con almeno 5 mesi di ritardo. Ecco perché la riforma Fazio-Gelmini, laddove punta ad accorciare le  specialità -  da 6 a 5 anni quelle chirurgiche,  da 5 a 4  o 3 anni quelle mediche – e ad inglobare i tre mesi abilitazione nel corso di laurea, ha trovato un certo consenso. I dubbi dei giovani medici si concentrano, però, sulle modalità di svolgimento della pratica. «Per legge non dovremmo sostituire gli organici, ma ci sono ospedali strutturati sulla nostra presenza. E purtroppo» sottolinea Indiani «nessuno vigila. L'Osservatorio è strutturato in modo che i controllati siano anche i controllori». Il risultato? «Piani formativi eccezionali, ma raramente rispettati: specializzandi in chirurgia che invece di operare restano a guardare, riempiendo cartelle o facendo da segretari». E ancora: «La  discrezionalità lasciata ai direttori nella fase di selezione è troppa, col rischio di una sudditanza psicologica e di un ho aggiunto qualche dato guida. implicito ricatto “ ti ho fatto entrare, ora fai quello che voglio”. Così diventiamo assistenti piuttosto che persone da formare». Per questo, conclude Indiani, «ci battiamo per un concorso nazionale che ci liberi dallo zerbinaggio verso i direttori». Ma come funziona la selezione? Avviene su un punteggio ottenuto per titoli ed esami. Il voto di laurea vale fino a 7 punti e il cv fino a 18. Poi c'è un quiz da 60 domande a risposta multipla e una prova pratica da 15 punti. Ed è proprio su quest'ultima che si eserciterebbe la discrezionalità dei direttori delle scuole a capo delle commissioni esaminatrici. «Poiché i questionari sono estratti su un plateau di 5.750 mila domande» spiega Indiani: «totalizzare i 60 punti agli scritti diventa possibile e la vera partita si gioca con la prova pratica». Ma se i medici hanno buoni motivi per cui lamentarsi, sorte ancora peggiore tocca agli psicologi. Il percorso di laurea è più breve (5 anni, o 3+2, invece di 6) però bisogna mettere in conto un anno di tirocinio per accedere all'Ordine. «In questa fase» racconta Roberta Cacioppo, vicepresidente dei Giovani psicologi lombardi «il tirocinante si trova spesso a dover operare come se fosse già un professionista, mettendo a rischio il rapporto di trasparenza con gli utenti a cui non viene presentato come tale». Una volta laureati –  4.638 nel 2010, secondo il Miur - e superato l'esame di Stato (o impegnandosi a superarlo nella prima sessione utile) si può intraprendere, come nel caso dei camici bianchi, la specializzazione, in una scuola di psicoterapia. Ed è allora che le differenze di trattamento tra le due figure diventano macroscopiche. «Non solo il tirocinio viene svolto a titolo gratuito» sottolinea Cacioppo «ma è difficile persino trovarlo. E questo rischia di svilire la nostra professionalità. É vero, rispetto ai medici l'impegno è part-time, ma si tratta comunque di un percorso di 4/5 anni». La penuria di tirocini però non sarebbe causata dalla mancanza del numero chiuso nelle scuole. Anche perché le oltre 340  riconosciute dal Miur offrono già posti superiori alle richieste. «In realtà dei nuovi iscritti all'Ordine della Lombardia, sono in pochi a seguire la via della specializzazione» rivela la vice della Gpl «Forse ci sono troppe scuole, ma purtroppo è il mercato ad essere inflazionato. E molti preferiscono iscriversi a master annuali o biennali che offrono qualche occasione lavorativa in più. Ci sono campi emergenti, come quelli della psicologia scolastica, dello sport e dell'organizzazione del lavoro. Poi c'è la scuola di neuropsicologia che attualmente non è riconosciuta come specializzazione». Chi si ferma all'esame di Stato può dirigersi verso il terzo settore o aprire uno studio privato di  diagnosi e sostegno (non di terapia). Poi ci sono laureati che  scelgono un lavoro in azienda, ad esempio come selezionatori del personale, e non si iscrivono nemmeno all'albo. Infine gli studenti a vita che alla scuola di psicoterapia aggiungono uno o due master. «Di certo non è possibile costringere i giovani alla dipendenza economica oltre i 30 anni. Né ad una formazione perpetua» conclude Cacioppo: «Purtroppo rispetto ai medici facciamo più fatica a farci ascoltare perché il nostro ordine è giovane e siamo di meno. Però stiamo cercando di collegarci con altre provincie e regioni. L'obiettivo è convogliare le nostre istanze verso l'Ordine nazionale».Ivica GrazianiPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Ingegneria ma non solo: quali sono le lauree più utili per trovare lavoro? - Tutti geni i neolaureati italiani? Nuovi dati Almalaurea: alla specialistica il voto medio è 108, con punte di 111 per le facoltà letterarieE anche: - Censis: in Italia i laureati lavorano meno dei diplomati. E i giovani non credono più nel «pezzo di carta»- Bamboccioni? Nel libro «L'Italia fatta in casa» Alesina e Ichino spiegano di chi è la colpa

