Categoria: Approfondimenti

Arrivederci (o addio) Italia, quando si trasferisce il dipendente all’estero

Lasciare casa per andare a lavorare all’estero? Il lavoratore italiano lo fa sempre più spesso. E sempre più spesso tende a non ritornare nel Belpaese.Il fenomeno è definito «mobilità internazionale» e indica la tendenza di una multinazionale a proporre ai propri dipendenti passaggi a una propria sede estera, per periodi di tempo variabili, o ad accettare proposte di partenza da parte del lavoratore.La legislazione italiana distingue tra trasferta, distacco o trasferimento. Nei primi due casi si può parlare di un cambiamento di sede temporaneo, che per il distacco può protrarsi per mesi o anni (decreto legislativo 276/2003 e decreto legislativo 72/2000). Nel caso del trasferimento invece la modifica del luogo di lavoro è definitiva. Le retribuzioni legate al lavoro dipendente prestato all’estero sono disciplinate dall’art.51 del Tuir (Testo unico delle imposte sui redditi), che prevede che i redditi da lavoro svolto all’estero per più di 183 giorni siano disciplinati in base a retribuzioni convenzionali suddivise per settori merceologici, stabilite da un decreto del ministero del Lavoro. A livello internazionale un riferimento importante è il Modello di convenzione OCSE, che sancisce, tra le varie disposizioni, l’imponibilità dei redditi da lavoro dipendente nello stato in cui è esercitata questa attività e secondo la legislazione dello stesso stato, a patto che il soggiorno all’estero nell’anno fiscale considerato superi i 183 giorni. Chi si trova nel corso della propria vita a lavorare in paesi diversi, può beneficiare dei cosiddetti accordi bilaterali, che sommano tutti i periodi di assicurazione e di contribuzione maturati nei differenti paesi, per riconoscere al lavoratore un «trattamento pensionistico adeguato al lavoro prestato in Nazioni differenti», come stabilito dall'Inps.Com’è la situazione oggi e quale il profilo tipo del lavoratore espatriato? Next ha provato a fotografare il fenomeno insieme a Mercer, società di consulenza sul capitale umano, che monitora costantemente i processi legati alla mobilità del personale di aziende italiane e straniere. «Non è facile quantificare il numero annuale di lavoratori che si trasferiscono all’estero per conto della propria azienda, ma si può andare dai 30 di imprese medie fino alle circa mille unità l’anno di importanti multinazionali. Il trend indica comunque una crescita rispetto agli anni precedenti», spiega Elena Oriani, global mobility leader di Mercer. Gli expat sono nella maggior parte dei casi lavoratori tra i 35 e i 50 anni, a un buon livello di carriera, anche se sono in aumento i giovani. «I giovani hanno meno vincoli familiari e personali e tendono a giocarsi la carta estero per arricchire il proprio curriculum e avanzare a livello professionale». La percentuale di donne, variabile per settore, si aggira tra il 10 e il 20% del totale. Tendenzialmente è la società a proporre un trasferimento a un proprio dipendente, in seguito allo sviluppo di nuovi progetti o per  specifiche esigenze di personale. Nella maggior parte di casi si sta fuori dall’Italia per un periodo variabile tra i 3 e i 5 anni, ma è sempre più frequente che il lavoratore decida di non tornare a casa, ma di restare nella sede estera o fare una nuova esperienza in un altro paese straniero.Una tendenza confermata anche da Nadia Cappellini, HR manager di Philips, azienda presente in più di 120 paesi: «I nostri dipendenti lavorano all’estero nella maggior parte dei casi dai 3 ai 5 anni. Si tratta di figure professionali già con una discreta esperienza lavorativa, se non addirittura di top manager, che decidono di chiudere la propria carriera fuori dall’Italia. Nel nostro caso è di solito il dipendente a proporre il trasferimento all’azienda, che valuta poi la richiesta in base alle specifiche esigenze di personale. La perfetta conoscenza della lingua inglese è fondamentale per il trasferimento, dal momento che noi lavoriamo in inglese. Può però capitare che all'expatriate venga fornito come supporto anche un corso di lingua locale per integrarsi meglio nella società civile. Una multinazionale come Philips ha all’estero una maggiore disponibilità di posizioni di alto livello. Il rientro in Italia è difficile, proprio perché l’estero offre maggiori opportunità di crescita sia dal punto di vista economico che per la carriera». Del resto, una recente classifica mondiale del World Economic Forum ha segnalato che l’Italia è solo al centunesimo posto su un totale di 122 per capacità di mantenere talenti e al novantanovesimo per capacità di attrarne. Il che significa che spesso le nostre aziende non riescono a offrire condizioni ottimali per permettere la migliore crescita professionale dei propri dipendenti. Chiara Del PrioreLa foto dell'uomo con la valigia è di Seabamirum

Studiare in Australia: tasse, offerta formativa e prospettive di lavoro

Prendendo in mano la classifica Qs Ranking 2013, per trovare l’Australia, si perdono in tutto neanche dieci secondi: infatti il 27esimo e il 31esimo posto spettano rispettivamente all’università nazionale australiana (Anu) e all’università di Melbourne, entrambe pubbliche. L’Australia fa parte di quello che viene denominato il “nuovissimo continente”, ovvero l’Oceania. E di nuovissimo, per chi dall’Italia pensa di andare a cercare qualche opportunità in quella parte del mondo, c’è anche il sistema dell’educazione terziaria. Per questo la Repubblica degli Stagisti ha pensato di dare un orientamento generale sugli aspetti che fanno la differenza o che semplicemente è opportuno sottolineare.Prima di procedere alla raccolta di qualsiasi dato, bisogna considerare una distinzione fondamentale, tra domestic e international students: il primo gruppo include i cittadini di Australia e Nuova Zelanda, i residenti permanenti australiani e coloro che posseggono un visto (Australian humanitarian visa). Soltanto questo gruppo ha la facoltà di accedere al Commonwealth supported place, il secondo elemento che in un certo senso identifica l’istruzione australiana, per il quale il requisito generalmente è essere undergraduate student. Lo Stato copre buona parte dei costi e lo studente deve farsi carico di una somma detta “student contribution amount”, come si legge sul sito Study Assist: i cittadini australiani inoltre hanno diritto di scegliere se rinviare il pagamento e chiedere un prestito, “HECS-HELP loan”, da restituire solo quando si inizia a lavorare e si guadagna un certo reddito, stabilito dai singoli atenei. Questo però non significa che le spese siano lievi. Tutt’altro. A Melbourne chi è del luogo paga in media 8-9mila dollari australiani l’anno e, in base al prestito suddetto, può accumulare un debito con il governo di 40-50mila dollari. L’asticella si alza per lo studente che viene da fuori, il quale deve versare, solo di tasse, intorno ai 30mila dollari (25mila euro circa) annualmente; anche all’università di Canberra si arriva ad una media di 31mila dollari australiani, tra programmi undergraduate e postgraduate (cioè successivi al ciclo dei tre anni). Come terzo elemento per comporre questo quadro la Repubblica degli Stagisti ha scelto di analizzare l’offerta formativa australiana, con l’aiuto di Paolo Tombesi, docente ordinario a Melbourne (Chair in Construction) nella facoltà di Architettura, costruzione e pianificazione. Il sistema è uguale in tutta l’Australia, comprende tre anni di bachelor degree o laurea triennale più due anni di master degree o laurea specialistica nelle diverse graduate schools. «All’interno ci sono varie aree e all’interno di ogni area ci sono specializzazioni diverse. A queste scuole fanno riferimento sia gli studenti dei due anni della specialistica sia i dottorandi» spiega Tombesi «dopo i cinque anni si diventa studente di un HRD, Higher research degree, una “casella” che contiene Master di ricerca e Dottorato». In linea indicativa ogni corso, sia undergraduate (triennale) sia graduate, comprende otto unità didattiche l’anno e le differenze con l’Italia sono principalmente tre: se non si supera l’esame non si può passare alla sessione successiva ma occorre rifare il corso, la formazione è molto più pratica che teorica, gli esami orali praticamente non esistono. E qualche differenza in realtà sussiste anche nella struttura accademica delle varie università. Quella del professor Tombesi nel 2008 ha introdotto “il modello Melbourne”, che permette agli studenti di cambiare indirizzo fino a un anno e mezzo dall’ingresso nella facoltà. Infatti dopo quel tempo, in cui la preparazione è più generica, «decidono a quale area riferire e all’inizio del secondo anno possono iniziare a prendere corsi che hanno a che fare con un'area specialistica. A quel punto devono seguire un curriculum anche se un quarto, almeno in teoria, deve essere fatto in un’area “breath”, di respiro, cioè esterna al proprio diploma». Qual è lo scopo? «Lo studente ha la possibilità di capire l’ambito in cui si colloca la sua disciplina e che cosa vuole fare da grande».   Ovviamente le modalità di selezione sono diverse: ad esempio per i domestic students, l’ammissione al programma undergraduate è legata al voto della maturità e ogni studente sceglie le materie dell’esame in base a quelle richieste dall’ateneo in cui intende iscriversi. Parlando invece degli studenti internazionali, nella capitale i non laureati sono tenuti a presentare la loro candidatura direttamente all’università se non stanno conseguendo i diplomi Australian year 12, International baccalaureate in Australia o New Zealand Ncea (National certificate of edcuational achievement); discorso analogo vale anche nella città dello stato di Victoria dove le domande vengono inoltrate tanto online quanto per e-mail, scaricando l’apposito modulo o application form, o anche personalmente facendo riferimento a uno dei rappresentanti dell’istituzione all’estero. A mettere d’accordo domestic e international students ci pensano i programmi di dottorato, per il quale il processo è molto simile e comprende una “ricognizione” del supervisor vicino ai propri interessi di studio. Spesso è necessaria anche una pre-application, prima di quella ufficiale, che consiste nel mettersi in contatto con la facoltà o la scuola in questione per ricevere il sostegno alla propria richiesta.Se l’intento è quello di lavorare in ambito accademico, una volta terminato il PhD, o si entra nell’organigramma dell’università in pianta stabile oppure si possono avere dei contratti di ricerca come post-doc, ponte di collegamento tra formazione e attività autonoma in un gruppo di ricerca, la cui durata dipende dalla ricerca stessa. Sia l’Anu sia l’ateneo di Melbourne sponsorizzano nella sezione Careers o Jobs tutte le posizioni aperte, quindi anche quelle di postdoctoral researcher o fellow, dove sono indicati il salario offerto, il tipo e la durata del contratto, la descrizione della posizione e il termine utile o deadline. Le opportunità di finanziamento sono molteplici: ad esempio, dal prossimo luglio a Melbourne, ci si può candidare allo schema McKenzie fellowships program, che stanzia circa 100mila dollari l’anno. Sicuramente non bisogna ridursi all’ultimo, come insegna Fabio Longordo, laureato in Chimica e tecnologie farmaceutiche a Genova, che per fare un post-doc ha iniziato ad organizzarsi durante l’ultimo anno del suo dottorato in Neuroscienze a Losanna, nel 2010. «La Fondazione svizzera della ricerca, Swiss national science foundation, sceglie un numero di dottorandi e finanzia la prima parte del loro post-dottorato» precisa Longordo. Per accedervi è necessario partecipare ad un concorso, presentare un progetto dettagliato, dimostrare di avere un contatto all’estero disponibile. Il finanziamento ottenuto ha coperto il primo anno e mezzo e i monitoraggi erano semestrali, dopodiché «Ho prodotto una serie di dati preliminari che mi hanno aiutato a scrivere una proposta di grant per il National health and medical research council» aggiunge «Il progetto è stato finanziato dall’Australia per 400mila dollari per altri tre anni della ricerca». Infine, a coronare quel periodo di intensa attività di laboratorio, è arrivata la pubblicazione di un articolo su una delle più prestigiose riviste del settore, Nature neuroscience. Tuttavia «quando finisci il post-doc devi aprire di nuovo i tuoi orizzonti ed essere disposto a nuovi spostamenti» ci tiene a ribadire. Dell’Australia lui apprezza in modo particolare la «dinamicità», che ha sperimentato in prima persona iscrivendosi a un corso di medicina aperto ai laureati della durata di quattro anni, chiamato Mchd (Medicinae ac chirurgiae doctoranda) o Doctor of medicine and surgery. «Qui la carriera medica è interessante, hanno bisogno di medici specializzati che lavorano nelle zone più remote e che devono affrontare una serie di emergenze» spiega.La borsa di studio, di 10mila dollari annui (poco più di 6.450 euro), viene integrata con il lavoro nel gruppo di ricerca e con i risparmi personali. La consistenza di una scholarship in Australia, in linea generale, dipende dalle tasse da pagare, tuition fees, che non sono fisse ma devono essere calcolate in base alle materie scelte e al valore di ciascuna rispetto all’ “unità di misura” ovvero all’Equivalent full-time student load (EFTSL). Non bisogna trascurare neppure il costo della vita che è elevato ma attenzione: «l’ammontare dei salari è di gran lunga migliore. Ragazzi di 25 anni comprano le case con i mutui; devi avere i punteggi adeguati per entrare all’università». Lo studente dell’Anu porta come esempio proprio l’esame superato per essere ammesso alla sua seconda laurea: «Viene sempre dato un voto finale, da 0 a 100, con quel numero tu partecipi o mandi una richiesta per entrare in un’università di medicina. Il sistema di valutazione e l’università sono indipendenti». Trattasi, in una parola, di «meritocrazia». Marta LatiniLa prima foto, University of Melbourne Per saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Studiare in Europa del nord, da Londra alla Danimarca tutti i dettagli su costi e meccanismi- Mai pensato di fare l’università in Sudamerica? Ecco come funzionaE anche:- Laureati in fuga: i giovani italiani vogliono partire. Però sognando di riuscire a tornare- «Smetto quando voglio», al cinema i tagli alla ricerca diventano commedia (Articolo 36)

