Categoria: Approfondimenti

Lavorare 35 ore a settimana invece che 40: ecco i pro e i contro secondo gli esperti

La giornata lavorativa tradizionale composta da otto ore più eventuali straordinari non è un dogma assoluto. E le esperienze di altri paesi lo dimostrano: ad esempio la Francia, dove l'orario di lavoro fu ridotto a 35 ore settimanali sul finire degli anni Novanta grazie a due leggi che prendono il nome della ministra del Lavoro dell'allora governo Jospin, Martine Aubry. Un esperimento unico in Europa, dove la maggioranza dei paesi è allineata invece sulle 40 ore a settimana. Nonché un provvedimento controverso, che nel tempo ha visto crescere i suoi detrattori, tanto che quest'estate è arrivata la proposta dell'attuale ministro francese dell'economia, Emmanuel Macron, di aumentare il numero di ore legali a 39. Ulteriore passo dopo la battaglia dell'ex presidente francesce, Nicolas Sarkozy, contro il sistema introdotto quasi due decadi fa. Sui vantaggi di un orario più contenuto è tornato recentemente Marco Craviolatti, attivista sindacale e autore del volume E la borsa e la vita (edito da Ediesse). Il libro, per il quale è anche prevista una presentazione a Roma la prossima settimana (mercoledì 11 marzo alle ore 18 presso la Libreria Arion di via Cavour angolo via dei Serpenti), parte proprio dal caso francese, considerato a torto, a detta dell'autore, «anche in ambienti sindacali e politici italiani» un esempio fallimentare. «Dove starebbe il fallimento» si chiede, se «sul piano occupazionale tra il 1998 e il 2002, i posti di lavoro netti generati dalla riforma sono stati stimati in 300-350mila?». Con un tasso di occupazione salito negli stessi anni di 3,4 punti percentuali. Il principale argomento a favore è che una riduzione dell'orario di lavoro si possa accompagnare anche a una migliore redistribuzione dell'occupazione. Diminuire le ore è «uno strumento di distribuzione della domanda di lavoro, soprattutto se scarsa, evitando una quota di esuberi o allargando la platea dei beneficiari di nuove opportunità occupazionali» scrive Craviolatti nelle prime pagine del volume. La convinzione è che «la distribuzione del lavoro può sopperire a una relativa scarsità di risorse economiche da impegnare». Un concetto che Craviolatti ribadisce con la Repubblica degli Stagisti: «Andrebbe accorciata la forbice tra chi non ha più una vita perché lavora troppo e chi invece fatica a campare perché un lavoro non ce l'ha». Come si concilia però un orario di lavoro più corto con il mantenimento del salario? L'obiezione è inevitabile, tanto che alcuni movimenti spontanei cresciuti tra l'Italia e la Spagna - qui il partito Podemos si è fatto portavoce della battaglia per le 35 ore - hanno lanciato addirittura la campagna 'Per una settimana lavorativa di 30 ore senza riduzione di orario' (con una richiesta quindi ancora più radicale). Dalla civilissima Svezia, dove la giornata media è già di 7 ore per un totale di 35 a settimana, è partito un progetto pilota su un gruppo di dipendenti pubblici del comune di Gotheburg che per un periodo lavoreranno meno delle canoniche sette ore al giorno per verificare eventuali miglioramenti della produttività. Un'idea da cui è scaturito un dibattito pubblico anche in Germania, già alle prese con l'esperimento dei minijobs. Segno che la questione è sentita e porta a chiedersi se - in anni di forte disoccupazione - abbia senso pensare di lavorare meno per lavorare tutti mantenendo però inalterate le retribuzioni. Secondo il sindacalista, non necessariamente si andrebbe incontro a una sforbiciata degli stipendi (anche se ammette che, per le categorie più benestanti, potrebbe non costituire «un problema un piccolo taglio a fronte di minori ore lavorate»). Il fattore monetario si potrebbe compensare con un incentivo fiscale. Invece di «detassare gli