Categoria: Approfondimenti

Tribunali, maxi stage lunghi 4 anni per coprire i buchi di organico: ma adesso tutti a casa

Se la giustizia in Italia è lenta non è solo per l'eccessivo numero di leggi e per i bizantinismi del sistema giudiziario. C'è anche un problema molto più terra-terra: la mancanza di personale. Gli uffici giudiziari sono infatti probabilmente il comparto pubblico che ha più buchi di organico: le stime parlano di 9mila dipendenti “mancanti”. Parte da questo punto, incontrovertibile, la storia che oggi la Repubblica degli Stagisti vuole raccontare. Una storia per molti versi assurda. Perché negli ultimi anni molti degli archivisti, commessi, centralinisti, impiegati che mancano nei Tribunali sono stati rimpiazzati da stagisti. Non solo giovani laureandi o neolaureati: in questo caso si tratta di quaranta-cinquantenni, cassintegrati o in mobilità, utilizzati come “tirocinanti” per un tempo abnorme: due, tre, in molti casi addirittura quattro anni, in spregio a tutte le leggi che fissano una durata massima per i tirocini. Nel 2010 a qualcuno viene in mente di utilizzare i lavoratori cassintegrati, in mobilità o in disoccupazione percettori di ammortizzatori sociali all’interno degli uffici amministrativi o delle cancellerie. I bandi vengono pubblicati dalle singole regioni o province e finanziati con fondi europei. I percorsi hanno l’obiettivo di aiutare la macchina giudiziaria ma vengono pubblicizzati anche – si legge per esempio nel bando del Lazio –  come «un’opportunità di lavoro e formazione on the job»; per chi la coglie ci sono 300 euro al mese di compenso, che vanno a sommarsi all’indennità di disoccupazione o alla cifra di cassa integrazione. La prima regione a partire è stata il Lazio e poi via via a macchia d’olio i bandi provinciali o regionali sono spuntati lungo tutta la Penisola, dalla Lombardia alla Sicilia. Il primo bando è partito nel 2010 ed «era un bando provinciale e aveva la durata di un anno solare, dal giugno 2010 al giugno 2011. Poi è subentrata la Regione e si è arrivati al giugno 2012» spiega alla Repubblica degli Stagisti Emiliano Viti, coordinatore nazionale dell’Unione precari giustizia e lui stesso ex tirocinante. «I nostri orari erano gli stessi dei dipendenti, dal lunedì al venerdì, anche con il rientro pomeridiano». Il compenso di 10 euro al giorno previsto per i 2.924 stagisti-cassintegrati era un’aggiunta alla cassa integrazione ma quest'ultima, con il tempo, si è esaurita: il compenso del tirocinio a quel punto è diventato per molti l'unica fonte di reddito. «La gran parte dei soggetti aveva solo questa come entrata mensile. Poi qualcuno con tempi più lunghi di cassa integrazione aveva qualcosa di più dignitoso», ma con il tempo i fondi degli ammortizzatori sono terminati anche «perché abbiamo finito un ciclo formativo che dura ormai da quattro anni» continua Viti. Perché uno degli aspetti più critici di questo caso sta proprio nella durata degli stage. Per legge potrebbero durare sei mesi, al massimo 12, proroghe comprese: invece questi tirocini nei Tribunali, grazie a una sorta di gioco delle tre carte, sono stati prorogati di anno in anno, dal 2010 al 2014, e ancora devono concludersi. I bandi nel corso degli anni sono stati banditi da soggetti diversi – inizialmente le Province e le Regioni, poi anche il ministero della Giustizia – cambiando nome e condizioni. Una volta scaduto un bando, insomma, e terminate le ore, subito veniva indetto un altro bando e le stesse persone che avevano partecipato al precedente, quasi senza soluzione di continuità, venivano riprese all'interno del successivo, e rimesse “in tirocinio”. Sempre negli stessi uffici giudiziari. Ad esempio a Cosenza nel 2012 il tirocinio era stato ribattezzato «Progetto Tirocinio “On the job”», inizialmente finanziato per tre mesi: con fondi europei dell’asse I adattabilità corrispondeva un rimborso spese pari a 10 euro al giorno per la distanza dal luogo di lavoro, più un’indennità di frequenza di 1,29 euro l’ora, più l’eventuale buono pasto se si lavorava per più di cinque ore al giorno. Ma poiché l'orario di lavoro non era mai superiore alle cinque ore al giorno, il buono pasto di fatto non c'era.Il meccanismo si è ripetuto identico in quasi tutte le regioni d’Italia nel 2010, 2011 e 2012. Difficile per i destinatari  sottrarsi. «In quanto iscritti negli elenchi dei lavoratori in mobilità, la prima cosa da fare per avere diritto agli ammortizzatori sociali è dare la propria disponibilità ad accettare un’offerta» spiega alla Repubblica degli Stagisti Patrizia Carere, tirocinante per quattro anni presso il tribunale di Cosenza e coordinatrice del Progetto Europa per l’Upg, che da mesi analizza i bandi iniziali dei singoli enti locali per verificare le loro finalità e controllare che sia stato fatto un uso corretto dei fondi europei che li finanziavano e servivano ad attivare politiche attive per il reinserimento lavorativo. Analisi che ha portato anche alla presentazione di un'interrogazione parlamentare di cui si attende a giorni una risposta. «Se vieni chiamato dal centro per l’impiego devi accettare per non perdere l’ammortizzatore sociale», continua la Carere, che è stata la prima a contattare la Repubblica degli Stagisti denunciando il caso. E, infatti, la convocazione da parte dei centri per l’impiego era esplicita su questo punto: «Il suo rifiuto alla partecipazione all’iniziativa comporterà il decadimento dai trattamenti previdenziali legati alla mobilità». È questo il motivo per cui in tanti hanno continuato ad accettare, proroga dopo proroga. Il vero cambiamento arriva con la legge di stabilità per il 2013, la 228 del 2012. Visti forse i buoni risultati che l’uso di questi tirocini aveva avuto, la gestione passa in mano al ministero della Giustizia. Nell’articolo 1 comma 25 lettera c della legge si stabilisce, infatti, la ripartizione delle spese che per il solo anno 2013 consentirà «ai lavoratori cassintegrati, in mobilità, socialmente utili e ai disoccupati e inoccupati che a partire dall’anno 2010 hanno partecipato a progetti formativi regionali o provinciali presso gli uffici giudiziari, il completamento del percorso formativo entro il 31 dicembre 2013, nel limite di spesa di 7,5 milioni di euro». Praticamente gli stessi individui passano sotto l’accreditamento del ministero della giustizia e non fanno altro che continuare a svolgere sempre gli stessi compiti. Attenzione al nome: con questo passaggio i tirocini passano dalla definizione di “tirocini formativi” a quella di “completamento dei tirocini”: come se non bastassero gli anni precedenti per aver completato l'apprendimento delle mansioni. Una ipocrisia bella e buona, che però in quel momento serve allo scopo: perché soddisfa contemporaneamente sia la necessità degli uffici giudiziari di avvalersi di quel “personale aggiuntivo”, ormai perfettamente operativo e dunque utilissimo nello svolgimento delle attività ordinarie, sia il desiderio dei disoccupati-tirocinanti, ormai “abituati” al loro “lavoro” nei Tribunali, e speranzosi che il tirocinio si possa prima o poi trasformare in una stabilizzazione. Dunque nella seconda parte del 2013, grazie ai 7 milioni e mezzo, ciascun “tirocinante della giustizia” svolge 210 ore (dunque all'incirca altri due mesi di stage). A questo punto si passa a una ulteriore nuova definizione e cioè il “perfezionamento” del percorso formativo per cui sono previsti questa volta ben 15 milioni di euro. Peraltro il ministero, scrivendo nero su bianco nei suoi documenti le parole “completamento” e “perfezionamento”, si dà – forse inconsapevolmente – la zappa sui piedi, perché i due termini fanno pensare subito a un unico grande tirocinio che seppure a momenti alterni va avanti fin dal giugno 2010. Qualcosa però va storto e una volta finito il “completamento” i tirocinanti sono chiamati per completare solo una parte del "perfezionamento", composto da due tranche ognuna di 230 ore. Finite le prime 230 ore nessuno viene convocato per le altre. Nonostante sia previsto che i soldi stanziati siano spesi entro il 31 dicembre 2014, i “tirocinanti della giustizia” dopo oltre tre anni vengono lasciati a casa. Così cominciano le proteste in piazza e sul web, che raccolgono appoggio da svariate figure politiche e giuridiche. Poi a dicembre il ministero recupera miracolosamente un milione e mezzo di euro – dei 7,5 mancanti – per permettere di svolgere 70 ore di quest'ultima tranche del "perfezionamento" entro la fine dell’anno. Quindi solo una parte delle ore previste inizialmente. I tirocinanti rientrano dunque, dopo alcuni mesi, negli stessi uffici dove hanno passato già migliaia di ore tra il 2010 e il 2013, e svolgono queste ultime 70 ore (pari a un paio di settimane), per le quali è previsto in questo caso il compenso di 10 euro lordi all'ora, dunque 700 euro. Da ricordare che per molti di loro le coperture della cassa integrazione e della mobilità si sono esaurite. Poi più nulla: ad oggi questi tirocinanti avanzano ancora 160 ore e non hanno avuto gli ultimi soldi che gli spettavano. «Devono ancora pagarci le 70 ore di dicembre» spiega Viti, e per salvare le ore previste e mai svolte all’ultimo momento il governo ha pensato di inserire nel decreto mille proroghe lo slittamento della data di chiusura del perfezionamento di tirocinio e di posticiparla al 28 febbraio. Si presume che il ministero stia ultimando le ultime pratiche per ricominciare, ma ad oggi, 16 gennaio, non c’è ancora nessuna notizia e si rischia di non fare in tempo a completarle entro la data prevista. Per questo i tirocinanti raggruppati in un comitato spontaneo che ha preso il nome di Unione precari giustizia cerca da mesi di attirare l’opinione pubblica e politica per avere delle risposte e ottenere i crediti ancora non pagati. L'Upg rivendica anche il diritto a vedere riconosciuti i titoli della formazione ricevuta: «Non cerchiamo scappatoie ad un eventuale selezione» chiarisce la Carere «ma in attesa di un concorso il governo ha tutti gli strumenti per darci la possibilità di rientrare visto che non usufruiamo più nemmeno degli ammortizzatori sociali». Perché il vero problema, come spesso capita quando si parla di tirocini svolti nella pubblica amministrazione e ancor di più quando essi coinvolgono persone adulte, è che competenze e professionalità acquisite non comportano uno sbocco professionale concreto. Si riceve una formazione specifica, si imparano a svolgere dei compiti che permettono di velocizzare e migliorare le prestazioni degli uffici in cui si lavora, si viene inseriti in organico con orari e turni e alla fine i fondi europei – o, in casi come questo, risorse inserite nella legge di stabilità – finiscono nel vuoto perché gli uffici pubblici non possono assumere e al settore privato le competenze specifiche del pubblico interessano poco. Si entra nel classico vortice all’italiana dello spreco: di fondi pubblici, di formazione e di tempo.  Il sostegno ai “tirocinanti della giustizia”, con la richiesta di farli assumere in qualche modo, sono arrivate da più parti: dal presidente della Corte di appello di Venezia, Antonino Mazzeo Rinaldi, come dal Primo presidente e dal procuratore generale della corte suprema di Cassazione, Giorgio Santacroce e Gianfranco Ciani, che in una lettera inviata ai ministri della giustizia, dell’economia e della pubblica amministrazione li hanno definiti «un ausilio di speciale rilievo nel recupero dell’arretrato» e auspicando che tali professionalità non si disperdessero e il rinnovo «della possibilità di fruire di questi lavoratori».   Torna il discorso dei buchi di organico: «C’è una carenza di organico riconosciuta di 9mila unità e quest’anno ci saranno altre mille unità che andranno in pensione» sottolinea il coordinatore Upg Viti: «Nonostante questo, l’ultimo concorso per il ministero della giustizia risale al 1996. Si parla sempre dei giudici e mai del personale amministrativo senza cui le cause non vanno avanti. Se ci facessero entrare in organico si coprirebbero almeno alcuni vuoti, anche se in realtà solo un terzo». La loro richiesta: «Fare una selezione pubblica, utilizzare i centri per l’impiego e veder riconosciuti i titoli. Molti di noi sono laureati e vengono da profili professionali medio alti ma c’è la disponibilità a entrare anche con profili più bassi. E a quel punto, per chi ne ha la possibilità e i titoli di studio, eventualmente accedere a un concorso interno per cancellieri». Una soluzione che secondo l’Unione precari giustizia consentirebbe quella riqualificazione del personale interno che si aspetta da tempo e la non dispersione delle professionalità acquisite, a spese di fondi pubblici peraltro. Perché alla fine, e questo è un punto centrale che va al di là delle ore che devono essere completate, la domanda che i decisori politici dovrebbero farsi è una: a questi lavoratori licenziati è stato reso un buon servizio, prevedendo per loro un maxistage di oltre tre anni in uffici giudiziari senza avere poi l'intenzione di assumerli? «Sulla possibilità di trovare un lavoro grazie a questo percorso sono abbastanza pessimista» si rammarica, infatti, Emiliano Viti.  E in questo senso sembra dargli ragione il progetto organizzativo Programma Strasburgo 2, il piano eccezionale del ministero della giustizia per lo smaltimento dell’arretrato civile ultratriennale, presentato proprio questa settimana dal guardasigilli Andrea Orlando, in cui si prevedono interventi per il reclutamento di nuove risorse umane da destinare agli uffici giudiziari di cui 1.031 posti (su 9mila vacanti) di personale amministrativo coperti con un’imminente bando di mobilità volontaria esterna, 71 unità già trasferite da altri ministeri con la mobilità compartimentale e 144 in corso di assunzione attraverso graduatorie rimaste parzialmente inutilizzate da altre amministrazioni. Per fortuna questa volta nessun tirocinio, nessuna work experience, nessun prolungamento di vecchi bandi forieri di false speranze, ma ancora nessun nuovo concorso e troppo poche risorse rispetto a quei famosi 9mila buchi di organico. A questo punto perché non indire un concorso, prevedendo per gli ex tirocinanti (Upg e non solo) un punteggio aggiuntivo come riconoscimento delle competenze acquisite, e permettendo il reclutamento di almeno parte del personale mancante attraverso una procedura trasparente e meritocratica? Foto rettangolare: di Alessio Viscardi in modalità creative commons