Garanzia giovani, parte o non parte? E come verranno spesi i soldi?

Molte centinaia di migliaia di ragazzi senza lavoro attendono da mesi che parta in Italia la Garanzia Giovani. Noi qui sulla Repubblica degli Stagisti abbiamo seguito passo dopo passo la genesi di questa iniziativa che mira all'auspicato rilancio dell'occupazione giovanile: l'iter ministeriale, il ping-pong con Bruxelles, le bozze di progetto, il dibattito e le proposte delle associazioni giovanili e delle parti sociali, dando sempre conto dei passi avanti e delle criticità. Oggi è il momento di fare un aggiornamento, anche perché nei giorni scorsi un quotidiano importante ha dato una notizia choc: e cioè che la Garanzia Giovani non riuscirebbe a partire prima dell'autunno, con buona pace di chi l'attende con grandi speranze fin dall'inizio di quest'anno.  Quando partirà dunque la Garanzia Giovani? «La Youth Guarantee (stage o lavoro entro tre mesi dalla perdita del posto o dal diploma), rischia un clamoroso fermo fino a settembre» ha scritto la giornalista Valentina Conte il 28 marzo su La Repubblica: «L’Italia difatti non ha ancora inviato a Bruxelles il programma operativo. E senza l’approvazione della Commissione - non prima di 4-6 mesi - il miliardo e mezzo rimarrà congelato». Come, congelato? Come, 4-6 mesi? Come, fondi bloccati? A noi della Repubblica degli Stagisti negli stessi giorni la parlamentare che più di tutti si è occupata di Garanzia Giovani, la democratica 26enne Anna Ascani, aveva assicurato tutt'altro.Ma allora come stanno le cose? «Non ci saranno ritardi: la Garanzia Giovani prenderà avvio a maggio di quest'anno, come annunciato. Ce l'ha assicurato la Direzione per le politiche attive e passive del lavoro del Ministero del lavoro» conferma anche oggi Anna Ascani: «È vero che il piano operativo italiano è stato parzialmente riformulato e dunque deve tornare a Bruxelles per un ulteriore ok. Ma innanzitutto per ottenerlo ci vorranno molto meno di quattro-sei mesi. E in ogni caso i ministeri interessati e le Regioni hanno raggiunto subito un accordo in base al quale le risorse per partire a maggio ci saranno, anche se non sarà ancora arrivato il nuovo benestare Ue, che comunque dovrebbe essere a questo punto una formalità. Gli stanziamenti per la Garanzia, infatti, ammontano a 1 miliardo e mezzo di euro suddiviso in tre parti: con questo accordo è stato stabilito che lo Stato anticipi una quota della sua parte, per permettere l'avvio delle attività di Garanzia Giovani entro il mese di maggio». Ma questo nuovo piano operativo qualcuno lo ha visto? «Noi ancora non lo abbiamo, ma a breve verrà messo online sul sito del ministero, a disposizione di tutti».La Garanzia coprirà solo gli under 25 o anche gli under 29? Un altro dei punti ancora non pienamente chiari del progetto è il suo raggio d'azione. Essendo un'iniziativa di matrice europea, dove i giovani hanno mediamente percorsi di studio più brevi e tendono ad entrare prima nel mercato del lavoro, la Youth Guarantee è stata inizialmente pensata per gli inoccupati, i disoccupati e i Neet della fascia d'età 15-24 anni. L'Unione europea però, nel momento in cui ha proposto a tutti gli Stati membri di adottare questo programma per arginare la piaga della disoccupazione giovanile, ha previsto che ogni Paese potesse adattarlo alla sua realtà, eventualmente estendendo la fascia di età fino a ricoprendere anche i 25-29enni. La Repubblica degli Stagisti si è battuta fin dal primo giorno su questo punto, sottolineando che il problema della disoccupazione giovanile in Italia non riguarda tanto gli under 25, bensì proprio la fascia critica 25-29 anni. Purtroppo invece il ministero del Lavoro, all'epoca di Giovannini, ha sempre preferito tenere il focus sulla fascia 15-24enni, prevedendo che solo in un secondo momento si sarebbe potuto ampliare, con alcune iniziative specifiche, il raggio d'azione della Garanzia Giovani anche ai 25-29enni. Un errore che il nuovo governo ha promesso di voler correggere: il premier Matteo Renzi ha infatti annunciato a metà marzo di voler estendere agli under 29 l'accesso a questa iniziativa. Ma non sono disponibili ulteriori dettagli: anche per questo sarebbe importante poter visionare il nuovo progetto.Laureati automaticamente esclusi? Anche perché strettamente legata alla scelta della fascia d'età da far accedere al programma è la questione importantissima della inclusione - o esclusione - dalla Garanzia Giovani della platea dei laureati (neo o meno neo). Qui il discorso è matematico: se si tiene il limite a chi non ha ancora compiuto 25 anni, come aveva stabilito Giovannini, automaticamente una enorme quota di laureati italiani viene esclusa da questa iniziativa. L'età media degli italiani alla laurea è infatti 25 anni: troppo tardi dunque (considerati anche i 4 mesi che dovrebbero passare dal conseguimento del titolo alla fruizione del servizio) per candidarsi. L'intervento correttivo "amplificatore" annunciato da Renzi farebbe rientrare in gioco tutti i laureati under 29, chiamando in causa dunque tutte le università e facendo loro giocare un ruolo più attivo nella promozione della Garanzia, che a quel punto potrebbe essere richiesta da tutti i loro neolaureati che allo scoccare dei 4 mesi dal conseguimento del titolo di studio non avessero ancora trovato una collocazione nel mercato del lavoro. Ora tutto dipende da se questo intervento "amplificatore" ci sarà davvero: certo sarebbe da pazzi ignorare il problema dei laureati italiani che pur avendo studiato molto faticano a trovare lavoro, vengono spesso sottoinquadrati e quasi sempre sottopagati: anche a loro la Garanzia servirebbe, e molto. Anche solo per non maledire il giorno in cui hanno deciso di iscriversi all'universitàUtilizzo dei fondi. Sul piatto c'è un bel pacchetto di risorse: un miliardo e mezzo di euro non si vede tutti i giorni. Eppure grandi sono le perplessità rispetto all'efficacia delle misure pensate per spendere questi soldi. Molti in questi mesi hanno tirato la giacchetta per far includere o escludere determinate voci dal computo finale. Si è parlato di destinare queste risorse al miglioramento del funzionamento dei centri per l'impiego, oppure alla creazione all'interno dei centri per l'impiego di sportelli ad hoc dedicati ai giovani, con persone particolarmente preparate rispetto alle mansioni di collocamento del personale entry level; questo dibattito è poi tracimato in una (impietosa) analisi dei servizi, troppo scarsi, offerti da questi centri alla platea dei disoccupati e degli inoccupati, e della diffidenza che i giovani giustamente nutrono rispetto a uffici pubblici che raramente riescono davvero a costruire solidi rapporti con le aziende del territorio e a collocare in maniera efficiente le persone in cerca di lavoro. In particolare, c'è il rischio che con così tanti soldi in ballo, si trovi il modo di favorire i soliti amici degli amici con voci di spesa poco utili. Due casi su tutti a rischio spreco: la comunicazione e l'infrastruttura informatica. Si è detto che la Garanzia Giovani avrà bisogno di un sito suo, in grado di ospitare e gestire centinaia di migliaia di cv e di far parlare tra loro tutti i servizi per l'impiego delle varie province e regioni, matchando la richiesta e offerta di lavoro. Non è però ancora chiarissimo se verrà implementato il sito del ministero già esistente, Cliclavoro, costato già parecchi milioni di euro eppure risultato spesso inadeguato, oppure se verrà creato un sito ad hoc, il famoso www.garanziagiovani.gov.it che però a tutt'oggi non è ancora attivo. O se i due siti coabiteranno, spartendosi la platea di iscritti. La cosa preoccupante qui è che fonti autorevoli (che noi della Repubblica degli Sttagisti abbiamo avuto modo di sentire direttamente e che sono state anche riprese dal professor Tito Boeri in un articolo pubblicato in prima pagina qualche settimana fa sul quotidiano La Repubblica) hanno parlato, pubblicamente, di una cifra enorme che sarebbe stata stanziata per questo rinnovo dell'infrastruttura informatica: 100 milioni di euro. È davvero così? Sembra una somma davvero mostruosa, anzi, di più: tanto che lo sarebbe perfino con uno zero di meno. Un lavoro del genere, per quanto complesso, non vale certo milioni di euro. E poi: come verrebbe scelta l'azienda informatica alla quale affidare l'appalto? È già stato fatto un bando? Altro capitolo di spesa, la comunicazione. Qui la retorica è facile: «Possiamo fare il progetto migliore del mondo, ma se poi non riusciamo ad arrivare ai giovani, se i diretti interessati non vengono a conoscenza dell'esistenza della Garanzia Giovani e non si candidano per usufruirne, avremo fallito». Certo, è vero. Però anche qui sempre fonti autorevoli parlano di nuovo di altri 100 milioni di euro. E anche qui la domanda sorge spontanea: a chi andranno? La cosa migliore sarebbe che venissero sparpagliati in molti rivoli, attraverso un attento studio della comunicazione online e offline maggiormente utilizzata dal target 15-29 anni, e restringendo poi il campo ai canali  in linea con una iniziativa a cavallo tra la formazione e l'occupazione. Scuole, università, siti specializzati, social