straordinari, come si fa adesso, la manovra potrebbe invertirsi, abbassando l'aliquota fiscale sulla differenza oraria tra le 35 e le 40 ore», spiega Craviolatti alla Repubblica degli Stagisti. Oppure l'alternativa potrebbe essere la compensazione con la produttività: si lavora di meno, ma si produce di più - «come dimostrano diversi studi internazionali» -, un beneficio che aiuterebbe a mantenere invariati i salari. Si sostiene poi nel libro che «in prospettiva strutturale la riduzione di orario può incidere sul rapporto tra capitale e lavoro, 'restituendo' ai lavoratori una quota dell’enorme crescita di produttività avvenuta negli ultimi quarant’anni». Di questa hanno però «beneficiato quasi esclusivamente le rendite e i profitti da capitali, che sono cresciuti molto più dei salari».In Italia invece l'ago della bilancia continua a pendere verso l'aumento dell'orario lavorativo (lo dimostra il grafico nella foto), perché «qui le aziende tendono a fare riferimento alla contrattazione collettiva nazionale e quindi agli orari massimi» spiega ancora Craviolatti. La conseguenza è che si creano «all'altro estremo lavoratori più disoccupati e sotto occupati, cioè meno di quanto vorrebbero esserlo». Per esempio nel part time, che è applicato «come ripiego, per cui i due terzi dei contratti di questo tipo sono involontari». Potenziare l'orario di lavoro significa anche alimentare il precariato, «le persone diventano più ricattabili, sanno che dietro di loro c'è la fila». Introducendo un meccanismo come quello proposto nel libro, non sarebbe invece neppure da escludere un vantaggio per le categorie dei parasubordinati: una maggiore redistribuzione del lavoro andrebbe anche a loro favore, specie per «quelle fasce di solito escluse dal mercato e invece più produttive come donne e giovani» ragiona l'autore.   Il paradosso è infatti che, mentre le ore di lavoro continuano a salire, non aumenta ma anzi ristagna la produttività dei lavoratori. Meno tempo in ufficio può invece «far bene anche al sistema impresa, sia migliorando direttamente l’efficienza e la produttività del lavoro che incentivando una concorrenza fondata sull’innovazione e sulle competenze professionali, invece che sul feroce contenimento dei costi produttivi» chiarisce il sindacalista. Molti studi lo confermano: spesso in meno ore si riesce a produrre di più e meglio perché ci si organizza in modo più strutturato. Senza contare l'impatto positivo sulla vita delle persone, a livello di conciliazione, «attenuando la diffusa alienazione (da lavoro e dalla sua mancanza) e liberando tempo e spazio mentale per lo sviluppo personale» si legge nel testo.Tutte teorie da cui prende le distanze il consulente del lavoro Enzo De Fusco, che alla Repubblica degli Stagisti dice di ritenere inattuabile un modello simile, che porta costi maggiori «in un momento di crisi economica come questo». La risposta «non può essere lavorare meno, altrimenti le aziende non farebbero i contratti di solidarietà o le casse integrazione». Introdurre il sistema delle 35 ore potrebbe comportare la necessità di nuove assunzioni, questo sì, ma aprire nuovi rapporti di lavoro implica costi che le aziende non sono oggi in grado di affrontare. De Fusco ricorda infatti che i contratti più recenti «hanno innalzato l'impegno dei lavoratori aumentando le ore di lavoro a fronte di un salario immutato». In cambio le aziende «hanno promesso ai lavoratori una ricompensa in termini economici per l'eventuale innalzamento della produttività rilevata a fine anno». Se questa è la ricetta più utilizzata per una maggiore competitività, per De Fusco è utopia pensare alla misura delle 35 ore, che potrebbe dare i suoi frutti «solo in un'economia che viaggia cinque o dieci punti di Pil, che si tiene da sola».