Categoria: Approfondimenti

Tra tagli, precari, concorsi e ricorsi, il futuro della ricerca passa dal Cnr

Dal 1923 è il cuore pulsante della ricerca italiana: con i suoi novant’anni di età e le tante vicende che ne hanno scandito la storia, il Consiglio nazionale delle ricerche resta un punto di riferimento fondamentale del settore in Italia. Tra mille difficoltà: proprio questa mattina, ad esempio va in scena all'Istat l'assemblea dei lavoratori precari degli enti di ricerca, tra i quali anche il Cnr, che chiedono la stabilizzazione sulla base della sentenza della Corte di giustizia europea dello scorso 26 novembre, sull'abuso di contratti precari da parte della Pubblica amministrazione italiana. Una protesta che si affianca a un'altra battaglia, quella avviata da alcuni dei ricercatori risultati idonei al concorso del 2009. Si tratta di 700 studiosi, con un’età media di cinquant’anni e all’apice della carriera – tra loro ci sono anche nomi come quelli di Angelo Basile, titolare di sette brevetti internazionali – che da ben sei anni sono in attesa di una promozione sulla base della graduatoria, che resterà valida fino al 2016. Per loro a ottobre del 2013 è arrivata una doccia gelata: l’annuncio di un nuovo concorso bandito dall’ente, per altri 219 posti. Una decisione in aperto contrasto, denunciano, con un provvedimento del governo  – datato 2012  – che impedisce alle pubbliche amministrazioni di bandire nuovi concorsi se non sono ancora andate esaurite le graduatorie precedenti. Così alcuni di loro hanno deciso di presentare ricorso al Tar: la vicenda è ancora lontana dal trovare una soluzione, dopo che il nuovo concorso, annullato due volte dal tribunale amministrativo regionale, ha ricevuto a inizio dicembre il via libera del Consiglio di Stato. Al centro della protesta dei ricorrenti non c’è solo il nuovo concorso, ma anche il fatto che, come spiega Angelo Basile, «c’è stato uno scorrimento parziale della graduatoria del 2009, per cui alcuni degli idonei, circa una cinquantina, hanno comunque ottenuto la promozione e questo è assurdo». Quella di Basile, che ha 62 anni e ha all’attivo oltre 500 lavori internazionali nell’ambito della ricerca sulle membrane, «è una battaglia di principio. Com’è possibile» si chiede «che alla mia età e con i titoli di cui dispongo io sia ancora ricercatore? I concorsi, purtroppo, sono un terno al lotto».Il Cnr non ha voluto fornire ulteriori commenti sulla notizia, segnalando però alla Repubblica degli Stagisti l’esistenza di posizioni diverse: come quella di un altro ricercatore, Gianluca Groppelli, che al quotidiano La Repubblica ha scritto una lettera in cui sostiene invece la necessità di nuovi concorsi, per poter valutare i candidati anche sulla base dei titoli acquisiti in tempi più recenti e favorire l’ingresso di ricercatori più giovani.Questa situazione  riflette la condizione che il mondo della ricerca in generale e il Cnr in particolare si trovano a fronteggiare, tra riforme più o meno azzeccate e risorse sempre più scarse. A offrire una panoramica completa della storia e delle prospettive di un ente che ha segnato la strada del nostro Paese verso il progresso è un volume pubblicato a ottobre dell'anno scorso da Donzelli, La ricerca e il Belpaese, sottotitolo «La storia del Cnr raccontata da un protagonista». Lucio Bianco, presidente dell’ente dal 1997 al 2003, in una conversazione con il giornalista Pietro Greco ripercorre i novant’anni di vita del Consiglio, in un’analisi che parte dal passato per guardare al futuro. Sulla vicenda dei ricercatori beffati dal doppio concorso, ad esempio, l’ex presidente sottolinea che l’errore è nell’impostazione: «Il problema è che ora i concorsi si svolgono in maniera diversa da prima: si tratta un ente di ricerca come se fosse un ministero, mentre bisognerebbe distinguere i concorsi per il personale tecnico da quelli dei ricercatori» riassume. «Per ogni concorso i vincitori dovrebbero ottenere i posti messi a bando, mentre gli altri dovrebbero rimanere esclusi e avere la possibilità di ripresentarsi al prossimo bando. Il meccanismo dell’idoneità, attraverso il quale si creano queste graduatorie, non dovrebbe essere applicato agli enti di ricerca: invece ora tutto è assimilato al pubblico impiego». Per l’ex presidente del Cnr «questo meccanismo penalizza proprio i più giovani, perché le liste degli idonei sono valide per diversi anni, creando così un blocco ai nuovi ingressi e una riduzione delle opportunità per i ricercatori più giovani: questo per la ricerca non è un fatto positivo».Fin dalla fondazione, ricorda Bianco, «il Cnr si è caratterizzato per una sua fisionomia, che si è andata configurando a partire dal primo presidente, Vito Volterra. A lui si deve l’idea di effettuare la ricerca anche al di fuori dell’università, con quello che all’estero chiamano “sistema duale”». A partire degli anni Sessanta del secolo scorso «il Cnr è divenuto un ente di ricerca ad ampio spettro, con una duplice funzione:  in primo luogo quella di agenzia, cioè di ente finanziatore della ricerca svolta in ambito universitario e non solo, come ad esempio per le ricerche svolte da enti pubblici e imprese; in secondo luogo quella di ente di ricerca, con un gruppo di ricercatori interni a tempo pieno, che lavoravano in collegamento con l’università, ma con una loro autonomia». Fino al Duemila, l’ente «ha avuto questo duplice ruolo: finanziatore e produttore di ricerca in proprio. Data la sua struttura, il Cnr era la sede più idonea per far sviluppare settori di ricerca emergenti, nuovi, che non riuscivano a svilupparsi nell’ambito universitario, come la fisica nucleare e l’informatica. Da esso sono nati molti istituti che poi hanno raggiunto dimensioni tali da diventare autonomi, come l’Ingv – l’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia o l’Enea – l’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile». In questo modo, sottolinea Bianco, «il Cnr ha svolto un’importante funzione di incubatore, che oggi non svolge più nessuno. Con la riforma del 1999 è rimasta solo la rete degli organi di ricerca attivi nei vari settori, che sono stati ridotti da 300 a 107. Non c’è più la parte accademica, né il ruolo di promotore e finanziatore di ricerche nuove». Una serie di errori bipartisan: Bianco rimarca che «la riforma Berlinguer-Zecchino del 1999 ha dato al Cnr la fisionomia di puro ente di ricerca, mentre la successiva riforma, quella del 2003 targata Moratti, ha purtroppo segnato una pesante ingerenza della politica nel settore della ricerca». Proprio in polemica con questa nuova impostazione, nello stesso anno Bianco rassegnò le sue dimissioni dalla poltrona più alta del Cnr. Si arriva così ai giorni nostri, con l’ente che si trova ad affrontare una situazione radicalmente diversa. Attualmente il Cnr conta oltre 8mila addetti, di cui 6mila ricercatori assunti; a questi si aggiungono altre 4mila persone che si occupano di ricerca con altri inquadramenti contrattuali – assegnisti, dottorandi e borsisti che lavorano in sette dipartimenti e venti aree di ricerca. La retribuzione media lorda annuale di un ricercatore è di 48.429,23 euro, come previsto dal contratto nazionale per i dipendenti degli enti di ricerca; calcolando 13 mensilità, la retribuzione lorda mensile dei nostri migliori cervelli corrisponde quindi in media più o meno a 3.725 euro.«Oggi il Cnr deve prendere atto che la storia passata non si può più ripetere, perché le condizioni sono cambiate, e puntare tutto sulla propria rete di ricerca», riflette Bianco. «Il punto di forza dell’ente sono proprio i suoi 107 istituti di ricerca e i ricercatori, che nonostante le scarse risorse finanziarie messe a disposizione del governo, riescono a procurarsi finanziamenti sul cosiddetto “mercato della ricerca” e a portare così avanti progetti di avanguardia». Per Bianco «bisogna puntare su questo, liberando gli istituti di ricerca dai troppi vincoli di carattere normativo e burocratico, e lasciando liberi i direttori di esprimere al meglio le potenzialità dei singoli organi di ricerca». Al momento, sottolinea l’ex presidente, «non ci sono le condizioni per sperare in un finanziamento pubblico adeguato. Forse il governo attuale non proseguirà nella politica dei tagli, ma non mi pare che nel breve periodo possa esserci un’inversione di tendenza, che determini invece un aumento degli investimenti».    