network: ci si può sbizzarrire. Ma come faremo a sapere come verranno spesi questi soldi (e quanti saranno di preciso), e ad essere sicuri che non si vadano a oliare i soliti meccanismi, favorendo come al solito gli amici degli amici? Forse la cosa migliore sarebbe che il ministero facesse una call, chiamando a candidarsi tutti i soggetti che ritengono di avere un bacino di utenza coerente con la Garanzia, e poi spartendo equamente i fondi. O forse è troppo tardi?Incognita stage. C'è poi la questione dello stage, strumento che viene indicato anche nel progetto originale di Youth Guarantee come una delle opzioni che nell'ambito di questi programmi può essere offerta ai ragazzi in alternativa a un posto di lavoro, un apprendistato o un corso di formazione. Qui bisogna andarci coi piedi di piombo perché ogni lingua ha la sua terminologia e ogni Paese ha il suo codice del lavoro, e bisogna conoscere molto bene la situazione italiana e non fare gli struzzi davanti ai problemi. La Repubblica degli Stagisti ha sempre messo in guardia il ministero del Lavoro dalla tentazione di utilizzare lo stage come "contentino" per i fruitori della Garanzia Giovani, dando loro l'illusione di mettere un piede nel mercato del lavoro. illusione che poi si tramuta, dati alla mano, in frustrazione nel 90% dei casi, perché solo il 10% dei tirocini si tramuta in un rapporto di lavoro secondo la rilevazione più attendibile (Unioncamere Excelsior). Anche rispetto a questo punto, ancora non si capisce bene che posizione voglia prendere il governo Renzi, e quali indicazioni verranno date alle Regioni dalla "regia nazionale" della iniziativa Garanzia Giovani. Noi auspichiamo che, se gli stage verranno inseriti nei percorsi di collocamento dei giovani, siano "controllati a vista" rispetto alla qualità e al rigoroso rispetto delle normative regionali in materia, in special modo per quanto riguarda l'indennità (che reputiamo siano i soggetti ospitanti a dover erogare, non lo Stato, o almeno non più che per una quota parte): e sopratutto che siano tutti e inderogabilmente "tirocini di inserimento / reinserimento lavorativo", e non "tirocini di formazione e orientamento". Sembra una piccolezza, ma conta: non solo gli addetti ai lavori, ma anche i giovani lo sanno.Per tutti questi punti, e quelli che sicuramente potrebbero essere aggiunti all'elenco, la trasparenza deve essere oggi più che mai un mantra: sopratutto quando si parla iniziative orientate a risolvere il dramma dell'occupazione giovanile.Eleonora VoltolinaPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Garanzia giovani già a marzo, ma come funzionerà? Lo spiega chi ha scritto il piano italiano- Youth Guarantee ai blocchi di partenza. Giovannini: «Operativi da marzo 2014»E anche:- Youth Guarantee, le richieste delle associazioni giovanili al ministero del Lavoro- Una «dote» per trovare lavoro e 400 euro al mese di reddito di inserimento: la proposta di Youth Guarantee della Repubblica degli Stagisti- Youth Guarantee anche in Italia: garantiamo il futuro dei giovani

Erasmus for Young Entrepreneurs, l'Europa aiuta i giovani imprenditori

Quello del turismo è uno dei settori più gettonati, ma non l’unico. Perché gli ambiti nei quali ci si può candidare per l’Eye, acronimo di Erasmus for Young Entrepreneurs, sono potenzialmente infiniti: l’importante è presentare (in una lingua ufficiale di un Paese membro, meglio se in inglese) un progetto imprenditoriale concreto e convincente e caricarlo sul portale insieme alla propria domanda, che viene vagliata dall’ente intermediario.Eppure questa iniziativa europea, nata nel 2008 allo scopo di consentire a giovani neoimprenditori o aspiranti tali di toccare con mano una realtà aziendale estera, è ancora poco conosciuta: finora sono solo 448 gli italiani partiti per sperimentare dall’interno un’impresa in uno dei 28 Stati membri dell’Unione. Per un periodo che va da un minimo di tre a un massimo di sei mesi, nel corso dei quali si riceve un rimborso spese mensile tra i 500 e i 1100 euro, a seconda del costo della vita nel luogo di destinazione. Spesso chi parte finisce per rimanere più a lungo del previsto. Come nel caso di Angelo Scarpa, 30enne sardo laureato in Economia che oggi vive a Budapest, dove lavora nel settore contabilità di General Electrics. Proprio nella capitale ungherese era volato per l’Eye, dal dicembre del 2011 al maggio del 2012. «Il mio intermediario era la Confindustria di Cagliari, dove ho fatto uno stage dopo la laurea. Sono andato a Budapest e ho lavorato in Itl Group, una srl italiana: mi occupavo di controllo di gestione, con un rimborso di 700 euro al mese». Quell’esperienza serve a Scarpa per apprendere termini tecnici in lingua ungherese, un valore aggiunto rivelatosi importante per gli impieghi successivi, tra cui quello nella multinazionale di autonoleggio Avis. «All’inizio non ero per nulla convinto sulla scelta della meta, oggi invece a Budapest mi trovo benissimo e conto di restarci», ammette. Non aveva nessun dubbio sulla destinazione, invece, Corrado Russo, 37 anni, laurea in filosofia a Lecce e master in organizzazione aziendale all’Istituto di Studi direzionali di Stresa (oggi inglobato nell’università Cattolica). La sua è la storia di chi poteva fare carriera ma ha scelto di tornare nella sua terra e mettersi in proprio. Dopo aver lavorato nella gestione del personale per Ibm e per Allen and Overy, uno dei più famosi studi legale del mondo, decide di rientrare in Puglia e fare un master in marketing turistico. Lavora per anni come guida turistica, sfruttando la sua elevata conoscenza delle lingue e anche di molte città nelle quali aveva viaggiato per lavoro, e nel 2008 fonda Iria, la sua agenzia di viaggi, specializzata nella customizzazione dei tour a seconda del cliente: a ciascuno il suo viaggio personalizzato, in base alle passioni e agli interessi. L’Eye, nel suo caso, arriva nel 2011, a Tenerife. Russo esplora l’isola e prende contatti con gli alberghi, per un mese. «Di più non potevo, dovevo comunque occuparmi dell’agenzia». Oggi ha due dipendenti e nell’utilità dell’Erasmus for young entrepreneurs crede fermamente, al punto da essere diventato a sua volta un host, cioè uno dei 266 imprenditori ospitanti in Italia. Lo scorso anno ha aperto le porte a una ragazza di Nottingham. La stessa isola dell’arcipelago delle Canarie è stata scelta come anche da Michela Mogavero, 30enne di Molfetta con una laurea in lingue, specializzata in traduzioni e appassionata di viaggi. Anche il suo sogno è aprire un’agenzia di viaggi. Per questo, dopo una lunga serie di esperienze che vanno dall’insegnamento dell’italiano in alcuni licei francesi, a stage come traduttrice a Milano, passando per il lavoro di receptionist in alberghi romani e due progetti Leonardo, a Dublino e a Lipsia, nel 2011 è volata nell’isola spagnola. Per tre mesi si è occupata di gestione dei clienti, marketing e analisi del traffico web per il portale Canarias.com. «Ho acquisito familiarità con il mondo del turismo online e con il marketing», spiega. Skills preziose anche per il suo lavoro attuale, di nuovo a Lipsia, presso Unister, azienda tedesca di webmarketing, dove Mogavero ricopre il ruolo di junior Country manager per la Francia e l’Italia.Il matching tra le proprie aspirazioni imprenditoriali e le aziende ospitanti non è, però, sempre facile. Lo sa bene Gabriele Nicu (nella foto), 33enne di Vigevano, in provincia di Pavia, laurea in filosofia all’Università Statale di Milano e studi in composizione al Conservatorio Verdi. «Ma proprio durante il conservatorio mi sono reso conto che sarebbe stato molto difficile vivere facendo il compositore di musica, e nello stesso tempo non volevo insegnare: volevo fare qualcosa di più operativo». Così si specializza in tecnologia audio all’Accademia della Scala, e dal 2010 comincia a lavorare come tecnico del suono sia dal vivo, nei locali di Milano, sia negli studi di registrazione. A fargli scoprire l’Eye è ancora un altro corso, organizzato da Regione Lombardia e dedicato a giovani startupper. Nicu presenta il suo progetto: una struttura che si occupa di musica a 360 gradi, fungendo da studio di registrazione e di montaggio, ma anche dando spazio ai giovani, ai quali vengono forniti una sala prove e supporto per i contatti con i locali e le etichette discografiche. «Il problema però è che io ero il primo a voler partecipare all’Eye in questo ambito, quindi nel database non c’era nessuna azienda del settore. Ho dovuto cercarmela da solo, all’inizio volevo andare a Londra, che è all’avanguardia, invece poi ho trovato Auhra». Uno studio di registrazione di Barcellona, dove Nicu è rimasto per tre mesi, con un rimborso da 800 euro mensili. «Lì mi hanno instillato la forma mentis dell’imprenditore, e ho imparato anche a lavorare in team», racconta. Oggi il suo progetto è realtà: si chiama MusicalBox, esiste da circa un anno nella sua città, «l’ho fondato insieme a un socio e stiamo andando bene». Giuliana De Vivo  Per approfondire questo argomento, leggi anche:- Erasmus +, al via il super-programma di studio all'estero targato UE- Più Erasmus, «Erasmus +»: tutte le novità per formarsi all'estero

