Categoria: Storie

Erasmus, stage e servizio volontario europeo: noi giovani in cerca della nostra strada

La Repubblica degli Stagisti prosegue la rubrica sullo Sve, con l'obiettivo di raccogliere e far conoscere le esperienze dei giovani che hanno svolto il Servizio volontario europeo, una particolare - e ancora poca conosciuta - opportunità offerta dal programma europeo Erasmus+ ai giovani tra i 17 e i 30 anni. Grazie allo Sve, che copre i costi di viaggio, vitto, alloggio e garantisce un “pocket money” mensile per le spese personali, è possibile svolgere un'attività di volontariato, per un periodo dai 2 ai 12 mesi, in uno dei Paesi dell’Unione europea o in altri Paesi del mondo che hanno aderito al programma. Sono molti i settori nei quali i giovani possono impegnarsi: arte, sport, ambiente, cultura, assistenza sociale, comunicazione, cooperazione allo sviluppo e altri ancora. Per partire - dopo essersi candidati al progetto - è necessario avere un’organizzazione di invio in Italia (sending organization) e una di accoglienza nel Paese ospitante (hosting organization). Per avere maggiori informazioni sul Servizio volontario europeo, consigliamo di leggere la sezione dedicata dell’Agenzia nazionale per i giovani. Ecco la storia di Francesca Mahmoud Alam.Ho 24 anni e sono della provincia di Grosseto, dove ho svolto la prima parte dei miei studi frequentando il liceo linguistico. Già a 14 anni sognavo infatti di viaggiare per il mondo e al liceo ho avuto modo di studiare l’inglese, lo spagnolo e il tedesco. Le lingue non sono però la sola passione che ho sviluppato alle superiori: ho infatti scoperto anche un forte interesse per il giornalismo ma, non sapendo bene quale decisione prendere per il post-diploma, ho deciso di prendermi un anno di pausa per riflettere bene. Così, tra un viaggio in Brasile e un tentato trasferimento a Edimburgo, ho deciso di andare a vivere a Bologna e iscrivermi lì al corso di laurea in Scienze della comunicazione. Grazie a questa facoltà ho intrapreso i primi passi nel mondo del giornalismo, avendo avuto anche l’opportunità di fare uno stage nella redazione de Il Nuovo Diario Messaggero di Imola. Come quasi tutti gli stage curricolari non prevedeva una indennità, ma l’esperienza è stata davvero utile: il mio compito era infatti quello di scrivere articoli di giornale di ogni tipo, dallo sport alla cultura passando per la cronaca; dovevo poi aggiornare la pagina Facebook, fare interviste e correggere bozze. Durante l’ultimo anno di università ho inoltre vinto la borsa Erasmus per studiare un semestre nella facoltà di giornalismo di Bilbao, una città di cui mi sono innamorata e in cui spero di poter tornare il prima possibile. L’Erasmus è un’esperienza unica, che consiglio, ed anche per questo mi sono sempre tenuta informata anche su tutte le altre opportunità Erasmus+, tra cui il Servizio volontario europeo. Ero arrivata a giugno del mio ultimo anno di università e, mancandomi solo un esame, ho iniziato a pensare al mio futuro dopo la laurea. Aprendo la pagina web dell’associazione Porta Nuova Europa ho deciso così di chiedere qualche consiglio riguardo i progetti Sve contattando la coordinatrice, Filomena Fadda, la quale ha subito risposto alla mia mail consigliandomi un progetto di comunicazione in Spagna, a Valencia. Il progetto sembrava perfetto per me, quindi non ci ho pensato due volte. Mi sono candidata subito e, dopo un colloquio Skype con la responsabile dell’associazione ospitante Dasyc, ho ricevuto la comunicazione sperata: ero stata selezionata. Sono arrivata a Valencia il primo ottobre, dove ho trovato ad attendermi in aeroporto il responsabile dell’associazione incaricato di facilitare l’arrivo dei volontari fornendo informazioni sulla città, sugli eventi nelle vicinanze, ma anche sulla cultura del paese in cui si va a svolgere lo Sve. Dopo questo piccolo “assaggio” sono però dovuta tornare subito a Bologna per discutere la tesi di laurea, ritornando stabilmente a Valencia a fine novembre. Vivevo nel quartiere di Benimaclet (secondo me il migliore della città) insieme a tre studenti spagnoli, grazie ai quali il mio spagnolo è migliorato tantissimo e in poco tempo. Devo dire che all’inizio ho avuto qualche difficoltà, perché mi sentivo sola in una città che non conoscevo per niente. Ma poi, pian piano, ho iniziato ad abituarmi e a farmi degli amici che sono diventati col tempo quasi una seconda famiglia. La mia associazione ospitante si occupava di combattere l’esclusione sociale e il mio progetto prevedeva varie attività in questa direzione: sono stata infatti per dieci mesi una “professoressa” di informatica base per anziani, ma anche – nel pomeriggio –  volontaria in una scuola che ha come obiettivo quello di garantire una formazione anche ai bambini provenienti da famiglie che versano in una difficile condizione economica. Il mio compito a scuola era quello di aiutare nell’organizzazione di attività formative quali per esempio l’insegnamento della lingua inglese e vari giochi e attività dopo la mensa. In ufficio aiutavo invece la responsabile della comunicazione realizzando foto, video e organizzando eventi.Lo Sve è stato quindi formativo sotto tanti punti di vista, anche se insegnare a scuola è stato inizialmente difficile: non riuscivo a trovare il giusto approccio con i bambini e questo mi ha portata ad avere per un periodo un atteggiamento negativo. Confrontarmi con i miei colleghi e con chi aveva più esperienza di me mi ha però aiutata a superare l’iniziale difficoltà. Determinante nel ritrovare la giusta carica e il giusto stimolo è stato anche il secondo corso di formazione: lo Sve prevede infatti un corso di formazione iniziale, prima che il progetto inizi, e uno intermedio, a metà del percorso, grazie al quale sono riuscita a riflettere molto sul mio progetto e sulle motivazioni che mi avevano spinta a partire. Dal punto di vista economico non ho avuto problemi: Valencia è una città di per sé molto economica e il progetto copriva sia le spese di vitto e alloggio che quelle sanitarie e di viaggio. Ho ricevuto inoltre un pocket money mensile di 105 euro che mi ha permesso di togliermi qualche sfizio, anche se i viaggi che ho fatto me li sono potuti permettere grazie soprattutto ai risparmi che avevo da parte. L’esperienza Sve è stata tra le migliori che abbia fatto finora nella mia vita. È veramente un viaggio incredibile, grazie al quale vieni completamente catapultato in un diverso contesto, vivendone tutti gli aspetti. Hai l’opportunità di conoscere un posto nuovo, di far parte di una nuova comunità imparando a conoscerne la cultura e le tradizioni. A tutto questo si aggiungono poi la possibilità di approfondire la conoscenza di un’altra lingua e di conoscere tantissime persone. Io, grazie allo Sve, ho imparato a conoscere meglio me stessa ma anche ad ascoltare gli altri, guardando le cose con altri occhi e sotto nuovi punti di vista. E poi, chi lo avrebbe mai detto che sono un’ottima professoressa di informatica? Ho messo in pratica alcune conoscenze frutto dell’università ma ne ho anche acquisite molte nuove. Non ho solo “imparato” a insegnare, ma sono anche migliorata nel fare foto e video, anche se la strada da fare per diventare davvero bravi in questo campo è lunga. Le soddisfazioni che ho avuto durante questo percorso sono sicuramente la conferma che ne è valsa la pena. Finito lo Sve sono tornata in Italia e, dopo aver lavorato un po’ nel mese di agosto, adesso mi sono trasferita a Roma per iniziare la specialistica in Media, comunicazione digitale e giornalismo, così da proseguire il percorso che ho iniziato e mettere a frutto le nuove conoscenze acquisite durante lo Sve. Il mio consiglio è infatti quello di farlo e di viverlo a pieno, dando il cento per cento. È un’occasione importante, unica, e va sfruttata fino in fondo. Testo raccolto da Giada Scotto

"In Italia il giornalismo è rimasto al secolo scorso"