Ricerca medica, in Italia il 40% lavora gratis

Fare ricerca in Italia? Un atto di coraggio, date le condizioni a cui i ricercatori sono costretti a lavorare: uno su quattro lo fa a titolo praticamente volontario. Una indagine realizzata dalla Fondazione Giorgio Pardi e da AstraRicerche, presentata qualche settimana fa, ha scattato una fotografia preoccupante della ricerca di base e medica nel nostro Paese:  i giovani lamentano di non essere selezionati con criteri meritocratici, di non sentirsi valorizzati né motivati e spesso di non venire neanche pagati - con conseguenze gravi, dalla fuga all’estero al mancato ritorno, fino all’abbandono dell’attività di ricerca o alla decisione di proseguire comunque, a tutti i costi, anche senza una equa retribuzione per il proprio lavoro.«I ricercatori universitari hanno un’età media di 45 anni e nell’area medica in Italia ce ne sono poco meno di tremila» dice alla Repubblica degli Stagisti Domenico Montemurro, responsabile del settore giovani del sindacato dei dirigenti medici Anaao Assomed. Lo studio di Fondazione Pardi ha preso in esame un campione di poco più di 550 di questi ricercatori, di cui la maggioranza (66%) donne e oltre uno su tre con più di 46 anni: si tratta di medici specializzati in vari campi - ginecologia, pediatria, neonatologia - ma anche di biologi, embriologi e biotecnologi. Secondo l’indagine l’Italia è rimasta indietro rispetto ad altri Paesi, specie per quanto riguarda le possibilità di avanzamento professionale, i redditi e la valorizzazione dei meriti. Per questo un quarto dei ricercatori interpellati ha raccontato di aver scelto di fare una o più esperienze internazionali: per tre su cinque si è trattato di una scelta propedeutica ad un eventuale ritorno in Italia, mentre la metà ha deciso di andare all’estero alla ricerca di migliori opportunità. Tre quarti degli intervistati hanno comunque effettuato esperienze di ricerca anche nel nostro Paese, nella metà dei casi senza essere pagati: questi ricercatori sono riusciti a tirare avanti grazie all’aiuto della famiglia oppure dedicandosi ad altre attività - come la pratica clinica per i medici.«Quello che colpisce è la differenza tra la percezione e il vissuto personale dei ricercatori» aggiunge Sabino Frassà, segretario generale della Fondazione Giorgio Pardi. «Se la percezione generale è di una situazione grave, d’altra parte c’è la forza di volontà dei singoli, la loro dedizione: il 40% fa ricerca in Italia anche senza ricevere nessun compenso, e per vivere deve dedicarsi ad altro. E non è una situazione che coinvolge solo i giovanissimi; ci sono anche molti over 45, come spesso accade nel settore medico, che fanno ricerca, ma vengono retribuiti solo per la pratica clinica, senza che gli venga riconosciuto alcun ruolo accademico». Un’altra evidenza che emerge dallo studio è che i ricercatori sono in maggioranza donne. «Da un lato questo vuol dire che la medicina e la biologia sono diventate sempre più appannaggio delle donne» nota Frassà: «Dall’altro, significa che la carriera nella ricerca non è vista come appetibile dal potenziale “padre di famiglia”: con mille euro al mese e contratti precari non è possibile mettere su famiglia, né pagare un affitto o tantomeno un mutuo». Eppure in Italia «la qualità della formazione è alta: la ricerca viene fatta ad altissimi livelli, finché è pagata. Purtroppo c’è pochissimo impegno per agevolare il rientro dei cervelli dall’estero: ci si barcamena per non far partire chi è rimasto», sottolinea il segretario generale della Fondazione.Questa situazione ha portato a risultati molto negativi: tre intervistati su dieci in questo momento non sono impegnati in alcuna attività di ricerca, quattro su dieci fanno ricerca ma senza ricevere alcun sostegno e solo il 14% la svolge con gli opportuni finanziamenti. Di questi, la gran parte (63%) riceve i fondi dal settore pubblico e il resto si divide pressoché equamente tra chi riceve finanziamenti dal settore privato - generalmente da imprese - e chi viene sostenuto da associazioni non profit o fondazioni. Un terzo del campione non ha mai ricevuto finanziamenti per fare ricerca in Italia e degli altri solo poco più di uno su venti ha potuto usufruire dei fondi per il rientro in patria dei ricercatori operanti all’estero. Tra chi lavora ancora oltreconfine, la maggioranza fa sapere che vorrebbe tornare in Italia, ma solo a patto di trovare le stesse opportunità. Oltre alla necessità di garantire adeguate forme di sostegno ai ricercatori, gli intervistati concordano: serve ripensare radicalmente il modello attuale.A parte lo Stato, «che spesso viene criticato perché poco attento alla meritocrazia», a finanziare la ricerca sono le imprese private, che però «percentualmente contano meno rispetto a quanto accade negli altri Paesi», e «il terzo pilastro: il non profit. Come Fondazione Giorgio Pardi avevamo iniziato a sostenere diversi centri di natalità in alcuni tra i Paesi più poveri del mondo, come Haiti, Ecuador e Afghanistan, ma poi abbiamo deciso di puntare sul sostegno dei giovani ricercatori in Italia», riassume Frassà. Tra le iniziative, ad esempio, c’è il premio assegnato a metà dicembre, al termine del Congresso Agorà della Società nazionale di medicina perinatale, a quattro ricercatori under 36: Annamaria Nuzzo, Salvatore Gizzo, Sara Tabacco e Federica Veggo. «Il punto è che raccogliere fondi per aiutare un bimbo in Africa è più facile che ottenere finanziamenti per la ricerca» si rammarica il segretario generale della Fondazione: «Alcuni tipi di ricerca, come quella sul cancro, generano più empatia, perché la malattia fa paura: mentre l’idea di sostenere un giovane in Italia non è ancora diffusa. Nel nostro Paese i giovani vengono visti come un’opportunità, ma anche come un problema».Il tema è particolarmente pressante per quanto riguarda i ricercatori di area medica: come sottolinea Domenico Montemurro «per la formazione di un medico, tra ciclo di laurea e specializzazione, lo Stato investe in media circa 150mila euro: e al termine del percorso di studi, come sappiamo, in molti scelgono di andare all’estero». Nel triennio 2012-2014 infatti «circa 670 medici tra i 25 e i 39 anni sono espatriati», snocciola Montemurro «ma è un dato sottostimato, perché non conosciamo l’esatto numero dei “certificati di onorabilità professionale” che vengono rilasciati dal ministero a chi vuole andare all’estero. A spanne dovrebbero essere circa un migliaio; tra le mete preferite ci sono Francia, Germania, Svezia, Regno Unito oppure lidi più lontani, come l’Australia». Molti di loro partono proprio per fare ricerca.«Tra le difficoltà maggiori, c’è il fatto che con la riforma Gelmini i contratti di ricerca durano 3 anni più 2, al termine dei quali chi non riesce a prendere l’idoneità da professore associato resta fuori». Di conseguenza molti ricercatori sono in realtà «specializzandi, che svolgono attività di ricerca durante il corso di specializzazione, ma vengono pagati solo per l’attività clinica e spesso non possono inserire il loro nome nelle pubblicazioni, così che questi lavori non possono entrare nel curriculum», aggiunge il rappresentante del sindacato: «I medici possono inoltre fare un dottorato di ricerca, dopo la laurea oppure durante l’ultimo anno della specializzazione, con o senza borsa. La durata media dei dottorati è di 3-4 anni e con la borsa di studio la retribuzione è di circa 1300 euro lordi, pari a circa mille euro netti al mese: ovviamente, chi fa il dottorato durante la specializzazione non riceve la borsa». In più «questi medici possono svolgere attività libero professionale, ma fino a un massimo di 15mila euro lordi all’anno e previa autorizzazione da parte dell’università». Tra precariato e bassi compensi, scegliere di fare ricerca medica in Italia assomiglia a un salto nel buio: «La legge che avrebbe dovuto agevolare il rientro in patria dei ricercatori non ha praticamente funzionato, e in più il fondo per la ricerca clinica è stato recentemente decurtato». Anche per questo la chiusa di Montemurro è pessimista: «I migliori cervelli rimangono all’estero». A meno che il ministero ora guidato da Stefania Giannini non metta in campo azioni per invertire la rotta.Chiara Merico