Mai pensato di fare l'università in Sudamerica? Ecco come funziona

Reputazione accademica e affidabilità presso i datori di lavoro, numero di studenti e di papers per facoltà, impatto sul web. Sono questi alcuni dei parametri alla base della classifica Qs Ranking 2013, il “faro” della Repubblica degli Stagisti nel suo viaggio tra le migliori università del mondo. Stavolta la bussola orienta l’ago in direzione del continente sudamericano che sembra centrare buona parte dei criteri di selezione, considerate le posizioni abbastanza buone, anche se non eccezionali, occupate dagli atenei presenti in classifica.Svetta l’università di San Paolo, pubblica, 127esima nella classifica generale, che per il terzo anno consecutivo mantiene lo status di istituzione leader dell’America Latina mentre la seconda, riconfermata, è la Pontificia università cattolica del Cile, istituzione privata con sede a Santiago del Cile, al 166esimo posto. E scendendo di 43 gradini si incontra la più famosa università argentina pubblica, quella di Buenos Aires.Tutti e tre gli atenei dispongono di un sito con alcune sezioni tradotte in inglese, molto utili per gli stranieri interessati ad immatricolarsi oppure a partecipare ad un exchange program, un programma di scambio accademico, della durata di un semestre o di un anno, in cui lo studente rimane comunque iscritto nella sede d’origine. Un altro comun denominatore, ma stavolta negativo, riguarda le opportunità di alloggio, ben poco favorevoli: l’Usp garantisce un sostegno nella fase dell’arrivo, segnalando gli ostelli riservati alla categoria exchange students. Stesso discorso per l’università del Cile o per l’Uba che non hanno residenze universitarie ma offrono supporto per trovare una sistemazione. Facendo una ricerca generica online è abbastanza facile rendersi conto dei prezzi richiesti: sul sito Housing in Chile si legge che una camera ammobiliata nel centro di Santiago costa da un minimo di 115mila a un massimo di 170mila pesos cileni (tra i 150 e i 220 euro). Gli annunci pubblicati su Spare rooms Buenos Aires propongono affitti mensili oscillanti indicativamente dai 300 ai 450 euro, a seconda dei quartieri e della posizione.Per quanto riguarda l’ammissione, se vale come requisito universale il possesso del visto e del diploma di studi superiori, cambiano tuttavia le modalità di selezione.Parlando di matricole, nell’istituzione privata del Cile la selezione passa attraverso il superamento di un test chiamato Pus (acronimo di Prueba de selección) detto anche University selection test: questo consiste in due esami obbligatori, Linguaggio e comunicazione e Matematica, e, a seconda del corso scelto, in due prove aggiuntive, Scienze o Storia e scienze sociali. Graduate e postgraduate students invece, se vogliono continuare la loro formazione, devono presentare prima i certificati di laurea, con singole votazioni, quindi la descrizione dell’esperienza accademica e professionale accumulata, e sostenere infine un esame o un’intervista.Da trent'anni l’Uba, al posto dell’esame d’ingresso, ha istituito il Ciclo básico común, un primo ciclo di studi universitari dal carattere interdisciplinare: il primo anno è infatti composto da sei materie, di cui due comuni a tutti i corsi, due connesse a uno dei tre orientamenti (Scienze umane e sociali, Scienze biologiche e della salute, e Scienze esatte, tecnologia e design), e le ultime due relative al percorso di laurea scelto.A San Paolo gli studenti non laureati, undergraduate students, brasiliani e stranieri, possono arrivare solo tramite il processo di selezione organizzato dall’istituzione Fuvest, i cui test sono tutti in lingua portoghese; diversamente dalla candidatura per i programmi post-laurea, tutt’altro che univoca, in quanto è lo studente che deve contattare direttamente la scuola a cui fa riferimento, per capire come funziona l’application.Un’ulteriore significativa differenza consiste nelle tasse (aranceles) previste per gli studi, sia che si tratti di pregrado sia di posgrado: in Cile l’incrocio telematico tra queste due voci, tariffe e corso, permette di conoscere quanto si spende. Ad esempio per il 2014 ad un dottorando in Architettura e Studi urbani l’università privata chiede 4 milioni e 367.000 pesos cileni (arancel carrera o programa) più altri 49.280 (arancel de postulación), per un totale di circa 4 milioni e mezzo di pesos, più di 5.700 euro. Le borse di studio, in spagnolo becas, destinate ai dottorandi non cileni non sono rare, un esempio: la beca Ayudante becario copre il 90% delle tasse ed elargisce un assegno annuale per un massimo di 3 milioni 960.000 pesos, distribuito in quote mensili di 330mila.L’Uba si colloca a metà strada: le spese subentrano solo per i corsi post-laurea (estudios de posgrado), ovvero especializaciones, maestrías e doctorados, i cui contenuti sono descritti nei particolari per ciascuna delle facoltà attive a Buenos Aires. È il programma universitario Ubacyt a gestire le borse di studio e il termine utile della convocatoria per candidarsi: ad esempio la facoltà di Scienze sociali aprirà le iscrizioni dal prossimo 17 marzo al 4 aprile e il finanziamento, di 5.800 pesos mensili (542 euro), sarà erogato a partire dal primo agosto ai vincitori, che devono essersi laureati alla Uba o in un’università argentina.Infine, all’università Usp, i costi sono completamente gratuiti per i programmi di laurea, undergraduate e graduate (Master of Science e PhD), eccezion fatta per alcuni programmi di specializzazione (ad esempio il master Mba). Anche qui sono stabilite delle forme di sostegno economico, come l’International students’ Usp grant program: tra gli altri benefici vi è un’indennità mensile di 1.200 reis (intorno ai 360 euro) per gli studenti stranieri laureati e non, un centinaio dei quali sono italiani.Nel caso particolare dei dottorandi, questi possono puntare anche ad alcune borse finanziate da istituzioni pubbliche esterne oppure alle borse di dipartimento che sono legate alla valutazione della qualità dell’area in cui si lavora, in base ad un punteggio da 1 a 7. Quella per cui si è candidato a ottobre Gesualdo Maffia, neodottorando in Italianistica, dà anche la reserva técnica, un budget destinato a coprire spese di viaggi di studio, convegni, libri e di un computer da restituire alla fine del triennio. Maffia, studioso di Gramsci e Pasolini, è in Sud America da quasi quattro anni e in Brasile dall’agosto del 2012. Dopo gli studi a Torino e il dottorato in storia concluso a Genova nel 2009, ad aprile del 2010 decide di partecipare alla selezione per insegnare italiano, storia e geografia in Ecuador. Passa un mese e mezzo dal colloquio e arriva l’esito positivo: «Due secondi e ho detto: sì vengo». E ci rimane per due anni scolastici, lavorando con i ragazzi delle scuole superiori. «Il mio obiettivo fin dall’inizio era però il Brasile. San Paolo è una metropoli, è faticoso vivere qui, ma offre tantissime opportunità di lavoro». E il disegno in testa ha contorni nitidi: ricerca e docenza. «Avevo pensato ad un post-doc ma per inserirsi meglio nell’università brasiliana è meglio fare un passo indietro, quindi fare un altro dottorato».Come si ottiene dunque un dottorato alla Usp? Non è necessario sostenere un concorso, come in Italia, ma trovare un professore interessato al progetto. Nel suo caso la procedura è durata da febbraio a giugno 2013, compresi gli esami in lingua portoghese e un colloquio, sostenuti con successo. «Contemporaneamente sono stato chiamato da un importante istituto di insegnamento italiano di San Paolo che mi offriva un contratto di quattro mesi che poi si sarebbe trasformato nell'anno nuovo in un contratto a tempo indeterminato». Davanti a questo bivio il giovane sceglie la «prospettiva», una parola che suona come una filosofia di vita.Spesso però le prospettive non sono subito accessibili, soprattutto per chi è straniero. Per esempio Maffia ha dovuto attendere cinque mesi prima di poter iniziare il suo dottorato dato che, ai fini dell’iscrizione, bisogna avere l’equipollenza del titolo italiano, gratuita e valida solo all’interno dell’università dove si studia. Invece per il riconoscimento del dottorato a livello nazionale il giovane insegnante ha appena avviato le pratiche e dovrà aspettare fino a dicembre-gennaio dell’anno prossimo. Perché «l’Italia è molto in ritardo nel rinnovare o aggiornare gli accordi culturali con i paesi esteri. Con gli accordi puoi semplificare la burocrazia delle persone che lavorano all’estero e devono far riconoscere i loro titoli. Per fare il riconoscimento ci vuole circa un anno a Usp e costa 1800-2000 reis quindi 600-700 euro».E tra tre anni? «Una volta finito il dottorato, se non va in porto un concorso pubblico, ci sono anche molte istituzione private qui in Brasile che assumono persone con alta formazione. Io sono aperto a ulteriori prospettive».Marta Latini- la foto del logo è di vinculaentorno- licenza creative commons- la foto della facoltà Giurisprudenza Uba è di BKM_BR- licenza creative commonsPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Università sotto casa addio, io vado in Asia: piccola guida per neodiplomati per studiare in Estremo oriente- Studiare in Europa del nord, da Londra alla Danimarca tutti i dettagli su costi e meccanismiE anche:- Talento x investimento = risultati: la formula anticrisi per i giovani- Laureati italiani, più veloci e qualificati di prima: ma le speranze di lavoro sono poche- «Per lo stage in Commissione Ue mi sono dimesso da un posto a tempo indeterminato»

