Quarto anno di liceo all'estero, esperienza unica: ma ecco alcuni errori da non fare

Rossella Nocca

Rossella Nocca

Scritto il 02 Gen 2018 in Storie

Ogni anno oltre 2.000 giovani tra i 15 e i 18 anni trascorrono un periodo di studio all’estero durante le scuole superiori, attraverso i programmi di Intercultura. La Repubblica degli Stagisti ha deciso di raccogliere le loro storie: questa è quella di Anna Cailotto.

Ho 24 anni e sono di Verona, ma al momento mi trovo a Milano per uno stage curriculare presso Ashoka Italia, nell’ambito del corso di laurea specialistica in Business and Development Studies presso la Copenhagen Business School.

Nel 2010, a 17 anni, sono partita per gli Stati Uniti, dove ho frequentato il quarto anno di liceo. Tutto è nato perché mia sorella, di quattro anni più grande di me, si era informata sui progetti Intercultura e dei volontari erano venuti a casa mia per illustrarli. Io avevo 13 anni e avevo espresso grande entusiasmo. Qualche anno dopo mia madre mi ha ricordato di quell’entusiasmo e mi ha proposto di partire. Io mi sono detta “Perché no?!”: è stata una scelta fatta con un po’di “incoscienza”, nel senso che non avevo idea di cosa mi aspettasse e di come questa esperienza potesse determinare molte cose della mia personalità e del mio futuro.

All’inizio non ero stata presa perché avevo inserito tra le preferenze i posti più ambiti (Stati Uniti, Canada, Nuova Zelanda etc.), però mi ero affezionata all’idea di partire, così ho accettato di cambiare destinazione e andare in Repubblica Domenicana. Proprio perché ho dimostrato questo entusiasmo per la partenza sono salita in graduatoria e, dato che si era liberato un posto per gli Stati Uniti, quella è stata la mia destinazione.

Prima della partenza, Intercultura affianca gli studenti con un percorso di accompagnamento, fatto di incontri dove si affrontano le dinamiche culturali. Io li ho presi con leggerezza, mentre potendo tornare indietro darei loro più importanza. Idem per gli incontri organizzati negli Usa: io ero molto lontana dalla loro sede e ci andavo poco, ma il mio consiglio è di seguirli il più possibile, dato che ti preparano ad affrontare le difficoltà legate all’esperienza e ti fanno conoscere persone con cui confrontarsi e condividerle.

Ho vissuto negli Stati Uniti da agosto a luglio. La mia scuola era in Kansas, ad Abilene, una cittadina di 8mila abitanti. Non avevo una borsa di studio, quindi l’anno all’estero è stato interamente finanziato dalla mia famiglia. Ad ospitarmi era una coppia di americani che aveva già accolto cinque italiani e che inizialmente non era intenzionata a continuare ad ospitare. Per questo, rispetto ad altre esperienze che ho visto, è mancato l’entusiasmo nella condivisione delle reciproche culture. Tuttavia mi sono trovata bene, sono anche venuti in Italia a trovare me e gli altri ragazzi. Il fatto di immergersi totalmente nella cultura locale entrando a far parte di una famiglia è bellissimo ed è una cosa che ad esempio l’Erasmus non ti dà.

Per quanto riguarda la scuola, io provenivo da un liceo scientifico con indirizzo linguistico, quindi partivo già da una buona conoscenza dell’inglese. Non avevo una classe fissa, ma il gruppo cambiava a seconda delle lezioni: c’era quello di American history, quello di English Literature e così via. L’approccio lì era molto più dinamico e pratico. Quasi ogni lezione era scandita in una parte di teoria e una in cui questa veniva applicata attraverso degli esercizi pratici. Per esempio per le lezioni di storia ho dovuto fare diverse interviste a degli abitanti anziani di Abilene.

Tutti mi dicevano che avrei imparato poco, invece non è stato così: le cose che ho studiato me le ricordo bene. Certo i contenuti erano più facili rispetto a quelli che affrontavo in Italia e mancava la profondità di analisi che ero abituata a usare, in particolare durante le lezioni di filosofia, nel mio liceo italiano. In generale, però, è stato molto stimolante studiare con un metodo diverso e penso che su certi punti il metodo italiano e quello americano dovrebbero incontrarsi.