Medico e startupper, inventa un collare che riduce i danni da infarto: troverà finanziatori in Italia?

Un collare che permette di mandare in ipotermia i pazienti colpiti da attacco cardiaco, riducendo così i danni cerebrali. Questo il prodotto che sta sviluppando NeuronGuard, start-up fondata a Modena nel maggio del 2013 dal Enrico Giuliani, medico trentaduenne specializzato in anestesia e rianimazione, e Mary Franzese, 28 anni, laureata in Economia aziendale alla Liuc e con un master in Imprenditorialità e strategia aziendale alla Sda Bocconi. I due soci si sono conosciuti a SeedLab, dove Giuliani è stato selezionato per un periodo di incubazione da giugno a settembre 2013. «Era solo e aveva bisogno di alcune figure consulenziali» ricorda Mary Franzese: «Siamo state selezionate io e un'altra persona. Con Enrico ci siamo trovati bene e, lo scorso mese di ottobre, siamo diventati soci». L'azienda è una isrl con un capitale sociale da 85mila euro, versato grazie ai risparmi dei due startupper e ad una quota messa a disposizione dalle loro famiglie. Entrambi lavorano a tempo pieno, «ci diamo uno stipendio minimo, che non bruci le nostre disponibilità. Noi due soci prendiamo insieme 1.400 euro netti al mese. E dal 1° dicembre abbiamo inserito due ingegneri elettronici part-time con un contratto a progetto che lavorano da remoto». Giuliani ha addirittura lasciato il posto in ospedale per realizzare il suo progetto. L'idea per il collare, spiega, nasce dalla sua esperienza lavorativa «ma anche da quella di volontariato sulle ambulanze della Croce Rossa, che mi ha permesso di conoscere le problematiche legate al soccorso extraospedaliero». L'ipotermia, ovvero l'abbassamento della temperatura corporea tra i 36 ed i 32 gradi, è una terapia certificata per i pazienti affetti da infarto. Il problema che NeuronGuard vuole risolvere è quello di «rendere portatili gli strumenti per somministrare questa cura». Facilmente trasportabile sulle ambulanze, il collare è alimentato dall'energia elettrica: «Questo, a differenza di quelli basati su una reazione chimica, permette di somministrare la terapia per un periodo più lungo».Al momento Neuronguard sta ultimando la prototipazione con un'azienda di Vignola; prima di vedere il prodotto sul mercato, però, ci vorranno dai 24 ai 36 mesi. «Dobbiamo svolgere tutto il percorso regolatorio e quello legato agli studi clinici di validazione. Quindi dobbiamo certificare il dispositivo per ottenere il marchio CE in Europa e la Clearance per gli Stati Uniti». L'idea infatti è quella di confrontarsi da subito con un mercato internazionale. Ed è anche per questo che ad ottobre hanno partecipato, a Vilnius, al concorso Intel business challenge Europe, arrivando secondi classificati: un risultato che li ha qualificati direttamente per le finali mondiali, e così a novembre i due startupper sono volati nella Silicon Valley. Ma poi hanno deciso di tornare a Modena. «Ce l'hanno consigliato gli stessi americani con cui ci siamo confrontati» spiega Franzese «suggerendoci di proseguire con la ricerca sul territorio modenese, perché tante delle competenze di cui abbiamo bisogno si trovano qui e non altrove». Non solo: «Per sviluppare il nostro progetto abbiamo bisogno di professionalità altamente qualificate, che negli Stati Uniti ci costerebbero molto di più».Anche in Italia i due giovani imprenditori hanno trovato un terreno fertile per far crescere la loro azienda. «Abbiamo vinto diversi premi che ci hanno dato diritto ad alcuni periodi di incubazione, come “Dall'idea all'impresa” nell'ambito del Marzotto, grazie al quale abbiamo appena terminato un'esperienza di un anno all'interno di I3P a Torino» spiega Giuliani «e siamo stati ammessi ad un finanziamento nell'ambito di un bando per le start-up innovative della regione Emilia Romanga, che sostiene il 60% delle spese di ricerca. Fino ad oggi abbiamo ottenuto contributi per una cifra tra i 50 ed i 60mila euro, più o meno».Ma un dispositivo medicale come quello che NeuronGuard sta sviluppando non ha attirato l'interesse di qualche venture capitalist? «Abbiamo avuto diversi incontri, che in realtà però sono stati più degli “scontri”» ammette Franzese: «Ci hanno detto che siamo in una fase ancora di early stage, che prima di finanziarci avrebbero voluto dei risultati che confermassero la validità della terapia. Allora abbiamo deciso di mettere in campo le nostre risorse e presentarci di fronte a potenziali investitori con una forza maggiore». Mentre continua lo sviluppo del collare, per il 2015 il primo obiettivo è quello di «dotarci di una sede. Oggi i nostri uffici sono i nostri appartamenti». E chissà che non riescano ad essere la versione modenese dei garage della Silicon Valley.Riccardo Saporitistartupper@repubblicadeglistagisti.it