Ingegneria sì, ma quale? Su gli indirizzi elettronico, gestionale e biomedico, giù civile e ambientale

Una laurea inossidabile: capace di resistere ai venti della crisi e alla delocalizzazione della produzione. Nonostante la flessione occupazionale registrata per la prima volta nel corso del 2012, i diplomati che decidono di intraprendere un percorso di studi in ingegneria, possono ancora contare su un tasso di assorbimento da parte del mercato pressoché totale. A distanza di soli 5 anni dalla laurea di secondo livello, risultano infatti occupati ben 93 ingegneri su 100. Non solo: secondo i dati dell'ultimo rapporto di AlmaLaurea, trascorsi 5 anni dal termine degli studi, i laureati di questo gruppo disciplinare lavorano per lo più con un contratto a tempo indeterminato (nel 76% dei casi) e con la busta paga più sostanziosa nel panorama delle lauree italiane: pari a poco meno di 1.750 euro netti mensili. Presa la grande decisione, dinanzi all'aspirante ingegnere si pongono tuttavia scelte altrettanto significative: a partire dall'indirizzo di studi e quindi l'ateneo a cui iscriversi, fino alla durata del percorso di laurea. Per aiutare le future matricole ad orientarsi, la Repubblica degli Stagisti ha chiesto aiuto anche a due presidi di facoltà: Paolo Riva dell'università di Bergamo e Alessandra Carucci dell'ateneo di Cagliari. Una scelta non casuale, dato che il polo bergamasco si è posizionato come primo nella classifica delle facoltà di ingegneria italiane selezionate dalla guida Censis-Repubblica per il 2013, e Cagliari (al 12° posto) è la prima facoltà a classificarsi al di fuori del Centro-Nord. Cerchiamo allora di capire anzitutto quali indirizzi di studio offrono le migliori garanzie in termini occupazionali. Stando ai dati riportati dal rapporto "Occupazione e remunerazione degli ingegneri in Italia", elaborati dal centro studi del consiglio nazionale di categoria nel 2013, gli indirizzi che in termini assoluti riscuotono maggiore successo da parte delle imprese sono quello elettronico e dell'informazione e l'indirizzo industriale. All'interno di questi gruppi, i profili più ricercati sono in particolare il progettista meccanico, lo sviluppatore di software e il programmatore informatico, che da soli hanno assorbito poco meno di un quarto delle richieste di ingegneri espresse dalle imprese nel corso del 2012. «Uno dei principali vantaggi di questa facoltà è che al momento - e quindi immaginiamo anche in un prossimo futuro -  c'è un'enorme richiesta di ingegneri in giro per il mondo e in Italia in particolare» assicura Riva. «Anche tenendo conto dell'attuale tendenza alla rilocalizzazione della produzione, è abbastanza improbabile che un'azienda sposti la propria testa pensante, ovvero i settori del management e della progettazione e controllo». «Sebbene dal punto di vista occupazionale la situazione della Sardegna sia abbastanza critica, i nostri laureati hanno buone possibilità di impiego anche sul territorio» conferma Carucci. Ferma restando la grande spendibilità di questo titolo di studio, per la prima volta dall'inizio della crisi economica, la categoria registra qualche segnale negativo: sempre in riferimento all'anno 2012, il centro studi del consiglio nazionale stima infatti un surplus di circa 16mila ingegneri in più rispetto alla richiesta delle imprese - la metà dei quali concentrati nelle regioni del Sud - che portano il tasso di disoccupazione della categoria al 4,4%. Ma anche in questo caso a pesare è soprattutto il percorso di studi intrapreso: com'era prevedibile, la crisi nel settore delle costruzioni ha penalizzato anzitutto gli ingegneri ad indirizzo civile ed ambientale, che in un solo anno perdono circa il 60% delle assunzioni. Al contrario, i profili meno coinvolti dalla contrazione occupazionale risultano quelli dell'ingegnere gestionale, biomedico e dell'automazione, richiesti specialmente dalle imprese del Mezzogiorno. Il fattore geografico è in effetti un aspetto da non sottovalutare sin dal momento della scelta dell'ateneo al quale iscriversi. Tradizionalmente le regioni italiane che assorbono il maggior numero di ingegneri sono il Lazio, dove nel 2012 sono stati assunti in 2.400 e soprattutto la Lombardia, regione leader in questo campo, con quasi 4.200 nuovi contratti. «Il successo della facoltà di Bergamo si deve anche e soprattutto al fatto che è inserita in una delle province più intensamente produttive d'Italia e d'Europa, che riesce ad assorbire tutte le tipologie di ingegneri: dai meccanici ai gestionali, ma anche gli informatici e gli edili. Diciamo che le imprese del territorio sono i nostri principali datori di lavoro», scherza Riva.Il mondo dell'impresa non è tuttavia il solo sbocco lavorativo per un laureato in ingegneria: «Esistono diverse possibilità di impiego anche nel settore pubblico. Un laureato proveniente da un corso di ingegneria dell'ambiente e del territorio può essere ad esempio una figura ambita per le regioni, sia per quanto riguarda le attività legate alla depurazione delle acque o alla gestione dei rifiuti, ma anche in relazione a problemi più specifici come quello della bonifica dei siti contaminati», spiega Carucci. «Senza dimenticare che per un ingegnere resta sempre aperta la strada della libera professione», un'opzione che secondo l'ultimo rapporto di Almalaurea interessa oggi circa l'8,5% degli ingegneri magistrali.Una volta scelto ed intrapreso l'indirizzo di studio, un'altra decisione importante per il futuro ingegnere riguarda senza dubbio la possibilità di continuare o meno nel percorso specialistico. Significativo è allora capire quali possibilità di impiego di aprono per chi decide di fermarsi dopo il triennio. «Anche nel caso dell'ingegnere junior direi che l'assorbimento da parte del mercato è pressoché totale, seppure in ruoli più strettamente operativi. Tanto nell'ambito dell'edilizia, ma anche nel settore della meccanica e dell'ingegneria gestionale, per lo più all'interno dell'area della produzione. Per quanto riguarda l'informatica i principali impieghi sono invece all'interno dei processi di controllo e dello sviluppo software. La differenza rispetto all'ingegnere magistrale riguarda semmai le prospettive di carriera e di crescita professionale», riflette Riva. Sta di fatto che i laureati di questo gruppo disciplinare - sempre secondo gli ultimi dati di Almalaurea - presentano un tasso di iscrizione alla specialistica pari a ben l'82% del totale, secondi solo agli studenti di psicologia. E veniamo ad un'ultima questione per niente secondaria nel momento in cui si decide di approcciare una facoltà - inutile nasconderselo - decisamente impegnativa, come dimostra anche l'età media - di 26,7 anni - rilevata da Almalurea al termine dei corsi specialistici e magistrali. Che basi occorrono dunque per affrontare più o meno brillantemente un corso di ingegneria? «Sicuramente la matematica e le scienze» rileva Carucci. «Purtroppo in questi ultimi anni stiamo vivendo un problema legato alle grosse carenze che gli studenti che arrivano dalla scuola superiore presentano in queste materie». Dedicarsi dunque con il massimo impegno alle materie scientifiche è un consiglio da tenere bene a mente, considerato anche il forte impatto che si rischia di avere iniziando a frequentare il primo anno di corso, dove si concentrano quelle materie di base comuni a tutti gli indirizzi - analisi matematica, fisica e geometria - dinanzi alle quali molte matricole rischiano di scoraggiarsi. Una recente indagine ha rivelato che per questo gruppo disciplinare gli abbandoni riguardano infatti circa il 18% degli studenti, concentrati per lo più tra il primo e il secondo anno di corso. Ma conviene stringere i denti, soprattutto pensando al futuro: «Per qualsiasi profilo di ingegnere è necessaria una solida preparazione di base, che è una premessa indispensabile per poter garantire una progressione delle conoscenze lungo tutti i quarant'anni di carriera», assicura Riva. «Una preparazione prettamente tecnologica e finalizzata alle tecnologie attuali, rischia di preparare il laureato ad affrontare sì le sfide di oggi, ma non necessariamente quelle di domani».Ilaria Costantini Per saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Ingegneria ma non solo: quali sono le lauree più utili per trovare lavoro?- Triplo fischio e vittoria: un eclettico ingegnere dallo stage al contratto in ALD Automotive- Laura, ingegnere chimico in Chemtex Italia 