Far giocare insieme bimbi disabili e normodotati: la mission di una start-up di Gorizia

Designer una, consulente l'altra. Amiche da una vita, hanno fondato una start-up che progetta giocattoli pensati per aiutare i bambini disabili a divertirsi insieme ai coetanei normodotati. Tutto questo è Lam Project, azienda fondata nel settembre 2014 a Gorizia da Anna Devecchi, 33 anni, e Giovanna Culot (31). Il nome è un acronimo che sta per “Look at me”, ovvero “guardami”. «La nostra amicizia è nata negli scout ed è proseguita facendo volontariato a favore dei disabili» racconta Devecchi: «In questi contesti abbiamo notato che spesso si dice ai bambini di non fissare i diversamente abili, perché non sta bene». Questo atteggiamento, però, «porta ad un disinteresse nei confronti della problematica. È quando si guardano queste persone che ci si accorge delle loro esigenze e si riesce a dare loro una mano». Insomma “look at me”, guardami: e «capisci di cosa ho bisogno».È esattamente questo lo spirito che guida le due startupper friulane. «Vogliamo progettare dei giocattoli che favoriscano l'inclusione dei diversamente abili. Per questo abbiamo contattato delle cliniche che operano con questo tipo di pazienti». Il punto, prosegue la designer, è che «di fondo tutti i bambini hanno bisogno di stimoli cognitivi, motori o di tipo sociale». Da una parte si tratta di porre un limite «ai giochi oggi sul mercato, che sovrastimolano i bambini». Dall'altro di offrirne alcuni mirati per i diversamente abili, ma che possano arricchire anche l'esperienza ludica dei normodotati. Un esempio? «Se inseriamo degli elementi tattili in un gioco dell'oca per un bimbo non vedente, anche uno che non ha questo problema li percepisce come un elemento in più e ne viene stimolato».Al momento l'attività si sta concentrando sulla fascia di età da zero a tre anni. «Abbiamo dei progetti pronti», sui quali però il riserbo è massimo. «Il fatto è che prima dobbiamo testarli nelle cliniche, verificare che i prototipi siano effettivamente validi». In un primo momento le due startupper pensavano di occuparsi anche della produzione. «Questo però avrebbe richiesto un investimento mostruoso per avere i requisiti necessari per ottenere il marchio CE». Per questo hanno deciso di affidare la produzione ad aziende esterne, già certificate.Il passo successivo sarà quello di studiare giocattoli per bambini più grandi, senza trascurare il mondo digitale delle applicazioni per tablet. Nonostante la start-up abbia preso vita solo lo scorso anno, sta già diversificando la propria attività. «Abbiamo notato che c'è la necessità di progettazione degli spazi, ad esempio nei musei», che consentano ai bimbi disabili e normodotati di giocare insieme. E sono in trattativa con alcune gallerie per realizzarli. L'azienda è una srl, «ci hanno consigliato di evitare quella semplificata visto che le aziende che producono giocattoli sono dei colossi»: il capitale sociale di 10mila euro è stato versato grazie ai risparmi delle due socie.Soldi che sono serviti anche a sostenere le prime spese insieme ai 12mila euro vinti grazie a un bando della regione Friuli Venezia-Giulia che ha finanziato anche una ricerca di mercato. «Solo per il notaio se ne sono andati 2.600 euro. La stessa cifra l'abbiamo investita nella nuova versione del sito, che riteniamo uno strumento per noi molto importante». E poi c'è l'affitto della sede: «Fortuna che Gorizia è una piccola città, ce la caviamo con 250 euro al mese». Ma non sono le difficoltà economiche quelle che hanno creato più problemi alle due startupper. «È come se ci fossero delle barriere architettoniche di tipo culturale», spiega Devecchi: «Non tutti sposano la nostra idea, molto quando sentono parlare di giochi per disabili vanno nel pallone. Per questo preferiamo presentare i nostri progetti come giocattoli per lo sviluppo armonico del bambino». Nonostante l'entusiasmo e l'impegno delle due imprenditrici, la sopravvivenza della loro start-up è appesa a un filo. Culot a febbraio terminerà la maternità e tornerà alla sua scrivania al Boston Consulting Group, Devecchi alterna la sua professione di designer freelance al lavoro per l'azienda. «Ancora non percepisco uno stipendio per questo, forse nei prossimi mesi». Questo se Lam Project inizierà a fatturare: «Ci siamo date un anno e mezzo di tempo. A metà del 2016 decideremo se questa start-up ha le gambe per camminare». È anche per questo che le due socie sono alla ricerca di partner che le aiutino nel loro progetto di far giocare insieme bimbi disabili e normodotati.Riccardo Saporitistartupper@repubblicadeglistagisti.it

Dagli spot ai video musicali, con Grey Ladder anche il cinema si fa start-up

Ci sono il regista, lo sceneggiatore e il direttore della fotografia. Ma anche l'avvocato e l'economista. Copre tutta la scala dei grigi Grey Ladder, start-up torinese che nella mission ha scritto la parola 'cinema'. E che ad aprile comincerà le riprese del primo lungometraggio. Sei i fondatori, età media 26 anni: «L'idea era quella di unire, alla base della società, personalità e settori di lavoro diversi ma complementari. L'eterogeneità era uno degli obiettivi che volevamo raggiungere». In altre parole, prima di partire si è completato il team. A parlarne alla Repubblica degli Stagisti è Alessandro Regaldo, sceneggiatore e regista diplomato all'Accademia nazionale delle arti cinematografiche. Insieme a lui fanno parte della start-up lo sceneggiatore Davide Mela, appena uscito da un master in “Analisi di produzione cinematografica e televisiva e comunicazione crossmediale”; Stefano Accomo, attore professionista diplomato alla scuola d'arte drammatica “Paolo Grassi” di Milano; e due omonimi, Edoardo Fornelli ed Edoardo Scavo - laureato in giurisprudenza e con un'esperienza di gestione d'impresa alle spalle il primo, laureato in Business and management al Menlo College di Palo Alto in California il secondo. Tutti 25enni tranne Emiliano Ranzani, regista e direttore della fotografia: con i suoi 29 anni, il "vecchio" della società. «Vogliamo riportare il cinema ad un livello di ottimo artigianato. Oggi è un'arte che si compiace di sé stessa e nasconde poca professionalità e un vuoto pneumatico dal punto di vista dei contenuti», sostiene Regaldo. Con questa filosofia è stata scritta la sceneggiatura del primo film, «un giallo con venature da racconto nero», le cui riprese inizieranno ad aprile. Il titolo è “Magna mater”, ovvero Gran Madre: il nome con il quale viene comunemente chiamata la chiesa della Gran Madre di Dio di Torino, la città che oltre alla sede della start-up ospiterà la realizzazione della pellicola. «Sono otto anni che, a vario titolo, collaboriamo tra di noi per costruirci un humus di soggetti con i quali lavorare». La firma sull'atto costitutivo è stata però apposta solo ad aprile dello scorso anno. «Abbiamo dato vita ad una srl semplificata, l'impresa a un euro. Anche se credo che a breve la situazione subirà un cambiamento, perché il film imporrà un aumento di capitale». Una casa di produzione francese ha infatti deciso di finanziare la produzione con 40mila euro. Non dovessero essere sufficienti, i sei startupper reinvestiranno i soldi finora guadagnati: «La nostra idea è quella di mantenerci il più puliti possibile dal punto di vista dei prestiti».Come guadagna, allora, questa start-up? «Avevamo già in portafoglio una serie di clienti, che avevamo conosciuto negli ultimi anni». Tra questi ci sono molti rapper, che hanno coinvolto gli startpper torinesi nella produzione dei loro video: «Ne sono nate collaborazioni con Ensi, Club Dogo, Fred De Palma, Fabri Fibra, Salmo, Two Finger». E se c'è da girare una pubblicità, come la clip promozionale del Gran premio dell'automobile del Parco Valentino di Torino, non ci si tira indietro. Anzi: «cerchiamo di portare il cinema anche negli spot, di realizzare quella che potremmo chiamare pubblicità d'autore». D'altro canto anche il gigantesco Federico Fellini girò una reclame per una nota casa produttrice di pasta. Per il resto, come in ogni start-up, si cerca di risparmiare. Molte delle attrezzature, infatti, erano già di proprietà dei singoli soci. «Anche la sede è di uno di noi, il direttore della fotografia possedeva già le macchine e le luci». Mentre il compenso per lo spot del Valentino è stato investito per acquistare le apparecchiatura per il montaggio. Al momento il meccanismo sta funzionando: i conti tornano, i sei startupper vivono del loro lavoro e in primavera si inizierà a lavorare al film che uscirà nel 2016. E nel frattempo non si disdegna di lavorare a pubblicità e video musicali.Riccardo Saporitistartupper@repubblicadeglistagisti.it

Recruiting Day Elica, quattro mesi dopo: l'hr manager racconta i venti ragazzi scelti per lo stage