White jobs, uno dei (pochi) settori in cui l'occupazione è in crescita

In tempi di forte crisi occupazionale ci sono dei lavori che negli ultimi anni sono cresciuti in termini di nuovi occupati e che promettono di farlo anche per i prossimi anni. Si tratta dei così detti white jobs, cioè tutti quei lavori che rientrano in questa grande macro categoria che comprende i lavoratori nei servizi sanitari, sociali e alla persona. Non necessariamente quindi solo medici, ma soprattutto figure di assistenza alle persone, dalla cura dei bambini a quella degli anziani e dei disabili.Un recente rapporto di Italia Lavoro intitolato «Le prospettive di sviluppo dei white jobs in Italia» ha messo in evidenza i numeri di questo settore. E per una volta si può dire che siano dati “impressionanti” - ma in positivo. Dal 2000 ad oggi c’è stata una crescita degli occupati in questo settore di oltre il 70% con 2 milioni e mezzo di persone che oggi lavorano in questo campo e che hanno, nove su dieci, un contratto a tempo indeterminato. E tra questi lavoratori il livello d’istruzione è decisamente superiore a quello complessivo visto che quattro su dieci sono diplomati e poco meno hanno la laurea.«I white jobs rappresentano una componente importante del nostro sistema economico: producono 98 miliardi di valore aggiunto che è cresciuto dal 2000 al 2011 del 21%, a fronte del 4,5 della media di tutti i settori economici» spiega Paolo Reboani, presidente di Italia Lavoro, illustrando il rapporto. E i valori positivi ci sono anche nel periodo della crisi iniziato nel 2008, quando in confronto a una flessione delle attività economiche, questo settore vede un aumento poco al di sotto del 4%. «Negli ultimi dieci anni il numero delle cooperative sociali è raddoppiato passando da meno di 6mila a quasi 12mila imprese attive, così come il numero dei lavoratori occupati che ha registrato un aumento del 17,3% in quattro anni» spiega alla Repubblica degli Stagisti Cristina Bazzini, presidente del gruppo cooperativo Colser-Auroradomus, con una lunga carriera nel campo delle cooperative - è diventata presidente del gruppo Colser a soli 27 anni e oggi guida oltre 5mila tra soci e dipendenti con un fatturato di 130 milioni di euro. La Bazzini sottolinea che i dati sulle possibilità occupazionali del settore sono «assolutamente in controtendenza rispetto a quelli che siamo abituati a registrare in questi lunghi anni di crisi», e il trend continuerà così: «è una crescita che non ha espresso ancora tutto il suo potenziale».Il totale occupati italiano in questo settore è in effetti ancora lontano dai numeri di Francia e Regno Unito, tanto che anche il rapporto di Italia Lavoro assicura che il numero dei lavoratori nel settore dei white jobs «potrebbe aumentare da 2,5 milioni del 2012 a circa  tre milioni del 2020, grazie soprattutto alla componente femminile, che inizia a diventare maggioritaria anche nella professione tradizionalmente più maschilizzata dei medici», come scrive Reboani nell’introduzione al rapporto. Dunque non solo più occupazione ma più opportunità anche per le donne, spesso e volentieri ai margini del mercato del lavoro.Ma per far ripartire il mercato del lavoro e soprattutto questo settore servono delle risorse aggiuntive a quelle pubbliche. «Il riconoscimento legislativo delle cooperative sociali di una specificità giuridica propria che conferisce “dignità d’impresa” alle attività di solidarietà sociale ha rappresentato un passaggio fondamentale. A questo si sono accompagnate agevolazioni di carattere fiscale e contributivo che fanno interagire la natura di ente senza scopo di lucro e la natura mutualistica e cooperativa» spiega alla Repubblica degli Stagisti Cristina Bazzini. «Ma l’economia sociale potrà liberare il proprio potenziale solo a condizione che ci sia uno scatto in avanti sul potenziamento delle politiche di welfare e delle politiche attive per l’occupazione». In questo senso l’auspicio è che il Governo e l’Europa cambino il ruolo dei finanziamenti destinati alle politiche sociali «considerandoli investimenti, non spesa».Nel campo delle risorse aggiuntive all’estero, specie in Francia, si è deciso di affidarsi ai voucher, un’ipotesi che è stata presa in considerazione anche in Italia. E infatti sia al Senato sia alla Camera è stata presentata da parlamentari di differenti gruppi politici una proposta di legge per l’istituzione del voucher universale per i servizi alla persona e alla famiglia, che si ispira proprio al modello francese. Il voucher avrebbe lo scopo di raggiungere contemporaneamente tre obiettivi: «La riduzione del costo dei servizi, la loro qualificazione e l’emersione del lavoro nero, così diffuso in questo settore, anche per recuperare risorse aggiuntive e maggior gettito fiscale e contributivo» riassume Reboani. La proposta di legge ha poi anche l’obiettivo di costruire un sistema di servizi alla persona di qualità e con costi sostenibili proprio per facilitare la conciliazione tra vita privata e lavoro e soprattutto contribuire alla crescita dell’occupazione femminile.A chi sostiene che un provvedimento del genere andrebbe a gravare troppo sulle spalle dello Stato è il rapporto a snocciolare numeri per dimostrare la compatibilità finanziaria di queste misure, riportando le conclusioni di una ricerca condotta dal Censis che mostra come l’impatto economico dell’istituzione del voucher universale – valutando tutti i benefici dell’emersione del lavoro nero e dell’occupazione aggiuntiva – sarebbe sostenibile con un saldo per lo Stato al di sotto di 300 milioni di euro. Una cifra che sembra alta ma che consentirebbe «315mila nuovi occupati, emersione del lavoro nero per 326mila unità e il passaggio dei lavoratori beneficiari del welfare aziendale da 127mila a 858mila».Sul voucher, però, la Bazzini è prudente: «Va meglio strutturato e combinato con un’adeguata politica fiscale di detrazioni e deduzioni che premino le famiglie che curano: potrebbe dimostrarsi uno strumento interessante e utile se venisse promosso il legame tra il denaro assegnato, il bisogno effettivo e la prestazione del servizio in modo da superare la tendenza tutta italiana di risolvere in forma individualistica i problemi, vivendo la formula del voucher come compensazione o elemento risarcitorio della sofferenza».I white jobs, dunque, portano occupazione e danno un contributo al sistema economico generale non indifferente, di quasi 98 milioni di euro solo in Italia, pari al 7% del prodotto complessivo del Paese. «Con il coinvolgimento di oltre 40mila soci volontari le imprese sociali contribuiscono per il 38% al saldo occupazionale complessivo in Italia» ricorda Cristina Bazzini, ma il settore ha anche le sue ombre, come il problema dei finanziamenti sempre più esigui. «Ci troviamo di fronte a una cooperazione sociale capace di fare impresa con risorse marginali e con investimenti sobri, impiegando prevalentemente le donne con contratti a tempo indeterminato e con una base sociale mediamente giovane e che investe in formazione per aumentare la propria competitività». Certo non sono tempi facilissimi nemmeno per il terzo settore, soprattutto perché non si può fare perno su quello che spesso viene definito il “terzo pagatore”, ovvero lo Stato. Perciò la cooperazione sociale deve investire in innovazione e cercare nuove relazioni e collaborazioni.Ma nonostante i tempi non semplici, quello della cooperazione sembra essere un campo in cui ancora trovare lavoro e riuscire a realizzarsi. «La mia è stata una vera e propria avventura imprenditoriale nel mondo della cooperazione, sia nel settore dei servizi alle imprese sia in quello social» ricorda la Bazzini, «ma era un periodo storico molto distante da quello che stiamo vivendo. Questa però è un’avventura che qualsiasi giovane può intraprendere se alla base c’è passione, un’ampia visione, molta curiosità e la condivisione di una mission». Insomma, se si hanno queste caratteristiche conviene provarci, non solo perché come dice la presidente Colser «il futuro è tutto da conquistare», ma anche perché il futuro è ricco di problematiche, di assistenza, educazione, sostegno, che in qualche modo riguarderanno soprattutto i giovani di oggi. E il modo migliore per rispondere potrebbe essere proprio dal di dentro, facendo parte di questo settore.Marianna Lepore

Startup ed Expo ma non solo, gli imprenditori lombardi: puntiamo sui giovani per far volare Milano