È anche un fatto culturale, punto su cui è d'accordo anche Craviolatti: in Italia non si punta ai risultati, ma contano di più le ore spese sul posto di lavoro, «anche per retaggi sindacali». Inultile quindi pensare alle rivoluzioni come quelle introdotte dalla Virgin, per i cui dipendenti non esiste più l'obbligo di sedersi alla scrivania ma basta raggiungere determinati obiettivi. Come se ne esce allora? Per Craviolatti forzando le imprese a ragionare a lungo termine, innovando per arrivare a «un orario a metà tra il full time e il part time, che può variare da 28 a 35 ore». Prendendo a modelli gli altri paesi dove la teoria ha funzionato, e agendo sul sistema degli straordinari per esempio, oggi agevolati dal punto di vista fiscale - mentre a detta di Craviolatti andrebbero ostacolati. Politica impensabile per De Fusco: «Il ragionamento è valido solo per i periodi in cui l'impresa è talmente florida e l'economia tira talmente tanto che preoccuparsi del benessere dei dipendenti non fa la differenza in termini economici».Ilaria Mariotti 

Jobs Act, per gli accademici bocciato in partenza: «un ritorno al passato»

È forse la riforma più discussa del governo Renzi quella del lavoro, il cosiddetto Jobs Act. E se i sostenitori di un provvedimento pensato e lanciato come rivoluzione copernicana per il mercato del lavoro non mancano, tra loro non figura il mondo universitario. Che al convegno 'Quale progetto per il diritto del lavoro?' organizzato qualche giorno fa dalla casa editrice Ediesse ha fatto le pulci a una misura considerata tutt'altro che un «disegno strategico o intervento tatticistico», come l'ha definito Luigi Mariucci, ordinario di diritto del lavoro e condirettore di Lavoro e diritto, quanto piuttosto «l'ennesimo bricolage legislativo». Quello che si starebbe facendo è «tornare alla legge delega 30 del 2003, introducendo flessibilità in entrata e in uscita», sostiene l'esperto. È un po' un ritorno alle origini, sostiene Mariucci, a quell'impostazione della legge Biagi che sancì la nascita delle diverse forme contrattuali precarie che oggi conosciamo. Ma quello che non farebbe il Jobs Act è intervenire sulla questione davvero centrale, ovvero le tutele. È il contratto a tutele crescenti, nuova versione del contratto a tempo indeterminato, il bersaglio delle principali accuse. Per Lorenzo Zoppoli della Federico II, «il 'catuc'», come lo ha ribatezzato il professore, «affiancato al vecchio contratto standard non può – come si auspicherebbe – portare una maggiore uguaglianza sul mercato». Al contrario, sostiene Zoppoli, «la sua funzione è quella di disequilibrare ulteriormente le posizioni contrattuali», quindi all'interno del rapporto stesso di lavoro. È chiaro infatti che se per chi offre un posto di lavoro la possibilità di licenziare diventa più praticabile in cambio di un indennizzo economico, a farne le spese è «il portato negoziale del contratto». Detto altrimenti, il lavoratore diventa più debole di fronte alla controparte. La difesa di chi ha firmato il Jobs Act, ricorda Zoppoli, «è però che le disuguaglianze da abbattere sono quelle esterne al rapporto di lavoro», tra garantiti e non. Ma, a suo dire, non si centrerebbe neppure questo di obiettivo: «La dimostrazione è con il decreto 34 che ha reso del tutto acausale il contratto a tempo determinato, di fatto liberalizzando la precarietà». Il risultato è stato una sua ufficializzazione. E non sono certo le assunzioni sganciate da qualunque garanzia il fondamento dell'uguaglianza. È stato ripetuto del resto da più parti: l'ispirazione doveva provenire dalla flexsecurity, nei fatti rimasta invece lettera morta. «Per ora c'è la flessibilità» chiarisce Maria Vittoria Ballestrero, docente di diritto del lavoro all'università di Genova. «Per la security si vedrà», forse nel momento in cui «ci saranno le risorse per aumentare i beneficiari delle tutele». «Declinando la flessibilità in entrata, si