Sono aperte le iscrizioni per i Master of Science (MS) e i Master of Arts (MA) della Columbia Journalism School, tra i percorsi più ambiti per giovani giornalisti e aspiranti tali. Le deadline sono il 15 dicembre e il 9 gennaio. La Repubblica degli Stagisti ha raccolto la storia di Vittoria Traverso, 29 anni, ex allieva del Master of Arts.Sono nata a Torino. A 18 anni mi sono trasferita in Inghilterra per studiare Geografia al King’s College di Londra. Geografia come la intendono gli anglosassoni, ovvero un percorso multidisciplinare incentrato sul rapporto uomo-ambiente. Mi sono specializzata in sviluppo sostenibile con una tesi sulla gestione dei rifiuti nelle megalopoli asiatiche, nello specifico Manila, la capitale delle Filippine. Dopo la laurea ho fatto uno stage in Ghana lavorando per Aurora African Business Network, una ong che si occupa di formare donne nel settore agro-alimentare locale. Ho poi fatto un master alla London School of Economics con uno stage all’ Asian Development Bank, sempre a Manila, questa volta occupandomi di trasporti sostenibili. Dopo lo stage all’Adb ho lavorato per la think tank – in italiano forse diremmo “centro studi” – di Accenture a Londra, un team internazionale che svolge attività di ricerca su macro-trend globali come l’impatto della tecnologia, il cambiamento climatico e l’invecchiamento della popolazione. Dopo due anni ho deciso di tentare il salto verso il giornalismo, con uno stage per la redazione America 24 di New York, nell'ufficio americano del Gruppo 24 Ore, seguito da un’altra breve esperienza di stage al Financial Times di Londra. Ho quindi deciso di fare domanda per il master di giornalismo della Columbia e nel frattempo ho lavorato come ricercatrice per una società internazionale di service design, Experientia.Il Master of Arts si svolge in nove mesi e si articola in tre componenti: seminari, corsi esterni e corsi pratici. I seminari si svolgono due volte a settimana e trattano un tema specifico, ad esempio l’origine dello stato-nazione in Occidente, che viene affrontato con intense letture preparatorie tratte da varie fonti-testi accademici, articoli giornalistici, documentari. Spesso vengono invitati esperti del settore per rispondere alle domande degli studenti. Come corsi esterni, al di fuori del dipartimento di giornalismo, io ho seguito Religione, Filosofia e Architettura. Infine, c’è la parte pratica ovvero i corsi di skills, come l’utilizzo dei dati o di materiale accademico e la produzione di articoli, inclusa una tesi di laurea che viene preparata da ogni studente con la collaborazione di un supervisore della facoltà in una modalità che dovrebbe ricreare il rapporto reporter-redattore. Tra i workshop ci sono anche quelli dedicati alla professione del freelance, dove giornalisti freelance affermati rispondono alle domande degli allievi. L’idea della scuola è proprio quella di creare professionisti formati da professionisti già inseriti nel settore. Si insegna come va contattato un redattore, come presentare un’idea per un pezzo - il pitch - e come negoziare un compenso.Consiglierei il Master of Arts della Columbia per tanti motivi. Ho avuto l’occasione di confrontarmi con professori che sono esperti mondiali nelle rispettive discipline e che hanno saputo trasmettermi in poco tempo una mole di conoscenza che non avrei mai potuto acquisire solo attraverso i libri. Ciò che rende unico il master è infatti proprio l’accesso alle facoltà dell’intera università. Ed è rarissimo che un professore si neghi a uno studente per una chiacchierata, una “visita” in aula mentre fa lezione o un’intervista. Inoltre alla Columbia ho imparato che non una parola può essere pubblicata se non è prima stato fatto un meticoloso lavoro di  fact-checking, ovvero di verifica delle fonti. Ed è raro che venga pubblicato un articolo senza avere fonti primarie, cioè qualcuno che abbia parlato direttamente con il reporter. In Italia, invece, abbondano articoli frutto di copia-incolla da altre testate, spesso straniere.Al momento lavoro come editorial fellow per una testata digitale, Atlas Obscura, con un contratto di sei mesi. Il lavoro si svolge prevalentemente dalla redazione, mediante email, telefono. Se si lavora su temi newyorchesi, anche fuori dalla redazione. Non so quali saranno i miei prossimi passi, ma in un futuro non troppo lontano spero di poter riuscire a creare e veder crescere un mio progetto personale. Dove mi immagino nel futuro? A breve termine, sicuramente lontano dall’Italia. La speranza è quella di cercare di sviluppare contatti e conoscenze nel mondo dei media/giornalismo anglosassone. Un mercato che, se pure in crisi, è più dinamico di quello italiano.Ad oggi le maggiori testate italiane vengono gestite come organizzazioni del secolo scorso, sia come modello di business che come scelte tematiche. Si parla tantissimo di politica italiana, pochissimo di temi che sono già importanti e saranno fondamentali in un futuro prossimo venturo, come l’intelligenza artificiale, il cambiamento climatico, l’invecchiamento della popolazione occidentale e le migrazioni.Negli Stati Uniti esiste una lunga tradizione di long-form journalism, articoli lunghi con uno stile narrativo più simile alla letteratura che al giornalismo, che trattano di temi complessi senza cercare di semplificare ma anzi addentrandosi nelle complessità con una combinazione di interviste a esperti, persone coinvolte in prima persona, testi scientifici. Da qualche anno, inoltre, in America è in atto un “rinascimento della radio”, grazie alla grandissima popolarità dei podcast, programmi radio che possono esser ascoltati online. Anche qui è valorizzata la capacita di affrontare temi complessi in modi che spesso le news non riescono a fare. Qualche titolo tra i più famosi: This American Life, Radiolab, Planet Money, Freakonomics, The Hidden Brain, Revisionist History.Un’ulteriore differenza tra il giornalismo americano e quello italiano è l’apertura al cambiamento, sia in termini di mezzi, come il digitale, che a livello di contenuti. Ovviamente l’avvento del digitale ha messo in crisi il settore anche qui, ma c'è stata la capacita di reagire e aprirsi a nuove strade. Ad esempio, nel 2012 la Columbia ha aperto il Brown Institute for Media Innovation, centro dedicato all’innovazione nel mondo dei media in collaborazione con Stanford, che ogni anno finanzia progetti di studenti che vogliono esplorare un tema con metodi innovativi come la realtà virtuale o i big data.Altra enorme differenza, la presenza di donne e giovani in questo settore. Nella mia redazione siamo prevalentemente donne con meno di 40 anni. Ovviamente c’è ancora molta strada da fare per quanto riguarda la diversità etnica, ma è sicuramente un tema che molte redazioni stanno cercando di affrontare. In Italia il mondo dell’informazione è in mano a uomini di sessant’anni e soprattutto, la diversità è un concetto che non viene discusso.Testo raccolto da Rossella Nocca 

«Ero alla ricerca di nuovi stimoli, in Belgio con lo Sve ho abbandonato la mia comfort zone»

La Repubblica degli Stagisti prosegue la rubrica sullo Sve, con l'obiettivo di raccogliere e far conoscere le esperienze dei giovani che hanno svolto il Servizio volontario europeo, una particolare - e ancora poca conosciuta - opportunità offerta dal programma europeo Erasmus+ ai giovani tra i 17 e i 30 anni. Grazie allo Sve, che copre i costi di viaggio, vitto, alloggio e garantisce un “pocket money” mensile per le spese personali, è possibile svolgere un'attività di volontariato, per un periodo dai 2 ai 12 mesi, in uno dei Paesi dell’Unione europea o in altri Paesi del mondo che hanno aderito al programma. Sono molti i settori nei quali i giovani possono impegnarsi: arte, sport, ambiente, cultura, assistenza sociale, comunicazione, cooperazione allo sviluppo e altri ancora. Per partire - dopo essersi candidati al progetto - è necessario avere un’organizzazione di invio in Italia (sending organization) e una di accoglienza nel Paese ospitante (hosting organization). Per avere maggiori informazioni sul Servizio volontario europeo, consigliamo di leggere la sezione dedicata dell’Agenzia nazionale per i giovani. Ecco la storia di Fabiola Carella. Ho 24 anni, sono marchigiana e, se dovessi descrivermi, direi che ho sempre avuto una particolare passione per le lingue e l’«internazionalità» che sto, pian piano, cercando di sviluppare. Mi piacerebbe infatti lavorare nel settore del marketing internazionale e, per questo motivo, ho appena iniziato un master in brand management con cui spero di approfondire le mie competenze teoriche e pratiche nel settore per poter, in futuro, coordinare un progetto tutto mio collaborando con persone di differenti nazionalità. Ma il mio interesse per l’interculturalità viene da più lontano: già al momento di scegliere l’università mi sono infatti indirizzata verso il corso di studi in Lingue, mercati e culture dell’Asia dell’università di Bologna, dove ho avuto l’opportunità di studiare il cinese e di approfondire la conoscenza di inglese e portoghese. Durante e dopo l’università ho fatto varie esperienze di studio e lavoro all’estero, a cominciare dall’Erasmus di un anno in Irlanda, presso l’università di Cork, per passare poi, dopo uno stage di tre mesi – senza rimborso spese purtroppo! – presso una catena alberghiera di Bologna, allo Sve in Belgio, che ho deciso di intraprendere non appena conclusa la triennale. Volevo mettermi in gioco con un’esperienza all’estero che andasse oltre lo studio universitario e, dopo essermi informata tramite internet e amici che lo avevano già fatto, ho inviato la candidatura per un progetto che aveva come sending organization la Joint di Milano e come hosting organization la Afs belgium flanders. Appena saputo di esser stata accettata, sono partita per questa nuova avventura che si sarebbe svolta in una piccola cittadina a quindici minuti da Anversa, la capitale delle Fiandre. Dopo aver passato i primi cinque giorni in ostello a Bruxelles per svolgere un training e una serie di workshop preparatori insieme agli altri volontari, sono stata ospitata da una famiglia composta da madre, padre e tre bambini, con cui, nonostante le prime difficoltà di adattamento, posso dire di non aver mai avuto problemi, essendo stata accolta come parte integrante del nucleo familiare. L’idea di ospitarmi, come mi hanno raccontato loro stessi, è venuta dai genitori, i quali volevano offrire ai loro figli la possibilità di sperimentare la convivenza con una persona proveniente da un altro contesto socio-culturale, così da spronarli a fare lo stesso tipo di esperienza una volta raggiunta la giusta età; ma la decisione finale è stata approvata da tutta la famiglia prima di essere, per così dire, “ufficializzata”.Il mio Sve prevedeva un lavoro di supervisione delle attività didattiche e ricreative dei bambini di un asilo di una scuola steineriana, grazie al quale ho avuto la possibilità di conoscere le modalità attraverso cui questo approccio pedagogico viene applicato formalmente in ambito scolastico. La più grande barriera che ho incontrato inizialmente è stata quella linguistica, che sono tuttavia riuscita a superare nel corso dei primi due mesi grazie all’ausilio di una piattaforma di studio online e all’aiuto della famiglia. Tornando indietro, però, inizierei lo studio dell’olandese già prima di partire. Devo dire che anche adattarsi alla vita in famiglia non è stato facile: mi mancavano i miei spazi e, in alcuni casi, avrei preferito risolvere alcune questioni in maniera autonoma piuttosto che con l’intervento della famiglia stessa. Tuttavia ho sempre avuto la fortuna di potermi confrontare con gli altri volontari e con la mia hosting organization, che ha cercato di offrirci tutta l’assistenza necessaria al proseguimento di quest’esperienza con motivazione e costanza. Per quanto riguarda l’aspetto economico ho ottenuto, pur avendo anticipato tutte le spese, il rimborso sia dei costi di viaggio che di quelli di trasporto – da e per il lavoro – mentre non ho avuto contributi extra per il vitto e per l’alloggio in quanto erano in famiglia. Ho percepito poi un pocket money mensile di 110 euro con il quale sono riuscita a viaggiare, visitare musei e partecipare a diverse attività ricreative che mi hanno permesso di scoprire qualcosa in più sulla cultura del posto, a cui si sono aggiunti le giornate e i weekend in vari località delle Fiandre organizzati dalla mia hosting organization al fine di favorire le relazioni tra i volontari e seguire in maniera diretta le nostre esperienze. Per questo mi sento di dire che, con il contributo economico che si riceve, è assolutamente possibile mantenersi anche se, personalmente, ho utilizzato anche parte dei miei risparmi. Una volta terminato lo Sve ho deciso di rimanere all’estero, avendo trovato molto facilmente un impiego in Olanda come assistente agli acquisti per un’azienda locale che importa dall’Italia. Non era un lavoro che aveva molto in comune con la mia esperienza Sve, ma volevo cogliere l’occasione per approfondire la conoscenza della lingua e della cultura olandese, fare un’esperienza lavorativa remunerata e mettermi ulteriormente in gioco in un diverso contesto socio-culturale. Inizialmente mi è stato fatto un contratto di quattro mesi, poi prorogato per altri sei mesi, al termine dei quali ho però deciso di lasciare perché, sebbene mi fossero affidati progetti da seguire in maniera autonoma e ricevessi una retribuzione tale da potermi permettere una totale indipendenza economica, non vedevo molte possibilità di crescita all’interno dell’azienda e ciò si è tradotto in mancanza di motivazione. Per questo ho scelto di tornare in Italia e svolgere qui il master in brand management grazie anche ai soldi che ero riuscita a mettere da parte durante i dieci mesi in Olanda. Lì, contrariamente a quanto accade in Italia, i giovani sono spinti dai genitori e dal governo a rendersi economicamente autonomi il prima possibile: ogni studente lavora nel weekend e di sera e vi sono anche incentivi che permettono, a chi non supera un certo reddito, di pagare l’affitto, le tasse universitarie e l’assicurazione sanitaria. Anche gli stage, poi, prevedono quasi tutti un compenso.Se l’esperienza in Olanda mi ha dunque dato tanto, la stessa cosa vale per lo Sve, grazie al quale ho sviluppato una serie di competenze che non avrei altrimenti mai acquisito con tale velocità: in primis la capacità di adattamento che deriva dall’abbandonare la propria comfort zone e l’imparare a coltivare passioni e interessi che non avevo mai avuto modo di approfondire per mancanza di tempo o perché troppo presa dal raggiungere obiettivi di studio e lavoro. Inoltre ho potuto confrontarmi a 360 gradi con una cultura e un ambiente sociale, lavorativo e familiare diversi e stimolanti sia dal punto di vista personale che da quello professionale.Partire alla ricerca di nuovi stimoli è infatti proprio una delle ragioni per cui vale la pena fare uno Sve, indipendentemente dal fatto che questo rientri o meno nella propria area di competenze. Quello che consiglio è di abbandonare la concezione del “lavorare per essere pagati” o per “conseguire esperienze tali da fare curriculum” e concentrarsi su se stessi per approfondire nuovi interessi, sviluppare nuove capacità e conoscere differenti culture con cui potersi confrontare attivamente.Testo raccolto da Giada Scotto  