Tremila dipendenti, una produzione annua di circa 17 milioni di pezzi fra cappe e motori, Elica è una azienda italiana attiva nel mercato delle cappe da cucina a uso domestico ed è oggi leader mondiale in termini di unità vendute. Ha quattro siti produttivi in Italia e altri cinque nel resto del mondo - in Polonia, Messico, Germania, Cina e India. Da maggio dell'anno scorso è entrata a far parte dell'RdS network: si tratta della prima azienda con sede nel territorio marchigiano. Qualche mese fa ha organizzato a Roma un giorno dedicato al recruiting di giovani talenti, selezionando una rosa finale di venti giovani che ha poi progressivamente inserito in stage. Ad Emilio Zampetti, Hr manager dell'azienda, la Repubblica degli Stagisti ha chiesto un bilancio di questo evento e sopratutto notizie di come sta andando l'avventura dei venti giovani appena inseriti.A fine settembre Elica ha incontrato, a Roma, 200 giovani selezionati attraverso una sorta di "bando". Questi ragazzi hanno vissuto la prima edizione del Recruiting Day Elica, al termine del quale avete scelto venti giovani da inserire in stage presso la vostra sede a Fabriano. Com'è stata questa giornata?Molto positiva: i ragazzi si sono messi in gioco, mostrando entusiasmo ed interesse per Elica sia durante le presentazioni dei nostri direttori che durante gli incontri con i recruiter. Ciò che ci siamo portati a casa sono oltre cento profili interessanti ed estremamente motivati che abbiamo ospitato presso la nostra sede per assessment e colloqui con i manager aziendali e che sono confluiti in un processo di selezione che ha visto l’ingresso di circa 15 profili tra settembre e dicembre e altri 5-6 a gennaio.I 200 partecipanti erano stati preselezionati da Monster a partire da 1.400 candidature. Com'è nata la collaborazione con Monster e in cosa vi ha supportato in questo percorso?Eravamo alla ricerca di un partner che fosse in grado di raggiungere i migliori neolaureati presenti sul mercato del lavoro e che allo stesso tempo ci potesse aiutare in una prima scrematura delle candidature. Collaboravamo già con Monster per attività di recruiting per cui ci è sembrato naturale proporre a qualcuno che già conoscevamo un supporto nell’organizzazione di quest’evento.Parliamo dei venti prescelti: qual è la "scintilla" che ve li ha fatti scegliere tra i 200 presenti al Recruiting Day? Prima del know-how e delle competenze, abbiamo dato spazio a quelle persone che si identificavano e si identificano tuttora nei nostri valori, filosofia e pensiero: ragazzi che abbiano voglia di crescere e di prendersi responsabilità, che abbiano voglia di vivere esperienze internazionali, che siano capaci di ascoltare e di mettersi in discussione. Credo che ciò che ha fatto la differenza sia la persona in sé unita ad un buon cv in linea con le nostre aspettative ed esigenze, altrimenti non avrebbe avuto senso pensare ad un’iniziativa del genere.Li avete quasi tutti in azienda ormai da qualche mese. Chi sono? Non abbiamo dato preferenze ad alcuna categoria - sesso, età, residenza, ecc - ma è venuto fuori un buon mix di ragazzi e ragazze, di marchigiani, campani, calabresi, laziali ed anche dei ragazzi indiani che hanno iniziato con noi un percorso di stage al termine di un master che hanno effettuato nel loro paese. Molti di loro sono appena usciti da università o percorsi di specializzazione, mentre altri hanno alle spalle delle piccole esperienze. Credo comunque che ciò che li accomuni tutti siano le caratteristiche di cui parlavo prima: spirito internazionale, ascolto, voglia di crescere e di mettersi in gioco.Che percorsi universitari hanno alle spalle queste venti "new entry"?I ragazzi che abbiamo ingressato arrivano da vari percorsi ed atenei. Certamente, essendo un’azienda metalmeccanica, molti arrivano da percorsi di tipo ingegneristico, ma non mancano economisti, laureati in scienze politiche, disegno industriale, ecc. Tra gli atenei ce ne sono alcuni che conosciamo meglio e con cui collaboriamo spesso: ad esempio c’è un ottimo rapporto con l’università della Calabria, dove incontriamo spesso degli studenti molto in gamba, piuttosto che la Federico II di Napoli o la Sapienza di Roma, ma i ragazzi che hanno iniziato questi percorsi con noi arrivano da vari poli come la Politecnica delle Marche, la Bocconi di Milano o l’università degli studi di Perugia.Oltre a ricevere il rimborso spese standard offerto da Elica, di 500 euro al mese, questi ragazzi sono alloggiati nelle foresterie di Elica vero?I ragazzi sono dislocati in vari appartamenti aziendali che si trovano a Fabriano insieme ad altri stageur che stanno con noi già da qualche mese. A dicembre abbiamo organizzato un networking aperitif in cui abbiamo coinvolto tutti i neoassunti di quest’anno ed i direttori per conoscere meglio i ragazzi e dar loro il benvenuto in Elica. Oltre a questo momento ufficiale spesso i ragazzi escono insieme per cene, aperitivi, serate e altre attività a cui in genere partecipano in gran numero.Cosa fanno concretamente in azienda?I ragazzi sono stati inseriti in vari settori: alcuni nell’area Sviluppo prodotto, dove si stanno occupando di progettare nuovi prodotti o di ricercare soluzioni innovative, altri stanno seguendo dei progetti di miglioramento ed efficientamento dei processi produttivi. Una ragazza andrà ad occuparsi di un nuovo progetto in ambito controllo di gestione, mentre ad un’altra verrà affidata una nuova attività dell’area Supply chain. Altri ancora si occupano di acquisti o di product management, piuttosto che di comunicazione e gestione degli eventi.Questi venti stagisti hanno "esaurito" lo spazio in Elica per quanto riguarda le posizioni di tirocinio, almeno fino alla prossima primavera quando i loro 6 mesi finiranno? Oppure prevedete comunque qualche altro ingresso di stagisti nei primi mesi del 2015?La nostra intenzione è quella di trattenere la maggior parte di loro: abbiamo investito e stiamo investendo tempo, risorse e know-how in questi ragazzi e siamo convinti che possano essere i protagonisti del successo di Elica nei prossimi anni. Detto ciò siamo sempre alla ricerca di collaboratori validi e che possano dare un valore aggiunto alla nostra realtà aziendale; sicuramente nel nuovo anno avremo ulteriori opportunità per giovani neolaureati, ma qualora incontrassimo qualcuno particolarmente brillante se la posizione non c’è la andremo a creare ad hoc.Pensate di bissare a settembre 2015 questa iniziativa con Monster, dando vita a una seconda edizione del Recruiting Day Elica?Sicuramente il feedback sull’evento di quest’anno è stato positivo e stiamo valutando di ripeterlo ancora in quest’anno o nel 2016. La forma potrebbe essere la stessa con l’aggiunta di qualche novità mentre per la location potremmo mantenerne una facilmente raggiungibile come Roma oppure spostarla altrove, magari all’estero per dare un respiro ancora più internazionale al nostro Recruiting Day.

Tribunali, maxi stage lunghi 4 anni per coprire i buchi di organico: ma adesso tutti a casa