è avuta una erosione dei diritti fondamentali dei lavoratori» ragiona la professoressa, «ma la flessibilità non può considerarsi merce di scambio con le tutele».L'altra critica che rivolge Zoppoli al Jobs Act è l'idea di mettere al centro il nuovo contratto a tutele crescenti. «Meglio un sistema con più piste aperte» osserva in riferimento per esempio al contratto a progetto, da non abbandonare «perché comunque legato a un sistema di tutele». Tra queste per esempio la disoccupazione erogata una tantum grazie alla legge Fornero, dietro il rispetto di una serie di requisiti. L'impianto dovrebbe insomma prevedere «un meccanismo in cui si possa intervenire con la contrattazione collettiva, quella che può fornire più paracaduti per i lavoratori». Proprio l'esclusione dei sindacati frena l'entusiasmo di altri esponenti del mondo accademico, come Andrea Lassandari, ordinario di diritto del lavoro dell'università di Bologna: «Nei confronti del sindacato c'è quasi ostilità» afferma, «l'idea è che il datore di lavoro sia autosufficiente e che non abbia bisogno del contratto collettivo: la deroga gliela consegna il legislatore stesso e non il contratto nazionale». Una riforma che non piace è anche quella sull'articolo 18, perché «se cade una fortezza se la passano male tutti, negli anni Settanta c'eravamo già arrivati» sottolinea Lassandari. Tutti i professori schierati contro Renzi e Poletti, insomma, o quantomeno quelli chiamati al convegno da Ediesse: una platea facile per Giorgio Airaudo, esponente di Sel, per cui il Jobs Act «non è un pasticcio fatto male ma un vero disegno» dietro a cui starebbe la scelta precisa di «ridurre il peso contrattuale del lavoro». Per l'ex sindacalista oggi politico «è l'estensione del modello Marchionne: si sposta il baricentro dai lavoratori all'impresa». In definitiva, è l'affondo di Airaudo, «il Jobs Act lascia i lavoratori soli». Meno tranchant il giudizio di Cesare Damiano, già ministro del Lavoro e oggi presidente della commissione Lavoro alla Camera - e dunque parte attiva nella redazione del provvedimento, benché in conflitto con la maggioranza del Pd su molti dei temi sul tavolo: «La nostra è stata una battaglia di resistenza, e qualche risultato lo abbiamo ottenuto». Insomma, sarebbe potuta andare peggio: «È un impianto che non condivido» ammette, «ma ho dovuto fare i conti con una realtà che vede il lavoro progressivamente svalutato». Tuttavia, così come impostato a livello di legge delega, il sistema sembrerebbe conservare una sua logica non del tutto deprecabile. «L'idea è che sì, si sottraggono tutele» dice Damiano, «ma poi una volta disoccupato ti diamo di più», ricorda in riferimento all'estensione del sussidio di disoccupazione. E poi c'è l'abolizione delle figure contrattuali più precarie, considerate «dai precedenti governi di destra un antidoto alla rigidità del lavoro». La loro cancellazione sarà la risposta «a un sistema di maggiore flessibilità sia in entrata che in uscita dal mercato del lavoro» conclude Damiano di fronte alla platea di docenti. Per sapere se sarà davvero così bisognerà però aspettare che tutti i decreti delegati vedano la luce da qui a giugno.Ilaria Mariotti 

Stagisti giornalisti gratis nelle redazioni, un problema sempre più diffuso anche nel Regno Unito