"Nove mesi alla Columbia per cambiare prospettiva sul giornalismo e sulla vita"

Sono aperte le iscrizioni per i Master of Science (MS) e i Master of Arts (MA) della Columbia Journalism School, tra i percorsi più ambiti per giovani giornalisti e aspiranti tali. Le deadline sono il 15 dicembre e il 9 gennaio. La Repubblica degli Stagisti ha raccolto la storia di Francesca Berardi, 33 anni, ex allieva del Master of Arts in Politics.Ho 34 anni e sono nata a Torino. Ho studiato Storia dell’arte prima nella mia città e poi presso l’università La Sapienza, a Roma. Contemporaneamente ho iniziato la lavorare nel mondo dell’arte, occupandomi dell’impatto dell’arte contemporanea nelle zone post industriali. Ho collaborato con riviste d’arte, e nel frattempo mi sono dedicata a un’altra mia passione, il sociale, lavorando come volontaria in una comunità di rifugiati a Roma.Dopo l’università ho vinto una borsa europea in Belgio, ad Anversa, per lavorare nella redazione di una testata online. In questo periodo ho visitato una cittadina ex mineraria del Limburgo belga, e ho trascorso intere giornate nella comunità di ex minatori, per ascoltare le loro storie, studiare il contesto. Ho anche lavorato a un documentario con due amici e colleghi, “Viaggio al Belgio”. È stato lì che il lavoro del giornalista mi è sembrato meraviglioso e che ho capito che era quello che avrei voluto fare nella vita. Così, quando  – dopo un anno – sono tornata in Italia, ho cominciato a cercare stage nelle redazioni, ma non ho trovato niente di retribuito. Ho scartato anche l’idea di iscrivermi a una delle scuole di giornalismo italiane, perché duravano due anni, costavano e mi sembrava difficile poter lavorare in contemporanea, cosa che ho sempre fatto.Così ho avuto una sorta di ribellione e mi sono detta “Ho qualcosa da parte, me ne vado a New York!”. Sono partita a settembre del 2011 pensando che sarei ritornata dopo tre mesi e invece sono ancora qua. Sono arrivata con un visto per giornalisti di media stranieri. Ottenerlo è stato semplice, anche perché è un visto che non ti permette di lavorare per enti americani. Tra domanda, intervista e rilascio è trascorso un mese e mezzo. Grazie a questo visto ho lavorato per la redazione America 24 di New York, nell'ufficio americano del Gruppo 24 Ore. In seguito, ho vissuto a Detroit per un periodo e realizzato un libro sulla città. Ho poi fatto domanda per ottenere una scholarship ed essere ammessa a un master in politica alla Columbia Journalism School. Ho così ottenuto il visto F1 da studente, che dopo il master ti dà diritto a un anno di bonus – l’optional practical training (Opt) – per lavorare in America.Ho deciso di fare domanda di ammissione quando ho saputo che c’era la possibilità di ricevere una borsa di studio che avrebbe coperto sia il costo della scuola che le spese per vivere a New York, per un totale di circa 90mila dollari (di cui 60mila per l’insegnamento). Sapevo che sarebbe stato difficile ottenerla, ma ho voluto provarci lo stesso. Ho fatto domanda a novembre e ho ricevuto risposta a marzo, per poi iniziare a settembre. Quando ho ricevuto la prima mail, che mi comunicava l’ammissione, non riuscivo a gioire. Se non avessi avuto la borsa, non avrei mai potuto permettermi di accettare. Vivere un anno a New York costa in media 30mila dollari. Una camera tra i 1.200 e i 1.800 dollari al mese, una casa piccola dai 2mila in su. Per fortuna dopo poco è arrivata la bella notizia: avevo ottenuto la borsa di studio completa. In quel periodo vivevo a Brooklyn e mi sono trasferita ad Harlem per stare più vicina alla scuola. In classe eravamo in sedici, da ogni parte del mondo. Nel mio anno c’era una prevalenza di indiani (cinque) e solo tre persone con passaporto americano. Ero l’unica italiana.È stata un’esperienza intensa, impegnativa e meravigliosa, sia dal punto di vista professionale che umano. Nove mesi intensissimi di stampo seminariale su politica, sociale, etica, con l’obiettivo di trasmettere capacità di analisi profonda e critica delle materie. Due mattine a settimana erano dedicate a seminari sulla materia scelta, nel tempo restante si seguivano altri corsi o interni alla scuola o in altre facoltà (io ne ho seguiti a Economia, Scienze Politiche e Religione) e workshop preparatori al mondo del lavoro. Nel frattempo si preparava una tesi, con la supervisione di un advisor, uno dei docenti.La cosa più difficile è stata scrivere e partecipare a dibattiti in inglese su tematiche complesse. Non a caso per essere ammessi è richiesta la certificazione Toefl a un livello più alto rispetto alle altre università americane. Io, sebbene fossi a New York dal 2011, avevo lavorato principalmente per italiani. In ogni caso confrontarmi con un costante senso di imperfezione è stato utile e stimolante.Quello che ho amato di più della scuola è stato la riflessione costante sul giornalismo e sul significato della professione. Ha cambiato completamente la mia prospettiva sul lavoro e sulla vita. Ho avuto validi insegnanti, come Alexander Stille, giornalista del New Yorker e corrispondente dagli Usa per Repubblica, che è tra quelli che mi hanno insegnato di più.Oggi mi sento in costante tensione rispetto all’etica del lavoro, mi pongo continuamente domande e ho gli strumenti per trovare risposte. In America c’è un modo diverso di fare informazione: si fa tantissimo factchecking, il tuo pezzo da quando lo scrivi a quando viene pubblicato attraversa molte fasi. La scuola ti insegna come fare il freelance, come scrivere le proposte, tanto che la maggior parte degli allievi che escono approfittano dell’anno di bonus per  esercitare la professione da freelance.Tuttavia dopo il master non ci sono certezze né di stage né di assunzione. Io sono stata assunta dalla Scuola come post graduate fellow per un anno in una mini redazione in cui mi occupavo di “educazione e ineguaglianza”. Grazie alle partnership della Columbia, i lavori venivano pubblicati su varie testate, ad esempio Slate e ProPublica. C’erano anche molte risorse per viaggiare: ho visitato Detroit, Chicago, Kansas, Kentucky, Florida.Poi ho ottenuto un assegno di ricerca Grant presso il Brown Institute for Media Innovation della Columbia, un istituto dedicato all’innovazione nello storytelling, con sede alla Columbia e alla Stanford University, per un progetto sull’economia informale delle persone che vivono raccogliendo per strada materiale riciclabile. È un lavoro di responsabilità, in cui sono io a scegliere i miei collaboratori, e che mi permette di scoprire un lato di New York sconosciuto alla maggior parte dei suoi abitanti.Oggi ho un visto J1, che mi permette di essere stipendiata solo dalla Columbia. Il progetto durerà fino a febbraio 2018. Poi in primavera tornerò in Italia per qualche mese. Mi piacerebbe ritornare stabilmente in Italia o quantomeno in Europa, magari lavorando per le sedi europee di testate americane internazionali, per poter “riportare a casa” un po’ tutto quello che ho raccolto in questi sei anni. Ma lo farò solo se mi sarà data la possibilità di continuare a lavorare come lavoro qui, con la stessa responsabilità. Testo raccolto da Rossella Nocca

