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Lavorare nei Paesi in via di sviluppo, candidature aperte per il JPO Programme delle Nazioni Unite

«La UN fellowship offerta dal governo italiano mi ha dato la possibilità di entrare nel mondo lavorativo delle Nazioni Unite. Dopo un'esperienza  a Beirut, presso il Resident Coordinator Office delle Nazioni Unite, ho lavorato come esperta in trasformazione digitale per UNDP. il JPO mi ha dato la possibilità di continuare il lavoro nelle Nazioni Unite con una maggiore stabilità contrattuale».  A parlare è Roberta Maio, 32 anni e una laurea in Scienze internazionali e diplomatiche all’università di Bologna. Il suo JPO è ancora in corso a Nairobi, Kenya, dove lavora presso l’Agenzia delle Nazioni Unite per gli Insediamenti Umani (UN-Habitat): «Mi occupo di trasformazione digitale e tecnologie applicate alle città per migliorare la vita dei cittadini nel mondo e rappresento l’Agenzia in vari forum internazionali in cui si discute di temi quali diritti digitali, digital divide, accesso alle tecnologie, legislazione e altro». L'interesse di Roberta Maio verso il mondo della cooperazione internazionale era cominciato presto, già durante l’università, e si era concretizzato in varie esperienze all’estero: a Vilnius, Lituania, in Erasmus; poi e a Melbourne, Australia; e ancora un Erasmus Plus a Bruxelles e un’esperienza nel settore privato con PwC sempre in ambito europeo.Chi intende fare un'esperienza simile alla sua ha tempo fino al prossimo 15 dicembre per inviare la candidatura e provare a entrare nel programma JPO, Giovani Funzionari delle Organizzazioni Internazionali, che consente appunto a giovani italiani di effettuare un’esperienza formativa e professionale nelle organizzazioni internazionali per un periodo di due anni. Il programma è promosso dalla Direzione generale per la Cooperazione allo sviluppo del ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale e l’Agenzia italiana per la Cooperazione allo sviluppo e curato dal dipartimento degli Affari economici e sociali delle Nazioni Unite (UN/DESA); l’application va inoltrata esclusivamente online attraverso il sito www.undesa.it. Non è ancora certo il numero di posizioni aperte, ma probabilmente saranno circa 40 i posti disponibili, in analogia con gli anni precedenti, con retribuzione corrispondente al livello P2 dei funzionari delle Nazioni Unite, pari a 60mila dollari annui, circa 63mila euro, ai quali va aggiunto un adeguamento che varia da Paese a Paese a seconda del costo della vita locale. Il contratto comprende, oltre al salario, l'assicurazione medica, i contributi pensionistici e altre indennità.Chi presenterà domanda dovrà competere con un numero molto ampio di candidati, almeno stando ai dati delle edizioni precedenti: per quella 2021/2022 sono state 1.843 le domande complessive, di cui il 67% di donne e il 33% di uomini, per un’età media di 28 anni e mezzo. La componente femminile appare quindi storicamente in netto vantaggio numerico rispetto a quella maschile.Requisiti necessari sono: data di nascita non precedente al 1 gennaio 1992 (1 gennaio 1991 per i laureati in medicina, 1 gennaio 1989 per i laureati in medicina che abbiano conseguito un diploma di specializzazione in area sanitaria); nazionalità italiana; ottima conoscenza della lingua inglese e italiana; laurea specialistica/magistrale o magistrale a ciclo unico, laurea triennale accompagnata da un master universitario.Conoscenza di altre lingue ufficiali delle Nazioni Unite o lingue parlate nei Paesi in via di sviluppo, possesso di ulteriori titoli accademici o corsi di formazione rilevanti, un’esperienza professionale, della durata di almeno due anni e possesso di alcune capacità e competenze quali orientamento al cliente, lavoro di squadra, comunicazione, responsabilità, pianificazione e organizzazione del lavoro sono caratteristiche che vengono tenute in considerazione nel valutare le candidature.Per fornire informazioni utili all’invio della candidatura gli organizzatori hanno programmato webinar dedicati, per i quali è necessaria la registrazione sul sito www.undesa.it. Il prossimo è in programma il 9 dicembre alle ore 17. I candidati prescelti dovranno poi seguire un corso obbligatorio promosso dalle Nazioni Unite incentrato su tematiche inerenti il lavoro che andranno a svolgere nelle organizzazioni internazionali.Che consigli darebbe Roberta Maio a chi vuole tentare questa strada? «Sicuramente il Programme predilige professionisti con almeno 3-5 anni di esperienza professionale a livello internazionale. Negli ultimi anni l'Onu sta cercando di attirare sempre più professionisti provenienti dal settore privato, insieme ai percorsi più direttamente associati ad una carriera internazionale quali istituzioni europee, Ong, think tank etc. La conoscenza avanzata delle lingue straniere è un prerequisito fondamentale e più sono le lingue conosciute, a livello minimo B2, maggiori sono le chances di essere selezionato. Un vantaggio per me è sicuramente stato quello della conoscenza del sistema ONU, che avevo acquisito tramite l'esperienza quale consulente in PwC per le Nazioni Unite e grazie alle esperienze professionali dirette nell'ONU, associata ad una conoscenza tecnica e settoriale nei temi digitali maturata sia all'interno delle UN che nel settore privato che era richiesta per la mia posizione. Avere avuto già un'esperienza lavorativa in ambito Nazioni Unite è senz'altro un requisito preferenziale. Alcune buone opportunità da considerare sono la UN Fellowship, l'UNV e le consulenze».E dopo il programma JPO cosa può stagliarsi all'orizzonte? «Sicuramente ambisco a continuare il mio lavoro come international civil servant nell'ambito del digitale e dell'innovazione, che sono da sempre i temi di cui mi occupo e che più mi appassionano» risponde Roberta Maio: «Al momento sono felice di lavorare nei Paesi a basso reddito e in via di sviluppo perché sono quelli in cui l'impatto ambientale causato dal riscaldamento globale, il digital divide e la necessità di progresso sono maggiori. In futuro vorrei contribuire all'integrazione di gruppi specifici spesso marginalizzati quali i rifugiati o le persone internamente disperse. Tramite le tecnologie digitali questi gruppi possono essere aiutati ad accedere ai servizi di base come sanità, igiene e educazione, digitali e offline; possono integrarsi nella comunità e comunicare con le autorità».Chiara Del Priore  

Stagisti anziani, i dati: quasi nessuno viene assunto. Nel settore pubblico e in Calabria sono tantissimi

Cosa si sa del fenomeno degli stagisti anziani? Ben poco, a parte il fatto che il loro numero è triplicato nell'ultimo decennio. La Repubblica degli Stagisti ha deciso allora di chiedere al ministero del Lavoro dei dati più precisi su chi sono, dove sono e dove vanno a fare stage non i classici giovani alle prime armi, bensì le tante persone adulte coinvolte ogni anno in attività di tirocinio.I dati esclusivi che abbiamo ottenuto ci permettono di tracciare finalmente un quadro più preciso. Gli stagisti over 35 complessivamente sono stati in Italia, nel 2021, più o meno 46mila. Il numero resta ancora inferiore al periodo pre-pandemia, considerando che nel 2019 i tirocini per questa fascia di età “over 35” erano stati oltre 54mila, ma è comunque in netta ripresa rispetto ai 38.400 del 2020.In particolare nel 2021 circa 37.300 sono stati gli stagisti tra i 35 e i 54 anni, in lieve maggioranza donne (53,5% del totale). A questi vanno aggiunti poco più di 8.400 stagisti con 55 anni o più, qui invece con una netta prevalenza di uomini: 5.467 contro 2.941, con una proporzione 65-35%.Ora però bisogna rispondere a domande più specifiche. Quali sono le Regioni dove sono più frequenti, e quali sono i settori dove i tirocinanti anziani vengono inseriti? Questi tirocini servono davvero per reinserirsi proficuamente nel mondo del lavoro?Ci concentreremo qui esclusivamente sui tirocinanti con più di 55 anni perché è questa la categoria più a rischio: si tratta di persone relativamente vicine alla pensione e che però, rimaste senza lavoro, anziché essere ricollocate con un vero contratto di lavoro vengono costrette a “ripartire dalla casella di via” attraverso questi percorsi “di formazione”. Per giunta, non essendo il tirocinio appunto un contratto, esso non prevede l’aspetto dei contributi previdenziali: un dettaglio forse trascurabile quando lo stagista ha venti o trent’anni, ma molto importante se invece ne ha cinquanta o sessanta.Secondo i dati inediti ottenuti dalla Repubblica degli Stagisti, il 22% delle 8.400 persone con oltre 55 anni che hanno fatto una esperienza di tirocinio in tutta Italia nel corso del 2021 ha svolto questa esperienza in una sola Regione: la Calabria. 22% vuol dire che, per ogni cinque stagisti anziani italiani, uno è calabrese. Si tratta di un dato non sorprendente (qui sulla Repubblica degli Stagisti denunciamo il malcostume calabrese di parcheggiare i cinquantenni disoccupati in stage da molti anni) ma comunque allarmante. In Calabria, per la precisione, ben 1.855 persone in questa fascia di età sono state avviate in stage nel 2021; la Lombardia segue a notevole distanza (1.211), insieme a Emilia Romagna (1.123), Veneto (894) e Piemonte (543).La Calabria è costantemente in cima a questa classifica anche considerando gli anni precedenti:  perfino nel 2020, anno di scoppio della pandemia e di crollo generale delle attivazioni di stage, in Calabria ne erano stati avviati poco meno di 2mila su persone over 55 (per la precisione 1.925), quasi il doppio rispetto alle Regioni successive in lista, l’Emilia Romagna (979) e la Lombardia (947); a seguire, molto distanziati, Veneto (678) e Piemonte (414).Idem per il 2019: la Calabria già svettava con 1.408 stagisti con più di 55 anni; con la Lombardia al secondo posto di questa particolare classifica con 1.265 tirocinanti anziani, seguita da Veneto (1.218), Emilia Romagna (1.193) e Piemonte (646). Tutte le altre Regioni avevano e hanno invece numeri molto più bassi. Tale concentrazione di tirocinanti anziani in Calabria appare irragionevole specialmente se si considera la densità di popolazione: sulle poco meno di 59 milioni di persone residenti in Italia oggi, solo meno di 1 milione e 850mila vivono in Calabria. Vuol dire il 3% della popolazione italiana. Ma pur avendo solo il 3% della popolazione italiana, la Calabria ha il 22% degli stagisti anziani di tutta Italia! Una disproporzione che dimostra come lo strumento del tirocinio venga abusato, in questo territorio, per supplire alla mancanza di opportunità di lavoro, e come una sorta di improprio “ammortizzatore di ultima istanza” per quelle persone che hanno esaurito le modalità “legittime” di sussidio di disoccupazione.Dunque una prima conferma che arriva da questi dati è che c’è un enorme problema-Calabria quando si parla di tirocinanti anziani.Attenzione inoltre a un’altra cosa: i tirocinanti over 55 nel 2019 sono stati 8.813, nel 2020 7.244 e nel 2021 8.408. Ma i tirocini attivati in favore di persone over 55 sono stati un po’ di più: per la precisione 9.783 nel  2019, 8.049 nel 2020 e 9.595 nel 2021. Questo perché il primo numero si riferisce alla quantità di tirocinanti (cioè le singole persone avviate a questo tipo di percorsi), e il secondo numero alla quantità di tirocini (cioè dei percorsi attivati). Quindi c’è chi fa più di un tirocinio nello stesso anno. La differenza tra numero di tirocini e numero di tirocinanti è comunque sufficientemente irrilevante da permettere, qualora ci siano dati espressi in una sola modalità e altri dati espressi nell’altra, di considerarli comunque confrontabili.Un altro tema fondamentale è: dove vengono mandate a fare il tirocinio queste persone prossime alla pensione?Gli stagisti anziani vanno per una schiacciante maggioranza in uno specifico settore: la “Pubblica amministrazione, Istruzione e sanità”. Qui sono stati infatti inviati 4.422 dei 8.408 stagisti over 55 del 2021. E’ una quantità decisamente sproporzionata rispetto al dato generale: dei 329.500 tirocini extracurricolari attivati in tutto il 2021 in tutte le classi di età, solo meno di 38mila sono stati quelli nel settore Pubblica amministrazione (che, in effetti, solitamente preferisce accogliere tirocinanti curricolari). L’11,5% del totale. Ma quando si tratta di tirocinanti over 55, magicamente questa percentuale si trasforma in 53%.Lo stesso vale per gli anni precedenti: dei 7.244 cinquantacinque-sessantacinquenni avviati a percorsi di tirocinio nel 2020, addirittura il 56% (oltre 4mila) erano stati inseriti proprio nel settore della Pubblica amministrazione. Dato simile anche nel 2019: 8.813 stagisti anziani, 47% finiti in qualche ufficio della pubblica amministrazione.Dire che il tema è urgente da affrontare è dire poco: qui siamo di fronte a una vera e propria emergenza. Ha senso far fare stage a persone over 50? Se ha senso, qual è l’obiettivo primario? Dar loro nuove competenze? Quanto dovrebbe durare al massimo uno stage per una persona di quell’età, considerando che ogni mese di stage è un mese in cui quella persona non percepisce una vera retribuzione e contributi per la pensione? E che dunque ogni mese in più va ad allargare il “buco” nella sua storia previdenziale, con conseguenze nefaste sulla pensione futura? E sopratutto, se l’obiettivo non è imprigionare questa persona in un tirocinio senza fine bensì permetterle di trovare un nuovo lavoro… Quanto spesso questo accade per le persone over 55? E quanto ha senso mandarle negli enti pubblici, se poi quegli enti pubblici non possono assumerle neanche volendo, perché le assunzioni nella pubblica amministrazione avvengono tramite concorso?E qui arrivano gli ultimi dati inediti ottenuti dalla Repubblica degli Stagisti. Innanzitutto, quando si parla di tirocinanti anziani, bisogna sapere che circa uno su tre fa uno tirocinio “finalizzato all’inclusione sociale”. Nel 2021 il 45,3% dei 9.595 tirocini totali attivati su over 55 era di questo tipo; e andando a ritroso, nel 2020 la percentuale era 43% (8.049) e nel 2019 il 32,7%.Tecnicamente si chiamano “tirocini di orientamento, formazione e inserimento/reinserimento finalizzati all’inclusione sociale, all’autonomia delle persone e alla riabilitazione” e sono pensati per aiutare le persone “prese in carico dal servizio sociale e/o dai servizi sanitari competenti”. A differenza dei tirocini extracurricolari normali, che solitamente hanno una durata massima di 12 mesi (poi ovviamente dipende dalle diverse normative regionali) elevabili a 24 solo in caso di tirocinanti portatori di handicap o di categorie “protette”, i tirocini di inclusione sociale possono durare il doppio, 24 mesi, e perfino essere prorogati oltre questa soglia. E questo, si capisce, è una porta spalancata verso gli stage infiniti.Prova ne sia che pochissimi dei tirocini avviati “a favore” (tra molte virgolette…) di persone over 55 portano a un lavoro: secondo i dati del ministero, solo il 9,3% dei 9.595 tirocini attivati nel 2021 è sfociato nell’ “attivazione di un rapporto di lavoro con stesso datore entro sei mesi dalla fine del tirocinio”. Solo il 9 per cento. Meno di uno su dieci. E’ davvero venuto il momento di ripensare in maniera radicale lo strumento dello stage, e di scegliere se continuare a permettere che sia usato per far perdere tempo, e spesso illudere, migliaia e migliaia di persone di cinquant’anni e oltre. Quando era ministra della Gioventù, l'attuale premier Giorgia Meloni in una videointervista alla Repubblica degli Stagisti si era detta favorevole ad aumentare le «garanzie rispetto all’utilizzo degli stage» e introdurre «paletti molto più restrittivi sul tipo di lavoro e l'ambito in cui può essere utilizzato lo stage, ancorandolo al periodo di istruzione  e anche al dato anagrafico». Presidente Meloni, vogliamo riprendere il discorso?La foto di apertura dell'articolo è di cleber true23, tratta da Pixabay in modalità Creative Commons