Fuggi-fuggi dall'Italia: sono almeno 2 milioni i giovani all'estero

Oltre due milioni di persone, quanto l'intera popolazione della Calabria. Tanti sono i giovani italiani all'estero: un numero impreciso, fluttuante, e sopratutto in continua crescita. Lo ha calcolato l'associazione Italents a partire dai dati Istat e Aire più recenti (risalenti al 2010), secondo cui i 18/24enni residenti oltreconfine sono più o meno 350mila; quasi 600mila gli "italians" nella fascia di età 25/34, e oltre 650mila tra i 35 e i 40.La somma algebrica dei tre numeri fa 1 milione e 600mila: ma questi dati sono fortemente deficitari perchè - malgrado sia un obbligo sancito dalla legge - non tutti si iscrivono all'Aire, l'anagrafe dei residenti all'estero. Una rilevazione svolta a livello esplorativo nel 2010 da Claudia Cucchiarato, animatrice del blog Vivo altrove e autrice dell'omonimo libro - nonché giovane giornalista veneta trapiantata ormai da anni a Barcellona - ha evidenziato infatti che solamente la metà dei giovani che prendono la strada dell'estero sceglie di trasferire anche la propria residenza: «Anche se non è sempre appropriato parlare di "scelta", perché molti al momento della partenza non sanno per quanto tempo rimarranno lontani, e quindi attendono mesi o anche anni prima di formalizzare con l'Aire il fatto che si sono stabiliti in un altro Paese» puntualizza Alessandro Rosina, presidente dell'associazione e docente di demografia alla Cattolica di Milano: «Anzi, molti partono pensando di tornare indietro dopo un breve periodo, e quindi evitano di proposito le procedure burocratiche connesse al trasferimento della residenza. Però poi, confrontando le opportunità che trovano in realtà più dinamiche e avanzate - e non ci vuole molto: in confronto all'Italia perfino il Cile offre migliori chance! - la voglia di tornare indietro lentamente sbiadisce e il soggiorno che doveva essere temporaneo spesso si trasforma in una scelta permanente». Tra l'altro essere iscritti all'Aire non serve a molto, eccezion fatta per il diritto di votare all'estero: ma poiché molte volte le elezioni diventano anche l'occasione di un viaggetto per riabbracciare parenti e amici, il vantaggio di poter votare da lontano non è percepito come fondamentale.Il problema della mancata registrazione all'Aire sta creando anche qualche difficoltà all'applicazione della legge Controesodo, che prevede importanti sgravi fiscali per i laureati under 40 che dopo un periodo di almeno due anni fuori dall'Italia decidono di fare rientro in Patria. In realtà la legge non prevede esplicitamente l'obbligo di iscrizione all'Aire, sottintendendo che basti poter certificare "informalmente" la permanenza all'estero; ma successive interpretazioni hanno creato confusione. Tanto che a metà gennaio Guglielmo Vaccaro, il deputato del Partito Democratico - che insieme ad Alessia Mosca più si é speso sul fronte di Controesodo - aveva presentato un emendamento che tra le altre cose specificava che «gli incentivi si applicano anche a coloro che non hanno effettuato l’iscrizione all’Aire, conservando la residenza anagrafica in Italia o nel loro Paese d’origine» Ma questa parte del testo non è passata e la questione resta aperta.In realtà comunque i due milioni di giovani italiani all'estero non sarebbero un problema di per sè. Allontanarsi dal proprio Paese per fare nuove esperienze o cercare opportunità migliori fa parte della natura umana e non è un disvalore. Il problema è la bilancia tra i cervelli che si perdono e quelli che si "acquistano". Purtroppo l'Italia perde molti profili alti, cioè persone con istruzione universitaria che scappano e portano le proprie competenze altrove, mentre riesce ad acquisire solo profili bassi: l'immigrazione è composta quasi esclusivamente di manovalanza (anche quando sono laureati nella loro patria, raramente gli immigrati svolgono nel nostro Paese mestieri correlati alla propria istruzione) e l'Italia non viene percepita, a livello internazionale, come un luogo attraente per i giovani cervelli. Lunga e impervia è la strada per traghettare il nostro paese verso standard di meritocrazia ed eliminare quelle sacche di gerontocrazia, familismo e immobilismo che impediscono il sano e ricambio generazionale.Eleonora VoltolinaPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Cervelli in fuga: un doppio questionario per capire chi sono, cosa gli manca, e perchè quasi tutti non tornano (e alcuni sì)- Sulla Rete i giovani italiani scalpitano per fare rete: ITalents sbarca su Facebook, ed è boomE anche:- Claudia Cucchiarato, la portavoce degli espatriati: «Povera Italia, immobile e bigotta: ecco perché i suoi giovani scappano»- «Vivendo altrove, il confronto fra l’Italia e altri paesi diventa impietoso. E illuminante». In un libro le storie degli italiani che fuggono all'estero- Peter Pan non per scelta ma per forza: nelle pagine di «Gioventù sprecata» i motivi che impediscono ai giovani di diventare adulti

Imprenditoria giovanile, ecco chi la sostiene

Nell'agosto dello scorso anno l'Osservatorio di Unioncamere ne ha contate 702mila. Ma cosa fanno le istituzioni per sostenere la nascita e la crescita delle imprese guidate dai giovani? Da Roma a Milano passando per la Toscana, sono diversi i bandi che le finanziano. E quattro città - Trento, Torino, Bari e Napoli - si preparano ad ospitare una tappa dello Startup weekend, due giorni dedicati a tutti coloro che vogliono avviare un'impresa nel mondo del web e delle mobile applications.La provincia di Roma ha appena aperto due bandi per sostenere le imprese creative e incoraggiare la nascita di nuove aziende, mettendo a disposizione complessivamente oltre 750mila euro. Il Fondo per la creatività, questo il nome del primo progetto, è promosso in collaborazione con la Camera di commercio della capitale ed è rivolto ai residenti nell'area metropolitana romana. L'obiettivo quello di favorire la creazione di realtà imprenditoriali nei settori come l'architettura, l'arte, l'artigianato artistico, il disegno industriale, la moda, la pubblicità, la comunicazione, la fotografia e l'editoria. La partecipazione al concorso, che mette a disposizione 500mila euro, è aperta anche alle imprese sorte negli ultimi 24 mesi. Le domande vanno presentate entro il 29 febbraio.Provincia e Cciaa ribadiscono la loro collaborazione anche nell'ambito di Promotori tecnologici per l'innovazione, iniziativa volta a favorire l'incontro tra il mondo delle imprese e quello della ricerca. In questo caso i fondi a disposizione ammontano a 254mila euro che saranno distribuiti a realtà nate negli ultimi dodici mesi oppure a singoli laureati e ricercatori che siano occupati come promotori tecnologici all'interno di un'azienda. Anche per questo progetto la scadenza è fissata alla fine di febbraio 2012.Nel dicembre dello scorso anno si è invece concluso FarImpresa Milano, iniziativa congiunta di Palazzo Marino e della Camera di commercio meneghina, che hanno messo a disposizione addirittura un milione e mezzo di euro per le imprese con meno di 18 mesi di vita. Questi fondi sono andati a finanziare gli investimenti sia sul fronte delle risorse tecniche che di quelle umane, con contributi fino a 10mila euro per l'assunzione o la stabilizzazione dei lavoratori. Sono state 130 le domande presentate da altrettante imprese: di queste, 99 sono state ammesse ed hanno ricevuto i finanziamenti previsti. Ai vincitori è stata offerta anche la possibilità di partecipare a corsi di gestione di bilancio, marketing e comunicazione, fiscalità e accesso ai finanziamenti pubblici.Ancora attivo invece in Lombardia - ma questa volta l'iniziativa coinvolge governo, regione, il circuito delle Camere di commercio e i comuni di Milano e Monza - è il progetto Start che sostiene la nascita di nuove aziende con particolare riguardo all'imprenditoria giovanile e femminile. In questo caso i contributi vengono erogati per le diverse fasi della creazione di un'attività, dall'elaborazione del business plan allo start-up, fino alla gestione dei primi due anni di attività. I diversi soggetti promotori hanno messo a budget quasi quattro milioni di euro: le domande potranno pervenire fino a 30 novembre 2012, e la partecipazione è riservata ai soli residenti in Lombardia.In Toscana, invece, la regione ha messo a disposizione 12 milioni di euro per favorire l'avvio di imprese a conduzione femminile oppure guidate da under 40. Il sostengo è rivolto sia allo start-up, ovvero ad aziende con meno di 6 mesi di attività, sia allo sviluppo: in questo caso i fondi vanno a realtà che ancora non abbiano 'compiuto' i due anni di vita. Gli aiuti non consistono però nell'erogazione di un contributo, bensì in una serie di agevolazioni nell'accesso ai finanziamenti. In particolare, questa somma viene utilizzata come garanzia gratuita da parte di Fiditoscana, che arriva a coprire fino all'80 per cento del rischio sui finanziamenti bancari per l'avvio o lo sviluppo di un'attività. È previsto poi il rimborso, a fondo perduto, del 70 per cento degli interessi del prestito, che viene erogato ad un tasso agevolato.Sempre in tema di nascita di nuove attività, da segnalare i quattro appuntamenti italiani con gli Startup weekend, che quest'anno si svolgeranno a Trento, Bari, Torino e Napoli. Si tratta di un'iniziativa diffusa a livello internazionale, una sorta di laboratorio che mette a confronto i diversi soggetti che operano nel settore di Internet e delle applicazioni per gli smartphone. L'idea è quella di mettere a disposizione di quanti abbiano un'idea per un progetto in questo campo gli strumenti per trasformarla in realtà.Magari anche approfittando delle recenti norme approvate dal governo per favorire l'imprenditoria giovanile, come l'introduzione della cosiddetta "srl semplificata" per gli under 35 e la tassazione forfettaria al 5 per cento per le nuove attività. E chissà che grazie a queste norme le 702mila attività da Unioncamere non possano crescere di numero.Riccardo SaporitiPer saperne di più leggi anche:- Ricerca e start-up, centinaia di opportunità di lavoro per giovani imprenditori e ricercatori- Il ministro Giorgia Meloni: «Per investire sui giovani è necessario un cambio di mentalità»E anche:- Lavoro e giovani: ce l'abbiamo un'idea? L'associazione Rena mette pepe al dibattito- Chi ha paura dei giovani che scalciano?