OrangeFiber, la start-up che spreme le arance e ne fa tessuti

Da cinque anni sono coinquiline, da diciotto mesi anche socie in affari. Enrica Arena (28) e Adriana Santanocito (36) sono due startupper di Catania, ma milanesi d'adozione, che hanno brevettato un tessuto ricavato dagli scarti della lavorazione degli agrumi.«Adriana stava studiando all'Accademia della Moda di Milano, un paio di anni fa ha colto il filone della moda sostenibile, che ha ricadute sociali perché coinvolge lavoratori in difficoltà o categorie sociali protette, riconoscendo loro un compenso equo», il racconto nelle parole di Arena di come è nata quella che oggi è diventata Orange Fiber, «e soprattutto ha un effetto positivo sul piano ambientale». Pioniera di questo settore è stata Stella McCartney, con una linea di borse in ecopelle. Mentre altre aziende ricavavano i tessuti dalle bottiglie di plastica riciclate, piuttosto che dalle fibre di latte.Il mercato offre degli spazi per questi prodotti “alternativi”. «Oggi il 60% dei tessuti è derivato dal petrolio» e risente quindi delle oscillazioni dei prezzi del barile, «il resto sono fibre naturali, per la maggior parte si tratta di cotone. Una pianta che richiede un uso estensivo della terra, tanta acqua, fertilizzanti e sostanze chimiche». Costi elevati, insomma. Che Orange Fiber invece “polverizza”. Il motivo? La materia prima utilizzata «è uno scarto del quale nessuno fa nulla».L'idea infatti è quella di utilizzare quelle parti del frutto che «l'industria della trasformazione, quella che produce spremute e oli essenziali, non usa». Ovvero, sostanzialmente, le bucce. «Noi estraiamo la cellulosa, la trasformiamo in acetato e quindi in un tessuto, che poi viene colorato ed arricchito con vitamine». Le quali vengono poi rilasciate sulla pelle quando si indossa un abito realizzato con questi filati, garantendo «benefici cosmetici in termini di idratazione».Quello che è considerato uno scarto si trasforma insomma in una risorsa. Della quale la Sicilia, terra natale di queste due startupper, è molto ricca. «Abbiamo tanti amici che coltivano agrumi, alcuni non raccolgono nemmeno più perché i prezzi di mercato non ripagano i costi. Per noi è più facile lavorare sullo scarto industriale che non sostenere questo tipo di spese, ma un domani speriamo di riuscire ad assorbirle». Contribuendo così al rilancio economico dell'isola.Sono molti, però, i punti di domanda rispetto al futuro di questa start-up. Intanto c'è da estendere il brevetto italiano per i tessuti ricavati dalle arance. «Ci è costato 3mila euro. Per ottenerlo ci siamo affidati ad un ingegnere progettuale che si è appoggiato al dipartimento di Chimica dei materiali del Politecnico di Milano», spiega Arena, «abbiamo messo in piedi un gruppo di gente qualificata perché venisse “blindato”, perché fosse più sicuro possibile». Per i prossimi diciotto mesi l'idea delle due startupper sarà tutelata anche a livello internazionale. «Per estendere la protezione, lo scoglio è economico. Solo quello europeo costa 10mila euro». Altrettanti ne serviranno per versare il capitale sociale. Ancora Orange Fiber non ha una personalità giuridica, ma l'obiettivo è quello di farla diventare una srl “classica”. «Dovendo lavorare con dei fornitori di di grandi dimensioni, ci siamo rese conto che quella semplificata scoraggia». Una volta fondata l'azienda, «chiederemo l'iscrizione nel registro imprese come start-up innovativa».Nel frattempo le due imprenditrici hanno seguito diversi percorsi di accelerazione: «Changemakers for Expo, Make a Cube, il progetto Expo di Telecom Italia. Attualmente siamo seguite dal Parco tecnologico padano di Lodi, con cui abbiamo steso un business plan come si deve». Ed hanno iniziato ad accumulare premi: la quinta edizione del premio "Global social venture competition", promosso dal Tecnoparco lodigiano e dal comune di Milano, e Working capital di Telecom Italia. Fino ad arrivare a qualificarsi per la finale della Creative business cup di Copenaghen nel novembre dello scorso anno.Ora però serve un finanziamento seed per il salto di qualità. «Stiamo cercando 150mila euro per sbloccare la prototipazione e per mettere in piedi una prima produzione in outsourcing. E poi ci servono tra i 500 e i 600mila euro per lanciare il primo stabilimento». Servono quattro mesi perché il prototipo sia pronto, un anno per aprire una linea di produzione che dia lavoro a 5 persone in Sicilia o, se Orange Fiber vincerà il bando TrentinoSviluppo, sulle Dolomiti. «Abbiamo già dei potenziali finanziatori seriamente interessati, vedremo quest'anno».Riccardo Saporitistartupper@repubblicadeglistagisti.it 

Studiare in Europa del nord, da Londra alla Danimarca tutti i dettagli su costi e meccanismi

