Arrivederci (o addio) Italia, quando si trasferisce il dipendente all’estero

Chiara Del Priore

Chiara Del Priore

Scritto il 27 Apr 2014 in Approfondimenti

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Lasciare casa per andare a lavorare all’estero? Il lavoratore italiano lo fa sempre più spesso. E sempre più spesso tende a non ritornare nel Belpaese.

Il fenomeno è definito «mobilità internazionale» e indica la tendenza di una multinazionale a proporre ai propri dipendenti passaggi a una propria sede estera, per periodi di tempo variabili, o ad accettare proposte di partenza da parte del lavoratore.
La legislazione italiana distingue tra trasferta, distacco o trasferimento. Nei primi due casi si può parlare di un cambiamento di sede temporaneo, che per il distacco può protrarsi per mesi o anni (decreto legislativo 276/2003 e decreto legislativo 72/2000). Nel caso del trasferimento invece la modifica del luogo di lavoro è definitiva.

Le retribuzioni legate al lavoro dipendente prestato all’estero sono disciplinate dall’art.51 del Tuir (Testo unico delle imposte sui redditi), che prevede che i redditi da lavoro svolto all’estero per più di 183 giorni siano disciplinati in base a retribuzioni convenzionali suddivise per settori merceologici, stabilite da un decreto del ministero del Lavoro.

A livello internazionale un riferimento importante è il Modello di convenzione OCSE, che sancisce, tra le varie disposizioni, l’imponibilità dei redditi da lavoro dipendente nello stato in cui è esercitata questa attività e secondo la legislazione dello stesso stato, a patto che il soggiorno all’estero nell’anno fiscale considerato superi i 183 giorni. Chi si trova nel corso della propria vita a lavorare in paesi diversi, può beneficiare dei cosiddetti accordi bilaterali, che sommano tutti i periodi di assicurazione e di contribuzione maturati nei differenti paesi, per riconoscere al lavoratore un «trattamento pensionistico adeguato al lavoro prestato in Nazioni differenti», come stabilito dall'Inps.

elena oriani
Com’è la situazione oggi e quale il profilo tipo del lavoratore espatriato? Next ha provato a fotografare il fenomeno insieme a Mercer, società di consulenza sul capitale umano, che monitora costantemente i processi legati alla mobilità del personale di aziende italiane e straniere. «Non è facile quantificare il numero annuale di lavoratori che si trasferiscono all’estero per conto della propria azienda, ma si può andare dai 30 di imprese medie fino alle circa mille unità l’anno di importanti multinazionali. Il trend indica comunque una crescita rispetto agli anni precedenti», spiega Elena Oriani, global mobility leader di Mercer. Gli expat sono nella maggior parte dei casi lavoratori tra i 35 e i 50 anni, a un buon livello di carriera, anche se sono in aumento i giovani. «I giovani hanno meno vincoli familiari e personali e tendono a giocarsi la carta estero per arricchire il proprio curriculum e avanzare a livello professionale». La percentuale di donne, variabile per settore, si aggira tra il 10 e il 20% del totale. Tendenzialmente è la società a proporre un trasferimento a un proprio dipendente, in seguito allo sviluppo di nuovi progetti o per  specifiche esigenze di personale. Nella maggior parte di casi si sta fuori dall’Italia per un periodo variabile tra i 3 e i 5 anni, ma è sempre più frequente che il lavoratore decida di non tornare a casa, ma di restare nella sede estera o fare una nuova esperienza in un altro paese straniero.

Una tendenza confermata anche da Nadia Cappellini, HR manager di Philips, azienda presente in più di 120 paesi: «I nostri dipendenti lavorano all’estero nella maggior parte dei casi dai 3 ai 5 anni. Si tratta di figure professionali già con una discreta esperienza lavorativa, se non addirittura di top manager, che decidono di chiudere la propria carriera fuori dall’Italia. Nel nostro caso è di solito il dipendente a proporre il trasferimento all’azienda, che valuta poi la richiesta in base alle specifiche esigenze di personale.
La perfetta conoscenza della lingua inglese è fondamentale per il trasferimento, dal momento che noi lavoriamo in inglese. Può però capitare che all'expatriate venga fornito come supporto anche un corso di lingua locale per integrarsi meglio nella società civile. Una multinazionale come Philips ha all’estero una maggiore disponibilità di posizioni di alto livello. Il rientro in Italia è difficile, proprio perché l’estero offre maggiori opportunità di crescita sia dal punto di vista economico che per la carriera».

Del resto, una recente classifica mondiale del World Economic Forum ha segnalato che l’Italia è solo al centunesimo posto su un totale di 122 per capacità di mantenere talenti e al novantanovesimo per capacità di attrarne. Il che significa che spesso le nostre aziende non riescono a offrire condizioni ottimali per permettere la migliore crescita professionale dei propri dipendenti.

Chiara Del Priore

La foto dell'uomo con la valigia è di Seabamirum

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