Lavoro nei tribunali, stabilizzazione della discordia: gli ex militari chiedono pari diritti rispetto agli ex stagisti

Alla fine è arrivato: il 10 novembre è stato pubblicato dal ministero della Giustizia l’avviso di stabilizzazione per operatori giudiziari ovvero l’assunzione con contratto a tempo indeterminato di 1.200 unità totali di personale non dirigenziale. La notizia attesa dai circa 1.600 operatori attuali, è stata una sorta di regalo di Natale anticipato per chi da dieci anni, prima come tirocinante e poi con un contratto precario, ha aiutato tribunali e corti di appello nel loro funzionamento. I bandi per il tempo determinato erano stati pubblicati nel 2020 per un totale di circa 2mila soggetti ma non tutti i posti sono stati coperti dal concorso perché qualcuno nel frattempo ha vinto altre selezioni o intrapreso altre strade.Ma come spesso è capitato in questo decennio la notizia ha anche nuovamente spaccato il gruppo, lasciando fuori dalla stabilizzazione circa 200 ex appartenenti alle Forze armate e una 70ina dei tirocinanti articolo 73, ovvero i cosiddetti tirocinanti dei magistrati, a cui si aggiungono anche una manciata di tirocinanti ex articolo 37. Sigle che sembrano incomprensibili, dietro cui ci sono persone in carne e ossa, lavoro quotidiano e speranze che proveremo a spiegare in questo articolo.«Al termine dei due concorsi, in 1.558 sono stati assunti a tempo determinato. Di questi circa 1.200 sono ex tirocinanti» spiega alla Repubblica degli Stagisti Roberto Chierici, 34 anni, ex militare che dal marzo del 2021 lavora come operatore giudiziario nell’ufficio spese di giustizia a Chieti: «I militari dovevano essere 300, visto che c'era il 30 per cento dei posti riservato: eravamo inizialmente 250, poi qualcuno ha superato altre selezioni come quella per 616 posti come assistente giudiziario, qualcuno nell’ufficio per il processo, altri come data entry e i numeri oggi sono di circa duecento». Militari ed ex militari compongono quasi il novanta per cento del bacino degli esclusi che al momento «sono principalmente nelle sedi più distanti: in particolare Sicilia e Sardegna, poi Milano, Udine e qualcuno a Roma». Disposizione geografica comprensibile visto che trovandosi negli ultimi posti della graduatoria hanno quasi sempre dovuto scegliere le sedi non assegnate ad altri.Perché sono ora stati esclusi dalla trasformazione in tempo indeterminato del contratto? Per una questione di tempi di durata dei contratti pregressi ma sopratutto di “requisiti” che prima non erano stati richiesti, e ora invece sembrano essere vincolanti per poter passare al livello successivo. «L’ultimo decreto, approvato a maggio, prevede la stabilizzazione per gli operatori che erano in carica quel mese ma che avessero prestato servizio all’interno dell’amministrazione della giustizia per un periodo di almeno 36 mesi». Il contratto a tempo determinato per gli operatori, però, era di soli due anni, non tre: e allora è stato riconosciuto ai tirocinanti che sono stati alcuni per un decennio negli uffici giudiziari, il periodo mancante con i mesi di stage. «E giustamente!» sottolinea Chierici: «Non so neanche come abbiano fatto ad attendere per la stabilizzazione tutti questi anni. Noi ex militari, però, non avendo i mesi di tirocinio perché veniamo da un altro mondo, dal ministero della difesa, abbiamo come periodo lavorativo solo quello prestato da quando siamo entrati per concorso: marzo 2021. Questo significa che al termine del 2023, che è la data ultima individuata dal ministero per raggiungere i 36 mesi e poter stabilizzare i dipendenti, non raggiungeremo il requisito perché ci mancheranno ancora tre mesi».  Chierici è stato militare volontario, “vfp1” come si dice in gergo tecnico, in realtà soltanto per un anno, subito dopo il diploma. Poi ha fatto l’imprenditore gestendo negozi nel settore della telefonia e successivamente ha intrapreso una carriera all’interno della grande distribuzione organizzata: «Prima caposettore, poi vicedirettore e infine direttore: lavoravo anche 70-80 ore alla settimana. Poi ho avuto questa occasione di entrare nella pubblica amministrazione e per una questione di sicurezza, di poter lavorare in tranquillità, visto che ho tre bimbi piccoli di cui uno gravemente disabile, ho deciso di tentare il concorso. Come la maggior parte di quelli che hanno partecipato, l'ho fatto anch'io per la sicurezza che un contratto in un ministero può dare».Il bando del 2020, infatti, prevedeva che il trenta per cento dei posti fosse riservato «ai volontari in ferma breve e ferma prefissata delle Forze armate congedati senza demerito ovvero durante il periodo di rafferma, ai volontari in servizio permanente, nonché agli ufficiali di complemento in ferma biennale e agli ufficiali in ferma prefissata che hanno completato senza demerito la ferma contratta». I requisiti richiesti dal bando erano quelli di aver completato il periodo di perfezionamento presso l’ufficio per il processo, oppure il tirocinio formativo all’articolo 37, o quello all’articolo 73, o il tirocinio presso gli uffici giudiziari o un periodo di volontariato in ferma breve e prefissata delle Forze armate ed essere stati congedati senza demerito; o infine essere ufficiali di complemento con all'attivo la ferma biennale prefissata o contratta, sempre senza demerito.«Se non era previsto che noi avessimo i requisiti nel bando precedente, quando siamo entrati dopo colloquio solo con il titolo della riserva, perché dovremmo averli adesso?» chiede Roberto Chierici: «Perché all’epoca non erano necessari gli anni di tirocinio precedenti, ma la sola riserva, mentre ora avere la qualifica di militare sommato ai due anni di contratto non è sufficiente? Capisco si voglia dare il merito agli ex tirocinanti per i tanti anni dentro gli uffici giudiziari, ma non si può fare questa discriminazione. Fino a pochi giorni fa sembrava ci potessimo ugualmente registrare sulla piattaforma: poi all’ultimo abbiamo scoperto che non era così».Questo perché il provvedimento di assunzione a tempo indeterminato è dedicato agli operatori giudiziari che entro fine 2023 raggiungono il periodo dei 36 mesi di contratto contando anche l’eventuale periodo di tirocinio. E, infatti, il periodo di assunzioni secondo quanto previsto dal bando sarà suddiviso in due tranche: la prima partirà a gennaio 2023 ed è per quei soggetti a cui il tirocinio termina a fine anno e hanno, quindi, due anni interi di contratto a tempo determinato più i periori precedenti di tirocinio negli uffici giudiziari che gli valgono come ulteriore anno. Poi ci sarà la seconda fase di assunzioni dedicata agli ex stagisti a cui il contratto da operatore scade nel 2023 e quindi possono contare su due annualità di lavoro dipendente più, sempre, periodi di tirocinio passati. «La nostra categoria, di militari o ex, invece, non riuscirebbe a rientrare nemmeno in questa seconda tranche» ribadisce Chierici «perché i nostri contratti attuali scadono a marzo 2023 per un totale di due anni, a quel punto ci mancano comunque 12 mesi per poter richiedere l’assunzione a tempo indeterminato». Per questo motivo la richiesta è la proroga di un anno del contratto a tempo determinato fino al marzo 2024 e l’estensione di tre mesi a partire dal dicembre del prossimo anno della validità temporale in cui il ministero potrà procedere all’assunzione. Questo garantirebbe i duecento appartenenti alle forze armate. Stessa richiesta anche per i tirocinanti articolo 37. Per gli articolo 73, invece, basterebbe solo una proroga di sei mesi fino al termine del prossimo anno per riuscire a raggiungere le mensilità.Chierici ci tiene a sottolineare che la loro non è un battaglia contro gli altri colleghi che provengono da anni di stage: «La loro stabilizzazione è giustissima. Però siamo vincitori del medesimo concorso pubblico riservato, abbiamo fatto la stessa prova di selezione, svolto gli stessi lavori, abbiamo diritto alla stessa parità di trattamento, che ci consenta di raggiungere questi 36 mesi».C’è un altro aspetto da non sottovalutare: tribunali ed uffici giudiziari hanno bisogno di questi soggetti, che ad oggi sono loro dipendenti. Non rinnovarli, e non stabilizzarli, significherebbe dover procedere eventualmente a nuovi concorsi per coprire i posti rimasti rimasti vacanti. È evidente che non sarebbe conveniente. Gli operatori giudiziari lo sanno e hanno cominciato a cercare l’appoggio del mondo politico, che negli ultimi anni ha più volte dato attenzione alla situazione degli ex tirocinanti. L’obiettivo è appunto far inserire nel decreto milleproroghe, in approvazione verso fine anno, un articolo che consenta di prorogare i contratti ed estendere il periodo della stabilizzazione.La segretaria generale di Confintesa, Confederazione sindacale nata nel 2003 attiva soprattutto nel pubblico impiego e critica sul sistema di rappresentazione sindacale esistente in Italia, Claudia Ratti, ha inviato a metà novembre una nota ai ministri della giustizia e della difesa, Carlo Nordio e Guido Crosetto, sottolineando come il provvedimento di stabilizzazione abbia escluso di fatto gli ex militari che non possono contare sui tre anni di servizio e ricordando che l’articolo 1014 sulla riserva in favore dei militari congedati «prevede in particolare che la riserva vada applicata a tutti i bandi di concorso e provvedimenti che contemplano le assunzioni di personale non dirigenziale».Eugenio Marra della Cisl e Felicia Russo della Cgil, dal canto loro, hanno richiesto insieme un incontro al Capo di gabinetto del ministero della Giustizia per capire se i contratti saranno rinnovati o no. Nel frattempo è stata confermata una manifestazione unitaria di Cgil, Cisl e Uil "Stabilizzazione precari giustizia, Nessuno escluso!", mercoledì 23 novembre alle 14 a Roma in Piazza Cairoli, vicino al ministero della Giustizia. La richiesta dei sindacati è che «siano adottati i provvedimenti normativi necessari a garantire nelle more dell'espletamento della procedura assunzionale, la proroga dei contratti in scadenza nonché l'ampliamento della platea dei beneficiari della procedura di stabilizzazione al fine di ricomprendere tutti gli operatori giudiziari con rapporto a tempo determinato attualmente in servizio».«Il presidente della Commissione giustizia della Camera, Ciro Maschio, ha detto qualche giorno fa che cercheranno di affrontare il tema in legge di bilancio», racconta Chierici. Ed è stata accolta come raccomandazione al Governo l’Ordine del giorno presentato la settimana scorsa alla Camera da Devis Dori, membro della Commissione giustizia, per chiedere al Governo di «prevedere l’immediata proroga dei contratti in scadenza e l’ampliamento della platea dei beneficiari della procedura di stabilizzazione» e consentire così agli operatori giudiziari attualmente in servizio a tempo determinato la trasformazione in indeterminato.Bisognerà ora vedere se il nuovo Governo accoglierà queste richieste. Marianna Lepore