Dopo il Nord America e l’Asia, per la terza puntata dedicata alle università estere le distanze si accorciano: destinazione Nord Europa. Per esempio l’Inghilterra, che da tempo è meta nota di numerosi studenti italiani, specialmente nei centri accademici più prestigiosi come la London school of economics and political science, leader mondiale nell’ambito degli studi sociali e internazionali, seconda solo ad Harvard in questo campo stando al Qs Ranking 2013, dove figura al 68simo posto. I dati ufficiali relativi all’anno accademico 2012-2013 confermano questa tendenza: su un totale di 7.301 overseas students, gli studenti stranieri, quelli provenienti dall’Italia erano 253, di cui 15 undergraduate e 238 graduate, in lento ma costante aumento: nel 2010-2011 erano per esempio 226. Un numero discreto, superato in Europa solo dalla Francia e dalla Germania. A detenere il record è la Cina, a quota mille overseas, seguita dagli Stati Uniti con 899 studenti. Qual è la ragione di questo successo internazionale? Per dare una risposta si può partire dal motto dell’università stessa: rerum cognoscere causas, conoscere le cause delle cose.E la prima causa, apparentemente banale, consiste nella chiarezza del sito. Alla voce “study” è possibile passare in rassegna i programmi disponibili per ogni corso di laurea, principalmente per le due categorie ormai conosciute ai lettori della Repubblica degli Stagisti, quelle di undergraduate e graduate students.La presentazione del piano formativo, dei servizi connessi e dei metodi di insegnamento, ad entrambi i livelli, è riassunta e commentata dettagliatamente all’interno delle presentazioni (prospectus), che possono essere ordinate nella versione cartacea oppure visibili online in formato pdf. Inoltre agli studenti internazionali è dedicata una pagina apposita, in cui sono fornite tutte le informazioni indispensabili ai fini dell’ammissione, suddivise per singola nazione. Per quanto riguarda l’Italia, se per i cosiddetti taught master's programmes il requisito fondamentale è il possesso di una laurea conseguita con un punteggio minimo di 106/110, per i laureati italiani intenzionati ad iscriversi ad uno dei programmi di ricerca - research programmes - rivolti appunto alla ricerca scientifica e compresi tra i tre e i sei anni (Master of research, Master of philosophy e PhD), la griglia si estende notevolmente. Infatti oltre al voto di laurea si richiede, tra le altre cose, la qualifica nell’ambito dell'International baccalaureate. E poi almeno un anno di studio in un’altra istituzione accademica e un certificato di lingua inglese, il cui punteggio minimo complessivo è 7 per Ielts e 107 per il Toefl.Se quello stesso studente italiano volesse saperne di più circa le tasse da pagare è tutto scritto in un pratico menu a tendina: nel 2014/2015 i neoammessi inglesi ed europei pagheranno 9mila sterline, circa 10mila euro, se si iscrivono ad un undergraduate full-time programme mentre le tasse dei programmi taught full time programmes sono più elevate, da un minimo di 9.180 ad un massimo di 20.656 sterline (tra 11mila e 25mila euro).Tra le risorse finanziarie segnalate, vi sono la borsa di studio Lse bursary per i primi, con un valore annuale che va da 750 a 4mila sterline (tra 900 e 4820 euro), e per i secondi il sostegno Graduate support scheme, vincolato alle condizioni economiche, che ha un valore medio di 6mila sterline (circa 7.230 euro).Completamente gratuita è invece l’istruzione universitaria in Danimarca, per chi proviene dall’Europa e dai paesi membri dello Spazio economico europeo, per gli studenti che partecipano a scambi internazionali e per gli iscritti svizzeri. Per tutti gli altri le tasse oscillano tra le 55mila e le 111mila corone danesi, cioè tra i 7mila e i 15mila euro, in base alla cittadinanza e al corso di laurea frequentato.Agli studenti danesi, nessuno escluso, viene garantito dallo Stato anche una sorta di “stipendio” mensile (chiamato SU), del valore di 2.903 corone (circa 390 euro) se vivono ancora con i genitori e di 5.839 corone (un po' più di 780 euro) se vivono da soli, specifica alla Repubblica degli Stagisti Carl Hagman, responsabile della comunicazione dell’università di Copenaghen, 45sima nella classifica Qs Ranking. Di questo aiuto economico possono usufruire anche altri beneficiari, rispettando le condizioni della legge danese ed europea: ad esempio quella per cui l’aspirante candidato alla Su deve lavorare o aver lavorato in Danimarca, come si legge sul sito "Study in Denmark" del Ministero della scienza, tecnologia e innovazione.Ora, se le tasse non gravano sul bilancio complessivo, bisogna comunque sostenere il costo della vita. Per capire quanto si spende valga il conteggio indicativo proposto da Hagman: considerando che una corona danese corrisponde a 0,134 euro, ogni mese vanno via in media tra le 2.600 e le 4.800 corone solo per l’alloggio (pari a una media tra 340 e 640 euro), tra le 1.500 e le 2.500 per il vitto (tra 200 e 330 euro), e tra 1.500 e 2mila euro a semestre per libri e materiale di studio (tra 200 e più di 260 euro). Infine nel budget bisogna includere tra le 600 e le mille corone necessarie per i mezzi di trasporto (80-130 euro) e infine un pacchetto mensile tra i 100 e i 250 euro, da destinare a spese aggiuntive.Può capitare allora di dover cercare un lavoretto extra ma l’impatto con la sezione online dell’università della capitale, creata per l’argomento, è tutt’altro che incoraggiante: vi si trova scritto testualmente che «è abbastanza difficile per gli studenti internazionali trovare un lavoro in Danimarca, cosicché nel programmare il soggiorno a Copenaghen, non dovreste basare le vostre finanze sulla possibilità di ottenere un impiego retribuito». Subito dopo per fortuna viene proposta qualche soluzione utile, tramite il collegamento ad un’altra pagina chiamata “Ku Jobbank” e al sito “Work in Denmark” - entrambi vetrine di annunci di lavoro - e agli uffici dell’ateneo competenti per il rilascio del permesso di lavoro, chiamato work permit.La cosa potrebbe interessare qualche membro della consistente popolazione italiana presente nell’università: lo scorso anno quest'ultima contava 47 dottorandi italiani, oltre 29 studenti post-doc, 34 professori e un centinaio di studenti iscritti ad un master a tempo pieno, con le facoltà umanistiche in testa. Di certo il sistema è molto diverso da quello italiano, a partire proprio dalla gestione degli studi: «La famiglia passa in secondo piano, non ti dà più soldi, i figli sono indipendenti».Lo racconta alla Repubblica degli Stagisti Antonio Tredanari, pugliese d’origine, danese d'adozione. Nell’agosto 2009 lascia Parma, dopo la triennale in Scienze e tecnologie ambientali e l'iscrizione alla specialistica. Un Erasmus di sei mesi in Svezia è per lui la spinta a prendere una decisione coraggiosa: fa la “rinuncia agli studi” in Italia e decide di partecipare al progetto EnvEuro, all'epoca alla terza edizione, grazie al quale svolge la specialistica (master) all’estero, trascorrendo il primo anno a Copenaghen e il secondo in Svezia dove scrive la tesi che discute nel 2011, per poi stabilirsi nuovamente in Danimarca.L’università di Copenaghen propone una vasta offerta di master’s programmes, riportati dalla a alla zeta sul sito: appurato che senza laurea triennale (bachelor’s degree) l’ammissione è fuori discussione, bisogna leggere attentamente lo schema di ciascun corso perché i requisiti, il processo di candidatura e i termini utili sono diversi l’uno dall’altro. Nel sito viene descritta in linea generale anche l’organizzazione dello studio, che secondo l’esperienza di Antonio è articolato in modo più pratico e specializzato rispetto all’Italia, essendo i 120 crediti annuali spalmati non tanto su libri quanto su presentazioni, lavori di gruppo, valutazioni costanti, casi da studiare.«Un aspetto positivo è che mi sono relazionato con sistemi formativi differenti riuscendo in qualche modo a prenderne il meglio» spiega facendo un bilancio di quel biennio: «Ma il master non mi ha facilitato nell’ingresso nel mondo del lavoro. I contatti con l’esterno erano abbastanza limitati. Ora magari le cose sono cambiate, hanno imparato dai nostri feedback». In definitiva «la situazione non è stata rosa e fiori neppure in Danimarca, tuttavia qui il sistema è diverso perché ci si prende molta più cura dei disoccupati. Non ti senti abbandonato».In che modo? «Bisogna iscriversi ad un’associazione, paghi una membership e loro ti danno per due anni un sussidio per aiutarti a trovare un altro lavoro. Questo vale per i quarantenni come per i neolaureati che hanno studiato in Danimarca». Il sussidio ammonta a circa 1.200 euro al mese, una cifra non altissima se paragonata al costo della vita, ma accompagnata dall’offerta di corsi per giocarsi altre carte: Antonio ne ha seguito uno di lingua danese che gli ha permesso di lavorare, dopo più di un anno di inattività, al Ministero dell’alimentazione, dell’agricoltura e della pesca, svolgendo un «vikariat, che sta per posizione temporanea», con una retribuzione di circa 1500 euro netti. Ma non passa neanche un mese che il ragazzo riceve una nuova proposta di lavoro nella sua compagnia attuale, in cui si occupa di monitoraggio ambientale guadagnando, con un contratto da ingegnere alla prima esperienza, tra i 2.200 e i 2.500 euro netti al mese.Antonio Tredanari non vuole andarsene. La Danimarca gli piace perché non è una società competitiva e ognuno lavora per dare il suo contributo. Per spiegare in che modo, lui dice così: «Il sistema qui tende ad appiattire e a rendere tutti più o meno uguali, non accetta molto le disuguaglianze, ma non si tratta di omologazione. Non noti molto le differenze tra il capo e il sottoposto a livello di relazioni. E anche le variazioni di reddito non sono poi così esagerate».Marta Latini- La foto della Lse è di Jim Larrison - licenza creative commons- La foto della biblioteca della Lse è di SomeDriftwood - licenza creative commonsPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Studiare all’estero, ecco tre università top del Nord America: costi da capogiro ma chi vale viene premiato- Università sotto casa addio, io vado in Asia: piccola guida per neodiplomati per studiare in Estremo orienteE anche:- Università in Europa, quanto mi costi- Radiografia del reddito minimo garantito: cos’è, quanto costa, come funziona- Come cambia lo stage in Europa: viaggio nei Paesi scandinavi

Prestiti d’onore, bassissimi anche nel 2013 i finanziamenti agli studenti

Negli ultimi tempi il governo sta muovendo alcuni passi in avanti sul fronte diritto allo studio. Lo scorso novembre dal ministero dell’Istruzione è stato annunciato lo stanziamento di 100 milioni di euro per incrementare il fondo per le borse di studio a universitari a partire dal 2014. La legge di stabilità ha aggiunto a queste risorse altri 50 milioni di euro. Un contributo importante, in un momento in cui studiare sta diventando sempre più un lusso, sia per chi vive con mamma e papà, ma soprattutto per i fuori sede. Da Federconsumatori è arrivato a ottobre l’allarme: le tasse universitarie annuali sono cresciute mediamente del 3% rispetto all’anno accademico 2012/2013, soprattutto nelle regioni del nord, dove pagarsi gli studi costa in media circa 748 euro l’anno. In passato la Repubblica degli Stagisti aveva approfondito il tema dei prestiti d’onore, ossia i finanziamenti che i le banche possono concedere, in collaborazione con i singoli atenei, ai propri studenti per coprire i costi di un corso di laurea o di un master. Prestiti da estinguere successivamente con tempistiche variabili a seconda del reddito percepito. Uno strumento che non ha però riscosso particolare successo: nel 2012 sono stati concessi in media 660 prestiti l’anno, su una popolazione universitaria che secondo i dati ufficiali del Miur ammonta a un milione e 800mila iscritti.Con l’obiettivo di incrementare il ricorso a questo tipo di finanziamento negli ultimi anni sono stati lanciati una serie di accordi tra atenei e istituti di credito. Ma come vanno le cose oggi? Attualmente non esiste un ente o una banca dati che raccoglie e monitora in modo sistematico i prestiti d'onore erogati, ma è possibile trovare informazioni sulle attività specifiche in tal senso di ciascuna banca.Nell’agosto del 2011 è ripartito il Fondo per il credito destinato ai giovani, sequel del progetto «Diamogli credito», poi diventato «Diamogli futuro», promosso dall’allora ministero della Gioventù, che prevedeva lo stanziamento di 33 milioni di euro per tre anni per il diritto allo studio. A distanza di poco più di due anni, i finanziamenti erogati sono complessivamente 795 (poco meno di 400 l’anno), per un ammontare di 7,56 milioni di euro, a fronte di 1756 richieste pervenute. Dato, quest’ultimo, da non sottovalutare: significa infatti che più della metà delle domande di finanziamento non hanno ottenuto esito positivo e, di conseguenza, in molti non hanno potuto beneficiare dei contributi. A dicembre 2011 la Regione Toscana ha previsto fino al 30 aprile 2015 l’attivazione di prestiti d’onore (fino a un massimo di 50mila euro) indirizzati a laureati di età compresa tra 22 e 35 anni, residenti o domiciliati in Toscana da almeno due anni, per lo svolgimento di percorsi di alta formazione e specializzazione in Italia e all’estero. Dal lancio del progetto fino alla fine dello scorso anno sono stati erogati 54 prestiti d’onore per un totale di poco più di un milione di euro, con singoli importi variabili tra i cinquemila e i 50mila euro. Beneficiari giovani di età compresa tra i 23 e i 33 anni.Nel 2012 l’università di Venezia ha stipulato un accordo con due istituti di credito che nell’anno accademico 2012/2013 ha permesso a 63 studenti meritevoli (iscritti a corsi di laurea triennali, magistrali e master) con ridotte capacità economiche di ottenere prestiti fino a massimo di 5mila euro l’anno.Il progetto avviato dall’università di Urbino in collaborazione con Banca Marche si chiama Magna Charta e prevede, invece, la concessione di prestiti d’onore a studenti di corsi di laurea triennali e specialistici, master, lauree a ciclo unico e corsi di specializzazione. Gli importi variano tra i 6 e i 12mila euro, per un periodo massimo di erogazione di tre anni. Prestito da rimborsare entro cinque anni dalla conclusione degli studi. Nel 2012 sono stati 66 i finanziamenti complessivi concessi, per un importo complessivo di 330mila euro. Una cifra in calo lo scorso anno: a dicembre 2013 erano 48 i prestiti erogati, con un valore complessivo di 135mila euro. A occhio e croce, quindi, i dati relativi all’anno appena concluso non sembrano discostarsi molto da quelli del 2012. Se non è un fallimento, poco ci manca. Dove si possono ricercare le ragioni? La Repubblica degli Stagisti lo ha chiesto a Daniele Terlizzese, dirigente della Banca d'Italia e autore, insieme ad Andrea Ichino, del libro «Facoltà di scelta. L'università salvata dagli studenti», sul tema del diritto allo studio. «I prestiti d'onore erogati finora sono indubbiamente molto pochi. E credo che il dato sia ancora più deludente se si misura l'ammontare complessivo prestato, rapportandolo al costo che gli studenti devono sostenere, invece che il semplice numero di prestiti. Un problema serio dei prestiti d'onore è il fatto che essi sono strutturati come un prestito tradizionale: l'ammontare della rata di rimborso è fissato a priori, senza tenere conto degli eventuali guadagni futuri dello studente. Non mi sorprende allora che, di fronte al rischio di una bancarotta individuale, molti ragazzi si ritraggano». Nel libro scritto con Andrea Ichino Terlizzese fa una proposta che ricalca l'esperienza di paesi come Australia, Canada e Inghilterra, ossia rendere il rimborso del prestito proporzionale al reddito: «La nostra proposta prevede che il rimborso sia pari al 10 per cento del reddito superiore ai 15mila euro annui. Questo rende l'onere del rimborso molto più accettabile, perché lo sposta nei periodi della vita in cui si guadagna di più, e in cui è meno penoso privarsi di una parte del reddito. Naturalmente, il prestito va rimborsato: quindi bisogna compensare la variabilità della data, che si adatta al rimborso, con la durata del periodo di rimborso, che si allunga quanto meno si paga. Ma nel complesso questa modalità mi sembra molto più accettabile e attraente per uno studente che è molto incerto su quanto guadagnerà». Ma purtroppo oggi non sembra muoversi molto su questo fronte: «Mi sembra che i 50 milioni stanziati dalla legge di stabilità per il diritto allo studio riguardino esclusivamente le borse di studio. Sul tema prestiti d'onore non c'è nulla. Nel 2011 è stata istituita la Fondazione per il merito, con l'obiettivo di sostenere la formazione dei giovani attraverso un sistema di prestiti e borse di studio per gli studenti più meritevoli. Leggendo i documenti costitutivi di questa fondazione, ho trovato varie proposte condivisibili, che andavano nella direzione da me tratteggiata prima. Ho l'impressione, però, che si tratti di intenzioni rimaste sulla carta. Non mi sembra che in concreto sia stato fatto granché».Chiara Del Priore Per approfondire questo argomento, leggi anche:- Studiare costa, ma in Italia i prestiti d'onore non decollano-  Addio diritto allo studio? Fondi ministeriali ridotti all'osso- La Regione Toscana presenta il progetto «Giovani Sì!» per sostenere studenti, stagisti e precari: 300 milioni di euro in tre anni