È cominciato tutto qualche settimana fa, quando Il Guardian ha titolato: «Newsquest, il terzo più grande editore britannico, ha intenzione di far pagare gli studenti per pubblicare i loro servizi». L’articolo ha subito attirato l’attenzione dei media britannici perché affronta un tema, quello degli stage, che è molto sentito anche nel Regno Unito dove gli stagisti che lavorano senza ricevere alcuna indennità non sono affatto un’eccezione. Sul quotidiano inglese si affermava che i college con corsi di giornalismo avevano ricevuto varie lettere invitando gli studenti a scrivere articoli, gratis, in cambio di «un’opportunità unica ed eccitante per sperimentare il lavoro all’interno di un giornale locale». Nella lettera scritta da Diana Jarvis, giornalista e coordinatrice dello “Young reporter scheme” di Newsquest, si spiega che gli studenti per un periodo di lavoro di otto mesi avrebbero avuto la possibilità di costruire il proprio portfolio, scrivendo un articolo al mese, e di ricevere alla fine una lettera di raccomandazione da usare come referenza nel proprio curriculum. Per prendere parte allo stage, però, c’era una sorta di registrazione che doveva fare l’istituto scolastico pagando 120 sterline, di cui 20 a carico dello studente.Stagisti senza rimborso che devono anche pagare? La Repubblica degli Stagisti ha voluto vederci chiaro e ha parlato direttamente con Diana Jarvis, che ha subito messo le mani avanti: «Il sistema è partito sette anni fa ed è cominciato come un progetto pilota con due scuole. Ha avuto così tanto successo che molti altri istituti dell’area londinese hanno voluto aderire ed è cresciuto a tal punto da diventare un lavoro a tempo pieno» spiega la school coordinator. «È stato allora che ci siamo trovati di fronte a un bivio: abolire il progetto perché troppo costoso o introdurre un pagamento obbligatorio per le scuole come un’attività extracurriculare». Da allora ogni istituto ha pagato una tariffa fissa di 100 sterline a cui ogni singolo studente che ha voluto partecipare al programma ha aggiunto 20 sterline. «Soldi che coprono a malapena i costi di gestione del sistema» dice Jarvis alla RdS. La school coordinator di Newsquest sostiene quindi che il Sindacato nazionale dei giornalisti inglesi (NUJ) che pure ha dedicato vari articoli al tema ha semplicemente frainteso il programma da loro offerto. «L’idea che stiamo sostituendo giornalisti con stagisti, alcuni di questi quattordicenni con nessuna esperienza giornalistica, a cui chiediamo anche di pagare qualcosa è assolutamente ridicola e senza senso» dice la giornalista inglese alla Repubblica degli Stagisti. Arriva, quindi, la smentita ufficiale che nei giornali del gruppo editoriale Newsquest si utilizzino stagisti non pagati: «offriamo solo agli studenti la chance di vedere dal vivo cosa significa lavorare in una redazione giornalistica». Possibilità che finora hanno avuto migliaia di giovani e che non inciderà necessariamente nella loro vita professionale visto che alcuni di questi sono addirittura minorenni. Per questo Jarvis si scaglia contro il segretario generale del sindacato nazionale dei giornalisti inglesi (NUJ),  Michelle Stanistreet, che commentando questo caso ha definito la pratica degli stagisti non pagati «una delle ragioni del perché il mondo dei media è diventata una delle professioni più socialmente esclusive». «Ovviamente Stanistreet non ha capito come funziona questo progetto e ha fatto molte dichiarazioni senza conoscere i fatti» taglia corto Jarvis, che tra l’altro invita a leggere anche alcuni articoli da lei scritti che dovrebbero raccontare meglio i fatti. Eppure, leggendoli, si scopre che questa opportunità finora offerta ai liceali è in fase di lancio anche per i giovani dai 18 anni in su, che frequentano un college o l’università. «È la prima volta che il programma si estende alla “tertiary education”» spiega Diana Jarvis a un’ulteriore richiesta di chiarimenti della Repubblica degli Stagisti, «È solo una work-experience. Quindi se i college o le università sono interessate a questa opportunità, allora lavoreranno alle stesse condizioni offerte agli studenti delle scuole. Non sono offerti soldi agli studenti perché è solamente un’attività extra curriculare». Significa, quindi, che nemmeno ai giovani universitari verrà corrisposto per questa work-experience alcun rimborso spese. E non è una notizia da poco, perché nel Regno