Tirocinanti a 60 anni in Calabria, le storie (lunghe anni) di due stagisti senior

Hanno ottenuto una proroga e ora navigheranno tranquilli – se così si può dire – fino al termine del 2023, quando arriverà a conclusione l’ennesima annualità del loro stage infinito negli enti pubblici calabresi. Sono i tirocinanti di inclusione sociale, persone per lo più over 50 per le quali in dieci anni la politica non è riuscita a trovare una soluzione che non fosse un tirocinio reiterato nel tempo.Oggi stanno cominciando altri dodici mesi di stage, con tempi diversi perché ognuno l’ha iniziato in mesi diversi: per tutti si tratta di una continuazione, senza alcuna interruzione nemmeno di un giorno. Ma questo anno in più non tranquillizza, visto che con tutta probabilità non porterà da nessuna parte.Francesco Creazzo ha 55 anni. Quando ha cominciato lo stage era il 2012, e ne aveva 45. È un tecnico di valutazione ambientale, di commercio, ha il titolo di perito industriale e varie patenti per le guide professionali. «In questi dieci anni ho cercato lavoro, perché ti dà dignità. Così a volte ho interrotto il tirocinio per dei contratti brevi, anche per avere un minimo di contributi. Ma in Calabria dopo sei-otto mesi ti licenziano perché non ci sono più le commesse... e quindi rientravo nelle politiche attive. Ormai, però, ho una certa età. Non riesco a trovare nulla».Il percorso professionale di Creazzo subisce una brusca battuta d'arresto una dozzina d'anni fa: «L’ultimo lavoro che ho avuto era buono, avevo 14 mensilità, i buoni pasto. Poi è arrivata la crisi che ha colpito l’azienda per cui lavoravo, un’impresa del nord con sedi anche al sud. E quando si deve licenziare, guarda caso cominciano sempre dalla Calabria». L’azienda in questione procede a ridurre il personale della sua sede calabrese per poi chiudere totalmente, lasciando a casa tutti i dipendenti. Dopo un periodo di disoccupazione ordinaria comincia per Francesco Creazzo la mobilità in deroga: «Le piccole aziende non riuscivano a entrare nei parametri della mobilità ordinaria; terminata la disoccupazione non ci sarebbe stato nulla. Lo Stato in quel periodo ha creato la mobilità in deroga» racconta: «In pratica davano delle deroghe alle Regioni, che creavano percorsi di politiche attive. La differenza è che la mobilità è una politica passiva, stai a casa e ti danno i soldi; con le politiche attive, invece, svolgi dei compiti per cui vieni pagato».Nel 2012, ben dieci anni fa, Creazzo comincia il suo percorso da tirocinante. In quegli anni si attivano le cosiddette politiche attive presso ministeri, enti locali ed uffici giudiziari con l’intento di avviare a percorsi di riqualificazione e formazione gli ex lavoratori in mobilità in deroga, secondo quanto disposto dalla legge 92 del 2012. Tirocini finanziati grazie a fondi europei. «All’inizio era un tirocinio di sei mesi. C’era un rimborso spese mensile di circa 300 euro, 250 a carico della Regione e 50 dell’ente, a cui si sommava la mobilità in deroga. Molto meno di ora». Il tutto per un impegno di quattro ore di lavoro al giorno. Qualche anno dopo, nel 2015, cambia tutto perché il ministro del lavoro del momento, Giuliano Poletti, elimina la mobilità in deroga «e rimaniamo senza nulla. Poi con il Jobs Act di Renzi si creano i fondi Pac, tramite finanziamenti europei, e nuovi percorsi di tirocinio in cui anche noi ex percettori di mobilità in deroga finiamo dentro».Il problema è che prevedere una politica attiva come un tirocinio in un ente pubblico – dove non c'è prospettiva di assunzione perché per legge si entra per concorso pubblico – e con una normativa  che all’epoca ai tirocini non assegnava nemmeno alcun valore di punteggio aggiuntivo in un eventuale selezione (come invece negli anni è stato ad esempio previsto per i tirocinanti della giustizia), non aiuta nella conquista dell’ambìto posto di lavoro. «Di solito i tirocini vengono svolti nel privato, e quando fai una politica attiva del genere al novanta per cento vieni assunto. Le aziende danno la possibilità di formare il lavoratore e poi assumerlo» riflette Francesco Creazzo: «Diversa è la situazione negli enti pubblici. Ma eravamo molti: 7mila persone», un numero troppo importante per trovare facilmente collocazione nel non vitalissimo tessuto imprenditoriale del Mezzogiorno: «E hanno pensato quindi di diluirci in questi uffici: in Calabria non c’era un contenitore altrettanto grande in grado di assorbire tutti questi disoccupati».Oggi l’età media è tra i cinquanta e i sessant'anni. All’epoca, però, i partecipanti erano 35enni, 38enni, speranzosi di poter ottenere, dopo un periodo di tirocinio, un vero lavoro. Qualcuno aveva già qualche anno in più, come Vincenzo Falleti, che oggi ha sessant'anni ed è tirocinante di inclusione sociale presso il Comune di Taurianova. La sua storia comincia più tardi, nel 2017: «Eravamo un gruppo di persone in mobilità in deroga», quindi fruitori di politiche passive, «per cui ti pagavano anche stando fermo sul lavoro», poi “trasformate” in politiche attive: «Io venivo dall’edilizia. Bisognava partecipare a questi bandi di tirocinanti della Regione Calabria: una formula per non pagare tasse, non dare ferie, malattia, contributi. All’inizio il mio tirocinio era di sei mesi con un rimborso spese di 800 euro, poi c’è stato un secondo bando questa volta per dodici mesi ma con un’indennità più bassa: 500 euro. A cui ne è seguito un altro». Cambiano i bandi e magari i tipi di tirocinio ma il monte ore è sempre lo stesso: quattro ore al giorno, circa venti alla settimana. Nel 2021, dopo varie proteste, l’indennità viene aumentata a 700 euro mensili, stessa cifra che ora questi stagisti senior prenderanno nell'ambito della proroga. «Ci paga l’Inps regionale, attraverso la sede locale, con un estratto conto bimensile e un tempo di circa venti giorni per fare il bonifico». In pratica, quindi, tempi lunghissimi per avere in tasca i soldi.Il 2019 è stato un po’ un anno di svolta, soprattutto per Creazzo che ormai già da sette anni faceva il tirocinante. Perché il suo è diventato un tirocinio di inclusione sociale. «Per l’ennesima volta, e sottolineo per certi aspetti fuori norma, veniamo quindi rinnovati e partiamo con questo percorso Tis. Il tirocinio però dovrebbe avere al massimo una proroga e dopo dovrebbe darti un lavoro. Mentre qui la politica cambia il nome alle cose ma la sostanza è la stessa. E ci hanno nuovamente messo in questo percorso. Cambiano i nomi, le formule, ma siamo sempre le stesse persone. Il tirocinio dovrebbe introdurti nel mercato del lavoro altrimenti che utilità ha?» si chiede Creazzo: «È come se uno andasse a scuola e non ricevesse mai il diploma».  Tre anni fa, si diceva, partono i Tis: «All’inizio dodici mesi, poi ci hanno bloccato perché c’era il Covid, dopo di che è arrivata la prima proroga sempre di un anno che stiamo concludendo adesso e in deroga, perché in realtà non avrebbero potuto farne altri visto che la legge non lo prevedeva, hanno fatto una nuova proroga di un anno come sostegno al reddito».Anche Francesco Creazzo sottolinea l’ulteriore problema dei tempi di pagamento: «Quando finisce il secondo mese mentre non fanno i conteggi delle firme, poi passano alla Regione, poi all’Inps, che paga, a volte passano quasi tre mesi. Tutto questo incide sulla nostra qualità di vita. Per questo abbiamo chiesto con un’istanza ai sindacati, al presidente della Regione e alla vicepresidente che è anche assessore al lavoro, di ristrutturare la forma del pagamento mensilmente». Non solo: i tirocinanti hanno anche chiesto un’integrazione dovuta al caro vita «perché non siamo riconosciuti come lavoratori, o disoccupati e non rientriamo quindi in nessun decreto aiuti».In tutti questi anni oltre 4mila tirocinanti hanno coperto i vuoti di organico negli enti pubblici calabresi in cui, specie ultimamente, c’è un forte spopolamento. «Tamponiamo tutte le figure: dalle maestranze fuori ai muratori, dai carpentieri agli impiegati». L’assurdità del progetto è che camuffa un lavoro vero con un tirocinio, senza prevedere contributi e prospettive di pensione, e spreca risorse perché non garantisce un reale inserimento lavorativo e spesso dà una “formazione” inutile perché negli anni gli stagisti vengono spostati di sedi e funzioni.Creazzo, per esempio, è stato prima a Villa San Giovanni, poi a Campo Calabro e ora è a Scilla da tre anni: al momento svolge un tirocinio nella mansione di “organizzatore di fiere, esposizione, eventi culturali presso il comune”, mentre l’anno scorso era tirocinante nella “mansione di operatore amministrativo presso il Comune di Scilla”. Nei primi anni, invece, quelli per i quali ha anche un’attestato di formazione, la sua mansione era quella di “collaboratore di atti amministrativi e determine” per l’ufficio tecnico di Villa San Giovanni. Nel suo ufficio a Scilla c'erano ben venti tirocinanti – ora sono in diciannove, perché uno è morto.Falleti, invece, ha svolto il tirocinio sempre al Comune di Scilla, ma nell’ufficio manutenzione. «Facciamo un po’ tutto: dalla manutenzione stradale agli edifici e parchi pubblici. Il primo anno ci siamo dedicati al verde, quindi potature degli alberi, rasature dei prati, pulizie di cunette, a livello di operai comunali». Figure per cui è evidente non sia adeguato un inquadramento in tirocinio. Ma evidentemente i comuni, non avendo soldi per coprire eventuali assunzioni o contratti, finiscono per utilizzare tirocinanti, sottopagati, in funzioni decisamente fuori dall’ambito di uno stage.Eppure con l’inizio dei tirocini di inclusione sociale qualche speranza c’era: «Mi aspettavo che mi desse un vero lavoro» continua Falleti, che però arrivato a sessant'anni anni è ormai realista:  «Oggi bisogna accettare quello che c’è. Il nostro in fin dei conti è un part time, quattro ore al giorno. Non c’è nessun obbligo, all'inizio eravamo in trenta e oggi siamo rimasti in ventitré. È una scelta libera accettare. Certo il tirocinio è un escamotage per avere manodopera gratis. Ho un figlio, anche lui è tirocinante presso un’azienda e prende 800 euro. Capisco che lo stage sarebbe un modo per apprendere e che la Regione lo ha utilizzato per andare avanti spendendo poco o niente. Una formula studiata ad arte per dirti “se vuoi è così altrimenti te ne vai via”. Capisco i miei colleghi che non si sentono bene con questo tipo di lavoro. Io ho avuto dei problemi di salute importanti, l’età avanza, e tra una cosa e l’altra mi va bene così».Sempre con l'auspicio, però, che prima o poi un contratto di lavoro vero salti fuori: «Ora facciamo questo nuovo anno e poi vediamo. I lavoratori socialmente utili, gli “Lsu”, hanno lavorato per vent'anni praticamente in nero per la Regione, e dopo una lunga battaglia sono riusciti ad entrare in un percorso di contrattualizzazione» ricorda Falleti: «La Regione ha tutto l’interesse di tenerci, perché nei comuni stanno facendo prepensionamenti continui e non c’è più nessuno. Dipende tutto dai fondi e per ora sembra che questa giunta regionale sia schierata dalla nostra parte».Lo pensa anche Creazzo, che pur sentendosi «umiliato» a fare, dopo dieci anni, ancora il tirocinante, almeno non si sente più «anche abbandonato: dopo vari incontri fatti durante l’ultima campagna elettorale», ritiene che «qualcosa forse è cambiato». Alla politica questi stagisti cinquanta-sessantenni chiedono «che si prenda carico seriamente di questa vicenda vergognosa. È come se fossimo dei lavoratori in nero, lo Stato li combatte e dovrebbe farlo anche al suo interno. Come ci hanno detto nell’ultima campagna elettorale, devono trasformare il tirocinio in un contratto serio di lavoro che poi nel tempo porti a un indeterminato e alla stabilizzazione, come è successo con altre forme di precariato che ci hanno preceduto».Torna tutto in mano alla politica, nuovamente. Che ora ha un anno per studiare cosa fare. Non ci sono campagne elettorali all’orizzonte. Bisogna solo trovare una soluzione, che rispetti la legge e che dia a chi per un decennio ha consentito l’apertura degli uffici pubblici e lo svolgimento anche delle più elementari mansioni la giusta contrattualizzazione. Evitando, però, che tutto questo crei un precedente, per nuovi futuri stage sfruttamento.Marianna Lepore