Milano prova a trainare la difficile ripresa dell’economia, e per farlo non dimentica di puntare sui giovani: tra i 50 “progetti per far volare Milano”, lanciati un anno fa da Assolombarda, diverse iniziative hanno infatti riguardato proprio le nuove generazioni, dal mondo della formazione a quello dell’imprenditoria giovanile. A un anno dall’avvio del progetto, nonostante l’economia resti asfittica, a Milano e in Lombardia si intravedono i primi segnali di ripresa: crescita dell’export, miglioramento dell’indice di fiducia delle imprese manifatturiere, nascita di nuove startup. «L’export è salito dell’1,3% nel terzo trimestre, e per ogni fallimento in Lombardia nel 2014 sono nate 19 startup» dice il presidente dell’associazione locale degli industriali Gianfelice Rocca. «L’Italia non ha ancora finito di declinare, anche se il ritmo rallenta e fa pensare che ci stiamo avvicinando al fondo della discesa. Ma Milano intanto mostra segnali chiari, ce la faremo. Molti problemi restano, non è il caso di nutrire infondati ottimismi, ma la fiducia c’è». Tra i punti di forza sui quali la capitale economica del nostro Paese fa leva per ripartire, ha sottolineato Rocca, c’è «il mix equilibrato delle sue specializzazioni: l’alta quota di manifatturiero medium hi-tech con forte presenza di metalmeccanica, chimica farmaceutica, alimentare e moda; l’elevata quota di servizi in informazione e comunicazione, la forte densità di addetti nelle attività professionali, scientifiche e tecniche, la concentrazione di grandi gruppi nazionali nel settore finanziario, del credito e assicurativo. Abbiamo in Lombardia 50mila addetti alla ricerca, pari a circa un quinto del totale nazionale. E le imprese lombarde del settore biomedicale realizzano la metà del fatturato nazionale di settore». Tuttavia «non contano solo le imprese». Lo ha ribadito lo stesso presidente di Assolombarda: «La forza di Milano sta nelle sue otto prestigiose università con 180mila studenti di cui 13mila stranieri, nei suoi 143mila volontari impegnati nel privato sociale del terzo settore, nell’eccellenza raggiunta nel ranking internazionale di moltissimi suoi centri di ricerca, con 1.100 pubblicazioni su riviste scientifiche per milione di abitanti, rispetto alle 880 della Germania e alle 758 dell’Italia». Per garantire migliori opportunità ai giovani è essenziale migliorare il rapporto tra la scuola e il mondo del lavoro, che è al centro di uno dei progetti che Assolombarda ha voluto citare come particolarmente significativo per i risultati ottenuti sul fronte del supporto alla crescita delle imprese. «La nostra associazione si è impegnata direttamente per sostenere e diffondere il contratto di apprendistato per l’inserimento dei giovani nelle aziende: sono stati coinvolti 300 ragazzi e 800 realtà produttive», ha fatto sapere Rocca, aggiungendo che le proposte di Assolombarda per il miglioramento di questa forma contrattuale «hanno trovato riscontro nel decreto Poletti». Inoltre, ha sottolineato, «abbiamo costruito un ponte diretto tra imprese e istituti tecnici e professionali: abbiamo realizzato accordi di rete in sei settori, coinvolgendo 100 imprese aderenti e 80 istituti tecnici e professionali sui 141 del nostro territorio, con 3.500 studenti inseriti in progetti di alternanza scuola/lavoro. Abbiamo poi puntato sulla formazione tecnica, creando quattro  Fondazioni ITS e svolto un ruolo primario nell’attivazione di sei ITS (il 21% dei 29 lombardi nell’anno scolastico 2014-2015)». Gli ITS, Istituti Tecnici Superiori, sono “scuole speciali di tecnologia” che costituiscono un canale formativo di livello post-secondario, parallelo ai percorsi accademici.Nel piano strategico lanciato un anno fa c’è poi un’iniziativa che punta a valorizzare in particolare il ruolo degli startupper, i giovani che scommettono sulle loro idee imprenditoriali innovative: «Vogliamo fare di Milano una Startup Town, e per questo dalla scorsa primavera sono entrate gratuitamente in Assolombarda oltre 100 startup», ha sottolineato Rocca. «Abbiamo inoltre aggregato 23 istituzioni e soggetti del nostro territorio per rendere più attrattiva Milano per questa categoria di imprese. Lavoriamo per trasferire le idee dalle università alle imprese, sfruttando la nostra conoscenza del mondo produttivo per colmare le carenze del sistema». Non è mancato un riferimento alla «grande occasione» che si presenterà a breve «per Milano e per l’Italia intera, Expo 2015». Anche qui, Rocca ha ricordato, tra le due esperienze realizzate da Assolombarda nell’ambito del piano strategico, «l’accordo sul lavoro sottoscritto con le organizzazioni sindacali per l’Esposizione universale. È l’intesa più avanzata in tutta Italia per occupabilità, turni, orari, utilizzo dell’apprendistato e di contratti a tempo e flessibili: vorremmo che sia un banco di prova da estendere a livello nazionale nel post-Expo».Tutte iniziative che puntano a ripristinare un clima di fiducia, essenziale per la ripresa dell’economia e per un miglioramento delle prospettive dei giovani. «Credo che il mondo l’anno prossimo andrà un po’ meglio che quest’anno», ha chiosato Rocca. «In Italia mancano, in questo momento, circa 30 miliardi di investimenti a trimestre e 25 miliardi di consumi: il problema non può essere risolto soltanto dall’export. Se riparte la fiducia, che io chiamo petrolio bianco, riparte anche il Paese, che ora è ripiegato su se stesso».  

Piano giovani Sicilia, oggi parte il mail bombing di diffida contro la Regione

Avrebbero dovuto prendere il via il 30 novembre: ma due settimane dopo quella data ancora nessuno dei 1.600 giovani che dovevano iniziare i tirocini previsti dal Piano giovani Sicilia ha avuto notizia di cosa succederà. Dai due famosi clicday sono passati ormai cinque lunghi mesi: molti a questo punto si sono convinti che il progetto lanciato dal presidente della Regione Crocetta e dal suo allora assessore Nelli Scilabra sia stato solo un piano propagandistico. Così i tirocinanti dimenticati hanno pensato a una nuova protesta, ultimo tentativo di smuovere la politica prima di presentare definitivamente un’azione legale contro la Regione. Questo fine settimana prende il via quella che gli aderenti al gruppo Facebook «Piano giovani, se Crocetta annulla tutto faremo ricorso!» hanno soprannominato un’azione di mail bombing indirizzata all’assessorato regionale dell’istruzione e formazione professionale e a quello della famiglia delle politiche sociali e del lavoro. «Abbiamo cambiato strategia» spiega alla Repubblica degli Stagisti Giuseppe Sicilia, amministratore della pagina Facebook, «e deciso di scuotere la Regione». Una scelta maturata dopo mesi di attesa e dopo un silenzio pressoché totale da parte della giunta Crocetta. A nulla sono valsi i tentativi di incontro con il nuovo assessore alla formazione Mariella Lo Bello: le richieste dei 1.600 aspiranti tirocinanti sono rimaste sostanzialmente inevase. Nemmeno la manifestazione organizzata il 17 novembre a Palermo, con l'obiettivo di chiedere di sbloccare sia il Piano sia la Garanzia giovani, è riuscita a spingere i politici siciliani ad agire. Il flash mob di novembre era stato organizzato dalla Cgil Sicilia che continua ad appoggiare la protesta degli stagisti mancati. «Oggi siamo in piazza non solo contro il jobs act ma anche per portare alla ribalta il tema del Piano giovani, che si è rivelato un'illusione per i siciliani» dice alla Repubblica degli Stagisti Andrea Gattuso, responsabile Cgil del dipartimento politiche giovanili. «Da mesi aspettano qualche cosa per avere speranza e non essere costretti ad emigrare, e invece è ancora tutto fermo». Per questo motivo oggi parte l’azione di mail bombing a cui, per ora, hanno già detto che parteciperanno un centinaio di persone che invieranno un atto stragiudiziale di diffida. In questo testo si ricorda alla Regione che l’avvocatura dello Stato ha ritenuto valide le selezioni e che anche Sicilia e-Servizi ha attestato che non vi erano problemi che potessero aver impedito la fruibilità degli utenti al sito per la registrazione. Pareri a cui a tutt’oggi gli assessorati che avrebbero dovuto occuparsi dell’avvio dei tirocini non hanno voluto dare seguito. Per questo motivo i giovani chiedono ai due assessorati di «provvedere entro trenta giorni dal ricevimento del presente atto all’adozione dei provvedimenti necessari e preordinati all’avvio dell’odierno istante al tirocinio formativo ed al riconoscimento dei consequenziali diritti». E ricordano nel loro atto stragiudiziale di diffida che, ai sensi dell’art. 117 c.p.a., nel caso in cui la pubblica amministrazione si renda responsabile dell’inerzia è «passibile di provvedimento di condanna adottato in forma specifica ai fini dell’emanazione dell’atto dovuto, risultando altresì prevista la nomina di un commissario ad acta in danno dell’amministrazione stessa».Fuori dal linguaggio legale, si chiede quindi che la Regione pubblichi l’elenco degli ammessi di luglio e agosto ai tirocini in modo da applicare il parere favorevole dell’Avvocatura dello Stato del settembre 2014 e iniziare, finalmente, questi stage. Per aderire all’iniziativa, i giovani interessati devono seguire le istruzioni pubblicate sulla pagina Facebook “Lettera di diffida”, scaricare l’atto stragiudiziale di diffida, compilarlo, allegare il documento che attesta l’avvenuto incrocio del clicday e spedire tutto in Regione.Una raccomandata che a qualcuno potrà sembrare inutile, ma che in realtà è il primo passo da fare prima di un eventuale procedimento e potrebbe convincere la Regione a non perdere ulteriori giorni. Anche perché in ballo non ci sono solo i diritti di 1.600 giovani, ma un’ingente somma di fondi europei che potrebbero essere preziosi per rilanciare l’economia siciliana in forte crisi. E che invece - per errori di gestione del Piano giovani, per litigi tra politici e per una scelta di rimandare sine die la decisione sul da farsi - rischia di mandare all’aria 90 milioni di euro stanziati solo per il Piano giovani. Anche Alice Anselmo, deputato di Articolo 4 all’assemblea regionale ha denunciato questo rischio. E lo stesso Gattuso evidenzia: «Per noi è inaccettabile che si sia perso tutto questo tempo per mettere a disposizione dei giovani questi soldi, anche perché i fondi del Piano giovani fanno riferimento alla programmazione 2007-2013 e sono all'interno di un piano disposto nel 2011».  Come se non bastasse, poi, il Piano giovani prevedeva anche una terza finestra dei tirocini che a questo punto non ci sarà prima del 2015. Certo, dopo le polemiche e soprattutto gli errori degli ultimi mesi, la cautela con cui la Regione sta agendo è comprensibile, ma questa lentezza cosa potrebbe far presagire? La Repubblica degli Stagisti ha provato a mettersi in contatto con il nuovo assessore alla formazione Mariella Lo Bello, che ci ha promesso un’intervista nei prossimi giorni per fare luce sulla questione.Di tempo per le risposte, però, non ce n’è molto per gli aspiranti tirocinanti in attesa: «Abbiamo aspettato che si formasse il nuovo governo Crocetta ter prima di procedere, ma ora che non abbiamo ancora avuto risposte abbiamo deciso di stringere i tempi. D’altronde avevamo già annunciato il deposito dell’azione legale per il 30 settembre» ragiona Sicilia, «se abbiamo aspettato è solo perché l’avvocatura dello Stato il 29 di quel mese aveva già indicato all’allora assessore di dare seguito ai tirocini». Il perché di questi due mesi e mezzo di ritardo nel far cominciare gli stage sarebbe riconducibile a due ordini di motivi secondo Gattuso: «Il primo è burocratico: la Regione ha paura di sbagliare nuovamente e di incorrere in ricorsi che sarebbero un danno dal punto di vista economico non indifferente. Per questo motivo ha atteso il parere di organismi che accertassero non ci fosse questo problema. L'altro motivo è, invece, di ordine politico e riguarda l'assegnazione della gestione del Piano a società esterne come Italia Lavoro e Ett».Le prossime mosse ora sono in mano alla Regione, perché sarà in base alla sua risposta che i giovani decideranno se proseguire o meno con l’azione legale. E se il governo Crocetta dovesse ancora rimandare, sarebbe la certificazione di un interesse davvero scarso nei confronti dei propri giovani, desiderosi a tal punto da fare un tirocinio nella propria terra da essere disposti a intraprendere il lungo cammino di un’azione legale. «Questi ragazzi vogliono lavorare subito», dice Giuseppe Sicilia. Mentre la Regione, al momento, sembra non avere alcuna fretta di prendere una decisione in merito.Foto quadrata: di Figiu [in modalità creative commons]