Le 150 ore per il diritto allo studio: una lotta sindacale degli anni Settanta che oggi andrebbe rispolverata

Ci volle una battaglia sindacale, negli anni Settanta, per dare vita alle cosiddette 150 ore per il diritto allo studio. Il risultato fu la possibilità per tutti i lavoratori di usufruire di un monte ore triennale retribuito per seguire corsi di formazione professionale o anche non strettamente connessi con l'attività lavorativa, al fine di ottenere un titolo di studio. L'idea era un po’ quella di potersi affrancarsi dal padrone, mettendosi al suo stesso livello grazie all’istruzione. Francesco Lauria [nella foto sotto], 32enne sindacalista della Cisl, ha appena ripercorso questa storia nel libro Le 150 ore per il diritto allo studio [Edizioni Lavoro], facendo parlare in prima persona chi l’ha vissuta. «Le 150 ore erano una forma, potremmo dire, di risparmio contrattuale: una quota di salario che andava in un’altra direzione, forse la definizione migliore è quella di ‘investimento contrattuale’» scrive Bruno Manghi, uno dei protagonisti di quella lotta, nella prefazione del libro. In sostanza si trattava di sottrarre ore al lavoro, per dedicarle invece all’apprendimento: «Era un diritto non esigibile automaticamente e, all’inizio, la maggioranza dei lavoratori ne era consapevole molto blandamente». Un ruolo centrale lo ebbe chi portò avanti e fece conoscere quella rivendicazione: e allora operai e metalmeccanici iniziarono a utilizzare il tempo del lavoro anche per riprendere gli studi interrotti. Furono anni di cineforum, di corsi di inglese, italiano, storia, messi in piedi grazie all’aiuto degli intellettuali del tempo - organizzati tramite il sindacato nelle scuole per le 150 ore. L’esperienza ebbe però vita breve, spiega ancora Manghi: «negli anni Ottanta tutto cade sulle spalle di pochi sindacalisti a tempo pieno e a livello confederale. Le esperienze migliori si sono trasferite all’azione degli enti locali, ai corsi per stranieri, ma il sindacato non ne è più protagonista». Oggi le 150 ore sono solo un ricordo - anche se la legge prevede tuttora permessi retribuiti per motivi di studio - nonostante la questione della formazione continua sia tutt’altro che marginale. «Non sono pochi coloro che si rendono conto del peso negativo che la deficitaria condizione di literacy e numeracy degli adulti italiani ha su tutta la nostra vita, sociale, produttiva, economica, perfino, ha spiegato una volta Tito Boeri, finanziaria» afferma Tullio De Mauro, professore emerito di Linguistica, nella postfazione al libro. Come a dire che il nostro è un paese in declino forse anche a causa «del mondo oscuro della bassa scolarità intrecciata a una minacciosa e ancor più grave dealfabetizzazione in età adulta». Ipotesi non del tutto remota guardando al problema della disoccupazione: a ben vedere la laurea e più in generale i titoli di studio hanno uno scarso rilievo in Italia nel conseguimento di un posto di lavoro, ed è plausibile pensare che uno dei motivi risieda proprio nel basso tasso di scolarizzazione del nostro Paese, dove possedere un titolo accademico significa in pratica far parte di un élite. E poi c’è il discorso dei posti di lavoro di alto profilo: il fatto che scarseggino non è forse anch'esso legato alla bassa scolarizzazione della nostra popolazione e a una struttura industriale impostata in questo senso?L'avventura delle 150 ore, riportata alla luce dal libro, potrebbe essere dunque una proposta per il futuro, uno spunto da cui ricominciare. Lo dice anche De Mauro: «Il lavoro di Lauria può essere l’occasione per aprire un rinnovato discorso e, soprattutto, un rinnovato, coordinato impegno per ottenere in Italia un sistema nazionale di promozione degli apprendimenti in età adulta. Il lavoro lo merita e lo esige il patrimonio umano, culturale e civile che è il lascito prezioso delle 150 ore».Ilaria MariottiPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Almalaurea fotografa i laureati del 2010 e lancia l'allarme: in Italia ce ne sono troppo pochi in confronto al resto d'Europa- I laureati italiani fotografati da Almalaurea: sempre più disoccupati e meno retribuiti  

Cresce la disoccupazione giovanile europea. Scarpetta, dirigente Ocse: «necessari più sussidi per i precari»