«Lo Sve è anche un modo per migliorare le lingue, io ho perfezionato l'inglese e imparato l'olandese»

La Repubblica degli Stagisti prosegue la rubrica sullo Sve, con l'obiettivo di raccogliere e far conoscere le esperienze dei giovani che hanno svolto il Servizio volontario europeo, una particolare - e ancora poca conosciuta - opportunità offerta dal programma europeo Erasmus+ ai giovani tra i 17 e i 30 anni. Grazie allo Sve, che copre i costi di viaggio, vitto, alloggio e garantisce un “pocket money” mensile per le spese personali, è possibile svolgere un'attività di volontariato, per un periodo dai 2 ai 12 mesi, in uno dei Paesi dell’Unione europea o in altri Paesi del mondo che hanno aderito al programma. Sono molti i settori nei quali i giovani possono impegnarsi: arte, sport, ambiente, cultura, assistenza sociale, comunicazione, cooperazione allo sviluppo e altri ancora. Per partire - dopo essersi candidati al progetto - è necessario avere un’organizzazione di invio in Italia (sending organization) e una di accoglienza nel Paese ospitante (hosting organization). Per avere maggiori informazioni sul Servizio volontario europeo, consigliamo di leggere la sezione dedicata dell’Agenzia nazionale per i giovani. Ecco la storia di Fabiana Castellino.Ho 27 anni e sono nata e cresciuta a Ragusa, in Sicilia, dove ho frequentato il liceo classico. Ho sempre curato molto la lettura e mi sono avvicinata, come “autodidatta”, alla letteratura e alla filosofia, che ho scelto poi di studiare anche all’università. A 19 anni mi sono infatti trasferita a Roma per studiare filosofia all’università di Roma Tre, dove mi sono laureata alla magistrale con il massimo dei voti.Dopo la laurea ho provato ad accedere a un programma di dottorato e, nel frattempo, ho lavorato con bambini autistici, imparando le tecniche base di comunicazione ed educazione fondamentali per la loro formazione. Questo lavoro si è rivelato per me un’occasione di crescita personale prima ancora che professionale, anche perché ho avuto la fortuna di incontrare persone con cui ho legato molto anche al di là del rapporto lavorativo. Dopo un anno ho deciso però di trasferirmi all’estero attraverso un’esperienza Sve, programma conosciuto attraverso il sito di Carriere internazionali proprio in un momento in cui ero interessata a dare una svolta alla mia vita e a crescere ulteriormente grazie a un’esperienza interculturale. Ho così cercato un’associazione che mi aiutasse nella ricerca del progetto a me più vicino e ho trovato Porta nuova Europa, di Pavia, che mi ha inviato un depliant con vari progetti e un’application dove ho risposto a varie domande che sono state state poi inviate ai responsabili dei progetti per cui io avevo espresso una preferenza. Dopo pochi giorni dall’invio della domanda ho saputo di esser stata presa dalla scuola che avevo segnalato come prima scelta, la Steiner school di Lier, in Belgio. Mentre la mia sending organization era appunto Porta nuova Europa, l’hosting organization in Belgio era Afs interculturele.Ho lavorato quindi per sei mesi in Belgio, nelle Fiandre, in una scuola steineriana, ovvero una scuola alternativa fondata sul pensiero filosofico di Rudolf Steiner. Il mio compito era quello di supportare le insegnanti di due classi con bambini di età compresa tra i 3 e i 7 anni mediante un lavoro più che altro materiale, che prevedeva di fare attenzione ai bambini durante le gite e preparare loro il pranzo. Devo dire che mi è stata fatta molta pressione per imparare la lingua, in questo caso l’olandese, e il lavoro è stato duro e spesso non molto soddisfacente dato che il mio compito era soltanto pratico-organizzativo e non mi ha concesso quindi di ottenere il tipo di formazione in cui avevo sperato. Per quanto riguarda l’alloggio, sono stata ospitata dalla famiglia di una bambina che frequentava una delle classi in cui ho svolto lo Sve, e questo mi ha permesso di conoscere a fondo la cultura locale e d’imparare più velocemente la lingua. Dal punto di vista economico, invece, lo Sve mi ha garantito un pocket money di 110 euro mensili, oltre alla totale copertura di vitto e alloggio e a un rimborso spese che copriva il tragitto casa-lavoro. In questo modo il volontario ha di certo una preoccupazione in meno; tuttavia non si deve pensare a un vero stipendio, quanto appunto ad un rimborso, ed è meglio per questo stare comunque attenti alle spese e partire, se possibile, con un piccolo gruzzolo messo da parte. Se si fa attenzione, si riesce a raggiungere comunque un certo livello di indipendenza. Ammetto che all’inizio è stata molto dura, in primis perché ci si trova di fronte alla barriera linguistica e, quindi, ad un inevitabile isolamento, che può essere però, in ogni caso, perfettamente superato. L’atteggiamento dei fiamminghi non è di immediata apertura al “diverso”, e ci è voluto del tempo per conquistare la loro fiducia. Sono persone molto indipendenti e il loro approccio all’altro è più freddo rispetto a quello degli italiani. Tuttavia, col passare del tempo, alcuni di loro si sono rivelati dei grandi amici. Ciò che mi sento di consigliare, sulla base della mia esperienza, è di lottare per un progetto che sia all’altezza delle proprie aspirazioni. La scuola in cui ho lavorato aveva solo bisogno di un assistente e non mi ha dato la formazione che speravo, ma ci sono molti progetti in cui i volontari sono formati ed educati, e possono anche proseguire il cammino. Mi sento quindi di dire che un’oculata scelta del progetto deve anche essere accompagnata, come tutto del resto, da una certa dose di fortuna.Nonostante le difficoltà, ci sono tanti aspetti che ritengo particolarmente positivi di questa esperienza. Per prima cosa un programma all’estero rafforza lo spirito e il carattere e dà la possibilità di viaggiare, conoscere un paese e gente da tutto il mondo. Inoltre ha un alto potenziale formativo dal punto di vista linguistico e io consiglio proprio di non farselo scappare. In Belgio ho usato soprattutto l’inglese ma ho anche imparato l’olandese. Non bisogna infatti lasciarsi scoraggiare da una lingua poco comune: è la chiave per rendere il proprio Sve più interessante ed entrare a contatto con la gente del posto. È una sfida da cogliere e superare. Sono tornata in Italia da poco e non ho ancora le idee chiare sul futuro, perché non c’è un settore in particolare nel quale vorrei lavorare. Sono ancora in cerca della mia vocazione ma, dato il percorso fatto, ho di certo intenzione di approfondire l’ambito dell’educazione. Lo Sve mi ha dato sicuramente lo slancio per cogliere nuove sfide in nuovi posti e seguirò quindi le nuove idee che sopraggiungeranno solo grazie a quest’esperienza. Per questo voglio dire ai giovani di non aver timore e provare. Uno Sve vi renderà più forti, più capaci nonostante le difficoltà e vi regalerà sorprese che non potete immaginare finché non vi lanciate.Testo raccolto da Giada Scotto

«Un consiglio ai giovani? Fate l'Erasmus!»