Se la giustizia in Italia è lenta non è solo per l'eccessivo numero di leggi e per i bizantinismi del sistema giudiziario. C'è anche un problema molto più terra-terra: la mancanza di personale. Gli uffici giudiziari sono infatti probabilmente il comparto pubblico che ha più buchi di organico: le stime parlano di 9mila dipendenti “mancanti”. Parte da questo punto, incontrovertibile, la storia che oggi la Repubblica degli Stagisti vuole raccontare. Una storia per molti versi assurda. Perché negli ultimi anni molti degli archivisti, commessi, centralinisti, impiegati che mancano nei Tribunali sono stati rimpiazzati da stagisti. Non solo giovani laureandi o neolaureati: in questo caso si tratta di quaranta-cinquantenni, cassintegrati o in mobilità, utilizzati come “tirocinanti” per un tempo abnorme: due, tre, in molti casi addirittura quattro anni, in spregio a tutte le leggi che fissano una durata massima per i tirocini. Nel 2010 a qualcuno viene in mente di utilizzare i lavoratori cassintegrati, in mobilità o in disoccupazione percettori di ammortizzatori sociali all’interno degli uffici amministrativi o delle cancellerie. I bandi vengono pubblicati dalle singole regioni o province e finanziati con fondi europei. I percorsi hanno l’obiettivo di aiutare la macchina giudiziaria ma vengono pubblicizzati anche – si legge per esempio nel bando del Lazio –  come «un’opportunità di lavoro e formazione on the job»; per chi la coglie ci sono 300 euro al mese di compenso, che vanno a sommarsi all’indennità di disoccupazione o alla cifra di cassa integrazione. La prima regione a partire è stata il Lazio e poi via via a macchia d’olio i bandi provinciali o regionali sono spuntati lungo tutta la Penisola, dalla Lombardia alla Sicilia. Il primo bando è partito nel 2010 ed «era un bando provinciale e aveva la durata di un anno solare, dal giugno 2010 al giugno 2011. Poi è subentrata la Regione e si è arrivati al giugno 2012» spiega alla Repubblica degli Stagisti Emiliano Viti, coordinatore nazionale dell’Unione precari giustizia e lui stesso ex tirocinante. «I nostri orari erano gli stessi dei dipendenti, dal lunedì al venerdì, anche con il rientro pomeridiano». Il compenso di 10 euro al giorno previsto per i 2.924 stagisti-cassintegrati era un’aggiunta alla cassa integrazione ma quest'ultima, con il tempo, si è esaurita: il compenso del tirocinio a quel punto è diventato per molti l'unica fonte di reddito. «La gran parte dei soggetti aveva solo questa come entrata mensile. Poi qualcuno con tempi più lunghi di cassa integrazione aveva qualcosa di più dignitoso», ma con il tempo i fondi degli ammortizzatori sono terminati anche «perché abbiamo finito un ciclo formativo che dura ormai da quattro anni» continua Viti. Perché uno degli aspetti più critici di questo caso sta proprio nella durata degli stage. Per legge potrebbero durare sei mesi, al massimo 12, proroghe comprese: invece questi tirocini nei Tribunali, grazie a una sorta di gioco delle tre carte, sono stati prorogati di anno in anno, dal 2010 al 2014, e ancora devono concludersi. I bandi nel corso degli anni sono stati banditi da soggetti diversi – inizialmente le Province e le Regioni, poi anche il ministero della Giustizia – cambiando nome e condizioni. Una volta scaduto un bando, insomma, e terminate le ore, subito veniva indetto un altro bando e le stesse persone che avevano partecipato al precedente, quasi senza soluzione di continuità, venivano riprese all'interno del successivo, e rimesse “in tirocinio”. Sempre negli stessi uffici giudiziari. Ad esempio a Cosenza nel 2012 il tirocinio era stato ribattezzato «Progetto Tirocinio “On the job”», inizialmente finanziato per tre mesi: con fondi europei dell’asse I adattabilità corrispondeva un rimborso spese pari a 10 euro al giorno per la distanza dal luogo di lavoro, più un’indennità di frequenza di 1,29 euro l’ora, più l’eventuale buono pasto se si lavorava per più di cinque ore al giorno. Ma poiché l'orario di lavoro non era mai superiore alle cinque ore al giorno, il buono pasto di fatto non c'era.Il meccanismo si è ripetuto identico in quasi tutte le regioni d’Italia nel 2010, 2011 e 2012. Difficile per i destinatari  sottrarsi. «In quanto iscritti negli elenchi dei lavoratori in mobilità, la prima cosa da fare per avere diritto agli ammortizzatori sociali è dare la propria disponibilità ad accettare un’offerta» spiega alla Repubblica degli Stagisti Patrizia Carere, tirocinante per quattro anni presso il tribunale di Cosenza e coordinatrice del Progetto Europa per l’Upg, che da mesi analizza i bandi iniziali dei singoli enti locali per verificare le loro finalità e controllare che sia stato fatto un uso corretto dei fondi europei che li finanziavano e servivano ad attivare politiche attive per il reinserimento lavorativo. Analisi che ha portato anche alla presentazione di un'interrogazione parlamentare di cui si attende a giorni una risposta. «Se vieni chiamato dal centro per l’impiego devi accettare per non perdere l’ammortizzatore sociale», continua la Carere, che è stata la prima a contattare la Repubblica degli Stagisti denunciando il caso. E, infatti, la convocazione da parte dei centri per l’impiego era esplicita su questo punto: «Il suo rifiuto alla partecipazione all’iniziativa comporterà il decadimento dai trattamenti previdenziali legati alla mobilità». È questo il motivo per cui in tanti hanno continuato ad accettare, proroga dopo proroga. Il vero cambiamento arriva con la legge di stabilità per il 2013, la 228 del 2012. Visti forse i buoni risultati che l’uso di questi tirocini aveva avuto, la gestione passa in mano al ministero della Giustizia. Nell’articolo 1 comma 25 lettera c della legge si stabilisce, infatti, la ripartizione delle spese che per il solo anno 2013 consentirà «ai lavoratori cassintegrati, in mobilità, socialmente utili e ai disoccupati e inoccupati che a partire dall’anno 2010 hanno partecipato a progetti formativi regionali o provinciali presso gli uffici giudiziari, il completamento del percorso formativo entro il 31 dicembre 2013, nel limite di spesa di 7,5 milioni di euro». Praticamente gli stessi individui passano sotto l’accreditamento del ministero della giustizia e non fanno altro che continuare a svolgere sempre gli stessi compiti. Attenzione al nome: con questo passaggio i tirocini passano dalla definizione di “tirocini formativi” a quella di “completamento dei tirocini”: come se non bastassero gli anni precedenti per aver completato l'apprendimento delle mansioni. Una ipocrisia bella e buona, che però in quel momento serve allo scopo: perché soddisfa contemporaneamente sia la necessità degli uffici giudiziari di avvalersi di quel “personale aggiuntivo”, ormai perfettamente operativo e dunque utilissimo nello svolgimento delle attività ordinarie, sia il desiderio dei disoccupati-tirocinanti, ormai “abituati” al loro “lavoro” nei Tribunali, e speranzosi che il tirocinio si possa prima o poi trasformare in una stabilizzazione. Dunque nella seconda parte del 2013, grazie ai 7 milioni e mezzo, ciascun “tirocinante della giustizia” svolge 210 ore (dunque all'incirca altri due mesi di stage). A questo punto si passa a una ulteriore nuova definizione e cioè il “perfezionamento” del percorso formativo per cui sono previsti questa volta ben 15 milioni di euro. Peraltro il ministero, scrivendo nero su bianco nei suoi documenti le parole “completamento” e “perfezionamento”, si dà – forse inconsapevolmente – la zappa sui piedi, perché i due termini fanno pensare subito a un unico grande tirocinio che seppure a momenti alterni va avanti fin dal giugno 2010. Qualcosa però va storto e una volta finito il “completamento” i tirocinanti sono chiamati per completare solo una parte del "perfezionamento", composto da due tranche ognuna di 230 ore. Finite le prime 230 ore nessuno viene convocato per le altre. Nonostante sia previsto che i soldi stanziati siano spesi entro il 31 dicembre 2014, i “tirocinanti della giustizia” dopo oltre tre anni vengono lasciati a casa. Così cominciano le proteste in piazza e sul web, che raccolgono appoggio da svariate figure politiche e giuridiche. Poi a dicembre il ministero recupera miracolosamente un milione e mezzo di euro – dei 7,5 mancanti – per permettere di svolgere 70 ore di quest'ultima tranche del "perfezionamento" entro la fine dell’anno. Quindi solo una parte delle ore previste inizialmente. I tirocinanti rientrano dunque, dopo alcuni mesi, negli stessi uffici dove hanno passato già migliaia di ore tra il 2010 e il 2013, e svolgono queste ultime 70 ore (pari a un paio di settimane), per le quali è previsto in questo caso il compenso di 10 euro lordi all'ora, dunque 700 euro. Da ricordare che per molti di loro le coperture della cassa integrazione e della mobilità si sono esaurite. Poi più nulla: ad oggi questi tirocinanti avanzano ancora 160 ore e non hanno avuto gli ultimi soldi che gli spettavano. «Devono ancora pagarci le 70 ore di dicembre» spiega Viti, e per salvare le ore previste e mai svolte all’ultimo momento il governo ha pensato di inserire nel decreto mille proroghe lo slittamento della data di chiusura del perfezionamento di tirocinio e di posticiparla al 28 febbraio. Si presume che il ministero stia ultimando le ultime pratiche per ricominciare, ma ad oggi, 16 gennaio, non c’è ancora nessuna notizia e si rischia di non fare in tempo a completarle entro la data prevista. Per questo i tirocinanti raggruppati in un comitato spontaneo che ha preso il nome di Unione precari giustizia cerca da mesi di attirare l’opinione pubblica e politica per avere delle risposte e ottenere i crediti ancora non pagati. L'Upg rivendica anche il diritto a vedere riconosciuti i titoli della formazione ricevuta: «Non cerchiamo scappatoie ad un eventuale selezione» chiarisce la Carere «ma in attesa di un concorso il governo ha tutti gli strumenti per darci la possibilità di rientrare visto che non usufruiamo più nemmeno degli ammortizzatori sociali». Perché il vero problema, come spesso capita quando si parla di tirocini svolti nella pubblica amministrazione e ancor di più quando essi coinvolgono persone adulte, è che competenze e professionalità acquisite non comportano uno sbocco professionale concreto. Si riceve una formazione specifica, si imparano a svolgere dei compiti che permettono di velocizzare e migliorare le prestazioni degli uffici in cui si lavora, si viene inseriti in organico con orari e turni e alla fine i fondi europei – o, in casi come questo, risorse inserite nella legge di stabilità – finiscono nel vuoto perché gli uffici pubblici non possono assumere e al settore privato le competenze specifiche del pubblico interessano poco. Si entra nel classico vortice all’italiana dello spreco: di fondi pubblici, di formazione e di tempo.  Il sostegno ai “tirocinanti della giustizia”, con la richiesta di farli assumere in qualche modo, sono arrivate da più parti: dal presidente della Corte di appello di Venezia, Antonino Mazzeo Rinaldi, come dal Primo presidente e dal procuratore generale della corte suprema di Cassazione, Giorgio Santacroce e Gianfranco Ciani, che in una lettera inviata ai ministri della giustizia, dell’economia e della pubblica amministrazione li hanno definiti «un ausilio di speciale rilievo nel recupero dell’arretrato» e auspicando che tali professionalità non si disperdessero e il rinnovo «della possibilità di fruire di questi lavoratori».   Torna il discorso dei buchi di organico: «C’è una carenza di organico riconosciuta di 9mila unità e quest’anno ci saranno altre mille unità che andranno in pensione» sottolinea il coordinatore Upg Viti: «Nonostante questo, l’ultimo concorso per il ministero della giustizia risale al 1996. Si parla sempre dei giudici e mai del personale amministrativo senza cui le cause non vanno avanti. Se ci facessero entrare in organico si coprirebbero almeno alcuni vuoti, anche se in realtà solo un terzo». La loro richiesta: «Fare una selezione pubblica, utilizzare i centri per l’impiego e veder riconosciuti i titoli. Molti di noi sono laureati e vengono da profili professionali medio alti ma c’è la disponibilità a entrare anche con profili più bassi. E a quel punto, per chi ne ha la possibilità e i titoli di studio, eventualmente accedere a un concorso interno per cancellieri». Una soluzione che secondo l’Unione precari giustizia consentirebbe quella riqualificazione del personale interno che si aspetta da tempo e la non dispersione delle professionalità acquisite, a spese di fondi pubblici peraltro. Perché alla fine, e questo è un punto centrale che va al di là delle ore che devono essere completate, la domanda che i decisori politici dovrebbero farsi è una: a questi lavoratori licenziati è stato reso un buon servizio, prevedendo per loro un maxistage di oltre tre anni in uffici giudiziari senza avere poi l'intenzione di assumerli? «Sulla possibilità di trovare un lavoro grazie a questo percorso sono abbastanza pessimista» si rammarica, infatti, Emiliano Viti.  E in questo senso sembra dargli ragione il progetto organizzativo Programma Strasburgo 2, il piano eccezionale del ministero della giustizia per lo smaltimento dell’arretrato civile ultratriennale, presentato proprio questa settimana dal guardasigilli Andrea Orlando, in cui si prevedono interventi per il reclutamento di nuove risorse umane da destinare agli uffici giudiziari di cui 1.031 posti (su 9mila vacanti) di personale amministrativo coperti con un’imminente bando di mobilità volontaria esterna, 71 unità già trasferite da altri ministeri con la mobilità compartimentale e 144 in corso di assunzione attraverso graduatorie rimaste parzialmente inutilizzate da altre amministrazioni. Per fortuna questa volta nessun tirocinio, nessuna work experience, nessun prolungamento di vecchi bandi forieri di false speranze, ma ancora nessun nuovo concorso e troppo poche risorse rispetto a quei famosi 9mila buchi di organico. A questo punto perché non indire un concorso, prevedendo per gli ex tirocinanti (Upg e non solo) un punteggio aggiuntivo come riconoscimento delle competenze acquisite, e permettendo il reclutamento di almeno parte del personale mancante attraverso una procedura trasparente e meritocratica? Foto rettangolare: di Alessio Viscardi in modalità creative commons