Investire nella formazione, ridurre le differenze legislative tra le varie tipologie di contratto, potenziare i servizi pubblici per l’impiego. È questa la ricetta anti-disoccupazione dei giovani italiani presentata la settimana scorsa da Stefano Scarpetta, vicedirettore alla direzione Lavoro dell’Ocse, al seminario 'Giovani e mercato del lavoro: policies europee ed internazionali a confronto', al Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro. Dalla sua analisi sull'anno appena concluso – ma anche dai dati che continuamente fornisce la cronaca – arrivano notizie che non fanno che confermare la ormai arcinota situazione dei giovani italiani (ed europei), sempre più in difficoltà a entrare e integrarsi nel mercato del lavoro. Secondo Scarpetta in Italia esistono «problemi strutturali» come il «basso tasso di occupazione, l’alta incidenza e persistenza dei Neet, una transizione scuola-lavoro spesso ‘accidentata’, primi impieghi a tempo determinato e mal pagati». È il risultato dell’impatto della crisi globale sui giovani: la disoccupazione è cresciuta di cinque punti rispetto al periodo pre-crisi arrivando a sfondare la soglia del 17%, e per Scarpetta non solo non è detto che la ripresa si verifichi a breve, ma è perfino possibile che una moderata nuova recessione impedisca all’occupazione di crescere ancora per qualche tempo. Per l'esperto, è infine ipotizzabile «un rischio cicatrice» come effetto di questa crisi, che potrebbe colpire le categorie di giovani più svantaggiate. Dai grafici illustrati sono queste le emergenze più gravi da affrontare subito: la maggiore esposizione dei giovani al rischio disoccupazione (nel primo trimestre 2011 il rapporto tra tasso di disoccupazione giovani/adulti è di 3,9 per i primi contro il 2,3 dei secondi), l’aumento della disoccupazione di lungo periodo (in cui per la verità l’Italia si attesta in buona posizione rispetto ad altri paesi come per esempio gli Stati Uniti), la quota dei Neet, ampliata per colpa della crisi e tale da far detenere all’Italia il triste primato con un tasso maggiore al 20% (tra i 15-29enni). C’è poi la questione della transizione scuola lavoro, in Italia troppo lunga: ci vogliono in media più di due anni per trovare un primo impiego a tempo determinato, e più di quattro per trovarne uno a tempo indeterminato. Ci supera solo la Spagna, mentre ad esempio nel Regno Unito serve in media un anno e mezzo per il primo lavoro e tre anni per stabilizzarsi con un tempo indeterminato. L’Italia si contraddistingue anche per l'alto numero di persone che abbandonano il sistema formativo senza una qualifica di scuola secondaria superiore (un 16% nel 2008, mentre in Francia ad esempio sono meno del 10), e per lo scarso numero di studenti-lavoratori: i tedeschi e gli inglesi tra i 20 e i 24 anni impegnati nello studio lavorano nel 50% dei casi, in Italia lo fa solo il 10%. Che fare allora? Secondo Scarpetta bisogna agire nel breve periodo con interventi mirati come l'assistenza nella ricerca di un lavoro, e poi sussidi di disoccupazione e aiuti per apprendisti licenziati per il completamento della formazione che però siano connessi a una clausula di «reciproca obbligatorietà», vale a dire che chi riceve questi servizi si obbliga a sua volta a cercare un lavoro. Ma non basta: bisogna agire anche nel lungo periodo, assicurandosi che chi esce dal mercato formativo abbia le competenze necessarie per il mercato dell'occupazione e rendendo meno brusco il passaggio formazione-impiego. Dare quindi opportunità di lavoro mentre si studia e rendere lo stage un passaggio obbligatorio durante l’università. E infine intervenire «sulle barriere per i giovani sul lato della domanda», abbassando il cuneo fiscale per le basse qualifiche e riducendo «la dualità del mercato del lavoro»: meno precarietà e meno differenze tra contratti atipici e a tempo indeterminato, con parallela riduzione delle tipologie contrattuali e aumento degli ammortizzatori sociali. Insomma, un po’ gli stessi obiettivi annunciati dal governo Monti sulla riforma del lavoro. Adesso alla prova dei fatti. Ilaria MariottiPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Emergenza Neet, all’Europa i giovani che non studiano e non lavorano costano 2 miliardi di euro a settimana- Tre milioni di giovani esclusi o sottoinquadrati: Monti, questa è la vera sfida da vincere- I giovani italiani lavorano troppo poco e sono i più colpiti dalla crisi: lo conferma il Rapporto Censis 2011 E anche:- Prospettive per i giovani, in Italia si gioca solo in B e C. Per la serie A bisogna andare all'estero

Giungla dei tirocini, non tutte le università si attengono alle indicazioni del ministero: «Le Faq non hanno nessuna validità giuridica»