Grape, la start-up che rende il vino più buono

C'è anche la scienza dietro a un buon vino. Lo sanno bene Simona Campolongo (30 anni), Chiara Pagliarini (31) e Fabrizio Torchio (33), tre dottorandi di ricerca della facoltà di Agraria di Torino che hanno dato vita a Grape, una start-up che si occupa di analisi microbiologiche di vitigni e cantine. «Il nome è una sigla che sta per Gruppo ricerche avanzate per l'enologia. Solo in un secondo momento ci siamo resi conto che significa anche 'uva' in inglese», racconta Campolongo. Microbiologa come Pagliarini - mentre Torchio è un enologo - ha conosciuto i suoi soci in università. Uno spazio che per questa azienda è centrale: «Prima di partire, ci siamo confrontati a lungo con i nostri docenti. Siamo nati come uno spin-off universitario, incubati all'intero di 2i3T. Ancora oggi abbiamo sede nella facoltà di Agraria: paghiamo un affitto per i locali e abbiamo una convenzione per l'utilizzo dei macchinari. Alcuni di quelli presenti nel laboratorio sono di nostra proprietà».Il business plan è stato scritto tra il 2010 ed il 2011 poi, quando tutti e tre hanno completato la tesi di dottorato, si è passati alla fase operativa. Così è nata una srl, che lo scorso anno si è iscritta nel registro delle start-up innovative. In totale i soci sono sette, quattro sono professori dell'università di Torino che sono entrati con quote molto piccole nel capitale sociale da 15mila euro. Il grosso l'hanno messo i tre giovani startupper, attingendo dai loro risparmi. Ma che cosa fa, di preciso, Grape? «La nostra azienda è articolata in tre dipartimenti che si interfacciano tra loro», spiega la microbiologa. Il primo si occupa dei lieviti utilizzati nella produzione del vino: «eseguiamo dei campionamenti sul campo, caratterizziamo questi microrganismi per via genetica e verifichiamo se siano candidati o meno per la vinificazione». Il secondo “visita” i vitigni per controllare se le piante presentino sintomi di alcune patologie. Il terzo «quantifica gli antociani e i flavonoidi». In altre parole, «effettua un'analisi degli aromi». Ma perché un'azienda dovrebbe avere bisogno di questi servizi? «Perché noi permettiamo di migliorare la qualità finale dei vini».Il lavoro, specie in una regione come il Piemonte, non manca. E la concorrenza non è così agguerrita: «In Italia ci sono pochi laboratori come il nostro e non tutti offrono un'assistenza completa, dal campo alla bottiglia, come facciamo noi». Oltre ai propri risparmi, i tre startupper hanno ottenuto 8mila euro grazie a un bando regionale che sostiene le start-up. Ora cercano nuovi finanziatori. «Siamo stati ad alcuni incontri con fondi di venture capital, ma ci siamo resi conto che fanno fatica a guardare all'agricoltura. Diciamo che il nostro non è un settore che “tira”, come succede invece per il farmaceutico». Fortunatamente per l'azienda, però, «siamo in grado di sostenere da soli gli investimenti necessari». Anche perché già dal primo anno l'azienda ha cominciato ad avere utili, con un fatturato che nel 2013 ha toccato i 200mila euro. Nonostante questo, Simona Campolongo è l'unica dei tre soci ad essere stipendiata, mentre gli altri due vivono grazie ad un assegno di ricerca. «Abbiamo già preso una persona, con un contratto a progetto, che si occupa delle analisi», aggiunge: perché non bisogna dimenticare che le startup, nel loro piccolo, creano anche nuovi posti di lavoro.Intanto, lo scorso ottobre, Grape è stata l'unica azienda italiana invitata alla Biotech Week, fiera europea delle biotecnologie. «È stata un'esperienza positiva, ci ha dato la possibilità di aprire il nostro laboratorio ai curiosi», spiega la startupper: «Il nostro è un campo ostico, è stato carino spiegare quello che facciamo». Un'attività che non si limita ad aiutare i viticoltori piemontesi a migliorare la qualità del vino. Ma che, con l'associazione Innuva, studia anche come utilizzare i prodotti di scarto della vendemmia, ricchi di polifenoli. Due i progetti che coinvolgono la start-up torinese: il primo riguarda lo sviluppo di prodotti per la cosmesi, l'altro paste riempitive dentali. E se evita di produrre rifiuti, il vino diventa ancora più buono.Riccardo Saporitistartupper@repubblicadeglistagisti.it 

Jobs Act e abolizione del contratto a progetto, non tutti pensano che sarebbe un passo avanti

Il Jobs Act servirà davvero a rilanciare l’occupazione in Italia o si rivelerà l’ennesima riforma parziale, che non sarà in grado di incidere? In attesa che il decreto del governo Renzi superi il nuovo esame del Senato e venga dunque convertito in legge, tra gli addetti ai lavori permangono forti perplessità, sia sulla natura del provvedimento (su alcuni punti fondamentali si dovranno attendere i decreti delegati) sia sulla sua efficacia. Del decreto e del progetto Garanzia Giovani si è discusso pochi giorni fa nell’incontro organizzato a Milano dal centro studi Adapt e dalla società di servizi per il lavoro Synergie, dal titolo “Lavoro: cosa cambia davvero con il Jobs Act e la Garanzia Giovani? Riforme e politiche del lavoro ai tempi del governo Renzi”.«L’impatto reale del Jobs Act sull’occupabilità è difficile da quantificare», ha riassunto in avvio di lavori il giornalista Oscar Giannino. I dubbi espressi dal moderatore riguardano alcuni punti chiave del decreto: dal contratto a tutele crescenti allo sfoltimento delle tipologie di contratti temporanei. «Bisognerà vedere quali contratti resteranno: ad esempio alcuni giorni fa i dipendenti di alcuni call center sono scesi in piazza, chiedendo che non vengano aboliti i contratti a progetto. Questi lavoratori sono consapevoli che per loro l’abolizione dei cocopro potrebbe significare la perdita del posto di lavoro, perché le imprese potrebbero a quel punto scegliere di delocalizzare», ha sottolineato Giannino. Restano incertezze anche sul sussidio unico di disoccupazione, il Naspi, per il quale non sono ancora state definite le risorse, e sui lavoratori autonomi, per i quali «il Jobs Act poteva essere l’occasione di fare un passo avanti».Considerazioni condivise dal presidente di Adapt Emmanuele Massagli, trentunenne ricercatore di Diritto del lavoro, che ha offerto una lettura dei dati, diffusi venerdì a fine novembre, sulla disoccupazione e sui nuovi contratti di lavoro. Se da un lato il tasso dei disoccupati, secondo l’Istat, a ottobre ha raggiunto il massimo da quando esistono le serie storiche – al 13,2% - dall’altro il ministero del Lavoro, che ha anticipato le comunicazioni obbligatorie sui nuovi rapporti di lavoro, ha certificato un aumento degli avviamenti a 2 milioni 474mila (+2,4% rispetto al terzo trimestre 2013), di cui 400mila nuovi contratti a tempo indeterminato (+7,1%), mentre le cessazioni sono state pari a 2 milioni 415mila (+0,9%). Non solo: sempre secondo l’Istat, nel terzo trimestre i posti di lavoro sono stati 122mila in più. «Tra questi non ci sono però giovani tra i 15 e i 29 anni, e nemmeno adulti tra i 30 e i 45, mentre crescono (+5,5%) gli over 50», ha sottolineato Massagli. «In più, sette nuovi contratti su dieci sono a tempo determinato, di cui molti di durata inferiore a sei mesi: crescono anche i contratti a progetto, nonostante la legislazione sfavorevole. Questi dati significano che chi assume preferisce i contratti a termine, ricorrendo anche ai cocopro, e sceglie adulti esperti: continua invece il crollo del mercato del lavoro giovanile». Il Jobs Act è in grado di interpretare queste esigenze? Secondo Massagli «in parte sì, in parte no. Intanto è il quinto intervento in cinque anni, e questo è un problema perché ogni nuova legge è soggetta a interpretazioni: quindi facciamo le riforme, ma che vadano bene». Per il presidente di Adapt, ad esempio, alcuni dubbi riguardano l’introduzione del contratto a tutele crescenti. «Cosa succederà  nel mercato del lavoro con l’abolizione dei contratti a progetto e la rimodulazione dei tempi determinati? Non si sa ancora, ma di certo se i contratti a progetto scomparissero dal primo gennaio sarebbe un problema: senza un’applicazione graduale si rischia di creare centinaia di migliaia di disoccupati». Sul fronte delle misure per incentivare l’occupazione giovanile, Massagli ha sottolineato: «C’è una forte esigenza di politiche attive, e adesso è in vigore il più grande piano per i giovani da cinquant’anni a questa parte: si chiama Garanzia Giovani». A questo proposito, Adapt e Repubblica degli Stagisti hanno lanciato un questionario online, attraverso il quale i giovani coinvolti possono raccontare la loro esperienza con il progetto: ad oggi hanno aderito più di 1200 ragazzi. Per il presidente di Adapt «prima di affacciarsi al mondo del lavoro, i giovani incontrano solo la scuola e l’università. Investire sulla formazione è il primo modo per combattere la disoccupazione giovanile». Per Massagli quelle avviate dal governo «sono riforme necessarie, anche se qualche dubbio c’è».Un giudizio in chiaroscuro sul Jobs Act è stato espresso anche da Valentina Aprea, assessore al Lavoro della Regione Lombardia. «Innanzitutto si tratta di una delega in bianco al governo: su alcuni punti il decreto è così generico da consentire anche letture contrapposte dello stesso principio», ha commentato. «Inoltre, dovrebbero esserci risorse certe e invece la delega prevede l’invarianza della spesa pubblica». Per l’assessore, tra i lati positivi del decreto ci sono «l’estensione dell’Aspi e il rafforzamento delle politiche attive, mentre non mi appassiona il contratto a tutele crescenti, che può diventare un’arma nelle mani degli imprenditori, mentre il patto tra dipendente e datore di lavoro deve essere chiaro. Invece la detassazione dei nuovi contratti è la strada corretta».A difendere la bontà dei provvedimenti del governo Renzi è stato Stefano Lepri, vicepresidente dei senatori Pd e membro della Commissione Lavoro di Palazzo Madama. «Il Jobs Act è l’ennesima rivoluzione? Speriamo che sia l’ultima», ha commentato, spiegando che per i decreti delegati il tempo di attesa sarà «tra i tre e i sei mesi». Secondo Lepri «il combinato disposto della decontribuzione per tre anni e dell’introduzione del contratto a tutele crescenti porterà risultati», e la chiave per l’applicazione del nuovo contratto sarà «la definizione dell’entità dell’indennizzo da corrispondere per i licenziamenti economici: se sarà troppo basso darà buon gioco a chi sostiene che con la nuova norma sarà possibile licenziare senza regole, mentre se sarà troppo alto renderà il licenziamento poco conveniente per il datore di lavoro». Ma la vera sfida, «la più grande perché la più complessa», riguarderà «le politiche attive per contrastare la disoccupazione giovanile. Il progetto Garanzia Giovani parte da lodevoli intenti, ma finora ha ottenuto risultati molto differenti a seconda delle diverse strutture che se ne occupano». Al di là delle buone intenzioni, la strada per far ripartire l'occupazione in Italia sembra quindi ancora molto lunga.