Finita medicina, che specializzazione scegliere? Ecco i settori con le maggiori chance occupazionali

Cinquantasei scuole di specialità: tante sono le possibilità che si aprono oggi al termine del corso di studi di un laureato in medicina. Per il quale, più che una scelta opzionale, il post laurea si configura ormai come una tappa formativa pressoché obbligata per poter lavorare all'interno del sistema sanitario nazionale.Scegliere la specializzazione giusta è quindi uno dei momenti cruciali per il futuro medico: tenuto conto anche della durata dei corsi - lunghi di norma 5 anni e addirittura 6 per alcune specialità dell'area chirurgica - e dell'impegno richiesto per superare l'esame di accesso alle scuole aggiudicandosi una delle ambite borse di studio messe annualmente a concorso dallo Stato. Vocazione a parte, proviamo allora a capire come orientarsi tra questo ampio ventaglio di specialità, a partire da quelle che nei prossimi anni faranno registrare le maggiori carenze di professionisti. Secondo i dati raccolti dall'associazione dei medici dirigenti Anaao Giovani, le aree coinvolte saranno soprattutto quelle della medicina interna, della geriatria, la cardiologia e la pediatria; ma anche la chirurgia generale, la ginecologia ed ostetricia, l'ortopedia, l'otorinolaringoiatria e l'urologia. Per quanto riguarda poi l'area dei servizi clinici, i maggiori spazi dovrebbero aprirsi per anestesia e rianimazione e per radiologia diagnostica.«Queste specialità sono quelle che risentono maggiormente del trend anagrafico» spiega Domenico Montemurro, consigliere nazionale di Anaao Giovani [nella foto di sinistra], «è qui che si concentra infatti un blocco di professionisti tra i cinquanta e i sessant'anni che, al momento della loro uscita dal lavoro, lasceranno la maggiore carenza di personale». Se puntare su una di queste specialità costituisce una scelta di buon senso in termini occupazionali, bisogna comunque tener presente che neppure il settore medico offre più le certezze di un tempo: né in termini di contratti e neppure di retribuzione. «Non c'è una specialità che offra garanzie in tal senso. Attualmente le regioni faticano ad assumere anche i medici delle specialità più richieste. Si pensi che una volta terminata la specializzazione si aspetta mediamente due anni per ottenere un contratto, che nella maggioranza dei casi è a tempo determinato, ma che può essere anche una collaborazione a progetto o libero professionale», spiega ancora Montemurro. Per quanto riguarda poi la retribuzione, sempre l'Anaao rileva che, nella fascia d'età compresa tra 33 e 40 anni, un professionista percepisce un reddito medio tra i 40 e 50mila euro lordi all'anno: non poco in termini assoluti, ma neanche tanto considerata la durata del periodo formativo e i numerosi ostacoli che deve comunque essere disposto ad affrontare chi decide di intraprendere questo percorso.Si parte dal test di ammissione alla facoltà, che nel 2013 è stato superato in media da un candidato su otto, ai sei lunghi anni del corso di studi, al termine dei quali - secondo quanto rilevato dall'ultima indagine del consorzio Almalaurea - gli aspiranti medici hanno già, in media, poco meno di 27 anni. Bisogna poi superare l'esame di stato abilitante all'esercizio della professione; dopodiché si potrebbe teoricamente iniziare a lavorare: ma non nel sistema sanitario nazionale, dove per partecipare ai concorsi è richiesto il requisito della specializzazione. E anche per diventare medico base è necessaria una preparazione specifica, che si ottiene mediante un corso di medicina generale, anche questo a numero chiuso e di durata triennale. «In poche parole se dopo la laurea non hai un corso di medicina generale o di specialità, puoi fare soltanto guardie mediche, sostituzioni di medicina generale e poco altro» sintetizza il rappresentante di Anaao. Si capisce così tutta l'importanza che per gli aspiranti medici in formazione riveste la questione dei posti messi a concorso ogni anno per le varie specialità e finanziati con una borsa di studio: questa sì decisamente sostanziosa  - considerato soprattutto  il panorama dei tirocini e dei praticantati professionalizzanti italiani -  che si aggira mediamente sui 1.750 euro netti per le varie specialità e circa 1000 euro per la scuola di medicina generale.«Quella che si sta venendo a creare è una situazione abbastanza critica», denuncia Stefano Guicciardi, presidente del Segretariato italiano degli studenti di medicina (Sism). «Ogni anno infatti il numero dei laureati che si abilitano è molto superiore a quello di coloro che riescono ad accedere ad una scuola di specializzazione con un contratto formativo. Negli anni si sta così formando un bacino di medici di fatto esclusi dal circuito della formazione specialistica, per i quali si pongono notevoli problemi dal punto di vista occupazionale». A molti di loro non resta altra scelta che affrontare la specializzazione in forma gratuita, o meglio autofinanziarsi per tutta la durata della formazione. Rispetto al 2012/2013, quando le borse statali erano 4.500, per l'anno corrente il numero è anzi sceso di circa mille unità (a cui si devono aggiungere circa 900 posti per il corso di medicina generale). «E se non ci fossero state le proteste di alcune associazioni studentesche, le borse di studio sarebbero oggi non 3.500 ma 2.800, a fronte di circa 7.500-8.000 aspiranti specializzandi che ogni anno partecipano all'esame», sottolinea il presidente del Sism in riferimento alla vicenda del drastico taglio inizialmente imposto dalla legge di stabilità ai finanziamenti destinati proprio ai contratti formativi degli specializzandi per il 2014. L'anno appena iniziato riserva comunque anche alcune positive novità sul fronte specializzazioni: in primo luogo per quanto riguarda la modalità di accesso alle scuole che, per la prima volta, avverrà sulla base di una graduatoria nazionale. Ci sarà in pratica una prova unificata, costituita da una parte di quesiti di medicina generale e poi da una serie di domande relative alle singole specialità; una volta pubblicata la graduatoria finale sarà lo specializzando a scegliere a quale scuola iscriversi, allontanando così le pesanti ombre di favoritismi da parte dei singoli atenei più volte denunciate dai partecipanti ai concorsi. Ma entro la fine del prossimo marzo, si attende soprattutto un decreto del Miur con il quale si promette di approntare un riordino complessivo delle specializzazioni di area sanitaria, riorganizzando e razionalizzando le tipologie di corso e la durata dei periodi formativi. Ilaria CostantiniPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:Medici specializzandi e aspiranti psicologi: la lunga gavetta delle professioni sanitarieMedici specializzandi, allarme rientrato: sparisce l'emendamento sull'Irpef per le borse di studio