Ricerca medica, in Italia il 40% lavora gratis

Fare ricerca in Italia? Un atto di coraggio, date le condizioni a cui i ricercatori sono costretti a lavorare: uno su quattro lo fa a titolo praticamente volontario. Una indagine realizzata dalla Fondazione Giorgio Pardi e da AstraRicerche, presentata qualche settimana fa, ha scattato una fotografia preoccupante della ricerca di base e medica nel nostro Paese:  i giovani lamentano di non essere selezionati con criteri meritocratici, di non sentirsi valorizzati né motivati e spesso di non venire neanche pagati - con conseguenze gravi, dalla fuga all’estero al mancato ritorno, fino all’abbandono dell’attività di ricerca o alla decisione di proseguire comunque, a tutti i costi, anche senza una equa retribuzione per il proprio lavoro.«I ricercatori universitari hanno un’età media di 45 anni e nell’area medica in Italia ce ne sono poco meno di tremila» dice alla Repubblica degli Stagisti Domenico Montemurro, responsabile del settore giovani del sindacato dei dirigenti medici Anaao Assomed. Lo studio di Fondazione Pardi ha preso in esame un campione di poco più di 550 di questi ricercatori, di cui la maggioranza (66%) donne e oltre uno su tre con più di 46 anni: si tratta di medici specializzati in vari campi - ginecologia, pediatria, neonatologia - ma anche di biologi, embriologi e biotecnologi. Secondo l’indagine l’Italia è rimasta indietro rispetto ad altri Paesi, specie per quanto riguarda le possibilità di avanzamento professionale, i redditi e la valorizzazione dei meriti. Per questo un quarto dei ricercatori interpellati ha raccontato di aver scelto di fare una o più esperienze internazionali: per tre su cinque si è trattato di una scelta propedeutica ad un eventuale ritorno in Italia, mentre la metà ha deciso di andare all’estero alla ricerca di migliori opportunità. Tre quarti degli intervistati hanno comunque effettuato esperienze di ricerca anche nel nostro Paese, nella metà dei casi senza essere pagati: questi ricercatori sono riusciti a tirare avanti grazie all’aiuto della famiglia oppure dedicandosi ad altre attività - come la pratica clinica per i medici.«Quello che colpisce è la differenza tra la percezione e il vissuto personale dei ricercatori» aggiunge Sabino Frassà, segretario generale della Fondazione Giorgio Pardi. «Se la percezione generale è di una situazione grave, d’altra parte c’è la forza di volontà dei singoli, la loro dedizione: il 40% fa ricerca in Italia anche senza ricevere nessun compenso, e per vivere deve dedicarsi ad altro. E non è una situazione che coinvolge solo i giovanissimi; ci sono anche molti over 45, come spesso accade nel settore medico, che fanno ricerca, ma vengono retribuiti solo per la pratica clinica, senza che gli venga riconosciuto alcun ruolo accademico». Un’altra evidenza che emerge dallo studio è che i ricercatori sono in maggioranza donne. «Da un lato questo vuol dire che la medicina e la biologia sono diventate sempre più appannaggio delle donne» nota Frassà: «Dall’altro, significa che la carriera nella ricerca non è vista come appetibile dal potenziale “padre di famiglia”: con mille euro al mese e contratti precari non è possibile mettere su famiglia, né pagare un affitto o tantomeno un mutuo». Eppure in Italia «la qualità della formazione è alta: la ricerca viene fatta ad altissimi livelli, finché è pagata. Purtroppo c’è pochissimo impegno per agevolare il rientro dei cervelli dall’estero: ci si barcamena per non far partire chi è rimasto», sottolinea il segretario generale della Fondazione.Questa situazione ha portato a risultati molto negativi: tre intervistati su dieci in questo momento non sono impegnati in alcuna attività di ricerca, quattro su dieci fanno ricerca ma senza ricevere alcun sostegno e solo il 14% la svolge con gli opportuni finanziamenti. Di questi, la gran parte (63%) riceve i fondi dal settore pubblico e il resto si divide pressoché equamente tra chi riceve finanziamenti dal settore privato - generalmente da imprese - e chi viene sostenuto da associazioni non profit o fondazioni. Un terzo del campione non ha mai ricevuto finanziamenti per fare ricerca in Italia e degli altri solo poco più di uno su venti ha potuto usufruire dei fondi per il rientro in patria dei ricercatori operanti all’estero. Tra chi lavora ancora oltreconfine, la maggioranza fa sapere che vorrebbe tornare in Italia, ma solo a patto di trovare le stesse opportunità. Oltre alla necessità di garantire adeguate forme di sostegno ai ricercatori, gli intervistati concordano: serve ripensare radicalmente il modello attuale.A parte lo Stato, «che spesso viene criticato perché poco attento alla meritocrazia», a finanziare la ricerca sono le imprese private, che però «percentualmente contano meno rispetto a quanto accade negli altri Paesi», e «il terzo pilastro: il non profit. Come Fondazione Giorgio Pardi avevamo iniziato a sostenere diversi centri di natalità in alcuni tra i Paesi più poveri del mondo, come Haiti, Ecuador e Afghanistan, ma poi abbiamo deciso di puntare sul sostegno dei giovani ricercatori in Italia», riassume Frassà. Tra le iniziative, ad esempio, c’è il premio assegnato a metà dicembre, al termine del Congresso Agorà della Società nazionale di medicina perinatale, a quattro ricercatori under 36: Annamaria Nuzzo, Salvatore Gizzo, Sara Tabacco e Federica Veggo. «Il punto è che raccogliere fondi per aiutare un bimbo in Africa è più facile che ottenere finanziamenti per la ricerca» si rammarica il segretario generale della Fondazione: «Alcuni tipi di ricerca, come quella sul cancro, generano più empatia, perché la malattia fa paura: mentre l’idea di sostenere un giovane in Italia non è ancora diffusa. Nel nostro Paese i giovani vengono visti come un’opportunità, ma anche come un problema».Il tema è particolarmente pressante per quanto riguarda i ricercatori di area medica: come sottolinea Domenico Montemurro «per la formazione di un medico, tra ciclo di laurea e specializzazione, lo Stato investe in media circa 150mila euro: e al termine del percorso di studi, come sappiamo, in molti scelgono di andare all’estero». Nel triennio 2012-2014 infatti «circa 670 medici tra i 25 e i 39 anni sono espatriati», snocciola Montemurro «ma è un dato sottostimato, perché non conosciamo l’esatto numero dei “certificati di onorabilità professionale” che vengono rilasciati dal ministero a chi vuole andare all’estero. A spanne dovrebbero essere circa un migliaio; tra le mete preferite ci sono Francia, Germania, Svezia, Regno Unito oppure lidi più lontani, come l’Australia». Molti di loro partono proprio per fare ricerca.«Tra le difficoltà maggiori, c’è il fatto che con la riforma Gelmini i contratti di ricerca durano 3 anni più 2, al termine dei quali chi non riesce a prendere l’idoneità da professore associato resta fuori». Di conseguenza molti ricercatori sono in realtà «specializzandi, che svolgono attività di ricerca durante il corso di specializzazione, ma vengono pagati solo per l’attività clinica e spesso non possono inserire il loro nome nelle pubblicazioni, così che questi lavori non possono entrare nel curriculum», aggiunge il rappresentante del sindacato: «I medici possono inoltre fare un dottorato di ricerca, dopo la laurea oppure durante l’ultimo anno della specializzazione, con o senza borsa. La durata media dei dottorati è di 3-4 anni e con la borsa di studio la retribuzione è di circa 1300 euro lordi, pari a circa mille euro netti al mese: ovviamente, chi fa il dottorato durante la specializzazione non riceve la borsa». In più «questi medici possono svolgere attività libero professionale, ma fino a un massimo di 15mila euro lordi all’anno e previa autorizzazione da parte dell’università». Tra precariato e bassi compensi, scegliere di fare ricerca medica in Italia assomiglia a un salto nel buio: «La legge che avrebbe dovuto agevolare il rientro in patria dei ricercatori non ha praticamente funzionato, e in più il fondo per la ricerca clinica è stato recentemente decurtato». Anche per questo la chiusa di Montemurro è pessimista: «I migliori cervelli rimangono all’estero». A meno che il ministero ora guidato da Stefania Giannini non metta in campo azioni per invertire la rotta.Chiara Merico