Università, la proposta dei ricercatori Adi: «Abolite gli assegni di ricerca»

Professori praticamente mai: le speranze di arrivare al traguardo, per i "giovani" - le virgolette sono d'obbligo, visto che si parla anche di quarantenni - che lavorano all'interno delle università e in particolare per chi è assegnista di ricerca, sono minime. Molto difficile è infatti passare dal primo step della vita del ricercatore, quello dell'incarico di indagare su un tema di interesse scientifico, alle fasi successive dei contratti a tempo determinato a due livelli, a o b (l'indeterminato è stato abolito dalla riforma Gelmini). Secondo i calcoli dell'Adi, associazione dottorandi di ricerca, ci riesce appena un risicato 3% di quei 15mila assegnisti recensiti nel 2013 in tutto il paese. Se si conta che in questo momento i titolari di contratti di ricerca in scadenza non superano le 2mila unità («forse 2500» ipotizza Antonio Bonatesta, segretario Adi), si fa presto a capire che il numero è destinato a contrarsi ulteriormente. Ed è probabile, lo lasciano intuire le dichiarazioni di Bonatesta raccolte dalla Repubblica degli Stagisti, che con il tempo la figura del ricercatore si indebolisca sempre più, con conseguente chiusura di atenei e corsi di laurea: «È questo l'obiettivo politico». Il problema del settore non è tanto - o solo - la retribuzione da fame: dietro la fuga all'estero dei migliori cervelli italiani c'è soprattutto l'assenza di concrete prospettive di carriera. «Esiste una specie di cursus honorum che noi chiamiamo via crucis» scherza il segretario, composto sostanzialmente da quattro passaggi: dopo il dottorato, con o senza borsa di studio (con cifre intorno ai mille euro mensili per i più fortunati), nella migliore delle ipotesi ci si aggiudica un assegno di ricerca, con importi tendenzialmente sempre al di sotto dei 1500 euro mensili. L'assegno è annuale e rinnovabile per quattro anni. In mezzo, una giungla di figure ancora più precarie, che non valgono neppure per arricchire il curriculum: quelle di chi fa ricerca a titolo gratuito per una cattedra («ci siamo passati tutti per sei mesi o un anno»), o dei borsisti e collaboratori, ovvero quelli che - forti di un piccolo contratto post laurea di qualche mese - «collaborano a programmi di ricerca». Un insieme folto, perché nel 2013 erano circa un terzo del personale non strutturato impegnato in attività di ricerca: 8mila collaboratori e 500 borsisti su circa 24mila, secondo il rapporto Anvur 2014. E sopratutto un insieme segnato dall'inizio dalla mancanza di sbocchi: questi ricercatori in erba sono fuori dal sistema, non sono parte di quel 'cursus honorum', ma solo «un esercito di riserva di precari completamente flessibile e sostituibile», come riassume il rappresentante Adi. Oggi dunque già ottenere un assegno di ricerca rappresenta un passaggio importante - sempre che poi non si venga espulsi dal sistema, come accade per la quasi totalità degli assegnisti («il 97%» ribadisce Bonatesta). Alla conclusione del periodo di assegno potrebbe infatti capitare la fortuna di firmare un contratto a tempo determinato, prima il cosiddetto RTDa e poi - se va bene - l'RTDb. Senza garanzie, però. Nella maggior parte dei casi invece l'ex assegnista si ritrova fuori dal mondo accademico, a dover ricominciare «occupandosi di tutt'altro», spesso buttando via gli anni passati sui libri. Una situazione che colpisce non giovani freschi di laurea, ma «persone intorno ai quarant'anni e anche oltre». Per chi intraprende la carriera accademica la gavetta «dura almeno dodici anni: tra dottorato, assegno di ricerca e contratti a tempo determinato a loro volta rinnovabili di tre anni». L'identikit del «giovane ricercatore precario» è quello di uno studioso che ha «dai 30 ai 45 anni», e per cui il percorso verso una cattedra che non arriva quasi mai può oltretutto interrompersi in qualunque momento. Il turnover è peraltro praticamente bloccato: «È al 50%, se vanno in pensione dieci professori, ne entrano in cambio cinque». Dulcis in fundo, non è escluso che, dopo l'abilitazione professionale e il concorso, si resti nel perenne limbo dell'attesa che un'università apra il reclutamento. Eppure, in un quadro così degradante, a detta dell'Adi una soluzione ci sarebbe: superare la figura dell'assegnista di ricerca, semplificando tutte le figure intermedie compresi borsisti e collaboratori e introducendo al loro posto un contratto da «professore junior che contenga in sé la clausola tenure track», al momento già parte dell'infatti ambitissimo RTDb. Un modello statunitense: al ricercatore si dà la certezza di un futura assunzione come professore, ma alla condizione che il suo iter sia considerato qualificato e si guadagni un feedback positivo dalla comunità scientifica. Insomma una clausola di meritocrazia. Che potrebbe funzionare anche da antidoto al familismo, come chiarisce un dottorando alla Luiss: «Non è possibile, realisticamente, eliminare la cooptazione dal sistema di reclutamento delle università: è normale che un professore coinvolga nel suo progetto persone che conosce e stima». Ciò che serve è «il criterio del merito nella selezione, di cui devono essere responsabili soggetti terzi, magari le aziende». Il governo, con la legge di Stabilità, sta invece imboccando un'altra direzione. «Quello che viene presentato come un provvedimento per la ripresa del reclutamento dei giovani ricercatori è in realtà creazione di nuovo precariato, pagato con nuove rinunce sul versante delle garanzie di stabilizzazione» si legge nel comunicato Adi lanciato nel giorno di protesta a suon di flashmob in tutta Italia e rimbalzato sui social con l'hashtag #finoaquando?Il decreto punta al recupero dell'organico dei ricercatori a tempo determinato di tipo 'a' cessati nell'anno precedente. «Una soluzione fittizia» è la critica dell'Adi, «perché i primi contingenti di RTDa termineranno il loro percorso solo nel 2016-17, l'effetto sarà differito» e riferito solo a quelle «tre regioni che nel 2013 detenevano da sole il 50% dei posti a bando, a fronte di moltissime altre che non hanno potuto farlo». Ma soprattutto aumenterà il precariato investendo sulla tipologia contrattuale meno garantita. Il contesto descritto non deve però spostare l'attenzione dalla questione centrale, che restano le risorse. Altrimenti ci ritroviamo «a fare riforme con le briciole» sintetizza Bonatesta. L'attacco dell'Adi è in particolare allo stanziamento da 150 milioni per la quota premiale (salito dal 13 al 18%), regalo per gli atenei migliori con cui si promuovono «meccanismi di finanziamento profondamente discriminatori»: l'Adi denuncia anche la poca chiarezza nei criteri di selezione, accusando il governo di voler «smantellare il sistema accademico nazionale mantenendo solo pochi nuclei autoproclamatasi di eccellenza». È davvero opportuno, chiede sarcasticamente l'associazione dei dottorandi e dottori di ricerca, «fondare il funzionamento di gran parte del sistema accademico sul lavoro precario, privo di aspettative e colpito tanto nei progetti di vita quanto nella libertà stessa della ricerca?». Quando invece questi stessi ricercatori, se adeguatamente tutelati, potrebbero innescare il motore della ripresa economica? Ilaria Mariotti 

Tirocinanti negli uffici giudiziari, il ministero non sa quanti sono e quando (e se) saranno pagati