Per raccontare «dal di dentro» l'iniziativa Bollino OK Stage, attraverso cui la Repubblica degli Stagisti incentiva le imprese a garantire ai giovani percorsi "protetti" e di qualità secondo i principi della Carta dei diritti dello stagista, la redazione raccoglie le testimonianze degli ex stagisti delle aziende che hanno aderito all'RdS network. Di seguito quella di Germano Ferri, 33 anni, oggi assunto con un contratto a tempo indeterminato in Tetra Pak.Sono di Bologna e ho 33 anni. Dopo il liceo scientifico mi sono laureato in Scienze statistiche, la triennale a marzo 2006 e la specialistica a marzo 2009, entrambe a Bologna. Ho scelto di iscrivermi a Scienze statistiche perché cercavo qualcosa di scientifico. Ho frequentato la prima settimana di Ingegneria gestionale ma ho capito che c’era troppo da studiare... per questo sono scappato a Statistica!La scelta è stata supportata dai miei genitori, anche da mio padre che insegna proprio a Ingegneria. In un certo senso la matematica l’ho sempre respirata in casa, per cui posso dire di aver parzialmente seguito le orme paterne – optando però per una versione applicata della materia.Con il senno di poi posso dire che si studiava tanto anche a Statistica, perché la difficoltà della materia è simile, ma la mole di lavoro a casa era inferiore. E poi in fase di colloquio, da neolaureato, ho realizzato che il mio background di nicchia, anche se poco compreso dalle piccole aziende, era considerato molto interessante da quelle più grandi.Durante le scuole superiori ho fatto per circa tre anni il portapizze per pagarmi le uscite serali, mentre tra la triennale e la specialistica ho fatto l’animatore turistico per due mesi. Durante gli anni universitari, invece, proprio perché supportato interamente dai miei genitori ho potuto concentrarmi sullo studio e laurearmi in corso e a pieni voti.Ho fatto vari stage prima di incontrare Tetra Pak; il primo è stato presso la Coop Adriatica nel settore marketing e ricerche di mercato. Era uno stage non pagato con lo scopo di trovare materiale per la tesi. Un amico che lavora lì mi aveva aiutato a trovarlo, ed è stata un’esperienza interessante: ho contribuito alla stesura dei questionari di soddisfazione della clientela e ho fatto analisi statistiche e mappe percettive sui dati collezionati. E ho avuto un ottimo rapporto con colleghi e superiori.Una volta presa la laurea triennale la Coop mi ha richiamato per tre mesi di stage, con un rimborso spese di mille euro netti al mese. Questa volta ero nel campo del controllo di gestione, teoricamente ci sarebbe dovuta essere una rivoluzione informatica per cui servivano risorse aggiuntive. L’esperienza è stata utile perché ho imparato a conoscere il controllo di gestione, SAP, e a migliorare notevolmente le mie conoscenze di excel, ma non è stato entusiasmante – pur avendo avuto un ottimo rapporto con colleghi e superiori. Finiti i tre mesi mi hanno proposto un contratto a tempo indeterminato in contabilità, che ho però rifiutato per cominciare la laurea specialistica.Proprio durante la specialistica ho fatto anche un Erasmus, da agosto 2007 a gennaio 2008 a Odense, in Danimarca. Il periodo più divertente della mia vita credo sia stato proprio il primo mese, quando ho seguito un corso di lingua danese a Horsens, pagato dalla comunità europea, prima di cominciare l’Erasmus vero e proprio a settembre. È stato in questo periodo che ho capito pregi e difetti del sistema universitario italiano, avendo finalmente un termine di paragone. Noi studiamo molto di più, il carico di nozioni da imparare rispetto ai danesi è probabilmente il doppio. Mentre loro fanno più progetti di gruppo, utilissimi per fissare la teoria. Diciamo che noi studiamo 100 ma ricordiamo 50, loro studiano 50 ma ricordano 40! Ed è stato proprio durante l’Erasmus che ho imparato una cosa importantissima e che vedo fare in Tetra Pak solo dai ragazzi che, come me, da studenti sono andati all’estero: l’importanza di parlare in inglese anche tra italiani se in presenza di stranieri, agli ex Erasmus risulta una cosa naturale, mentre agli altri no, risultando sgarbati pur non volendo.Tornato dall’Erasmus nel maggio 2008, quando ormai stavo finendo la specialistica, ho lavorato per un mese per la Samp Utensili. Ero contrattualizzato come cocopro per un mese e pagato mille euro, in attesa di un contratto da stagista da attivare con l’università per cui avrei continuato a lavorare gratis per due mesi. Ma finito il mese di contratto pagato ho preferito cercare altro. Il controllo di gestione c’entrava poco con i miei studi e l’azienda non dava molto spazio all’iniziativa personale.Così poi è arrivato l’ultimo stage da studente universitario: presso Prometeia  dal novembre 2008 al febbraio 2009. Era uno stage finalizzato a trovare i dati per la tesi specialistica che riguardava l’analisi delle previsioni statistiche dei titoli di borsa di un set di banche a seguito della crisi finanziaria. Non prevedeva un rimborso spese; mi era stato prospettato, però, dopo la laurea un nuovo stage pagato mille euro al mese. Purtroppo non è mai partito per colpa della crisi finanziaria, peccato perché il lavoro era interessante!Una volta laureato, ho contattato Tetra Pak  tramite i JobMeeting organizzati in fiera a Bologna. Avevo già contattato l’azienda nel 2008, facendo due o tre colloqui perché ero interessato a fare la tesi proprio con loro. Ma alla fine non mi avevano preso perché mi mancavano ancora tre esami. Così subito dopo la laurea, dopo aver mandato qualche curriculum in giro e avere avuto qualche colloquio, ho ripensato proprio a Tetra Pak. Ho mandato il mio curriculum aggiornato e mi hanno chiamato dopo pochi giorni.Alla fine sono stato chiamato per uno stage post laurea di sei mesi pagato 600 euro al mese con la qualifica di Data analyst dal giugno al dicembre 2009. Finito lo stage sono stato assunto come interinale tramite Randstad con uno stipedio di 1.400 euro al mese con la qualifica di Statistical advisor, ma con le stesse mansioni e gli stessi colleghi dello stage. Il mio ruolo, durato dal dicembre 2009 al dicembre 2010, era quello di dare supporto statistico trasversale a tutti i dipartimenti. Inizialmente analizzavo i risultati dei test, poi pian piano sono stato coinvolto anche nella pianificazione. Il rapporto con colleghi e capi è stato meraviglioso in entrambi i reparti. C’era tanto da costruire da zero, piena libertà d’azione e completa fiducia da parte dei miei superiori. Posso dire di aver potuto conoscere e godere appieno di uno dei core values di Tetra Pak: “freedom with responsability”!Negli ultimi mesi la maggior parte del mio tempo era dedicato a un progetto di Statistical project control sulla variazione delle dimensioni critiche nel tempo di un nuovo tappo che sarebbe stato rilasciato a breve. A fine contratto, quindi nel dicembre 2010, sono stato assunto proprio dal dipartimento di supply chain – closures con uno stipendio di 1.700 euro netti al mese, per lavorare a tempo pieno sui tappi, con il titolo di “Industrialisation Engineer”. Ironia della sorte, non essendo io realmente ingegnere!In questi sette anni sono rimasto sempre nello stesso gruppo all’interno di Tetra Pak: Supply chain – closures – industrialization, ma con mansioni sempre differenti. I primi anni ho creato e insegnato ai plant di produzione la nuova procedura per validare una nuova plastica o un nuovo colore. In seguito, nel boom di espansione del nostro business, ho cominciato a tenere contatti con i fornitori di equipment e validare le nuove linee di produzione. Adesso gestisco alcuni progetti di creazione di nuovi prodotti dall’inizio alla fine. In pratica in questi anni ho acquisito conoscenze tecniche nel campo dell’automazione, dei sistemi di visione e dello stampaggio di materie plastiche. Con la gestione di progetti ho cominciato ad avere un’infarinatura di project management. I compiti puramente statistici sono nettamente minori rispetto all’inizio, ma per ogni test che pianifico la teoria studiata all’università risulta fondamentale. Tetra Pak mi ha dato inoltre la possibilità di certificarmi a sue spese Six-sigma Black Belt. Avendo per ora fatto sempre qualcosa di diverso devo ammettere di non aver pensato granché al futuro. Il presente è stato sempre vario e stimolante. Sento di avere una visione sempre più ampia del business, ma non ancora abbastanza matura e completa per poter decidere lucidamente cosa mi piace di più. Per ora continuo a cercare di fare al meglio quello che mi viene chiesto.Non conoscevo la Repubblica degli Stagisti, ma leggendo la Carta dei diritti degli stagisti e ricordando la mia esperienza personale devo dire che sono d’accordo con tutti i punti elencati… eccetto il terzo. Vietare, infatti, l’assunzione in stage per la copertura di una maternità toglie una buona percentuale di possibilità di un primo contatto con l’azienda da parte dei neolaureati. Credo che in cinque mesi di lavoro – che poi spesso diventano nove, o dodici – un ragazzo abbia la possibilità di creare qualcosa di buono e di mostrare quanto vale a un’azienda. Se il feedback è positivo, a seguito di una posizione vacante nello stesso campo sono convinto che possa avere buone probabilità di essere assunto.Almeno quando io ho fatto gli stage, quindi sette anni fa, il problema maggiore era riuscire a trovarlo. L’università non sembrava pullulare di collaborazioni attive con le aziende e quelle suggerite erano ben lontane da quello che cercavo o non hanno voluto o potuto continuare una collaborazione finito il tirocinio.Un consiglio ai giovani che vogliono entrare nel mio settore professionale? Fate l’Erasmus in un Paese dove si parli inglese. Ho preso 110 sia alla laurea triennale che alla specialistica, ma l’unica cosa che gli intervistatori cerchiavano sul mio curriculum e su cui mi facevano sistematicamente domande era l’esperienza Erasmus!Testimonianza raccolta da Marianna Lepore

«Il punto forte di Everis? Siamo ispirati a sognare e fare di più»