Ecco a cosa serve la Giornata internazionale degli stagisti

La prima volta faceva caldo. Era luglio. Correva l’anno 2014 e a Bruxelles un consorzio di una ventina di realtà internazionali a difesa dei diritti degli stagisti – tra cui anche la Repubblica degli Stagisti – aveva proclamato il primo European Interns' Day, La Giornata europea degli stagisti. Obiettivo: denunciare lo stato di precarietà degli stagisti e sollecitare soluzioni per garantire percorsi di qualità e contrastare la pratica degli stage gratuiti.L’anno dopo, nel 2015, la Giornata da europea è diventata “internazionale” e ha trovato la sua collocazione in autunno – il 10 novembre appunto, che da quel momento è diventato l’ International Interns' Day: la Giornata internazionale degli stagisti. Lo European Youth Forum era in prima linea per l’organizzazione dell’evento, sempre con il supporto di tante realtà – tra cui sempre la Repubblica degli Stagisti per l’Italia – nate in quel periodo, non solo in Europa ma anche altrove nel mondo, proprio per tutelare e difendere la categoria dei tirocinanti troppo spesso ignorata dalla politica, dai sindacati, dall'opinione pubblica. Da Génération Précaire e Stagiares Sans Frontières in Francia a Interns Australia e la International Young Professionals Foundation in Australia, da  Ganhem Vergonha in Portogallo alla Canadian Intern Association in Canada, dall’Intern Labor Rights di Washington DC negli USA a Uniplaces nel Regno Unito, fino ad arrivare a Brussels Interns NGO e Project 668 e Drop’pin@EURES in Belgio, e molte altre realtà ancora, alcune delle quali esistono e sono attive anche adesso.Oggi non fa caldo: è il 10 novembre, e ricorre la Giornata internazionale degli stagisti. Come tutte le “Giornate” dedicate a qualcosa, essa non è in realtà che un pretesto, un modo per mettere al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica un tema importante. In questo caso il tema della qualità dei percorsi di transizione dalla formazione al lavoro o, per dirla in maniera più diretta, del rispetto della dignità dei giovani che entrano nel mondo del lavoro.Gli stagisti vivono ovunque in una situazione di limbo: non sono più studenti (o quantomeno: non solo studenti), ma non sono nemmeno ancora lavoratori (o quantomeno: non ufficialmente, anche se molti stagisti poi svolgono le stesse identiche mansioni dei lavoratori).Lo stage può essere un formidabile momento di crescita personale e professionale, può fornire nuove competenze e offrire un trampolino di lancio verso il mondo del lavoro. Ma può anche essere il sinonimo di sfruttamento, frustrazione, perdita di tempo. Tutto sta a come è fatto: a quanta cura, dedizione e investimento ci mettono dentro tutte le parti in causa, a cominciare naturalmente dal soggetto ospitante, cioè la realtà lavorativa dove la persona va a fare lo stage. Perché il rischio di abusi sia ridotto al minimo bisogna che gli stage vengano attivati all’interno di un quadro normativo ben definito, al passo con i tempi, e bisogna che siano delineati con chiarezza diritti e doveri degli stagisti. Tra i diritti, quello più importante è quello di non dover fare lo stage gratis. La sostenibilità economica dei periodi di tirocinio è fondamentale per evitare che lo stage si trasformi in uno strumento classista a cui possono accedere solo persone provenienti da famiglie abbienti – persone che possono permettersi di stare tre mesi, sei mesi, a volte addirittura un anno in un posto di lavoro senza guadagnare un soldo. “Unpaid is Unfair” è infatti lo slogan principale che in questi anni ha accompagnato le manifestazioni a difesa dei diritti degli stagisti in giro per il mondo.Questa semplice rivendicazione – che gli stage prevedano sempre un compenso – purtroppo non è ancora una realtà consolidata. Basti pensare che organizzazioni internazionali blasonate, come per esempio l’Onu, ancora oggi hanno programmi di tirocinio che coinvolgono ogni anno centinaia, a volte migliaia di giovani, e eppure non prevedono nessuna indennità. Malgrado anni e anni di campagne pubbliche, manifestazioni, appelli, nulla scalfisce questi mastodonti, che pagano profumatamente i propri manager e dipendenti, ma si rifiutano di mettere a bilancio qualche fondo per pagare delle indennità mensili ai propri stagisti. Una situazione che dovrebbe far riflettere coloro che si sono avvicendati in questi anni ai vertici dell’Onu come rappresentanti e portavoce dei giovani, e che non sono riusciti a ottenere che briciole (qualche Agenzia dell’Onu, in questi anni, ha in effetti introdotto indennità a favore degli stagisti). Basti pensare che in molti casi gli stage gratuiti sono ancora legali. Ci sono persone che passano da uno stage all’altro senza che ci sia un limite, magari “imparando” sempre le stesse mansioni in aziende diverse. E lo stage non è riservato solo ai giovani: spesso viene usato – e abusato – anche coinvolgendo persone adulte, a  volte addirittura quasi anziane, come abbiamo raccontato più volte qui sulla Repubblica degli Stagisti denunciando l’aumento costante negli ultimi anni dei tirocini extracurricolari attivati su persone over 50.La Giornata internazionale degli stagisti serve anche a dire: non potete più dire che non lo sapevate. Non potete più fare finta di ignorare i problemi e le istanze degli stagisti, e le proposte che sono state formulate, discusse, presentate pubblicamente per risolvere questi problemi e accogliere queste istanze.Solo per parlare dell’Italia, qui sono state di recente raccolte oltre 60mila firme per una proposta di riforma degli stage, e una proposta di legge era in discussione in Parlamento appena prima che il governo Draghi cadesse e che si andasse a nuove elezioni. Ora abbiamo un nuovo governo e un nuovo Parlamento, ma i problemi sono sempre quelli vecchi: evitare che si abusi dello stage per poter avere manodopera o cervellodopera a basso costo, e dare diritti agli stagisti, primo tra tutti quello ad essere pagati.La Giornata internazionale degli Stagisti è un’occasione in più per ricordarlo.