C'è chi ha deciso di adeguarsi, chi cerca 'scappatoie' legali, chi invece ha deciso di ignorarle. Oggetto del contendere: una serie di Faq che il ministero del Lavoro ha pubblicato su un suo sito Internet, Clicklavoro, per dare indicazioni rispetto all'interpretazione della nuova norma sugli stage. Il problema quindi è che non tutte le università - principali destinatarie della norma in quanto soggetti promotori di un numero elevatissimo di stage - ci stanno: e infatti alcune non riconoscono la validità delle indicazioni ministeriali, e fanno ciascuna a modo suo.Tutto nasce con la manovra anticrisi dello scorso Ferragosto che all'articolo 11 ha introdotto, a sorpresa, alcune modifiche alla normativa sui tirocini formativi e di orientamento, limitandone la durata a sei mesi e stabilendo che debbano essere attivati entro 12 mesi dalla laurea. Con una circolare pubblicata a settembre, il ministero è poi parzialmente tornato sui suoi passi cercando di rendere meno stringenti i vincoli e prevedendo una serie di eccezioni. La circolare ha contribuito a chiarire alcuni elementi - come ad esempio il fatto che la norma non fosse retroattiva, o la definizione di tirocini curriculari. Ma non è riuscita a chiarire proprio tutti i punti oscuri. Uno su tutti: il limite di sei mesi si riferisce al singolo tirocinio o al periodo massimo per cui un neolaureato può essere impiegato come stagista?Un dubbio condiviso da molti uffici stage di ateneo, col risultato che ognuno ha elaborato una propria interpretazione. A novembre è finalmente arrivato un chiarimento, ma con una modalità quantomeno 'curiosa': il governo ha deciso di pubblicare sul sito cliclavoro.gov.it, portale governativo come si evince dall'indirizzo, 27 Faq, ovvero le risposte alle domande più comuni poste dai vari atenei italiani. Sancendo tra le altre cose che «la durata massima di sei mesi deve essere riferita al singolo tirocinio». Il ministero, seppur in forma anomala, si è espresso. E le università?La situazione degli stage negli atenei è ancora molto eterogenea. Ad esempio, il Soul (Sistema orientamento università lavoro) delle università del Lazio spiega tramite l'ufficio stampa di non poter «considerare le Faq come una normativa». Lo stesso avviene alla facoltà di Ingegneria dell'università di Bologna. «Il sito Cliclavoro non ha alcuna validità giuridica, ma solo un valore orientativo» dice alla Repubblica degli Stagisti Giuseppe Nottola, referente per i tirocini legati a questo corso di studi: «Per chiarire servirebbe una nuova circolare ministeriale, oppure che un ateneo sottoponesse un interpello al ministero». Ovvero chiedesse in maniera ufficiale di chiarire la questione. In questo caso la risposta sarebbe vincolante per l'interpellante, e poi  per prassi anche le altre università si adeguerebbero. Ma qual è la posizione ufficiale dell'ateneo? «Allerteremo il senato accademico perché valuti l'opportunità di attivare stage secondo le indicazioni delle Faq, che però vanno in contraddizione ad una legge che voleva impedire uno sfruttamento del tirocinante», afferma Lucia Gunella, responsabile dell'orientamento e del placement per l'università bolognese. «Sarà il senato a pronunciarsi su come far propria questa norma». Tra le decisioni possibili, anche la referente per i tirocini dell'intera università bolognese cita quella dell'interpello. Il tutto in attesa che l'Emilia-Romagna legiferi in materia. Sì, perché ad infittire la giungla ci si mette anche il fatto che la competenza legislativa sulla formazione è anche delle regioni: e pare proprio che la giunta del governatore Errani sia intenzionata a licenziare entro l'inverno una legge regionale in materia.Qualche chilometro più ad est, a Pavia, si applica «ancora la vecchia normativa per i tirocini curriculari, in base alle eccezioni previste dalla circolare», come racconta alla Repubblica degli Stagisti Patrizia Strozzi, responsabile di ateneo per i tirocini. Il testo del settembre scorso esclude infatti dalle limitazioni imposte dalla manovra correttiva quei percorsi di formazione che siano promossi dalle università, siano rivolti solo agli studenti e si svolgano durante il periodo di studio. E i tirocini extracurriculari? «Per questioni di budget attualmente non ne stiamo facendo».Ci sono poi realtà, come Torino, in cui si è deciso di rispettare alla lettera le Faq. Un deciso cambio di rotta, visto che nei mesi scorsi l'ateneo piemontese aveva scelto di ignorare la circolare, facendo riferimento solo alla manovra. «Abbiamo scelto di attenerci alle risposte ministeriali», spiega la professoressa Adriana Luciano [nella foto a destra], rappresentante del Rettore per i rapporti con il mondo del lavoro, «anche se le Faq forniscono un'interpretazione meno restrittiva alla regola dei sei mesi, che noi avevamo inteso diversamente». Resta naturalmente intenso il controllo su eventuali abusi: potenziato anche da una novità: «Abbiamo deciso di aprire i database dei job placement di tutte le facoltà. In questo modo è possibile ricostruire la storia delle singole aziende, verificare che non abbiano contemporaneamente più di uno stagista e che non facciano un uso dissennato dei tirocini». C'è poi «la richiesta di un rimborso spese minimo, anche se non sempre è possibile ottenerlo».Questa, dunque, la situazione ad oggi. Una giungla che, però, rischia addirittura di infittirsi: nelle prime bozze del decreto «Cresci Italia» si parla infatti della possibilità, per gli atenei, di attivare tirocini equiparati a quelli previsti per l'iscrizione agli albi professionali, con l'eccezione delle professioni mediche e sanitarie. Norma che, se confermata, porterà l'ennesima modifica, nell'arco di sei mesi, a questo settore. Con buona pace della chiarezza.Riccardo SaporitiPer saperne di più, leggi anche:- Università di Torino, la «telenovela» sulle nuove linee guida super restrittive per la gestione dei tirocini- Stage all'università di Torino, la rappresentante del Rettore: «Vogliamo solo proteggere i giovani. Se la nostra interpretazione è sbagliata, il ministero lo dica»E anche:- Nuova normativa sui tirocini nella manovra di Ferragosto, il diario di bordo: tutti gli articoli, gli approfondimenti e le interviste della Repubblica degli Stagisti- Anche gli stage finiscono nella manovra del governo: da oggi solo per neodiplomati e neolaureati, e per un massimo di sei mesi- Normativa sui tirocini, clamoroso retrofront del ministero del Lavoro: in una circolare tutti i dettagli che riducono il raggio d'azione dei nuovi paletti- «I tirocini di inserimento non esistono, una circolare non è fonte di diritto»: così la Regione Emilia-Romagna blocca gli stage per laureati e diplomati da più di 12 mesi  

Laureati in fuga: i giovani italiani vogliono partire. Però sognando di riuscire a tornare