Per raccontare «dal di dentro» l'iniziativa del Bollino OK Stage, attraverso cui la Repubblica degli Stagisti incentiva le imprese a garantire ai giovani percorsi "protetti" e di qualità secondo i principi della Carta dei diritti dello stagista, la redazione raccoglie le testimonianze degli ex stagisti delle aziende che hanno aderito all'RdS network. Di seguito quella di Alessio Ducci, 25 anni, oggi con un contratto a tempo indeterminato in Everis.Ho 25 anni sono di origini siciliane ma ho vissuto fin da ragazzo in Umbria, dove ho frequentato a Narni Scalo il liceo scientifico. Avendo vissuto sempre in piccole città avevo il desiderio di trasferirmi in posti con maggiori opportunità e prospettive professionali, quindi nel 2010, arrivato il momento di iscrivermi all’università, ero in dubbio tra Roma e Milano. Ho scelto la prima e il corso di laurea in ingegneria gestionale all’università la Sapienza nella convinzione che una città come Roma associata a questo ateneo potesse darmi quel plus che nessun’altra città mi avrebbe dato.Mio padre è ingegnere navale e ho due fratelli maggiori entrambi ingegneri, civile e delle telecomunicazioni, quindi probabilmente la scelta dell’università è stata fatta per osmosi: era un sogno poter condividere lo stesso percorso delle mie guide.Ancora oggi credo sia stata una scelta giusta: sia per i traguardi ottenuti in ambito accademico che per le esperienze fatte fuori da quel contesto. Senza contare gli input importanti ricevuti dalla gran parte dei docenti dell’ateneo: già solo per questo consiglierei lo stesso percorso ad altri giovani.Ho preso la laurea triennale nel luglio del 2013 e ad agosto ho vissuto un mese a Malta per perfezionare l’inglese, attraverso un corso intensivo di lingua della EC School per cui ho speso all’incirca 3mila euro. Credo sia un’esperienza fondamentale che tutti debbano fare. Dal punto di vista linguistico sei costretto a parlare per 31 giorni in inglese sia otto ore a scuola sia quando esci visto che sono tutti di altre nazionalità. Solo così si supera il blocco emotivo che tanti italiani hanno nel parlare una lingua diversa dalla nostra. E poi è un’importante esperienza di vita, soprattutto per un ragazzo di 22 anni. Sei a contatto con infinite altre culture e si viene invasi da differenti pensieri, idee, modi di vedere il mondo. Si impara ad apprezzare la diversità.Durante il periodo universitario sono stato arbitro federale di pallacanestro nel Comitato arbitri di Umbria e Lazio. Suonavo anche il basso elettrico e le batterie e percussioni in vari complessi folck e rock con cui facevo dei tour durante l’estate per guadagnare qualcosa. Ho anche aperto un’associazione di pattinaggio in linea a Catania, insieme a mio fratello. Siamo stati la prima associazione di questo tipo specialità freestyle in Sicilia. Abbiamo anche avuto un nostro atleta arrivato tra i primi dieci al mondo nei mondiali del 2015 nell’High jump!Tornato da Malta mi sono iscritto alla magistrale, sempre alla Sapienza dove mi sono laureato con 110 e lode nel gennaio 2016. Per sviluppare il mio progetto di tesi sono andato presso la Maastricht University, in Olanda, dall’agosto 2015 al gennaio 2016. È stata una mia scelta andare lì: ho fatto molte ricerche su blog e siti delle università europee cercando di mettermi in contatto con docenti che potessero essere interessati a un progetto come quello che volevo portare avanti. E dopo circa due mesi di ricerche la scelta è caduta sulla Maastricht University. Se non fossi andato lì avrei probabilmente scelto Madrid o Trondheim in Norvegia.Nessuno però in Italia mi ha aiutato a trovare il relatore con cui sviluppare la tesi all’estero, né il mio relatore italiano né altri docenti. Ed è un peccato che per questo progetto l’università non offra supporto allo studente, almeno nella ricerca di un supervisor di un’altra università. Nei sei mesi sono stato coperto da una borsa di studio per tesi all’estero di totali 2.500 euro, indipendentemente dai mesi di ricerca o dalla destinazione scelta. Credo ancora che nell’approccio all’esperienza a Maastricht mi abbia facilitato quel mese vissuto a Malta!Una volta laureato un estratto della tesi è stato valutato papabile per una pubblicazione in un giornale scientifico. Ma ci siamo fermati in fase di ultima revisione perché sono entrato in Everis!Subito dopo la laurea, infatti, mi sono messo in contatto con varie aziende sia italiane sia straniere per decidere se rimanere o espatriare. Ho mandato molti curriculum all’estero. E ho tanti amici che hanno dovuto lasciare obbligatoriamente l’Italia perché qui non hanno trovato lavoro. In questo senso mi reputo fortunato perché ho avuto diverse opportunità. Avevo una concreta possibilità di ingresso in un’azienda ad Amsterdam con cui avevo già avuto dei rapporti per la stesura della tesi. Ma nello stesso periodo ho avuto un colloquio per un’azienda italiana che non conoscevo e per un sistema di gestione di cui avevo letto solo in qualche libro: supply chain management.Durante quel colloquio ho sentito che c’era qualcosa di diverso. L’azienda veniva descritta come una famiglia nella quale bisognava darsi da fare e in cambio si sarebbe potuto ricevere, un posto stimolante. Ammetto che quello che più mi ispirò fu l’incrollabile ottimismo durante il colloquio della mia intervistatrice che, solo dopo, ho scoperto essere una caratteristica comune a molte persone all’interno dell’azienda.Il colloquio l’ho fatto gli ultimi giorni di febbraio: due settimane dopo, il 14 marzo 2016, entravo in Everis  per uno stage di sei mesi a mille euro al mese e scoprivo che la donna del colloquio era la manager del team con cui ancora oggi lavoro. Ma tre mesi dopo l’inizio dello stage, il 14 giugno, sono stato assunto a tempo indeterminato con una Ral di 24.500 euro più benefit, quindi assicurazione, ticket restaurant e formazione.Ho avuto un rapporto ottimo con il mio tutor, sono stato inserito in un progetto di respiro internazionale con responsabilità crescenti fin da subito. Oggi sono un consulente Sap all’interno del team Finance, in particolare Tesoreria. Mi vengono assegnati in parallelo differenti task con differenti priorità. Questi task possono comprendere la customizzazione/settaggio del sistema o delle analisi di dati o della redazione di documentazione o delle riunioni o delle call: il lavoro è molto vario e c’è da apprendere molto a vari livelli. A me piace perché amo le sfide e mettermi in gioco. E qui le mie hard e soft skill sono quotidianamenti sollecitate.È passato un anno e mezzo dal giorno del colloquio e adesso sono diventato Solution senior analyst. Posso dire che ogni giorno verifico la verità delle parole condivise quel giorno. Credo che il punto forte di Everis sia che qui il management è costituito da leader. La crescita e la salute dell’organizzazione non è considerata una mera voce di costo. Si è attenti al team: siamo ispirati a sognare e fare di più. Sono assolutamente all’inizio del mio percorso professionale, e dei miei obiettivi, ma credo fortemente che questa azienda dia la possibilità alle persone di esprimere il loro massimo potenziale. Al momento non mi interessa costruire un muro: voglio edificare una cattedrale. E se siete come me, Everis vi dimostra che è il posto, il mezzo, il canale giusto per fare ciò!Sono stato fortunato, il mio primo stage è stato anche l’ultimo, ma in Italia credo ci siano molti problemi riguardo i tirocini. La stragrande maggioranza delle aziende, oserei dire il 90%, non fa apprendere nulla allo stagista o lo trascura, dopo sei mesi di stage propone solo un altro stage, gli iter di selezione sono lunghissimi e spesso non sono mantenute le promese fatte in colloquio, si mettono gli stagisti in competizione facendogli fare quasi una lotta nel fango, si dà un rimborso spese uguale o inferiore ai 500 euro al mese, decisamente insufficiente da ogni punto di vista.Se dovessi dare un consiglio ai giovani che si apprestano a entrare nel mio settore professionale, nonostante il mio rapido cammino nel mondo del lavoro darei un unico suggerimento: non abbiate fretta. Come millennials condividiamo la fretta nel fare tutto: apprendere, pretendere, laurearsi, fare carriera. Siamo stati educati ad avere risultati nel più breve tempo possibile. Ma la soddisfazione lavorativa risponde a leggi lente e segue percorsi scomodi e disordinati. Quindi prendetevi il vostro tempo e fate quante più possibili esperienze parallele. Si cresce perseguendo i propri sogni e facendo sacrifici per raggiungerli, ma anche e soprattutto non chiudendo mai gli occhi e la mente e facendo tutte le esperienze che abbiamo l’opportunità di vivere.Marianna Lepore

«Grazie allo Sve ho imparato ad apprezzare il valore formativo delle difficoltà»