Medico e startupper, inventa un collare che riduce i danni da infarto: troverà finanziatori in Italia?

Un collare che permette di mandare in ipotermia i pazienti colpiti da attacco cardiaco, riducendo così i danni cerebrali. Questo il prodotto che sta sviluppando NeuronGuard, start-up fondata a Modena nel maggio del 2013 dal Enrico Giuliani, medico trentaduenne specializzato in anestesia e rianimazione, e Mary Franzese, 28 anni, laureata in Economia aziendale alla Liuc e con un master in Imprenditorialità e strategia aziendale alla Sda Bocconi. I due soci si sono conosciuti a SeedLab, dove Giuliani è stato selezionato per un periodo di incubazione da giugno a settembre 2013. «Era solo e aveva bisogno di alcune figure consulenziali» ricorda Mary Franzese: «Siamo state selezionate io e un'altra persona. Con Enrico ci siamo trovati bene e, lo scorso mese di ottobre, siamo diventati soci». L'azienda è una isrl con un capitale sociale da 85mila euro, versato grazie ai risparmi dei due startupper e ad una quota messa a disposizione dalle loro famiglie. Entrambi lavorano a tempo pieno, «ci diamo uno stipendio minimo, che non bruci le nostre disponibilità. Noi due soci prendiamo insieme 1.400 euro netti al mese. E dal 1° dicembre abbiamo inserito due ingegneri elettronici part-time con un contratto a progetto che lavorano da remoto». Giuliani ha addirittura lasciato il posto in ospedale per realizzare il suo progetto. L'idea per il collare, spiega, nasce dalla sua esperienza lavorativa «ma anche da quella di volontariato sulle ambulanze della Croce Rossa, che mi ha permesso di conoscere le problematiche legate al soccorso extraospedaliero». L'ipotermia, ovvero l'abbassamento della temperatura corporea tra i 36 ed i 32 gradi, è una terapia certificata per i pazienti affetti da infarto. Il problema che NeuronGuard vuole risolvere è quello di «rendere portatili gli strumenti per somministrare questa cura». Facilmente trasportabile sulle ambulanze, il collare è alimentato dall'energia elettrica: «Questo, a differenza di quelli basati su una reazione chimica, permette di somministrare la terapia per un periodo più lungo».Al momento Neuronguard sta ultimando la prototipazione con un'azienda di Vignola; prima di vedere il prodotto sul mercato, però, ci vorranno dai 24 ai 36 mesi. «Dobbiamo svolgere tutto il percorso regolatorio e quello legato agli studi clinici di validazione. Quindi dobbiamo certificare il dispositivo per ottenere il marchio CE in Europa e la Clearance per gli Stati Uniti». L'idea infatti è quella di confrontarsi da subito con un mercato internazionale. Ed è anche per questo che ad ottobre hanno partecipato, a Vilnius, al concorso Intel business challenge Europe, arrivando secondi classificati: un risultato che li ha qualificati direttamente per le finali mondiali, e così a novembre i due startupper sono volati nella Silicon Valley. Ma poi hanno deciso di tornare a Modena. «Ce l'hanno consigliato gli stessi americani con cui ci siamo confrontati» spiega Franzese «suggerendoci di proseguire con la ricerca sul territorio modenese, perché tante delle competenze di cui abbiamo bisogno si trovano qui e non altrove». Non solo: «Per sviluppare il nostro progetto abbiamo bisogno di professionalità altamente qualificate, che negli Stati Uniti ci costerebbero molto di più».Anche in Italia i due giovani imprenditori hanno trovato un terreno fertile per far crescere la loro azienda. «Abbiamo vinto diversi premi che ci hanno dato diritto ad alcuni periodi di incubazione, come “Dall'idea all'impresa” nell'ambito del Marzotto, grazie al quale abbiamo appena terminato un'esperienza di un anno all'interno di I3P a Torino» spiega Giuliani «e siamo stati ammessi ad un finanziamento nell'ambito di un bando per le start-up innovative della regione Emilia Romanga, che sostiene il 60% delle spese di ricerca. Fino ad oggi abbiamo ottenuto contributi per una cifra tra i 50 ed i 60mila euro, più o meno».Ma un dispositivo medicale come quello che NeuronGuard sta sviluppando non ha attirato l'interesse di qualche venture capitalist? «Abbiamo avuto diversi incontri, che in realtà però sono stati più degli “scontri”» ammette Franzese: «Ci hanno detto che siamo in una fase ancora di early stage, che prima di finanziarci avrebbero voluto dei risultati che confermassero la validità della terapia. Allora abbiamo deciso di mettere in campo le nostre risorse e presentarci di fronte a potenziali investitori con una forza maggiore». Mentre continua lo sviluppo del collare, per il 2015 il primo obiettivo è quello di «dotarci di una sede. Oggi i nostri uffici sono i nostri appartamenti». E chissà che non riescano ad essere la versione modenese dei garage della Silicon Valley.Riccardo Saporitistartupper@repubblicadeglistagisti.it