Sempre più frequenti nelle università italiane gli eventi di orientamento dedicati alle opportunità all'estero. Uno dei più recenti è stato “Europlacement: il mondo del lavoro in Europa”, giovedì scorso alla facoltà di Economia della Sapienza nella piccola aula dell’Eurodesk: un seminario incentrato, oltre che sui vari programmi della Commissione europea (i soliti noti Erasmus e Leonardo), sul sistema di certificazioni delle competenze applicabili nella Ue. La Repubblica degli Stagisti è andata a sentire la conferenza,  - non proprio affollata: una ventina di persone in tutto, compresi gli addetti ai lavori - mescolandosi al pubblico e provando sopratutto a sondarne gli umori: per capire cosa spinge davvero gli studenti a prendere la decisione di partire per l’estero. Cosa ci sia insomma alla base della decisione di abbandonare la patria e perché l’Europa ‘tiri’ ancora così tanto. Ne è emerso che non sempre la fuga dei cervelli è dovuta semplicemente alle scarse prospettive di lavoro del Belpaese. A volte la voglia di partire scatta per ragioni diverse, magari legate al desiderio di conoscere nuove realtà. È il caso di Domenico, 26enne neolaureato in Ingegneria: come una buona fetta dei partecipanti interpellati sul gradimento del meeting tramite questionario si dice soddisfatto dell’evento «perché ha dato informazioni utili». E per la partenza? «Io ci spero, ho fatto l’Erasmus e condivido il discorso sull'apertura di mente che danno queste opportunità». Aprire i propri orizzonti dunque, perché l’Italia in qualche modo sta stretta. Anche se il desiderio di tornare resta: «So che un’esperienza all’estero fa curriculum, e poi potrei tornare in Italia e rivendermela… Certo se cambiassero le cose sarebbe più invitante il ritorno». E il paese di destinazione? «Il mondo», esclama Domenico entusiasta.Anche Anna, 28 anni, laureata da tre anni in Giurisprudenza alla Sapienza, è molto soddisfatta dell’evento. «Io vorrei partire perché sono già stata negli Stati Uniti e sono tornata entusiasta. Quello che volevo era conoscere opportunità di dottorato dall’Italia in America o Inghilterra, comunque paesi anglofoni». E torneresti? «Sì, l’ideale sarebbe avere una buona formazione all’estero per poi tornare in Italia più competitivi». Non è l’unica ad avere alle spalle esperienze di studio o lavoro all’estero, e come altri in questo caso tende a ripartire.C’è poi Sara, anche lei 28enne, laureata in Economia: «Io ho già lavorato all’estero. Partire è un ulteriore passo che vorrei fare ma non perché penso che in Italia non ci sia lavoro. Non sono un cervello in fuga, ritengo solo che potrebbe essere una cosa in più».La sensazione è che si tratti di persone che, una volta sperimentate le possibilità che offrono altri paesi, fanno fatica a re-integrarsi nel nostro. L’Italia, forse percepita come un paese ormai senza sbocchi, non basta più. Per questo i ragazzi vogliono allontanarsene, anche se solo per un periodo.Oppure per la questione delle lingue straniere. Valentina, 24 anni, studentessa di Ingegneria è ancora indecisa. «Non so ancora se partire, sto valutando le varie opportunità e tra queste c’è quella di andare all’estero e imparare una ingua». Sulla stessa linea si trova Masina, 26enne, laureata in Economia aziendale e decisa a migliorare l’inglese. «Vorrei partire in primis perché mi rendo conto di non saperlo. E poi anche per fare un’esperienza e vedere cose diverse dall’Italia».Poi c’è chi non si accontenta e vuole scovare l’opportunità migliore. Emanuele, 24 anni, fresco di laurea in Ingegneria: «L’esperienza di oggi è stata sicuramente interessante. Ha descritto bene le opportunità per andare all’estero. Ma ci devo pensare prima, vedere se si può avere un discreto posto da subito, possibilmente vicino a quello che voglio io». In Italia le possibilità scarseggiano? «Sto valutando, voglio prima accertare questa cosa, anche se penso sia molto probabile». Insomma il disincanto in questi ragazzi c’è, anche se unito a una buona dose di determinazione. Sanno che un lavoro qualsiasi lo troverebbero anche restando a casa, ma perché accontentarsi? Molto eloquente del resto l’intervento di Carlo Magni, coordinatore progetto Soul, che, nel mezzo di un discorso sull’inglese come conditio sine qua non per il mondo del lavoro in Europa come in Italia, dichiara tutto il suo scetticismo: «Stiamo dando un’immagine falsata. È tutto più complicato, non c'è solo l'inglese e la situazione generale è molto più complessa di come la state dipingendo… Ricordiamoci che per quanto riguarda l'Italia, l’Istat ci parla di più di un 40% di giovani che cercano lavoro appellandosi a conoscenze». L’applauso unanime lo interrompe: i ragazzi ne sanno qualcosa.Ilaria MariottiPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Cervelli in fuga: un doppio questionario per capire chi sono, cosa gli manca, e perchè quasi tutti non tornano (e alcuni sì)- Fuga dei cervelli, il 73% dei ricercatori italiani all’estero è felice e non pensa a un rientro- Partire è un po' morire? Qualche volta, per i giovani italiani invece è l'unico modo per vivere  

Don Gallo contro tutti: «Corsi di formazione, un trucco per tagliare fuori i giovani. Che invece devono tornare protagonisti»

Si intitola Se non ora, adesso (Chiarelettere, 14 euro), in onore dell'omonimo e recentissimo movimento di protesta delle donne italiane, l’ultima fatica letteraria di Don Gallo, 83enne sacerdote genovese da più di trent’anni alla guida della Comunità di San Benedetto al Porto per il recupero degli emarginati. Una raccolta di riflessioni e testimonianze di un prete 'di strada' - come si autodefinisce - un 'indignato' sopra le righe e anticonformista, che non ha paura di contestare apertamente alcune delle posizioni più intransigenti della Chiesa cattolica. E inoltre da sempre in prima linea nelle battaglie per la difesa dei diritti dei più deboli. Innanzi tutto i giovani a cui si rivolge con uno stile coinvolgente, da predicatore laico. Nell’ultima parte del libro, dal titolo «Lettera ai giovani», auspica una rivoluzione della società affinché le nuove generazioni abbiano più esempi che maestri e fa continui riferimenti alla Costituzione, «fatta per i giovani», per tutti i «giovani che verranno». Lui, che con i ragazzi che vivono nel disagio lavora da sempre, chiede poi che rinasca il germe dell’accoglienza nei confronti degli immigrati; ricorda come gli italiani abbiano attraversato i confini del Paese milioni di volte in cerca di fortuna e che questo andrebbe tenuto a mente adesso che consideriamo i flussi immigratori un’invasione. Il suo è un inno all’accoglienza, uno dei valori del cristiano che è finito sepolto sotto l’individualismo e l’egoismo dei nostri tempi. Un’intera generazione, fatta di ognuno di noi con le proprie responsabilità – dice ancora Don Gallo – ha fatto sì che i giovani di oggi percepiscano all’orizzonte «l’assenza di futuro». «Che cosa siamo stati capaci di offrire? Il lavoro interinale, i contratti d’area, i contratti di inserimento al lavoro, il lavoro part time, i lavori atipici, disoccupazione, cassa integrazione, borsa lavoro». E si dispera guardando una generazione tagliata fuori dalla storia: «Abbiamo fatto di tutto per non farli diventare protagonisti. Ma ci sono i corsi di formazione, han capito il trucco!». «Cari amici, i giovani stanno chiedendo la giustificazione della propria esistenza! Siamo stati capaci di ascoltarli?». Don Gallo vede in loro una comunità di emarginati dal sistema, lo stesso contro cui si scaglia a partire dalle istituzioni ecclesiastiche, condannate perché «né povere né umili», cieche di fronte al problema del disagio giovanile.Il sacerdote si schiera poi a favore di una liberazione sessuale delle donne, vittime di soprusi maschilistici: il popolo femminile,  se continuerà a essere «in subordine a tutti i livelli», darà modo di usare la sessualità come «occasione di assoggettamento». Don Gallo non condivide neppure il comportamento conservatore di Wojtyla, amatissimo dai più: «sarà stato uno statista, ma non ha difeso le donne, e ha decapitato almeno 150 cattedre di teologia. Come faccio a prendere a esempio un papa così?».La soluzione a questi temi spetterebbe alla politica con la p maiuscola: si è piombati in una crisi profonda che non cambierà solo grazie all’avvicendamento dei governi. «Alla politica manca un progetto forte», preoccupata com’è di stabilire alleanze e creare consenso. L’unico appiglio, ne è convinto Don Gallo, resta la Costituzione, la nostra «bussola» anche e soprattutto per i temi del lavoro. Se non ora, adesso è un libro che lancia un messaggio di speranza, è un monito a riconquistare i valori di una società autentica e che si interroghi sulle questioni sociali come problemi di tutti. Un’iniezione di coraggio in questi tempi di cupa recessione.Ilaria MariottiPer saperne di più su questo argomento, leggi anche: - Mai più rassegnati e indifferenti, i giovani devono cambiare l'Italia: è l'appello di un 95enne nel libro «Ribellarsi è giusto»- Per rifare l'Italia bisogna partire dal lavoro e dalle retribuzioni dei giovani