La Repubblica degli Stagisti prosegue la rubrica sullo Sve, con l'obiettivo di raccogliere e far conoscere le esperienze dei giovani che hanno svolto il Servizio volontario europeo, una particolare - e ancora poca conosciuta - opportunità offerta dal programma europeo Erasmus+ ai giovani tra i 17 e i 30 anni. Grazie allo Sve, che copre i costi di viaggio, vitto, alloggio e garantisce un “pocket money” mensile per le spese personali, è possibile svolgere un'attività di volontariato, per un periodo dai 2 ai 12 mesi, in uno dei Paesi dell’Unione europea o in altri Paesi del mondo che hanno aderito al programma. Sono molti i settori nei quali i giovani possono impegnarsi: arte, sport, ambiente, cultura, assistenza sociale, comunicazione, cooperazione allo sviluppo e altri ancora. Per partire - dopo essersi candidati al progetto - è necessario avere un’organizzazione di invio in Italia (sending organization) e una di accoglienza nel Paese ospitante (hosting organization). Per avere maggiori informazioni sul Servizio volontario europeo, consigliamo di leggere la sezione dedicata dell’Agenzia nazionale per i giovani. Ecco la storia di Rita Pereira. Sono nata 23 anni fa a Viseu, una città nel nord del Portogallo non lontana da Porto. Per molto tempo ho pensato che la mia strada sarebbe stata quella della giurisprudenza, avendo un padre avvocato, ma poi ho scoperto altri interessi e sono soddisfatta della scelta che ho fatto sei anni fa. Ho infatti frequentato l’Università Nova di Lisbona e, nel 2014, mi sono laureata in Scienze della comunicazione. Durante i miei studi universitari non ho avuto, purtroppo, la possibilità di fare un progetto Erasmus ma, giunta all’ultimo anno di corso, ho deciso di candidarmi nella mia università al programma Leonardo da Vinci e, nel settembre 2014, sono partita per la Grecia per fare il mio primo stage finanziato.Questa prima esperienza vissuta ad Atene è stata per me molto significativa, perché mi ha dato modo di scoprire tante cose di me e di chi mi circondava. Devo dire che è stato strano ma molto interessante il fatto di aver avuto il mio primo contatto con il mondo lavorativo in un paese dove, purtroppo, non riuscivo a comunicare che in inglese. Il poco greco che ho imparato non bastava infatti a fare grandi conversazioni. Il mio stage era finanziato da una borsa del programma Leonardo e l’ente ospitante era il Consiglio Internazionale della Danza Unesco, che costituiva allo stesso tempo un importante teatro di danze greche. Dopo questi quattro mesi in Grecia sono tornata in Portogallo, pronta a iniziare un secondo stage, questa volta a Porto, delle durata di tre mesi e non remunerato. Il mio compito era occuparmi della parte relativa alla comunicazione per un progetto finanziato dall’Unione europea all’interno di un’università. È stata un’esperienza molto diversa rispetto a quella vissuta ad Atene: dovevo essere più autonoma e riuscire a gestire da sola il mio lavoro, dato che non veniva seguito e controllato molto spesso. Due esperienze diverse, quindi, e con qualche punto negativo, ma che sono servite a farmi capire cosa mi piace fare e in quale tipo di ambiente lavorativo mi sento meglio. Ho capito che vorrei continuare a lavorare nel settore del non-profit, con associazioni o reti di associazioni a livello internazionale, e nell’area della cooperazione e dello sviluppo. Per questo comincerò tra qualche mese una specialistica proprio in quest’ambito, sperando mi apra più porte a livello lavorativo.Determinante però nel raggiungere questa consapevolezza è stato lo Sve che ho fatto qua in Italia. Sono venuta a contatto con questo programma nel 2014, mentre facevo un corso di formazione in Italia durante il quale ho conosciuto ragazzi che avevano già fatto quest’esperienza. Avevo terminato i due stage ad Atene e Porto e stavo ormai finendo l’università; ero rimasta molto impressionata dall’Italia e per questo ho deciso di iniziare a cercare opportunità di volontariato qui. Per alcuni mesi non sono riuscita a trovare nulla e così ho deciso di contattare un’associazione portoghese che mi fosse di supporto nella ricerca di un progetto e fungesse da organizzazione d’invio. A luglio 2014 ho trovato Dinamo, un’associazione di Sintra che mi ha inviato diversi progetti, tra cui quello di Eufemia qua in Italia. Essendo molto interessata ho inviato la mia lettera di motivazione per la candidatura  e, dopo qualche settimana, mi hanno detto che ero stata scelta.Ho svolto il mio Sve a Torino, da aprile 2015 a marzo 2016, con l’associazione Eufemia, per la quale ho operato come volontaria in diverse aree, sia a livello locale che internazionale. Il mio progetto aveva appunto una durata di dodici mesi, ma ho deciso di rimanere più tempo e ancora adesso mi trovo a Torino. A livello locale ho lavorato soprattutto nei doposcuola, dove facevamo attività con i ragazzi del quartiere, aiutandoli a fare i compiti e a prepararsi per gli esami scolastici. Ho collaborato anche a varie attività nelle scuole e al progetto Invenduto, che mi ha portata in uno dei mercati rionali di Torino, dove ogni sabato prendevamo frutta e verdura invendute e le ripartivamo tra le persone e le famiglie più bisognose. A livello internazionale, invece, ho lavorato nel punto informativo Erasmus+, dove partecipavo agli incontri di preparazione per i gruppi di ragazzi che partivano per scambi all’estero e all’organizzazione degli scambi verso Torino coordinati dall’associazione. Abitavo nella sede dell'associazione, dove ho inizialmente convissuto con un altro volontario spagnolo, che ha però interrotto il progetto anzitempo tornando in Spagna. Così è venuta una ragazza tedesca che svolgeva un tirocinio all'Istituto tedesco, con la quale mi sono trovata molto bene. Sono stata molto soddisfatta della mia esperienza e non credo che, anche tornassi indietro, cambierei qualcosa: mi ha aperto tante porte e penso che anche le difficoltà che ho incontrato abbiano contribuito a rendere quest’avventura così importante per me. Il lascito più bello sono le persone che ho conosciuto: ognuna mi ha insegnato qualcosa di nuovo e mi ha aperta a realtà che non conoscevo. Consiglio assolutamente a tutti di vivere quest’esperienza perché, anche se non va sempre tutto liscio, permette di vivere qualcosa di totalmente diverso e d’imparare ad affrontare cose del tutto nuove. Anche dal punto di vista economico, inoltre, lo Sve è assolutamente sostenibile: avevo un rimborso spese di 300 euro e casa e bollette pagate. Credo inoltre che lo Sve sia un’esperienza molto professionalizzante. L’inserimento all’interno di una struttura (che può essere un’associazione, una scuola o un’azienda) permette al volontario di entrare in contatto con un ambiente professionale e d’imparare la gestione dei diversi rapporti in tale ambito. Io spesso ho usato l’inglese, ma in sei mesi ho anche imparato l’italiano. Tuttavia non credo che, da questo punto di vista, sia l’aspetto linguistico il più importante, quanto piuttosto tutte le competenze trasversali che un volontario acquisisce durante il suo Sve.Adesso sto collaborando per la maggior parte dei casi a progetto, anche perché non posso prendermi impegni a lungo termine. Con l’associazione con cui ho iniziato a lavorare qui in Italia durante lo Sve ho appena promosso il mio primo scambio culturale in Portogallo, nella città in cui sono nata. In questo momento faccio avanti e indietro tra Portogallo e Italia, ma a settembre inizierò il mio Joint Master Degree in Cooperazione Internazionale che si svolgerà in tre università di Repubblica Ceca, Francia e Italia. Lo scorso novembre ho preso parte anche all’evento realizzato dall’Agenzia Giovani, dove ho avuto modo di conoscere tanti ragazzi italiani interessati al programma Erasmus+ e alle sue opportunità, e di assistere alla presentazione in cui individui e gruppi esponevano i loro progetti. Questo è stato per me, come credo per molti altri, di notevole ispirazione.Per questo, dico ai miei coetanei non perdete tempo. Godetevi tutti i momenti, anche quelli che possono sembrare inizialmente meno buoni, perché vi porteranno sempre qualcosa. E dite sì, tante volte. Perché spesso un “sì” può portarvi qualcosa a cui non avete mai pensato e che, una volta sperimentato, vi cambierà la vita. Testo raccolto da Giada Scotto

"Il mio anno di liceo all'estero: un'esperienza che mi ha cambiato"