White jobs, uno dei (pochi) settori in cui l'occupazione è in crescita

In tempi di forte crisi occupazionale ci sono dei lavori che negli ultimi anni sono cresciuti in termini di nuovi occupati e che promettono di farlo anche per i prossimi anni. Si tratta dei così detti white jobs, cioè tutti quei lavori che rientrano in questa grande macro categoria che comprende i lavoratori nei servizi sanitari, sociali e alla persona. Non necessariamente quindi solo medici, ma soprattutto figure di assistenza alle persone, dalla cura dei bambini a quella degli anziani e dei disabili.Un recente rapporto di Italia Lavoro intitolato «Le prospettive di sviluppo dei white jobs in Italia» ha messo in evidenza i numeri di questo settore. E per una volta si può dire che siano dati “impressionanti” - ma in positivo. Dal 2000 ad oggi c’è stata una crescita degli occupati in questo settore di oltre il 70% con 2 milioni e mezzo di persone che oggi lavorano in questo campo e che hanno, nove su dieci, un contratto a tempo indeterminato. E tra questi lavoratori il livello d’istruzione è decisamente superiore a quello complessivo visto che quattro su dieci sono diplomati e poco meno hanno la laurea.«I white jobs rappresentano una componente importante del nostro sistema economico: producono 98 miliardi di valore aggiunto che è cresciuto dal 2000 al 2011 del 21%, a fronte del 4,5 della media di tutti i settori economici» spiega Paolo Reboani, presidente di Italia Lavoro, illustrando il rapporto. E i valori positivi ci sono anche nel periodo della crisi iniziato nel 2008, quando in confronto a una flessione delle attività economiche, questo settore vede un aumento poco al di sotto del 4%. «Negli ultimi dieci anni il numero delle cooperative sociali è raddoppiato passando da meno di 6mila a quasi 12mila imprese attive, così come il numero dei lavoratori occupati che ha registrato un aumento del 17,3% in quattro anni» spiega alla Repubblica degli Stagisti Cristina Bazzini, presidente del gruppo cooperativo Colser-Auroradomus, con una lunga carriera nel campo delle cooperative - è diventata presidente del gruppo Colser a soli 27 anni e oggi guida oltre 5mila tra soci e dipendenti con un fatturato di 130 milioni di euro. La Bazzini sottolinea che i dati sulle possibilità occupazionali del settore sono «assolutamente in controtendenza rispetto a quelli che siamo abituati a registrare in questi lunghi anni di crisi», e il trend continuerà così: «è una crescita che non ha espresso ancora tutto il suo potenziale».Il totale occupati italiano in questo settore è in effetti ancora lontano dai numeri di Francia e Regno Unito, tanto che anche il rapporto di Italia Lavoro assicura che il numero dei lavoratori nel settore dei white jobs «potrebbe aumentare da 2,5 milioni del 2012 a circa  tre milioni del 2020, grazie soprattutto alla componente femminile, che inizia a diventare maggioritaria anche nella professione tradizionalmente più maschilizzata dei medici», come scrive Reboani nell’introduzione al rapporto. Dunque non solo più occupazione ma più opportunità anche per le donne, spesso e volentieri ai margini del mercato del lavoro.Ma per far ripartire il mercato del lavoro e soprattutto questo settore servono delle risorse aggiuntive a quelle pubbliche. «Il riconoscimento legislativo delle cooperative sociali di una specificità giuridica propria che conferisce “dignità d’impresa” alle attività di solidarietà sociale ha rappresentato un passaggio fondamentale. A questo si sono accompagnate agevolazioni di carattere fiscale e contributivo che fanno interagire la natura di ente senza scopo di lucro e la natura mutualistica e cooperativa» spiega alla Repubblica degli Stagisti Cristina Bazzini. «Ma l’economia sociale potrà liberare il proprio potenziale solo a condizione che ci sia uno scatto in avanti sul potenziamento delle politiche di welfare e delle politiche attive per l’occupazione». In questo senso l’auspicio è che il Governo e l’Europa cambino il ruolo dei finanziamenti destinati alle politiche sociali «considerandoli investimenti, non spesa».Nel campo delle risorse aggiuntive all’estero, specie in Francia, si è deciso di affidarsi ai voucher, un’ipotesi che è stata presa in considerazione anche in Italia. E infatti sia al Senato sia alla Camera è stata presentata da parlamentari di differenti gruppi politici una proposta di legge per l’istituzione del voucher universale per i servizi alla persona e alla famiglia, che si ispira proprio al modello francese. Il voucher avrebbe lo scopo di raggiungere contemporaneamente tre obiettivi: «La riduzione del costo dei servizi, la loro qualificazione e l’emersione del lavoro nero, così diffuso in questo settore, anche per recuperare risorse aggiuntive e maggior gettito fiscale e contributivo» riassume Reboani. La proposta di legge ha poi anche l’obiettivo di costruire un sistema di servizi alla persona di qualità e con costi sostenibili proprio per facilitare la conciliazione tra vita privata e lavoro e soprattutto contribuire alla crescita dell’occupazione femminile.A chi sostiene che un provvedimento del genere andrebbe a gravare troppo sulle spalle dello Stato è il rapporto a snocciolare numeri per dimostrare la compatibilità finanziaria di queste misure, riportando le conclusioni di una ricerca condotta dal Censis che mostra come l’impatto economico dell’istituzione del voucher universale – valutando tutti i benefici dell’emersione del lavoro nero e dell’occupazione aggiuntiva – sarebbe sostenibile con un saldo per lo Stato al di sotto di 300 milioni di euro. Una cifra che sembra alta ma che consentirebbe «315mila nuovi occupati, emersione del lavoro nero per 326mila unità e il passaggio dei lavoratori beneficiari del welfare aziendale da 127mila a 858mila».Sul voucher, però, la Bazzini è prudente: «Va meglio strutturato e combinato con un’adeguata politica fiscale di detrazioni e deduzioni che premino le famiglie che curano: potrebbe dimostrarsi uno strumento interessante e utile se venisse promosso il legame tra il denaro assegnato, il bisogno effettivo e la prestazione del servizio in modo da superare la tendenza tutta italiana di risolvere in forma individualistica i problemi, vivendo la formula del voucher come compensazione o elemento risarcitorio della sofferenza».I white jobs, dunque, portano occupazione e danno un contributo al sistema economico generale non indifferente, di quasi 98 milioni di euro solo in Italia, pari al 7% del prodotto complessivo del Paese. «Con il coinvolgimento di oltre 40mila soci volontari le imprese sociali contribuiscono per il 38% al saldo occupazionale complessivo in Italia» ricorda Cristina Bazzini, ma il settore ha anche le sue ombre, come il problema dei finanziamenti sempre più esigui. «Ci troviamo di fronte a una cooperazione sociale capace di fare impresa con risorse marginali e con investimenti sobri, impiegando prevalentemente le donne con contratti a tempo indeterminato e con una base sociale mediamente giovane e che investe in formazione per aumentare la propria competitività». Certo non sono tempi facilissimi nemmeno per il terzo settore, soprattutto perché non si può fare perno su quello che spesso viene definito il “terzo pagatore”, ovvero lo Stato. Perciò la cooperazione sociale deve investire in innovazione e cercare nuove relazioni e collaborazioni.Ma nonostante i tempi non semplici, quello della cooperazione sembra essere un campo in cui ancora trovare lavoro e riuscire a realizzarsi. «La mia è stata una vera e propria avventura imprenditoriale nel mondo della cooperazione, sia nel settore dei servizi alle imprese sia in quello social» ricorda la Bazzini, «ma era un periodo storico molto distante da quello che stiamo vivendo. Questa però è un’avventura che qualsiasi giovane può intraprendere se alla base c’è passione, un’ampia visione, molta curiosità e la condivisione di una mission». Insomma, se si hanno queste caratteristiche conviene provarci, non solo perché come dice la presidente Colser «il futuro è tutto da conquistare», ma anche perché il futuro è ricco di problematiche, di assistenza, educazione, sostegno, che in qualche modo riguarderanno soprattutto i giovani di oggi. E il modo migliore per rispondere potrebbe essere proprio dal di dentro, facendo parte di questo settore.Marianna Lepore

Startup ed Expo ma non solo, gli imprenditori lombardi: puntiamo sui giovani per far volare Milano

Milano prova a trainare la difficile ripresa dell’economia, e per farlo non dimentica di puntare sui giovani: tra i 50 “progetti per far volare Milano”, lanciati un anno fa da Assolombarda, diverse iniziative hanno infatti riguardato proprio le nuove generazioni, dal mondo della formazione a quello dell’imprenditoria giovanile. A un anno dall’avvio del progetto, nonostante l’economia resti asfittica, a Milano e in Lombardia si intravedono i primi segnali di ripresa: crescita dell’export, miglioramento dell’indice di fiducia delle imprese manifatturiere, nascita di nuove startup. «L’export è salito dell’1,3% nel terzo trimestre, e per ogni fallimento in Lombardia nel 2014 sono nate 19 startup» dice il presidente dell’associazione locale degli industriali Gianfelice Rocca. «L’Italia non ha ancora finito di declinare, anche se il ritmo rallenta e fa pensare che ci stiamo avvicinando al fondo della discesa. Ma Milano intanto mostra segnali chiari, ce la faremo. Molti problemi restano, non è il caso di nutrire infondati ottimismi, ma la fiducia c’è». Tra i punti di forza sui quali la capitale economica del nostro Paese fa leva per ripartire, ha sottolineato Rocca, c’è «il mix equilibrato delle sue specializzazioni: l’alta quota di manifatturiero medium hi-tech con forte presenza di metalmeccanica, chimica farmaceutica, alimentare e moda; l’elevata quota di servizi in informazione e comunicazione, la forte densità di addetti nelle attività professionali, scientifiche e tecniche, la concentrazione di grandi gruppi nazionali nel settore finanziario, del credito e assicurativo. Abbiamo in Lombardia 50mila addetti alla ricerca, pari a circa un quinto del totale nazionale. E le imprese lombarde del settore biomedicale realizzano la metà del fatturato nazionale di settore». Tuttavia «non contano solo le imprese». Lo ha ribadito lo stesso presidente di Assolombarda: «La forza di Milano sta nelle sue otto prestigiose università con 180mila studenti di cui 13mila stranieri, nei suoi 143mila volontari impegnati nel privato sociale del terzo settore, nell’eccellenza raggiunta nel ranking internazionale di moltissimi suoi centri di ricerca, con 1.100 pubblicazioni su riviste scientifiche per milione di abitanti, rispetto alle 880 della Germania e alle 758 dell’Italia». Per garantire migliori opportunità ai giovani è essenziale migliorare il rapporto tra la scuola e il mondo del lavoro, che è al centro di uno dei progetti che Assolombarda ha voluto citare come particolarmente significativo per i risultati ottenuti sul fronte del supporto alla crescita delle imprese. «La nostra associazione si è impegnata direttamente per sostenere e diffondere il contratto di apprendistato per l’inserimento dei giovani nelle aziende: sono stati coinvolti 300 ragazzi e 800 realtà produttive», ha fatto sapere Rocca, aggiungendo che le proposte di Assolombarda per il miglioramento di questa forma contrattuale «hanno trovato riscontro nel decreto Poletti». Inoltre, ha sottolineato, «abbiamo costruito un ponte diretto tra imprese e istituti tecnici e professionali: abbiamo realizzato accordi di rete in sei settori, coinvolgendo 100 imprese aderenti e 80 istituti tecnici e professionali sui 141 del nostro territorio, con 3.500 studenti inseriti in progetti di alternanza scuola/lavoro. Abbiamo poi puntato sulla formazione tecnica, creando quattro  Fondazioni ITS e svolto un ruolo primario nell’attivazione di sei ITS (il 21% dei 29 lombardi nell’anno scolastico 2014-2015)». Gli ITS, Istituti Tecnici Superiori, sono “scuole speciali di tecnologia” che costituiscono un canale formativo di livello post-secondario, parallelo ai percorsi accademici.Nel piano strategico lanciato un anno fa c’è poi un’iniziativa che punta a valorizzare in particolare il ruolo degli startupper, i giovani che scommettono sulle loro idee imprenditoriali innovative: «Vogliamo fare di Milano una Startup Town, e per questo dalla scorsa primavera sono entrate gratuitamente in Assolombarda oltre 100 startup», ha sottolineato Rocca. «Abbiamo inoltre aggregato 23 istituzioni e soggetti del nostro territorio per rendere più attrattiva Milano per questa categoria di imprese. Lavoriamo per trasferire le idee dalle università alle imprese, sfruttando la nostra conoscenza del mondo produttivo per colmare le carenze del sistema». Non è mancato un riferimento alla «grande occasione» che si presenterà a breve «per Milano e per l’Italia intera, Expo 2015». Anche qui, Rocca ha ricordato, tra le due esperienze realizzate da Assolombarda nell’ambito del piano strategico, «l’accordo sul lavoro sottoscritto con le organizzazioni sindacali per l’Esposizione universale. È l’intesa più avanzata in tutta Italia per occupabilità, turni, orari, utilizzo dell’apprendistato e di contratti a tempo e flessibili: vorremmo che sia un banco di prova da estendere a livello nazionale nel post-Expo».Tutte iniziative che puntano a ripristinare un clima di fiducia, essenziale per la ripresa dell’economia e per un miglioramento delle prospettive dei giovani. «Credo che il mondo l’anno prossimo andrà un po’ meglio che quest’anno», ha chiosato Rocca. «In Italia mancano, in questo momento, circa 30 miliardi di investimenti a trimestre e 25 miliardi di consumi: il problema non può essere risolto soltanto dall’export. Se riparte la fiducia, che io chiamo petrolio bianco, riparte anche il Paese, che ora è ripiegato su se stesso».  