«Possono chiedermi di ridare indietro il rimborso spese ricevuto?»: risponde l'avvocato degli stagisti

Torna «L'avvocato degli stagisti», la rubrica della Repubblica degli Stagisti curata da Evangelista Basile e Sergio Passerini, avvocati dello studio legale Ichino Brugnatelli. Basile e Passerini approfondiscono di volta in volta casi specifici sollevati dai lettori. La domanda anche stavolta arriva dal Forum. «Da marzo a fine agosto (quindi 6 mesi) ho effettuato uno stage retribuito. L'ente di supporto era il centro per l'impiego della mia provincia di residenza (in Piemonte); l'ente ospitante una ditta privata. Per questo stage percepivo un rimborso spese tutti i mesi. Durante lo stage ho concluso (a giugno) una vertenza sindacale iniziata a gennaio. Con tale vertenza ho superato la soglia di reddito oltre la quale un disoccupato perde l'iscrizione alla lista di disoccupazione. Io non sapevo ciò! A conclusione dello stage, riconsegnando al centro per l'impiego i moduli di fine stage, mi è stato chiesto da un impiegato se avevo percepito altri redditi. Io ho spiegato quanto sopra, e la risposta è stata che io ho sbagliato a non comunicare questo reddito prima, e che lo stage sarebbe dovuto essere interrotto. Ora ho paura delle conseguenze, visto che mi hanno convocato facendomi portare i redditi. Si è mai vista una situazione simile alla mia? E' mai capitato che lo stagista dovesse restituire i soldi in casi similari?».Qui vanno prima di tutto chiariti alcuni punti fondamentali. Lo stage o tirocinio non è innanzitutto un rapporto di lavoro (così espressamente prevedono l’art. 18 comma 1 della legge 196/1997, e l’art. 1 comma 2 del suo regolamento di attuazione, emanato con il dm 142/1998). Quindi, se genuino, lo stage è un percorso formativo - eventualmente finalizzato all’inserimento nel mondo del lavoro - e non ha la struttura e le caratteristiche di un rapporto di lavoro subordinato. In considerazione di ciò, un altro punto da sottolineare è che le somme che allo stagista vengono eventualmente corrisposte durante il tirocinio non sono considerate dalla legge come retribuzione o stipendio, ma sono solo un rimborso spese (a volte definito anche come sussidio, premio stage, borsa lavoro). Questo rimborso non ha dunque natura retributiva, anche se – ai soli fini fiscali – viene tassato come reddito assimilato a lavoro dipendente (ciò stabilisce l’art. 50 comma 1 del Testo Unico delle imposte sui redditi - il cosiddetto Tuir - D.P.R. 917/1986). Per tutte queste ragioni, quanto lo stagista riceve durante il percorso di stage non è per legge incompatibile con la percezione di altri redditi da lavoro, né con l’indennità di disoccupazione: lo stato di disoccupazione non viene meno per la partecipazione a uno stage, né tale partecipazione è una delle cause di decadenza dall’indennità di disoccupazione previste dalla legge. La corresponsione dell’indennità di disoccupazione si interrompe infatti solo quando il disoccupato abbia già percepito tutte le giornate di indennità, venga avviato a un nuovo lavoro o inizi un’attività in proprio, divenga titolare di un trattamento pensionistico diretto (pensione di vecchiaia, di anzianità, pensione anticipata; pensione di inabilità o assegno di invalidità) o quando comunque cessino le condizioni di cui alla dichiarazione di disponibilità resa ai centri per l’impiego ai fini della concessione della prestazione (informazioni complete in merito si possono trovare sul sito dell'Inps).Riteniamo dunque che le disposizioni di legge e regolamentari statali applicabili non contengano norme che possano determinare un obbligo a restituire i rimborsi spese percepiti per la partecipazione allo stage, né per il fatto di aver fruito di un trattamento di disoccupazione, né per il fatto che – in conseguenza alla vertenza promossa – il lettore risulti aver successivamente percepito ulteriori redditi da lavoro riferibili allo stesso periodo in cui ha svolto lo stage.Una simile conseguenza non sembra emergere neppure dalla specifica normativa regionale della città dove il lettore risiede (la legge della Regione Piemonte 34/2008 e la delibera della Giunta Regionale n. 100 – 12934 del 21 dicembre 2009): tra queste norme non vi sono disposizioni che prevedano l’impossibilità di partecipare a uno stage in caso di percezione della indennità di disoccupazione o di altri redditi da lavoro o che prevedono incompatibilità tra il trattamento di disoccupazione o altri redditi da lavoro e la percezione di rimborsi spese per partecipazione a uno stage.L'unico aspetto che per noi è impossibile verificare è quanto concordato nella convenzione di stage. Il lettore a questo punto dovrebbe solo controllare che in questa convenzione o nel progetto formativo, stipulati e sottoscritti tra il Centro per l’impiego e la ditta privata presso la quale ha svolto il tirocinio, non fossero state previste regole di incompatibilità tra la partecipazione a quello specifico stage e la percezione di altri redditi da lavoro o di trattamenti a sostegno del reddito; se così fosse, potremo tornare sull’argomento, verificando insieme ai lettori della Repubblica degli Stagisti il contenuto di quelle regole.Evangelista BasilePer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- La Repubblica degli Stagisti ha una nuova rubrica: «L'avvocato degli stagisti» curata da Evangelista Basile e Sergio Passerini dello studio Ichino Brugnatelli - Uno studente dell'alberghiero chiede: «È legale che io debba pagare 150 euro per fare uno stage?». Risponde l'avvocato degli stagisti

In Francia molte tutele per gli stagisti, a cominciare dai soldi: come funziona lo stage oltralpe