Io ero una ragazza estroversa, e paradossalmente, per una delle prime volte nella mia vita, mi sono trovata in difficoltà. Mi sentivo i fari addosso, e poi c’era l’ostacolo della lingua. Ma il fatto di dover gestire la mia “diversità” mi ha dato molto, e ho fatto anche delle belle amicizie. La vita sociale, trattandosi di una piccola cittadina, era guidata dalle attività scolastiche, che erano tantissime: musica, sport, teatro, arte. Io ad esempio suonavo il sassofono nella banda.

E poi ho imparato a giocare a softball. Gli allenamenti erano tosti, tre ore ogni giorno e pure la partita della domenica. Gli altri ci giocavano da dieci anni mentre io quando sono arrivata non conoscevo nemmeno le regole. Però è stato bello, perché gli americani ti motivano tanto e ti premiano per i piccoli progressi. Partecipare alle attività della scuola è la chiave per inserirsi. Mi sono anche scontrata con degli aspetti che non condividevo della cultura americana, ma che è stato interessante scoprire per poi riflettere sulla mia identità.

Durante l’anno in America ho mantenuto i contatti con la scuola italiana, scambiando mail con alcuni docenti, anche se non avevo l’obbligo di compilare report. Al rientro in Italia ho dovuto sostenere un esame di ammissione al quinto anno di liceo. Ho studiato tutta l’estate perché sapevo che un ragazzo della mia scuola che aveva trascorso il quarto anno all’estero era stato bocciato. Penso che questo sia stato dovuto al fatto che non avesse documentato adeguatamente la sua assenza. Oltre al percorso di accompagnamento prima e durante l’esperienza e alla ricerca della famiglia ospitante, ha senso appoggiarsi a delle associazioni anche per questo. Alla fine l’esame è stato abbastanza tosto, c’erano tutti i miei professori, ma è andato molto bene.

Riadattarsi all’Italia paradossalmente è stato più difficile che adattarsi all’America. Dopo aver vissuto tante cose, ritrovi tutto uguale a come l’hai lasciato. Torni con tante riflessioni culturali e non ti senti capita. Tutti ti chiedono se sei cambiata, ma non sai cosa rispondere perché ne prendi veramente consapevolezza solo con il tempo. L’esperienza all’estero mi ha portato a fare una selezione nei rapporti, tra le persone che mi aspettavano a braccia aperte e quelle che erano andate avanti per la loro strada e anche questo mi ha spiazzato.

Tuttavia il quarto anno di superiori all’estero mi ha aperto tante porte. Ho studiato Economia e Scienze Sociali alla Bocconi, dove penso di essere entrata grazie a questo. Gli ammessi, infatti, o si erano diplomati con 100 o avevano vissuto un’esperienza all’estero. Lo consiglio per questo e perché è un’esperienza che ti rafforza molto, ti fa conoscere di più te stesso e capire che non c’è un giusto e uno sbagliato, ma un’infinità di scelte. Quando si dice “ti apre la mente” è vero! Scopri che sullo stesso mondo le persone vivono in un modo totalmente diverso e questo ti insegna a giudicare di meno, ti dona un approccio diverso che va oltre la superficialità.

Dopo la laurea ho deciso di frequentare la specialistica in Danimarca. Un’esperienza molto diversa, meno sconvolgente. Ho scelto di tornare all’estero perché mi sono innamorata del corso di Business and Development Studies e perché lì potevo studiare gratuitamente: la Copenhagen Business School è gratuita per tutti gli studenti europei!

Oggi sto facendo uno stage curriculare di quattro mesi presso Ashoka Italia, mi occupo di fundraising e organizzazione di workshop per l’accelerazione dell’impatto degli imprenditori sociali. Poi finirò l’università e deciderò cosa fare. Quel che è certo è che voglio mantenere le mie radici in Italia. Negli Usa ho maturato una grande passione per il mio Paese. A differenza di altre persone che all’estero diventano scettiche verso l’Italia, io sono diventata più consapevole dei suoi lati positivi, che ci fanno stare bene. Sono andata fuori per arricchirmi, ma tornerò per contribuire a migliorare il mio Paese.

Testo raccolto da Rossella Nocca

 

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