Due mesi. Tanto ha atteso la Repubblica degli Stagisti le risposte del ministero della Giustizia sulle disposizioni relative agli stage all'interno degli uffici giudiziari italiani destinati ai laureati in Giurisprudenza e introdotti dal Decreto Fare. E alla fine le risposte che sono arrivate sono poche, imprecise, insufficienti. In pratica un'ammissione di impotenza: il ministero non sa - o dice di non sapere - quanti giovani stanno facendo un tirocinio presso i suoi uffici giudiziari, e in particolare non sa quanti lo stanno facendo all'interno di un progetto speciale di tirocini introdotto l'anno scorso dal Decreto Fare.L'antefatto. A giugno 2013 in Gazzetta Ufficiale viene pubblicato il cosiddetto Decreto Fare, che identifica il decreto legislativo 69/2013. Quel documento contiene un articolo – il numero 73 – che stabilisce i requisiti per uno speciale programma di tirocini formativi presso gli uffici giudiziari, destinati a laureati in giurisprudenza in possesso di una serie di requisiti elencati nel testo dell’articolo: tra questi l'età inferiore ai 30 anni, il voto di laurea di almeno 105/110 e la votazione di almeno 27/30 in alcuni specifici esami. Fin qui nulla di strano, se non fosse che scorrendo il testo dell’articolo balzano all’occhio una serie di caratteristiche degne di approfondimento. Innanzitutto gli stage consistono in una «formazione teorico-pratica della durata di  diciotto mesi presso gli uffici giudiziari» per assistere e coadiuvare magistrati degli organi di giustizia riportati nell’articolo.  È evidente che, trattandosi di stage successivi al percorso formativo, si stia parlando di tirocini extracurriculari, alle cui regole anche i tirocini per laureati in giurisprudenza oggetto dell’articolo 73 dovrebbero attenersi. E che dunque la durata massima dovrebbe essere di dodici mesi: i diciotto - ben un anno e mezzo - del Decreto Fare si configurano dunque immediatamente come una clamorosa eccezione. La Repubblica degli Stagisti ha analizzato l’articolo con Umberto Buratti, ricercatore di Adapt, l’associazione fondata da Marco Biagi specializzata su temi del lavoro: «Non è facile comprendere quale sia la vera natura dei tirocini indicati dal provvedimento. Il Capo II del d.l. 21 giugno 2013 n. 69 parla di tirocini presso gli uffici giudiziari, l'articolo 73, invece, di formazione presso gli uffici giudiziari, mentre nel testo si usa parola stage. C’è quindi un’imprecisione terminologica evidente, mentre le linee guida in materia di tirocini differenziano in maniera precisa le diverse tipologie». È utile ricordare che i giovani laureati in giurisprudenza che vogliono diventare avvocati hanno già previsto nel proprio iter dei «periodi di pratica professionale», vale a dire i tirocini previsti «per l’accesso alle professioni ordinistiche»: il praticantato, in poche parole. Che è normato in maniera differente rispetto ai “normali” tirocini. Questi tirocini per laureati in giurisprudenza di cui parla il Decreto Fare non sono però praticantati - tuttavia sono valutati come un anno di tirocinio forense e notarile o di frequenza a una scuola di specializzazione per le professioni legali. Insomma «non sembra quindi esserci dubbio sul fatto che la legge, pur non richiamando in modo esplicito gli stage  tirocini formativi e di orientamento, avrebbe comunque dovuto riferirsi» continua Buratti «alle disposizioni presenti nelle linee guida del mese di gennaio 2014», quelle concordate in sede di Conferenza Stato-Regioni. Questo perché «le linee guida esplicitano che i principi in esse contenuti sono applicabili anche nei casi in cui il soggetto ospitante sia una Pubblica Amministrazione e chiariscono che gli standard minimi di riferimento indicati valgono anche per quanto riguarda gli interventi e le misure aventi medesimi obiettivi e struttura dei tirocini, anche se diversamente denominate». Cosa dicono nello specifico queste linee guida? Stabilite per i tirocini extracurriculari all'inizio del 2013, esse prevedono una durata massima per questi periodi formativi di sei mesi per neodiplomati e neolaureati, cioè persone che abbiano concluso l'ultimo ciclo di studi da meno di un anno, e di 12 mesi per gli altri. L’articolo del Decreto Fare riferendosi a persone già laureate parla invece, come detto, di una durata dello stage di addirittura 18 mesi. Inoltre nello stesso articolo non c’è alcun tipo riferimento al periodo massimo di 12 mesi dal conseguimento del titolo di studio per attivare il tirocinio. Questo particolare potrebbe sembrare ininfluente, invece è molto importante: perché la normativa attuale prevede che solo i tirocini attivati entro i 12 mesi dal conseguimento dell'ultimo titolo di studio possano essere definiti come “di formazione e orientamento”. È poi possibile attivare stage anche da chi abbia terminato gli studi da più tempo: ma in quel caso l'inquadramento muta leggermente, e si passa ai “tirocini di inserimento / reinserimento lavorativo”. Una sottigliezza lessicale da non sottovalutare.Oltre alla prima incongruenza sulla durata e alla seconda sulla terminologia, c’è anche un passaggio significativo sulle caratteristiche del tirocinio: l’articolo stabilisce infatti che lo stagista assista il magistrato nello svolgimento delle proprie attività ordinarie. Un’affermazione che pare mettere in discussione la natura stessa del tirocinio, che dovrebbe essere finalizzato all’apprendimento e non allo svolgimento di una vera e propria attività lavorativa, come sembra in questo caso. «La lettura integrale dell'articolo 73 del d.l. 69/2013 mette in luce la volontà del legislatore, a meno a parole, di proporre un'esperienza primariamente formativa: tale considerazione nasce dalle ripetute indicazioni in merito al ruolo del magistrato che funge da tutor e dalla possibilità di frequentare appositi momenti di formazione» dice però Buratti: «Il richiamo all'assistenza e all'aiuto nel compimento delle ordinarie attività di lavoro di per sé da solo non è sufficiente a mascherare un rapporto di lavoro. Qualsiasi esperienza di tirocinio aziendale, infatti, prevede l'affiancamento nelle operazioni quotidiane e una formazione di tipo on the job». Uno degli aspetti più spinosi è poi la questione dell'indennità: l’articolo prima precisa che «lo svolgimento dello stage di formazione teorico-pratica non dà diritto ad alcun compenso o trattamento previdenziale o assicurativo». Anche in questo caso una disposizione palesemente in contrasto con le linee guida, in cui è stabilità una «congrua indennità» pari a un minimo di 300 euro. Anzi l'indennità minima può essere anche maggiore: la cifra è a discrezione delle Regioni, che nel corso del 2013 hanno recepito le linee guida elaborando ciascuna un proprio provvedimento in materia di tirocini. In uno dei commi successivi del Decreto Fare si legge poi che «agli ammessi allo stage è attribuita una borsa di studio in misura non superiore ad euro 400 mensili», per le cui modalità di assegnazione si dovrà tener conto dell'indicatore di situazione economica equivalente (Isee). Un vero e proprio rovesciamento: la cifra che molte regioni pongono come minima per il rimborso spese degli stagisti diventa in questo decreto quella massima. Forse, come ipotizza Buratti, «più che veri tirocini, sembra essere di fronte a borse di studio, ma non c’è dubbio che le linee guida restino la normativa di riferimento».  L’articolo dunque contiene più di un elemento in netto contrasto rispetto a quanto previsto per i tirocini extracurriculari. Al contrario sembra però voler introdurre degli elementi «compensativi» per il tirocinante: accanto alla validità pari a un anno di tirocinio forense o notarile, il tirocinio costituisce titolo di preferenza per la nomina a giudice onorario e vice procuratore onorario, per i concorsi indetti dalla pubblica amministrazione e dall’Avvocatura di Stato. Non è facile al momento capire perché sia entrata in vigore una legge che sembra in contraddizione rispetto alle linee guida su questo tipo di tirocini. Né quanti stage di questo tipo siano finora partiti. In ogni caso, 400 euro al mese per 18 mesi significano 7.200 euro a tirocinante: supponendo che anche solo 100 giovani laureati in Giurisprudenza si cimentino in questo tipo di tirocinio, si dovrebbe trovare un fondo di 720mila euro per erogare queste indennità. Ma da dove dovrebbero arrivare questi fondi? Il ministero della Giustizia afferma che essi fanno parte del FUG (Fondo unico giustizia), ma le risorse per pagare gli stagisti non sono state ancora sbloccate dal ministero dell’Economia. La Repubblica degli Stagisti ha provato ad avere chiarimenti, prima di tutto chiedendo un semplice dato numerico: quanti sono, ad oggi, i giovani impegnati in questo tipo di stage negli uffici giudiziari italiani. Una domanda semplice e secca. Eppure clamorosamente il ministero ha ammesso di non avere idea di quale sia questo numero: dopo lunghe rincorse, l'ufficio stampa ha risposto che al momento non c’è una stima del numero di stage attivati secondo i dettami del Decreto Fare dal settembre 2013 a oggi, ma che probabilmente arriverà a fine anno. Evidentemente 14 mesi non sono bastati per mettere in funzione un database... Senza contare che, dato che i fondi per le indennità sembrano essere ancora bloccati, è verosimile che tutti questi laureati in Giurisprudenza stiano facendo da mesi il loro stage senza percepire il compenso previsto. E chissà quando lo riceveranno. Anche su questo il ministero non fornisce una risposta chiaro. Al momento dunque l’unica certezza è la mancanza di una risposta esaustiva da parte del ministero della Giustizia a tutte le domande ancora sul tavolo. Che rischiano di rimanere inevase, alla faccia della trasparenza e della valorizzazione dei nostri giovani laureati.Chiara Del Priore