Contributo minimo garantito, chiarezza su orari, mansioni e modalità di accesso, durata massima di sei mesi: queste sono alcune delle norme che regolano la vita degli stagisti d'oltralpe e ne tutelano i diritti. Ma non è stato sempre così.Con la Carta degli stage di formazione nelle imprese del 26 aprile 2006, dopo mesi di lotte, rivendicazioni e azioni di lobbing da parte del movimento Génération Précaire, si è aperto un percorso legislativo di riconoscimento e di tutela che, da allora fino all'ultima legge per la stabilità del percorso professionale del 28 luglio del 2011, ha cercato di contrastare il più possibile gli usi indebiti dello stage. L'obiettivo, almeno sulla carta, era di trasformare quello che fino ad allora era troppo spesso una forma di sfruttamento del lavoro giovanile, in uno strumento utile sia alle imprese che agli studenti. Obiettivo raggiunto? In parte certamente sì.Con la Carta del 2006 è stato fissato per legge che qualsiasi esperienza di stage in Francia debba obbligatoriamente essere regolamentata da una "convenzione di stage", un documento nel quale i firmatari - il candidato, l'azienda ospitante e l'istituto scolastico superiore di provenienza del candidato - sono tenuti a mettere nero su bianco ogni aspetto del rapporto. Tra le altre cose è obbligatorio definire le mansioni del candidato all'interno dell'azienda, determinare esattamente la durata della sua permanenza (per legge non superiore ai 6 mesi), stabilire l'orario settimanale (massimo 35 ore), prevedere le condizioni per le quali lo stagista può assentarsi, nonché fissare l'ammontare della sua gratificazione, obbligatoria per gli stage di durata superiore ai due mesi.Per il 2012 la gratificazione minima è fissata a circa 436 euro al mese. Come si calcola questa cifra? Il punto di riferimento è il Plafond della Sécurité Sociale, un valore che ogni anno viene adeguato al mercato del lavoro e all'inflazione e che per l'anno 2012 è stato fissato a 23 euro all'ora. La legge francese impone che le attività di stage che superano i due mesi abbiamo una remunerazione oraria minima che superi o che sia almeno equivalente al 12,5 % di questa cifra, vale a dire, per il 2012, a 2,875 euro all'ora. Calcolando che in Francia un mese di lavoro comporta mediamente 151,67 ore, si ottiene dunque, per uno stage full-time, un contributo di 436,05 euro. Può sembrare un po' poco, ma non lo è: bisogna infatti tenere a mente che lo stage in Francia ha una durata massima di sei mesi e, soprattutto, che non è considerato come un lavoro, ma come un'esperienza temporanea che fa parte del percorso formativo di uno studente.Questa separazione netta tra esperienza di stage e lavoro rappresenta uno degli aspetti fondamentali della regolamentazione francese. Per tutelare questa distinzione, già a partire dalla Carta del 2006, sono stati fissati alcuni paletti: è stato vietato l'uso di uno stagista per sostituire temporaneamente un lavoratore salariato, per occupare una posizione lavorativa stagionale, per occupare un posto di lavoro che richiederebbe l'apertura di una posizione fissa o, ancora, per accrescere temporaneamente le attività dell'azienda. Ma è soprattutto l'obbligo di avere alle spalle una struttura scolastica di riferimento, che firmi e approvi la convenzione, che rende questa distinzione realmente tutelata. Vietando infatti la possibilità di stipulare convenzioni di stage ai giovani che hanno terminato il proprio percorso formativo, lo statuto francese cerca di impedire l'innesco di una vera e propria asta al ribasso del mercato del lavoro, un'asta che trasformerebbe i giovani laureati in manodopera superspecializzata priva di diritti e di tutele, alla completa mercé del mercato.Ma non basta, perché l'ultima legge, la 2011-893 del 28 luglio 2011, impone paletti ancora più solidi per rinforzare il controllo su ogni abuso. In particolare è stata inserita una interessante novità: è il delai de carence, una regola che impone alle aziende un intervallo di due mesi (o meglio, di un terzo della durata complessiva dello stage) prima di poter integrare nel proprio organico un nuovo stagista nella stessa posizione e con le stesse mansioni di quello precedente.Per moltissimi stagisti italiani, costretti ad accettare rapporti di stage spesso fino a oltre trent'anni a fronte di rimborsi spese irrisori o spesso inesistenti e con prospettive di assunzione molto remote, questa regolamentazione può sembrare all'avanguardia. Purtroppo nel nostro paese è abbastanza usuale che dietro a uno stage non ci sia un reale interesse da parte del soggetto ospitante nell'investimento sulla formazione dello stagista e  sulla sua futura assunzione. Anzi  capita che l'obiettivo, spesso neppure celato, sia quello tappare falle di organico.In Francia, grazie anche alla mobilitazione di movimenti come Génération Précaire, sembra esserci la volontà di prevenire questo rischio e di fare dello stage un momento di passaggio reale dal mondo dell'istruzione a quello del lavoro. Volontà condivisa dagli studenti e probabilmente anche dalla gran parte delle aziende, che effettivamente stanno iniziando a vedere lo stage come una reale opportunità per formare e selezionare i propri futuri dipendenti. Certo, il sistema di regolamentazione degli stage in Francia non è il migliore possibile, ma sembra essere un modello realistico e realizzabile a cui i nostri legislatori potrebbero ispirarsi.Un esempio positivo in questo senso c'è, ed è quello della regione Toscana, che con il progetto Giovani Sì, lanciato lo scorso giugno, ha dimostrato di aver introiettato alcune delle linee guida del modello francese, in primis la necessità di stabilire una gratificazione minima per stage e tirocini alla soglia dei 400 euro. Un piccolo segnale del fatto che qualcosa si sta muovendo anche qui in Italia? La speranza è che il progetto toscano possa rappresentare la testa di ponte per una riforma efficace del settore; anche se l'impressione è che ci voglia ancora del tempo prima di assistere a concreti passi avanti a livello nazionale.  Attenzione però, il sistema francese non è il migliore dei sistemi possibili e qualche macchia ce l'ha: gli stage obbligatori durante gli studi si moltiplicano, mentre la percentuale di neolaureati occupati secondo i dati Apec del settembre 2010 è scesa in 2 anni (dal 2007 al 2009) dell'11%. Senza contare che una volta terminati gli stage moltissimi giovani restano legati per anni a contratti CDD, vale a dire a tempo determinato. Il modello francese non è dunque un paradiso, tant'è che molte battaglie sono ancora in corso. Una cosa però è certa per chi segue la situazione al di qua delle Alpi: anche soltanto il tentativo di avvicinarsi a quel modello sarebbe per l'Italia un grande passo in avanti. Andrea CocciaPer saperne di più su questo argomento leggi anche:- Francia, stagisti retribuiti almeno 400 euro al mese: da oggi anche negli enti pubblici- Diritti degli stagisti: le lezioni dell'EuropaE anche:- Mai più stage gratis: parte in Toscana il progetto per pagare gli stagisti almeno 400 euro al mese