Ti assumo senza bisogno di tirocinio: l'antidoto al “Cercasi stagista con esperienza”

“Cercasi stagista con esperienza”. Questa dicitura, riportata in fin troppi annunci, fa drizzare i capelli in testa agli esperti di lavoro – e a tutti coloro che hanno a cuore l'equità nel percorso di transizione dalla formazione all'occupazione. Perché è ovviamente un controsenso: uno stage si fa per consentire a una persona inesperta di accumulare competenze professionali. Se quelle competenze la persona le ha già, perché mai dovrebbe essere inquadrata in stage, anziché con un vero contratto di lavoro?Spoiler: ovviamente la risposta è “perché costa meno”. Perché lo stage non prevede retribuzione (solo una indennità mensile, e peraltro obbligatoria solo per i tirocini extracurricolari), non prevede contribuzione (cioè il versamento dei contributi previdenziali, per la pensione), né tutto il corollario di diritti annesso a un vero contratto di lavoro – le ferie retribuite, la malattia, la maternità, i permessi, il tfr. Dunque quanto è conveniente selezionare un giovane e proporgli uno stage anziché un contratto, ignorando magari la sua esperienza lavorativa pregressa! Certo, cercare stagisti con esperienza è un malcostume. E per fortuna c'è chi si tira fuori dal mucchio, scegliendo di fare direttamente veri contratti di lavoro: anche di fronte a candidati giovani, magari freschi di studi. Anche di fronte alla possibilità di metterli in stage senza infrangere nessuna legge. Aziende che dicono: no. Tu sei già pronto per essere inquadrato come dipendente, hai già le competenze per essere immediatamente autonomo e operativo. Non hai bisogno di un tutor, o di un periodo di formazione. Voglio investire su di te da subito: ti faccio un contratto di lavoro vero, con una vera retribuzione, contributi e tutto il resto.È il best-case scenario per migliaia di giovani. Ed è quello che Bip, EY e Spindox hanno offerto nel 2021 rispettivamente a 401, 880 e 117 giovani. Aggiudicandosi per questo un premio.Da molti anni infatti la Repubblica degli Stagisti assegna durante il suo evento annuale “Best Stage” uno dei suoi “AwaRdS” alle aziende del suo network che si distinguono per il “miglior tasso di assunzione diretta dei giovani”. Questo riconoscimento premia il miglior rapporto tra organico aziendale e nuove assunzioni di under 30 senza passare per la fase del tirocinio.«Assumere un giovane direttamente è un modo per dare una possibilità a quanti sono già pronti per fare il salto ed entrare in azienda con un contratto di apprendistato o a tempo indeterminato», osserva Mariateresa Maranò, Hr recruiter di Spindox, sottolineando l’importanza di coltivare i giovani per un’azienda che vuole crescere, assumendo il ruolo di ponte tra mondo scolastico e lavorativo: «Quando diciamo che vogliamo puntare sui giovani, che è nostro interesse prenderci cura di loro, dargli una prospettiva di crescita, lo diciamo sul serio e i dati lo dimostrano. Il nostro impegno ad assumere così tanti giovani direttamente è il patto che stringiamo con chi si avvicina a Spindox: se credete in noi, noi crederemo in voi. E i giovani rispondono sempre con entusiasmo e partecipazione a questa nostra offerta di impegno reciproco».«Da sempre assumiamo principalmente neolaureati che poi inseriamo in un percorso di crescita; gli ultimi anni sono stati di grande espansione del nostro business e il numero di persone che abbiamo portato a bordo è cresciuto notevolmente», le fa eco Francesca Giraudo, Ey Europe West Business Talent Leader: «Sicuramente il trend è rafforzativo di una strategia che è sempre stata nel nostro dna e non abbiamo intenzione di abbandonare».«Vogliamo offrire ai nostri giovani un contesto di crescita meritocratico, dinamico e in continua evoluzione, in cui il singolo è libero di esprimere le proprie idee e il proprio potenziale e dove il lavoro di squadra è fondamentale per il raggiungimento di un obiettivo comune» aggiunge Elena Pozzi, Employer branding senior expert di Bip: «In più garantiamo professionalità e responsabilità sempre maggiori attraverso un programma di formazione all’avanguardia».L’assunzione diretta può essere anche l’effetto di una fase di espansione: «In EY abbiamo un trend costante negli ultimi anni. È il frutto di una crescita del business, ma rientra anche in una strategia focalizzata sull’avere un impatto sociale positivo nei confronti della società» spiega Giraudo: «In un Paese che investe molto poco nei giovani, nei neolaureati, noi vediamo in questi soggetti il bacino principale di investimento». Ed è dimostrato anche dal fatto che negli ultimi anni EY ha cominciato ad assumere da un bacino trasversale, non solo laureati in economia o materie stem ma anche lauree più umanistiche su cui poi fare «attività di reskilling» e far diventare il soggetto più interessante e spendibile per l’azienda ma anche per il mercato.Dell’importanza della contaminazione delle competenze sono convinti anche in Bip: «Per questo motivo ogni anno realizziamo, in partnership con il Polimi, il programma Bip Bootcamp: un percorso intensivo di formazione dedicato a chi ha conseguito una laurea umanistica, giuridica o linguistica e che mira ad arricchire le proprie competenze con una preparazione accademica in ambito economic & finance, marketing, management e trasformazione digitale al fine di intraprendere una carriera nel management consulting», racconta Pozzi.Assumere i giovani può essere quindi una priorità per le aziende. Ma quali sono i criteri per decidere se offrire a un candidato in fase di colloquio uno stage o direttamente un contratto di lavoro? In larga parte dipende dall’esperienza del singolo.In EY, per esempio, «offriamo gli stage, molti anche curricolari, alle persone che stanno ancora studiando, o quando hanno finito gli studi ma devono ancora laurearsi» dice Giraudo: «Moltissimi sono assunti con contratti di apprendistato, propedeutico all’inserimento. Se, invece, c’è un percorso anche breve di esperienza pregressa, allora si va sull’indeterminato. Il percorso più classico è: stage se ha senso all’interno del percorso di studi e poi un apprendistato finalizzato all’inserimento».Anche in Bip «lo stage generalmente viene offerto a chi è appena uscito dall’università e ha ancora bisogno di tempo per acquisire quelle skills tecniche e relazionali che gli permetteranno di affermarsi in una realtà diversificata come la nostra» spiega Pozzi: «Un contratto di lavoro, invece viene offerto a chi ha già maturato un’esperienza professionale e può immediatamente mettere a disposizione le proprie competenze».In Spindox, oltre alla valutazione del potenziale della risorsa e del suo percorso di studi o professionale, «è importante intravedere in sede di colloquio quelle qualità che rendono un candidato non solo adatto al lavoro, ma anche ai nostri valori aziendali. Vogliamo portare a bordo  persone amanti delle sfide, pronte a sperimentare e mettersi in gioco. Come diciamo sempre anche in fase di recruiting, il nostro candidato ideale deve essere Hungry, Easy, Fearless, Explorer». Affamato, semplice, intrepido, e avere un animo da esploratore.  Una volta selezionati, nelle tre aziende che si sono aggiudicate quest'anno l'AwaRdS per l'assunzione diretta di giovani l’offerta è quasi sempre un contratto di apprendistato o a tempo indeterminato, quasi mai un “semplice” tempo determinato. «L’apprendistato rappresenta un investimento a lungo periodo anche psicologico, nella crescita, nella formazione della persona e il rapporto che noi vogliamo avere con chi entra e diventa nostro dipendente vuole essere di una prospettiva di lungo periodo» riflette Francesca Giraudo di EY: «Poi certo sappiamo che le nostre industries hanno un turn over elevato, ma ciò è dovuto al fatto che siamo tra le poche aziende che investono in maniera talmente strutturale sui giovani che una volta formati, questi diventano molto interessanti per il mercato. Quindi creiamo employability per le nostre persone. Se più aziende facessero lo stesso, tutto il mondo del lavoro ne gioverebbe!».In un mondo sempre più precario le forme contrattuali più stabili, quelle che tecnicamente si definiscono “subordinate”, hanno certamente un appeal in più perché danno una stabilità che, di questi tempi, è raro per i giovani italiani trovare al primo impiego. «Le proposte di assunzione a tempo indeterminato sono a tutti gli effetti quelle più apprezzate dai nostri candidati e, quando le condizioni lo permettono, siamo ben felici di formalizzarle», conferma Elena Pozzi di Bip: «Ovviamente, se coerente con l’opportunità progettuale, prendiamo in considerazione anche altre formule contrattuali. Investire a lungo termine sui giovani significa scommettere sulle loro potenzialità e sulla loro voglia di mettersi in gioco. Cerchiamo di offrire ai nostri professionisti un ambiente dinamico, che permetta di continuare a sperimentarsi e di avere sempre di più un ruolo attivo e di responsabilità sui progetti».È la prova che un lavoro appassionante e in continua evoluzione non debba sempre per forza essere sinonimo di contrattini brevi e di poca sicurezza. «I contratti a tempo determinato si addicono solo ad alcune tipologie di persone: quelle che hanno progetti di vita in evoluzione, che scelgono di non legarsi da subito a una realtà lavorativa»  osserva Maranò di Spindox: «A un ragazzo che deve mettere le basi della sua esistenza, proporre un contratto a tempo determinato vuol dire farlo vivere con una sorta di spada di Damocle sopra la testa. Significa dirgli: non ci fidiamo abbastanza di te. Questo stato di tensione non fa bene a nessuno: né alla risorsa, né alla azienda». Offrire un apprendistato o un contratto a tempo indeterminato rappresenta dunque «un investimento nel medio lungo termine, sia per l’azienda sia per il giovane che sceglie di restare con noi».C'è però da considerare anche il fatto che le aziende in forte crescita, e con un alto tasso di assunti, vedono inevitabilmente con il tempo andare via molti di questi giovani. «Il turnover fa parte del gioco: quando assumi e formi qualcuno metti in conto che potrebbe andarsene per cercare fortuna altrove» scherza Mariateresa Maranò: «Non è una sconfitta, ma un fatto congenito alla natura del nostro business. Del resto se scegli persone ambiziose e capaci non c’è da stupirsi che vogliano correre verso nuovi traguardi».E questo accade in modo particolare nel settore consulenziale che «è molto dinamico; è un contesto in continuo mutamento che richiede grandi capacità di adattamento da parte dei suoi player» secondo Elena Pozzi, che elenca i tanti progetti messi in campo da Bip per andare incontro ai dipendenti: «Progetti di work-life integration, con la possibilità di lavorare fino al 100 per cento in modalità smartworking; il Sustain new colleagues, un programma realizzato per accompagnare i nuovi assunti nel loro primo anno di esperienza; ma anche convenzioni, benefit e servizi per incrementare la capacità di spesa; una serie di iniziative a favore della genitorialità e di fitness, nutrition o campagne di prevenzione per aiutare le nostre persone a prendersi cura del proprio benessere fisico e mentale».L’alta percentuale di turnover dipende anche dal fatto «che le nostre persone sono molto ricercate dal mercato» sottolinea Francesca Giraudo di EY: «Indubbiamente il lavoro di consulente è ad alta intensità, ha picchi che richiedono molto sforzo e grande flessibilità da parte delle persone. È un lavoro che dà una metodologia, una competenza e un’esperienza accelerata. Nella fase iniziale della carriera le persone sono fortemente appetibili sul mercato». Se per giunta hanno la fortuna di venire «“svezzate” da un datore di lavoro che insegna per bene come si lavora, allora è ovvio che c’è un grandissimo interesse dal mondo esterno!».Il vantaggio aggiuntivo è che di solito con le condizioni contrattuali e retributive non si torna indietro: anzi, molti studi ormai dimostrano che cominciare con lavori “atipici”, “non garantiti”, rischia poi di avere effetti negativi sull'intera vita lavorativa delle persone, diminuendo le probabilità di «transizione in un impiego garantito», (come spiega anche nel saggio Sempregiovani & Maivecchi il demografo Giuseppe A. Micheli). Cominciare al contrario con un vero contratto di lavoro e con una busta paga “seria” vuol dire partire col piede giusto: quando e se si dovesse cambiare impiego, sarà molto improbabile sentirsi proporre contrattini precari – per non parlare di stage – oppure stipendi da fame.Marianna LeporeGrafica di apertura di ShariJo da Pixabay