Ogni anno oltre 2.000 giovani tra i 15 e i 18 anni trascorrono un periodo di studio all’estero durante le scuole superiori, attraverso i programmi di Intercultura. La Repubblica degli Stagisti ha deciso di raccogliere le loro storie: questa è quella di Federica Brando.Ho 21 anni e studio Scienze biologiche all’università di Salerno. Il quarto anno di liceo scientifico l’ho frequentato in America. Mia mamma voleva farmi fare un corso di inglese avanzato in estate, poi un giorno in classe sono venute due persone a parlare di Intercultura. Al bando si concorreva con Intercultura o con un ente finanziatore.  Ho pensato di tentare e ho vinto una borsa di studio della Deutsche Bank negli Stati Uniti del valore di 13mila euro. Un solo posto in tutta Italia: non mi sembrava vero!Compilare l’application form è stato piuttosto complesso: richiedeva un test psico-attitudinale, un test e un tema in inglese, la testimonianza di un docente. Inoltre per partecipare era necessaria una buona condotta scolastica – nessun debito o bocciatura.  La destinazione nel mio caso era già stabilita, ma in genere si hanno a disposizione fino a dieci scelte.Una volta selezionata, ho partecipato a un campo di formazione Intercultura: una serie di incontri preparatori all’esperienza, in cui sono state affrontate tematiche come i pregiudizi, le diversità culturali etc. Poi, arrivata negli Usa, ho partecipato a un week end di formazione itinerante in alcune località del Maine, organizzato sempre da Intercultura.Ho trascorso negli Stati Uniti il periodo da settembre a luglio. Sono partita a 17 anni e sono tornata a 18. La mia destinazione è stata Gardiner, nel Maine, una cittadina di 6mila anime. A ospitarmi è stata una famiglia di volontari di origine ebraica composta da madre, padre e due figli, un maschio e una femmina, di 16 e 13 anni. Non era New York, ma Gardiner mi ha accolto nel migliore dei modi.Certo le difficoltà non sono mancate. In America c’è un forte individualismo, i rapporti sono più freddi e stringere amicizie è più difficile di qui. Altre differenze che mi hanno pesato sono il cibo, le abitudini. La mattina il bus per la scuola partiva alle 6.20 e le lezioni iniziavano alle 7.30.A scuola sono stata inserita in una tipica classe americana, solo due ragazzi erano Exchange Student, uno della Cina e uno di Hong Kong. Ho scelto le mie materie: matematica, fisica, storia. C’era persino un corso in cui si imparava a tenere i bambini con un finto bebè: il voto dipendeva dalla capacità di non farlo piangere. Il modello scolastico era più dinamico, interattivo (laboratori, visione documentari e film) e la mole di studio più leggera. Non esistevano le classiche interrogazioni ma solo quiz e test, che culminavano nel test finale di fine semestre, valutato in centesimi. Nel corso dell’anno ho svolto anche tante attività: ho fatto sport (pallavolo, basket e tennis), suonato il clarinetto nell’orchestra della scuola.Nei nove mesi sia io che la famiglia ospitante siamo stati seguiti da un tutor, che ogni mese si confrontava con noi. Io stilavo un report mensile che dovevo inviare a Intercultura e alla Deutsche Bank.  Poi, al ritorno in Italia, ho dovuto sostenere un colloquio con i miei insegnanti per verificare le competenze acquisite e per l’attribuzione dei crediti, sulla base di un programma concordato.L’anno di studio all’estero lo consiglio per tanti motivi. Sicuramente per la conoscenza della lingua: io sono partita da un livello intermedio, non avevo certificazioni, ma in tre mesi parlavo fluentemente. Per le relazioni che ancora mantengo, ma soprattutto perché mi ha cambiato come persona. Quando sono partita ero timida, alla fine dell’esperienza mi sono ritrovata a parlare davanti a tutta la scuola al Graduation Day in una lingua non mia. I miei, che erano venuti a trovarmi, non ci potevano credere. Ancora oggi non mi sembra vero di aver vissuto quell’esperienza, è tuttora difficile da metabolizzare. Il rientro non è stato facile. Ho partecipato a un campo finale di Intercultura in cui i volontari aiutavano i ragazzi a rielaborare l’esperienza. Ma il riadattamento culturale ha richiesto del tempo. La prima sera sono uscita con i miei amici e mi annoiavo, la mattina dopo a colazione sono scoppiata a piangere: nove mesi sono tanti e ti abitui a una realtà diversa.In America avevo deciso di fare Ingegneria aerospaziale. Finite le superiori, mi ero iscritta al Politecnico di Milano, ma le cose erano diverse da come mi aspettavo. Tutta teoria, nessun laboratorio. Così ho deciso di cambiare e iscrivermi a Scienze biologiche, dove l’insegnamento è molto più pratico. Il mio sogno? Lavorare nella Scientifica. Se vedo il mio futuro ancora all’estero? Sono pronta a partire e a trasferirmi, ma solo se strettamente necessario.Testo raccolto da Rossella Nocca

Due stage e oggi un contratto di apprendistato in un’azienda internazionale come Bosch Rexroth

Per raccontare «dal di dentro» l'iniziativa Bollino OK Stage, attraverso cui la Repubblica degli Stagisti incentiva le imprese a garantire ai giovani percorsi "protetti" e di qualità secondo i principi della Carta dei diritti dello stagista, la redazione raccoglie le testimonianze degli ex stagisti delle aziende che hanno aderito all'RdS network. Di seguito quella di Antonio De Luca, 29 anni, oggi con un contratto di apprendistato in Bosch. Sono nato a Messina e ho 29 anni. Dopo aver preso il diploma al liceo classico ho deciso di intraprendere un percorso di studi universitario non proprio attinente all’ambito umanistico: l’ingegneria. Così nel settembre 2006 mi sono iscritto alla laurea triennale in Ingegneria industriale presso l’università di Messina, dove mi sono laureato nel marzo 2012. Una volta presa la laurea di primo livello ho deciso di trasferirmi a Modena per specializzarmi in ingegneria meccanica. Sono state due le principali considerazioni che mi hanno spinto a scegliere questa città: la prima è stata l’offerta formativa e il livello di insegnamento della facoltà di Modena, polo di eccellenza e meta ambita per chi vuole approfondire gli studi ingegneristici. La seconda sono state le possibilità lavorative offerte da un territorio che accoglie numerosissime realtà industriali.Ambientarsi in una nuova città non è stato particolarmente difficile, forse anche perché mi sono trasferito insieme ad altri due colleghi provenienti dal mio stesso ateneo. E poi probabilmente anche perché l’80% dei partecipanti ai corsi all’università a Modena era fuori sede, quindi già frequentare le lezioni costituiva momento di aggregazione facilitando l’inserimento.Durante il periodo di specializzazione modenese, grazie a due professori ho potuto effettuare un tirocinio formativo alla Bosch Rexroth di Nonantola dal marzo al dicembre 2015 in cui mi sono occupato dello sviluppo di un modello di simulazione virtuale di componenti elettroidraulici a cartuccia, con lo scopo di individuarne le criticità, permettendo un intervento mirato per il miglioramento delle performance. In questo caso non stavo in ufficio tutti i giorni, ma avevo incontri programmati settimanali per seguire lo sviluppo degli studi.A dicembre dello stesso anno ho preso la laurea magistrale e subito dopo ho svolto uno stage di sei mesi dal gennaio al luglio 2016 sempre presso la Bosch Rexroth ma questa volta di Vezzano sul Crostolo. Avevo un rimborso spese di 500 euro mensili più i buoni pasto del valore di 8,24 euro.Durante questo secondo stage ho potuto mettere in pratica ciò che avevo imparato nell’ambito dell’oleodinamica. In quei sei mesi, in sostanza, mi sono occupato del miglioramento delle prestazioni di componenti già esistenti, grazie all’individuazione delle criticità tramite le simulazioni fluidodinamiche, ma ho anche acquisito competenze nuove utilizzando software di disegno che non conoscevo e cimentandomi nella progettazione di componenti oleodinamici ex novo.All’interno dell’azienda sono stato accolto in maniera stupenda e ho avuto la possibilità di incontrare un gruppo di lavoro affiatato, competente e disponibile, in particolare il mio diretto responsabile, un ingegnere che sin dal primo momento si è messo a completa disposizione insegnandomi a muovermi in una realtà che non conoscevo.Finiti i sei mesi di stage e grazie anche alle “insistenze” del mio responsabile in seguito al buon lavoro svolto, mi è stato proposto un contratto di apprendistato con inserimento 5° livello metalmeccanico, con avanzamento ogni anno e mezzo e una Ral iniziale di 26mila euro. Proposta che ho accettato perché mi piace molto l’ambiente di lavoro che ho trovato e di cui oggi faccio parte. Così a luglio 2016 ho cominciato l’apprendistato, che durerà tre anni. Sono soddisfatto anche della formula di inserimento che mi è stata proposta perché mi è stata data la possibilità di crescere all’interno del gruppo Bosch in un arco di tempo che ritengo ragionevole.Oggi mi occupo della progettazione e dello sviluppo di valvole oleodinamiche di nuova produzione e ho la possibilità di rapportarmi giornalmente con i colleghi degli altri plant, con i fornitori e i commerciali. La crescita professionale è continua perché ogni giorno ho l’occasione di vedere cose nuove e di assorbire un know how fortemente radicato nello staff di Vezzano.Credo però di essere ancora all’inizio di un percorso lavorativo che vorrei si consolidasse nell’ambito dell’oleodinamica. Vorrei avere la possibilità di apprendere continuamente e vedere sul campo l’applicazione dei miei studi e, perché no, avere in futuro la possibilità di trasmettere quello che ho imparato. Mi piacerebbe, infatti, restare in contatto con l’ambiente universitario per non abbandonare il ramo della ricerca, continuando però a mantenere un risvolto pratico e concreto delle applicazioni teoriche.Non ho mai inviato il mio curriculum all’estero e a parte un periodo di vacanza studio a Dublino non ho avuto contatti con il mondo del lavoro straniero. Ma non perché non mi interessasse la prospettiva di un lavoro fuori dall’Italia, ma perché ho iniziato a lavorare praticamente subito dopo il conseguimento della laurea e, oggi, visto il respiro internazionale di un’azienda come la Bosch Rexroth, la possibilità di esperienze estere non è certo preclusa!Per tornare al merito dello stage in Italia, credo che il sistema sia decisamente migliorabile. Il problema fondamentale, oltre al rimborso spese che spesso non è adeguato alla scolarizzazione o alle capacità personali, è l’abuso possibile di questa forma di contratto che di fatto non dà stabilità al lavoratore e permette a chi ne usufruisce di avere forza lavoro, anche molto qualificata, praticamente gratis e con ricambio continuo. Per fortuna non è stato il mio caso in Bosch! Ma altri miei amici e colleghi universitari si sono ritrovati, nonostante le capacità, a cambiare lavoro con frequenza semestrale numerose volte prima di essere assunti. Per questo penso che la Repubblica degli Stagisti sia utile, perché aiuta a informare chi si avvicina al mondo del lavoro per la prima volta e che, almeno nel mio settore di competenza, avrà sicuramente a che fare con la formula dello stage.A quelli che si apprestano ad entrare nel mio ambito lavorativo posso dare un consiglio: abbiate sempre fame di conoscenza e non perdete occasione di vedere e toccare con mano tutto quello che viene realizzato all’interno di un’azienda. Perché a prescindere dalla formula contrattuale con la quale si è assunti, la passione, la competenza e l’esperienza sul campo alla fine verranno sempre riconosciute e apprezzate. Testimonianza raccolta da Marianna Lepore