Piano giovani Sicilia, oggi parte il mail bombing di diffida contro la Regione

Avrebbero dovuto prendere il via il 30 novembre: ma due settimane dopo quella data ancora nessuno dei 1.600 giovani che dovevano iniziare i tirocini previsti dal Piano giovani Sicilia ha avuto notizia di cosa succederà. Dai due famosi clicday sono passati ormai cinque lunghi mesi: molti a questo punto si sono convinti che il progetto lanciato dal presidente della Regione Crocetta e dal suo allora assessore Nelli Scilabra sia stato solo un piano propagandistico. Così i tirocinanti dimenticati hanno pensato a una nuova protesta, ultimo tentativo di smuovere la politica prima di presentare definitivamente un’azione legale contro la Regione. Questo fine settimana prende il via quella che gli aderenti al gruppo Facebook «Piano giovani, se Crocetta annulla tutto faremo ricorso!» hanno soprannominato un’azione di mail bombing indirizzata all’assessorato regionale dell’istruzione e formazione professionale e a quello della famiglia delle politiche sociali e del lavoro. «Abbiamo cambiato strategia» spiega alla Repubblica degli Stagisti Giuseppe Sicilia, amministratore della pagina Facebook, «e deciso di scuotere la Regione». Una scelta maturata dopo mesi di attesa e dopo un silenzio pressoché totale da parte della giunta Crocetta. A nulla sono valsi i tentativi di incontro con il nuovo assessore alla formazione Mariella Lo Bello: le richieste dei 1.600 aspiranti tirocinanti sono rimaste sostanzialmente inevase. Nemmeno la manifestazione organizzata il 17 novembre a Palermo, con l'obiettivo di chiedere di sbloccare sia il Piano sia la Garanzia giovani, è riuscita a spingere i politici siciliani ad agire. Il flash mob di novembre era stato organizzato dalla Cgil Sicilia che continua ad appoggiare la protesta degli stagisti mancati. «Oggi siamo in piazza non solo contro il jobs act ma anche per portare alla ribalta il tema del Piano giovani, che si è rivelato un'illusione per i siciliani» dice alla Repubblica degli Stagisti Andrea Gattuso, responsabile Cgil del dipartimento politiche giovanili. «Da mesi aspettano qualche cosa per avere speranza e non essere costretti ad emigrare, e invece è ancora tutto fermo». Per questo motivo oggi parte l’azione di mail bombing a cui, per ora, hanno già detto che parteciperanno un centinaio di persone che invieranno un atto stragiudiziale di diffida. In questo testo si ricorda alla Regione che l’avvocatura dello Stato ha ritenuto valide le selezioni e che anche Sicilia e-Servizi ha attestato che non vi erano problemi che potessero aver impedito la fruibilità degli utenti al sito per la registrazione. Pareri a cui a tutt’oggi gli assessorati che avrebbero dovuto occuparsi dell’avvio dei tirocini non hanno voluto dare seguito. Per questo motivo i giovani chiedono ai due assessorati di «provvedere entro trenta giorni dal ricevimento del presente atto all’adozione dei provvedimenti necessari e preordinati all’avvio dell’odierno istante al tirocinio formativo ed al riconoscimento dei consequenziali diritti». E ricordano nel loro atto stragiudiziale di diffida che, ai sensi dell’art. 117 c.p.a., nel caso in cui la pubblica amministrazione si renda responsabile dell’inerzia è «passibile di provvedimento di condanna adottato in forma specifica ai fini dell’emanazione dell’atto dovuto, risultando altresì prevista la nomina di un commissario ad acta in danno dell’amministrazione stessa».Fuori dal linguaggio legale, si chiede quindi che la Regione pubblichi l’elenco degli ammessi di luglio e agosto ai tirocini in modo da applicare il parere favorevole dell’Avvocatura dello Stato del settembre 2014 e iniziare, finalmente, questi stage. Per aderire all’iniziativa, i giovani interessati devono seguire le istruzioni pubblicate sulla pagina Facebook “Lettera di diffida”, scaricare l’atto stragiudiziale di diffida, compilarlo, allegare il documento che attesta l’avvenuto incrocio del clicday e spedire tutto in Regione.Una raccomandata che a qualcuno potrà sembrare inutile, ma che in realtà è il primo passo da fare prima di un eventuale procedimento e potrebbe convincere la Regione a non perdere ulteriori giorni. Anche perché in ballo non ci sono solo i diritti di 1.600 giovani, ma un’ingente somma di fondi europei che potrebbero essere preziosi per rilanciare l’economia siciliana in forte crisi. E che invece - per errori di gestione del Piano giovani, per litigi tra politici e per una scelta di rimandare sine die la decisione sul da farsi - rischia di mandare all’aria 90 milioni di euro stanziati solo per il Piano giovani. Anche Alice Anselmo, deputato di Articolo 4 all’assemblea regionale ha denunciato questo rischio. E lo stesso Gattuso evidenzia: «Per noi è inaccettabile che si sia perso tutto questo tempo per mettere a disposizione dei giovani questi soldi, anche perché i fondi del Piano giovani fanno riferimento alla programmazione 2007-2013 e sono all'interno di un piano disposto nel 2011».  Come se non bastasse, poi, il Piano giovani prevedeva anche una terza finestra dei tirocini che a questo punto non ci sarà prima del 2015. Certo, dopo le polemiche e soprattutto gli errori degli ultimi mesi, la cautela con cui la Regione sta agendo è comprensibile, ma questa lentezza cosa potrebbe far presagire? La Repubblica degli Stagisti ha provato a mettersi in contatto con il nuovo assessore alla formazione Mariella Lo Bello, che ci ha promesso un’intervista nei prossimi giorni per fare luce sulla questione.Di tempo per le risposte, però, non ce n’è molto per gli aspiranti tirocinanti in attesa: «Abbiamo aspettato che si formasse il nuovo governo Crocetta ter prima di procedere, ma ora che non abbiamo ancora avuto risposte abbiamo deciso di stringere i tempi. D’altronde avevamo già annunciato il deposito dell’azione legale per il 30 settembre» ragiona Sicilia, «se abbiamo aspettato è solo perché l’avvocatura dello Stato il 29 di quel mese aveva già indicato all’allora assessore di dare seguito ai tirocini». Il perché di questi due mesi e mezzo di ritardo nel far cominciare gli stage sarebbe riconducibile a due ordini di motivi secondo Gattuso: «Il primo è burocratico: la Regione ha paura di sbagliare nuovamente e di incorrere in ricorsi che sarebbero un danno dal punto di vista economico non indifferente. Per questo motivo ha atteso il parere di organismi che accertassero non ci fosse questo problema. L'altro motivo è, invece, di ordine politico e riguarda l'assegnazione della gestione del Piano a società esterne come Italia Lavoro e Ett».Le prossime mosse ora sono in mano alla Regione, perché sarà in base alla sua risposta che i giovani decideranno se proseguire o meno con l’azione legale. E se il governo Crocetta dovesse ancora rimandare, sarebbe la certificazione di un interesse davvero scarso nei confronti dei propri giovani, desiderosi a tal punto da fare un tirocinio nella propria terra da essere disposti a intraprendere il lungo cammino di un’azione legale. «Questi ragazzi vogliono lavorare subito», dice Giuseppe Sicilia. Mentre la Regione, al momento, sembra non avere alcuna fretta di prendere una decisione in merito.Foto quadrata: di Figiu [in modalità creative commons]