Olimpiadi invernali 2026 in Italia, giovani lanciano idee per l’innovazione al Cefriel Open Lab

Dal 6 al 26 febbraio 2026 sono in programma in Italia, nella doppia location Milano-Cortina, le Olimpiadi invernali. Un evento strategico dal punto di vista turistico: basti considerare che le ultime tre edizione pre-pandemia, quelle  del 2010 in Canada, del 2014 in Russia e del 2018 in Corea del Sud, hanno registrato quasi sempre un importante incremento di visitatori: in Canada si è registrato quasi un 10% in più rispetto all'anno precedente; a Sochi (Russia) l'aumento di visitatori è stato addirittura del 28%. Un giro d'affari enorme di biglietti ma sopratutto un indotto che farà lavorare alberghi, ristoranti, mezzi di trasporto pubblici e privati, e che porterà un fiotto di visitatori aggiuntivi a musei e monumenti: nelle previsioni circa due milioni di persone. Inoltre non va dimenticata l'"eredità" che ogni edizione dei Giochi lascia in termini di strutture e progetti sportivi realizzati nei paesi ospitante. Con l'occasione, trenta giovani laureati di tutta Italia sono stati chiamati a raccolta da Cefriel, centro di innovazione digitale fondato dal Politecnico di Milano che da anni fa parte del network di aziende virtuose della Repubblica degli Stagisti. I giovani provenivano dal Politecnico di Milano e dagli atenei dell’Insubria, Bologna e Perugia; si sono sfidati nel contesto del Cefriel Open Lab in una gara di idee per realizzare un’applicazione dedicata a migliorare la vita di chi arriverà in Italia per i giochi olimpici invernali 2026.Dopo la presentazione iniziale e l’introduzione sugli obiettivi della sfida i partecipanti, selezionati su cinquanta candidature complessive in base al loro curriculum vitae e alla loro motivazione rispetto all’iniziativa, sono stati divisi in cinque gruppi, ciascuno con l’obiettivo di sviluppare un’idea progettuale utilizzando la metodologia design thinking. Una metodologia che punta all’elaborazione di una soluzione in grado di essere testata e approvata in tempi brevi, utilizzando un approccio di tipo creativo.A vincere è stata l’applicazione SuggestMI, elaborata da un gruppo di cinque studenti del Politecnico di Milano provenienti da Lombardia e Sicilia: Andrea Riboni, Michele La Greca, Emanuele Paci, Lorenzo Iovine e Francesco Leone. Attraverso l’app i cittadini milanesi potrebbero offrire un servizio ai turisti che verranno a seguire i giochi olimpici invernali nel 2026 con informazioni su eventi, strutture ricettive, percorsi turistici. A fronte di questo servizio, questi stessi cittadini accumulerebbero crediti spendibili in attività convenzionate o agevolazioni sui costi dei biglietti degli eventi delle Olimpiadi.I progetti sono stati valutati in base a una serie di criteri tra cui fattibilità, potenziale di business, user experience, rilevanza e coerenza della proposta con la sfida lanciata, qualità del prototipo. A esaminare le proposte una giuria composta da giornalisti, esperti e manager legati al mondo dell’innovazione digitale.Tutti i partecipanti hanno ricevuto un attestato di partecipazione e un gadget, mentre ai vincitori sono andati un buono Amazon del valore di 50 euro e alcuni volumi su tematiche inerenti l’iniziativa.«Cefriel open lab vuole essere un'opportunità per gli studenti e le studentesse di capire cosa significhi lavorare alla costruzione di soluzioni in un contesto multidisciplinare come quello di Cefriel» ha detto Roberta Letorio, responsabile Human Capital Cefriel «e per far toccare loro con mano l’aspetto migliore del lavoro che, alla fine, è passione, coinvolgimento, divertimento, apprendimento».«I momenti di confronto con i giovani sono sempre arricchenti» ha aggiunto Alfonso Fuggetta, amministratore delegato e direttore scientifico di Cefriel: «Abbiamo voluto questa iniziativa anche per contribuire alla costruzione di una Repubblica digitale, fondata sulla educazione al digitale come strumento indispensabile di crescita sostenibile e inclusiva». Ma dal punto di vista dei partecipanti, com'è stata questa esperienza? La Repubblica degli Stagisti lo ha chiesto a uno dei vincitori, Andrea Riboni, 21enne di Gorgonzola, vicino Milano, che da poco ha conseguito la laurea triennale in Ingegneria informatica al Politecnico di Milano. Al momento frequenta un percorso formativo promosso dall’Eit, l'Istituto Europeo di Innovazione e Tecnologia, che raggruppa alcune università partner considerate poli di eccellenza, tra cui anche il Politecnic: «Un percorso ibrido, che unisce alla formazione teorica la possibilità di portare avanti progetti sul campo». Dell’iniziativa di Cefriel è venuto a conoscenza grazie al passaparola: «Non avevo mai collaborato prima con gli altri membri del mio team, che è stato costituito in quel momento, come gli altri quattro. Ogni gruppo è stato seguito da un tutor, un manager di Cefriel: una figura fondamentale che ci ha dato importantissimi suggerimenti in tutte le fasi del nostro progetto».Tutto si è svolto nel corso di una giornata: «Il progetto è durato poco meno di quattro ore divise su due fasce, di mattina e poi di pomeriggio. Durante la prima fascia ci è stato comunicato il nostro target, nel nostro caso, un cittadino, e abbiamo lavorato per definire le caratteristiche più demografiche del nostro end-user e un esempio di giornata tipo nel contesto olimpionico: cosa fa, come, con che finalità – definendo attività ed eventi correlati. Durante la seconda fascia abbiamo cercato effettivamente un'idea che potesse essere rilevante per l'end user identificato e abbiamo cominciato ad effettuare dapprima un lavoro di ricerca e infine la stesura vera e propria delle slide, sulle quali abbiamo prodotto un piccolo mockup di quello che potrebbe essere il sito web o app».La fattibilità dell’idea e il lavoro del team nella sua presentazione sono stati gli elementi chiave che hanno portato alla vittoria del suo gruppo di lavoro: «La possibilità di realizzazione concreta dell’idea è stato sicuramente un punto di forza, in quanto richiedeva di aggregare elementi già esistenti e il tempo a disposizione non era tantissimo. Il gruppo ha poi fatto un ottimo lavoro nel presentare il progetto in modo efficace».Per Andrea iniziative come quella di Cefriel sono fondamentali per l’acquisizione di competenze spendibili sul mercato del lavoro e in generale per l’adozione di un approccio «molto diretto, che richiede questo tipo di framework». E rispetto a un eventuale futuro di SuggestMI? «l’applicazione è molto fattibile, ma non so se ci sarà qualcuno effettivamente interessato a svilupparla». Non si sa mai!Chiara Del Priore

Quindici 60enni in stage in Tribunale da un decennio: troppo pochi per fare rumore, ma il Lazio deve trovare una soluzione

I tirocinanti della giustizia in Lazio hanno cominciato la loro avventura nella primavera del 2010: all'epoca erano circa 500 persone, di età diverse, arruolate per aiutare a smaltire l’arretrato nel distretto della Corte di appello di Roma. Per anni sono state usate per coprire il blocco del turn over e i vuoti di organico nel decennio brunettiano; il loro apporto è stato apprezzato e riconosciuto da Presidenti di tribunali e Corti di appello a tal punto che anno dopo anno, con lettere, appelli e manifestazioni, si è trovato il modo di far rinnovare i loro stage. Che però erano e sono decisamente contro legge: per la durata, per la ripetizione dei compiti, ma anche per il target: disoccupati adulti, over 40, 50 e addirittura over 60.Per questo gruppo, che a livello nazionale è arrivato a contare nel periodo massimo quasi 3.500 soggetti,  – cifra in realtà mai confermata dal ministero, apparentemente incapace di sapere chi di fatto lavorava nei suoi uffici – il momento spartiacque è stato, a fine 2015, l’istituzione dell’ufficio per il processo e il bando per selezionare gli stagisti che avrebbero potuto farne parte. La selezione era per circa 1.500 posti, la metà della platea reale.Così, terminate le selezioni, i tirocinanti che non ce l'avevano fatta, e che quindi erano rimasti esclusi dal (lungo e laborioso) “collocamento” negli uffici per il processo, sono stati presi in carico dalle singole Regioni – tra cui anche il Lazio, governato già a quel tempo dalla giunta Zingaretti. «Il primo bando è del 2016, poi ogni anno abbiamo fatto incontri presso la Commissione lavoro della Regione Lazio e con l’assessore al lavoro per cercare di individuare dei percorsi che potessero portare all’inserimento a tempo determinato nel ministero della giustizia», spiega alla Repubblica degli Stagisti Fiorella Puglia, della Funzione Pubblica della Cgil: «Abbiamo fatto un’infinità di proposte alternative per non perdere l’investimento in formazione fatto su questi tirocinanti».Proposte che non sono mai state accolte, con la conseguenza che di anno in anno si è dovuto aspettare il rinnovo, confrontandosi con i tempi lenti della politica e la continua incertezza di rimanere senza nulla. In scadenza il 31 dicembre di quest’anno è anche l’attuale ennesimo tirocinio: «Il 3 ottobre abbiamo fatto una richiesta di audizione alla Regione Lazio per individuare una soluzione per le persone del residuo bacino, in vista della conclusione dell’ulteriore anno formativo», spiega Puglia. «Dopo siamo stati contattati e ci è stata assicurata la massima disponibilità a trovare una soluzione. Ci hanno garantito la prosecuzione anche in termini economici. Noi però vogliamo l’audizione e parleremo solo in quella sede». Ad oggi, l’audizione non è stata ancora fissata; il tempo stringe visto che mancano praticamente due mesi al termine del tirocinio.Sulla carta la soluzione non dovrebbe essere complicata visto che in questo momento nel Lazio le persone in questa situazione sono solo 15. «Il bacino iniziale dei tirocinanti della giustizia nel Lazio era di circa 500 persone. Con il tempo il numero si è assottigliato, qualcuno ha trovato altri lavori, qualcuno è stato accompagnato al pensionamento, purtroppo qualcuno è anche morto. Ci sono state tre occasioni per snellire il bacino in cui, se per i tirocinanti dell’ufficio per il processo era stato garantito un titolo preferenziale per l’accesso al concorso, per quelli regionali il titolo preferenziale era garantito solo a parità di punteggio. Il primo concorso era per circa 600 operatori della giustizia attraverso il centro per l’impiego: una piccolissima parte di soggetti è entrata lì, anche se il bando che era su base regionale nel Lazio era fatto male, perché non valorizzava gli stagisti, come invece per esempio si è fatto per il bando in Abruzzo. Poi ci sono stati i due concorsi per mille unità a tempo determinato di 24 mesi e per 1.090 a tempo determinato per 12 mesi. Fuori da tutto e quindi riassorbiti nei progetti regionali c’erano circa 86 tirocinanti. Oggi, però, sono rimasti in 15: che ci vuole a trovare una soluzione per così poche persone?» si chiede Puglia.L’ulteriore difficoltà è data dall’età dei tirocinanti ancora in balìa di una stabilizzazione: sono tutti ultra 60enni, il che non stupisce visto che sono “fedelissimi” del primo bando che era aperto ai cassintegrati o lavoratori in mobilità. Un progetto che dieci anni fa sembrava l’inizio di un reinserimento e invece per questi soggetti è stato al momento solo la ripetizione continua di un programma senza sbocchi. Stagisti particolari, non solo per il tempo che hanno passato in questo inquadramento, ma anche perché timbrano un cartellino come dei veri dipendenti, ed oggettivamente sono alle prese con carte e documenti anche di una certa delicatezza. Qualcuno di loro a breve andrà in pensione, gli altri dovranno ancora aspettare qualche anno.Le varie proposte avanzate negli anni dalla Cgil per impiegarli con veri contratti, mai accolte dalla Regione, erano state per esempio «di inserirli all’interno dei propri enti locali di residenza per fare lavori di carattere amministrativo. Oppure di fare degli sportelli di servizio della pubblica amministrazione in tutti i comuni, compreso quello di Roma, collegati agli uffici giudiziari per facilitare ai cittadini l’inizio delle procedure amministrative di carattere civile. Si poteva fare un accordo tra la Regione e i comuni o tra questi e gli uffici giudiziari per prendere in carico in una sorta di front office le domande, richieste e problematiche dei cittadini e poi smistarle nei diversi uffici dei tribunali o uffici giudiziari», spiega Puglia: «Una sorta di velocizzazione e razionalizzazione del lavoro che avrebbe comportato la riduzione dell’accumulo dell’arretrato negli uffici giudiziari». In pratica si sarebbero utilizzate le competenze sviluppate da questi tirocinanti per avvicinare gli enti locali ai cittadini. Queste proposte, però, non sono state prese in considerazione, «e allora ne abbiamo fatte delle altre, per non buttare i soldi investiti fino ad oggi nella loro formazione. Avevamo pensato anche ad utilizzare questi soggetti per tenere aperti i siti archeologici o di beni culturali in Regione, anche quelli meno conosciuti, attraverso dei pacchetti turistici che avrebbero valorizzato il territorio».Invece si è preferito mettere in bilancio ogni anno le risorse per rinnovarli, «approvare puntualmente in corner a fine anno i rinnovi. Con fatica siamo passati dai 400 euro al mese ai 500, per un numero comunque molto esiguo di ore di lavoro, circa 12 alla settimana» ammette la sindacalista, ma specificando che comunque queste indennità erano e sono “nude e crude” e non prevedono «contributi, malattia, nulla».Ora si è punto e a capo, con questi stage che termineranno tra due mesi e per cui si riapre la solita trafila di incontri, promesse e probabili rinnovi. «Come Cgil faremo di tutto per ottenere un risultato. Non possiamo garantire nulla, ma essendo anche a ridosso delle elezioni c’è la speranza di ottenere qualcosa di più». Le trattative devo ancora partire, dalla Regione non è ancora arrivata alcuna risposta, e si spera di intavolare una discussione quanto prima. I tempi delle proteste in piazza sono lontani. Quindici persone sono troppo poche per far rumore. Non resta quindi che affidarsi nuovamente alla contrattazione e al buon senso: senza un eventuale rinnovo o una contrattualizzazione quanti soldi sarebbero stati buttati a vuoto dai fondi regionali?  Marianna Lepore

Madri ancora penalizzate nel mercato del lavoro, è ora di decostruire il “mito della maternità”

Cosa significa oggi essere o non essere madri in Italia? Un nuovo libro intitolato Non è un paese per madri, edito da Laterza, si interroga «su quanto bisogno ci sia di impegnarsi insieme tutte, ma anche tutti, perché la maternità sia una scelta libera, non crei ostacoli alla carriera e smetta di essere un mito che crea aspettative e pressioni sociali enormi». L'ha scritto Alessandra Minello, una ricercatrice di demografia al Dipartimento di Scienze statistiche all’università di Padova che studia le differenze di genere in Italia e in Europa negli ambiti della scuola, della famiglia e del lavoro, concentrandosi soprattutto sul tema della maternità e le differenze di genere nelle carriere accademiche.Che cosa significhi decostruire il mito della maternità? «Ci si aspetta che la donna sia madre, quando in realtà una grande fetta della popolazione femminile è uscita già fuori dall’età fertile e non ha potuto o voluto avere figli» spiega Minello alla Repubblica degli Stagisti: «E abbiamo bisogno di accogliere anche le istanze di chi figli non ne desidera. Va poi ridefinito il modo in cui si pensa alla cura, perchè se è sulle spalle delle madri che hanno questa grossa responsabilità di essere factotum nella famiglia ed essere schiacciate dalla fatica che tutta questa perfezione richiede, diventa difficile gestire la genitorialità serenamente».Anche perché i servizi che dovrebbero aiutare le famiglie e le madri in realtà, per quanto migliorati negli anni, sono ancora e sempre troppo pochi, così entrano in gioco le madri al quadrato e cioè «le nonne: nel nostro Paese si tende a vivere vicino ai genitori, a chiedere aiuto alle nonne che lasciano il lavoro prima anche per adempiere a questo ruolo. E si crea un circolo vizioso per cui uno Stato che ha questo welfare di tipo familiare non offre i servizi che poi servono per una genitorialità più semplice, come gli asili nido o una rimodulazione degli orari scolastici. Lavoro e scuola non si parlano in termini di orari. C’è una fase cruciale nella vita dei ragazzi, quella delle scuole secondarie di primo grado, con orari ridotti e famiglie molto in difficoltà: anche questo settore della scuola è pensato per donne che non lavorano».Le donne, invece, spesso lavorano. Non tanto quanto sarebbe auspicabile, dato che il tasso di occupazione femminile italiano è di una ventina di punti percentuali più basso della media europea, ma – lavorano. E negli ultimi anni molti ambiti una volta prettamente maschili, come quello medico o universitario, si sono aperti alla presenza femminile. Senza però ridefinire le regole nei confronti delle madri che troppo spesso, tornate da una maternità, vengono messe da parte. «Le regole andrebbero riscritte tenendo conto della disparità dei tempi tra maternità e paternità, partendo dai congedi genitoriali che devono assolutamente essere paritari e usufruiti in tempi non così diversi. Sposo l’idea che la maternità sia usufruibile nei primi 10 mesi di vita, ma anche la paternità secondo la mia proposta deve essere limitata nei primi 18».Nel libro si analizza anche quello che è successo alle donne durante la pandemia degli ultimi due anni, con un’esasperazione della suddivisione delle attività di cura tra le donne e gli uomini. Un’occasione persa visto che proprio in questo caso si poteva ribilanciare i compiti, o almeno così sembrava all’inizio. «Non abbiamo imparato nulla da questa esperienza e purtroppo c’è stato troppo ottimismo. A inizio pandemia l’Unione europea pubblicò un report in cui si diceva che probabilmente stando tutti insieme a casa il lavoro femminile, di solito sommerso, sarebbe emerso e ci sarebbe stato un aumento di consapevolezza da parte degli uomini. Non è successo: i dati dicono anzi che non c’è stata parità nel tempo dedicato alla cura, neanche nelle famiglie in cui lei ha continuato a lavorare fuori casa durante la pandemia».Su questo bilanciamento dei compiti, però, Minella è convinta che perfino un congedo di paternità pari a quello di maternità non basterebbe: «La qualità della cura all’interno delle case la si insegna educando cosa significa non avere stereotipi di genere legati alla cura, alla presenza con i figli che vuol dire prendersi cura di tutte le pratiche materiali ma anche del benessere emotivo. È un percorso lungo e i dati dimostrano che i bambini imparano dall’esempio: figli che hanno avuto un padre più partecipativo diventano maschi più partecipativi e questo va insegnato a mio modo di vedere in tutti i livelli di istruzione».Per quanto si parli molto oggi di partecipazione femminile nel mondo del lavoro, poi «magicamente non si discute del tempo del lavoro di cura che è una questione che invece va toccata». Avrebbe quindi senso introdurre corsi di educazione familiare già nelle scuole elementari? «Se si presentano come corsi di parità di genere si trova l’ostracismo di chi di questi temi non vuol sentir parlare. I corsi sulla condivisione dei ruoli o di educazione familiare possono essere accolti già meglio. Ma bisognerebbe puntare anche sulla formazione agli insegnanti nel non veicolare certi tipi di stereotipi nel momento in cui si rapportano con gli studenti e li indirizzano verso le carriere scolastiche o universitarie». Temi, però, che troppo spesso non sono veicolati come importanti e finiscono irrimediabilmente per scadere di livello nel dibattito quotidiano, con la conseguenza di non essere affrontati e di trovare molte barriere nella loro discussione.C'è poi il tema del fertility gap, il divario tra i figli desiderati e i figli avuti: «Abbiamo dati che mostrano come mediamente si desiderano due figli ma in Italia, per esempio, ne nascono meno di 1,3». Cosa dovrebbe fare, quindi, il nuovo governo per aiutare le donne, qualora lo vogliano, a realizzare il desiderio di maternità? Prima di tutto, lavorare sulla riduzione del precariato: la stabilità «è un aspetto molto legato alla possibilità di realizzare l’eventuale bisogno di avere dei figli. I dati lo dicono chiaramente: le famiglie in cui c’è un doppio reddito di tipo stabile o un reddito forte sono quelle in cui la fecondità è più alta o più vicina a quella desiderata». Bisogna poi investire sugli asili nido: «Su questo fronte si è già iniziato a lavorare, e il Pnrr ha cominciato a stanziare i fondi. Sarebbe importante lavorare anche sui congedi, ma purtroppo nei programmi dei partiti che andranno al governo si parla di lavorare su quello di maternità ma non su quello di paternità». Mentre proprio lì sta uno dei nodi: cinque mesi contro una settimana, al momento. L'iniquità parte da lì, e cresce poi in ogni direzione.I dati raccontano bene il problema: la partecipazione femminile al mercato del lavoro formale è ferma al cinquanta per cento in Italia, solo la Grecia fa peggio. A incidere su questi numeri è anche la scelta dei percorsi di studio dettati da forti stereotipi. Le bambine sono brave in matematica quanto e più dei loro compagni maschi, eppure crescendo finiscono per non scegliere queste discipline all’università spostandosi più verso materie umanistiche, con meno chance lavorative e stipendi più bassi.Come se non bastasse, le donne che lavorano hanno un doppio lavoro, il proprio e quello di cura: nel suo libro Minello sottolinea come l’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) inserisca il lavoro di cura tra le attività economiche, ma in Italia pesi quasi esclusivamente sulle spalle delle donne. Così se il 63% delle donne senza figli tra i 25 e i 49 anni lavora, secondo dati Eurostat, il dato scende di quattro punti percentuali quando si ha un figlio e di ben venti punti, al 43%, se i figli sono due. Numeri che mostrano come la child penalty, la penalizzazione sul reddito delle donne che avviene quando entrano in maternità, incida fortemente e lo faccia solo verso le madri, mai nei confronti degli uomini.Attenzione, però, dovrebbero essere fatte politiche che appagano il desiderio di maternità qualora ci fosse, ma non che pensino di “incentivarlo”: quello o c’è o non c’è. C’è una questione profonda nel nostro Paese che riguarda la non accettazione del desiderio di non avere figli. «Dovremmo mettere nella condizione di diventare più accettante possibile anche rispetto alla posizione di chi non prevede nel suo piano di vita di avere figli. Questo aiuterebbe». Lo Stato poi dovrebbe agire per ridurre il lunghissimo tempo che passa tra l’ingresso nel mondo del lavoro e il momento in cui si arriva a una stabilità. Questo spazio temporalmente sempre più ampio «crea un’instabilità non solo lavorativa ma anche emotiva: è difficile crearsi una prospettiva di stabilità quando una grossa parte di sé, anche identitaria come quella legata al lavoro, non è definita in maniera serena».Decostruire il mito della maternità sarà sicuramente più difficile in un momento storico in cui leader del governo in fieri è una donna che per definirsi dice “sono una madre”. «I dati internazionali mostrano come lo stereotipo per cui la cura è ancora femminile è molto alto, come quello per cui siano gli uomini a doversi occupare del sostentamento economico della famiglia» osserva Alessandra Minello: «Non è una missione semplice, non è a breve termine, ma è anche vero che poi a volte la realtà supera la politica. Ci sono sempre più donne nel mercato del lavoro, sempre più a fare i conti con questo doppio ruolo e quindi sempre più richiesta di un certo tipo di cambiamento per la gestione banalmente pratica della genitorialità. E nonostante le resistenze, come anche il peso della religione che non apre a ruoli paritari, il tema è più dibattuto: è cambiato il modo di parlarne e questo mi sembra un buon segno».Marianna Lepore

Finalmente l'assunzione per chi da oltre 10 anni fa stage nei tribunali: in Lazio il cerchio si sta per chiudere

Avevano cominciato il tirocinio nel lontano 2010, una soluzione trovata all’epoca per smaltire l’arretrato negli uffici giudiziari al collasso: cassintegrati, lavoratori in mobilità, trentenni, quarantenni, addirittura cinquantenni. Adesso, 12 anni dopo, riescono a guardare al futuro con un po’ di sicurezza: sono gli ex tirocinanti della giustizia che a partire dal 2021 hanno firmato un contratto a tempo determinato – quindi finalmente con le dovute tutele per malattia, ferie, e sopratutto con il versamento dei contributi. Dal prossimo anno dovrebbero avere l’agognato tempo indeterminato. Finalmente lavoratori a tutti gli effetti, non più falsi tirocinanti.Per Daniele De Angelis – oggi alle soglie dei cinquant'anni e tra i primi a cominciare questo percorso – e per i suoi colleghi il futuro sembra più roseo: «Tanto è cambiato, dietro l’angolo mi sembra di vedere finalmente il contratto a tempo indeterminato, dopo dieci anni di tirocinio formativo aggirando il blocco del turn over e le leggi in materia di stage. Mi auguro che il nostro caso sia di insegnamento per l’amministrazione centrale che possa cambiare approccio nei metodi di inserimento nel settore pubblico». Per lui l’agognata firma l’anno venturo sarebbe «la conclusione di un pezzo di vita. Quando ho cominciato nel marzo 2010 mia figlia faceva la prima elementare, quest’anno è al quinto liceo scientifico. Ci siamo formati insieme: l’anno prossimo lei farà 18 anni e io 50, lei si diplomerà e io, forse, avrò il mio contratto a tempo indeterminato».Il primo bacino di stagisti è stato creato nel 2010 nel Lazio: circa 420 persone distribuite nel distretto della Corte di appello di Roma. «Il primo protocollo d’intesa viene firmato tra Nicola Zingaretti, presidente della Provincia di Roma, e Paolo Di Fiore, presidente del tribunale di Roma e Lazio», ricostruisce De Angelis. Passa qualche mese e da maggio si arriva a novembre quando con protocolli firmati dalla Corte di appello si estendono i tirocini a tutto il Lazio e si amplia la platea di soggetti. «A quel punto il ministero della Giustizia vede che l’esperienza è positiva: sostanzialmente siamo serviti a coprire il blocco del turn over e i vuoti di organico nel decennio brunettiano».I tirocini si replicano in tutta Italia, con protocolli locali firmati dai presidenti di tribunali e Corti di appello «e nel giro di un anno diventiamo circa 3mila persone in tutta Italia. Ai soggetti iniziali se ne aggiungono altri perché qualche regione aggiunge le work experience con neo laureati in materie giuridiche in Campania, Umbria, Abruzzo e Toscana». Scelte che poi si pagheranno nel tempo, con un bacino sempre più ampio e differenziato per cui diventerà difficile trovare una soluzione omogenea per tutti.De Angelis conosce bene la vertenza: ha cominciato il suo stage extralungo a 37 anni, prima nella sezione fallimentare del Tribunale civile di Roma e poi nella Cancelleria civile della Corte di appello. È stato tra i fondatori dell’Unione precari giustizia, un collettivo informale creato per dialogare con il mondo politico; è stato il primo a trovare il numero totale dei tirocinanti della giustizia, di cui nemmeno il ministero era a conoscenza, e con il tempo è diventato anche  referente nazionale della Fp Cgil per questi stagisti. Lo spartiacque è arrivato nel 2014 con l’istituzione dell’ufficio per il processo, introdotto dall’articolo 50 del decreto legge 90/2014: una struttura di supporto al lavoro giudiziario con l'obiettivo di riorganizzare il lavoro e le incombenze dei magistrati. I tirocinanti vengono ufficialmente riconosciuti e legittimati anche dal legislatore nelle loro attività di affiancamento del personale regolarmente assunto negli uffici giudiziari. «La selezione era per 1.500 persone, la metà del bacino all’epoca in corso, anche se in realtà ne presero poco più di 1.100», spaccando il gruppo e lasciando alle Regioni con i numeri più alti dei tirocinanti la libertà di continuare – come poi avvenne – con i protocolli locali che hanno consentito per anni la prosecuzione di stage per i soggetti rimasti fuori dall’ufficio per il processo in particolare in Lazio, Campania e Calabria.«È inutile negarlo: i tribunali avevano bisogno di questo personale e, infatti, anche il nostro tirocinio nell’ufficio per il processo dai 12 mesi iniziali durò all’incirca tre anni, con “perfezionamento” e “completamento” dello stage», escamotage lessicali adottati dalla politica per proseguire contro legge i tirocini e assicurarsi, a seconda delle varie tornate elettorali, un consenso importante. Finito anche il lungo stage dell’ufficio per il processo, iniziano due anni difficili: 2019 e 2020 sono anni di blocco, questi tirocinanti sono fuori, continuano a manifestare, alzare la voce, ma per loro non arriva nulla.Nel 2019 il ministero della Giustizia indice una procedura di assunzione attraverso i centri per l’impiego di 616 operatori giudiziari, conscio della necessità di avere qualcuno che svolga questo ruolo. Anche lì tante polemiche, perché i posti non rispettano i numeri in realtà già esistenti all’interno delle Regioni e perché ai tirocinanti della giustizia viene assegnato un punteggio aggiuntivo soltanto una volta formate le graduatorie, quindi dopo ben tre prove selettive. Qualcuno comunque ce la fa, e nel marzo 2021 firma finalmente il contratto a tempo indeterminato.Tutti gli altri restano ancora ad aspettare – fino a quando nel 2020 il decreto Rilancio non introduce un concorso a tempo determinato mediante colloquio e titoli dedicato ai soli partecipanti ad attività di formazione e tirocinio presso l’amministrazione giudiziaria. Il bando è per l’assunzione per 24 mesi di mille soggetti che andranno alle dipendenze del ministero della Giustizia, che vengono assunti da marzo 2021. A questi se ne aggiungono altri mille per i quali c'è un contratto a tempo determinato ma solo di un anno.Non tutti i tirocinanti della giustizia, però, riescono a rientrare nella selezione. In aggiunta nel bando – come previsto dalla legge – è presente una riserva del trenta per cento per i militari o riservisti che quindi entrano a far parte del bacino avendo, però, requisiti diversi che incideranno sugli ulteriori passaggi. Restano fuori in tutta Italia un centinaio di persone per le quali, come sempre nell’ultimo decennio, è la politica che deve trovare una soluzione – e si spera non solo temporanea.In Lazio, con la prima selezione per 24 mesi, firmano il contratto a tempo determinato in 181, a cui si aggiungono tra giugno dello scorso anno e gennaio di questo, con tempistiche diverse di assunzione, altri 172 soggetti, per un totale assunti di circa 350 persone. In pratica quasi tutto il bacino iniziale, considerando che nel tempo qualcuno è andato in pensione, ha trovato un altro lavoro o – purtroppo ed è capitato anche questo: dodici anni sono lunghi, e alcuni dei tirocinanti iniziali erano già avanti con l'età – è deceduto.De Angelis firma il suo contratto a tempo determinato nel marzo 2021 e la sua vita cambia, non solo per la tranquillità di avere finalmente davanti due anni di lavoro con uno stipendio degno di tal nome, i contributi, le ferie, l’eventuale malattia, ma anche per la prospettiva di arrivare all’ambito tempo indeterminato. Questo perché nel decreto Pnrr 2 c'è un emendamento per la stabilizzazione degli operatori giudiziari ora a tempo determinato (in pratica gli ex tirocinanti della giustizia), utilizzando i fondi europei. Il testo prevede che il ministero della Giustizia possa fino al dicembre 2023 assumere a tempo indeterminato fino a 1.200 unità per ridurre il ricorso ai contratti a termine e valorizzare le professionalità acquisite. In pratica si mette nero su bianco quello che avevano chiesto per un decennio i tirocinanti prima e i sindacati poi. E per fare in modo che quante più persone riescano ad avere i requisiti previsti dall’emendamento, ovvero essere in carica al 30 maggio di quest’anno e avere almeno tre anni di servizio anche non continuativi negli ultimi dieci anni, contestualmente vengono prorogati tutti i contratti in corso nel 2022 fino al 31 dicembre. In pratica chi aveva firmato per 12 mesi nel marzo 2021 ha avuto la proroga del contratto fino alla fine di quest’anno, indipendentemente da cosa accadrà il prossimo.«Lo zoccolo duro dei tirocinanti storici con questo emendamento verrebbe stabilizzato», spiega De Angelis: «Resta fuori quella parte di bacino che ha meno anni alle spalle di stage, come i tirocinanti dei magistrati che hanno cominciato più tardi» e che è probabile non resteranno comunque a piedi visto che «il ministero ha tutto l’interesse a mantenerli» e potrebbe rinnovare i contratti in essere per poi procedere all’assunzione a tempo indeterminato. “Meno anni”, per capirci, può voler dire anche cinque o sei anni già con inquadramento da stagisti. Così come saranno esclusi i riservisti militari che non possono contare sugli anni di tirocinio alle spalle. Per questi soggetti continua la battaglia per riuscire a garantire a tutti, dopo un decennio di “stage” tra mille virgolette, un posto di lavoro.   Marianna Lepore