Unito sono anni che si dibatte sulla necessità di retribuire gli stagisti e di farlo anche per professioni abitualmente sfruttate, come quella dei giornalisti. Tanto che anche la cronista Beth Brewster, docente e responsabile del corso in giornalismo ed editoria alla Kingston University, ha commentato questo articolo su twitter confermando ai suoi studenti di giornalismo il consiglio «di non prestare le loro capacità, creatività e lavoro gratis». Secondo un rapporto del 2013 del National Council for Training of Journalists, infatti, l’82 per cento dei giornalisti britannici ha iniziato negli ultimi tre anni la propria carriera con uno stage e di questi ben 9 su 10 senza un rimborso spese. Numeri che evidenziano come per ognuno di questi singoli neo giornalisti fosse stata importantissima la situazione finanziaria pre stage. Perché se la lunghezza media di questi tirocini è all’incirca di due mesi, a volte ripetuti dopo un breve periodo di pausa, alcuni stage sono arrivati addirittura a 52 settimane - cioè un anno intero. «I tirocini non pagati sono illegali, se si sta lavorando con degli specifici compiti assegnati allora si dovrebbe ricevere almeno il salario minimo. Il vero problema» spiega alla Repubblica degli Stagisti Michelle Stanistreet, segretario generale NUJ, «è che tutto questo dovrebbe essere controllato dall’HMRC (ndr. Servizio per la riscossione e le dogane di Sua Maestà) e pochissime sono le azioni legali iniziate». Per questo motivo il sindacato ha lanciato nel 2013 la campagna Cashback for Interns che ha come obiettivo una giusta retribuzione per gli stagisti nel Paese. Grazie alla quale «il sindacato nazionale dei giornalisti è riuscito ad ottenere gli arretrati per i cronisti che hanno lavorato senza essere stati pagati. La nostra è una professione molto competitiva e le redazioni stanno sfruttando i giovani. A volte facendogli fare il lavoro di un qualsiasi redattore, altre volte usandoli per ordinare caffè o portare il cane a spasso. Come NUJ crediamo in una strutturata work experience, di breve durata, grazie alla quale i giovani possono conoscere il giornalismo», dice Stanistreet. «Ma se fanno gli stessi compiti dei redattori retribuiti, allora anche loro devono essere pagati. Se un giornale pubblica il loro lavoro, allora dovrebbero essere pagati per questo. Altrimenti l’unica conseguenza è che solo i giovani aiutati dalle famiglie possono tentare questo lavoro». Quando scopre annunci per tirocini non retribuiti, la NUJ contatta l’azienda editoriale spiegando che è illegale e la denuncia alla Low Pay Commission. Ed è proprio per questi motivi che Michelle Stanistreet ha accolto con grande soddisfazione la notizia, data a inizio febbraio, che il Financial Times incomincerà a pagare dal prossimo aprile i propri stagisti con il salario minimo, che è di 6,50 sterline l’ora per chi ha più di 21 anni. Notizia accolta entusiasticamente anche da Chris Hares, Campaigns manager di Intern Aware,  che alla Repubblica degli Stagisti esulta: «La decisione del Financial Times è fantastica. I tirocini non retribuiti sono, infatti, un problema per la mobilità sociale visto che lasciano i giovani in una situazione complicata: impossibilitati a trovare un lavoro perché senza esperienza e  impediti dal fare esperienza perché non possono permettersi di lavorare gratis». Proprio per questo motivo Hares crede che il cambio di rotta del FT sia importante, «perché significa che incominceranno a selezionare i loro nuovi giornalisti in base al talento e non solo in base a chi può mantenersi da solo mentre fa questa esperienza. Ed è importante, perché permetterà di ottenere molti punti di vista e idee differenti nella nostra stampa». Ma c’è un altro motivo per cui uno stage non pagato va rifiutato, anche in Gran Bretagna. «Trovare un lavoro retribuito alla fine di uno stage gratuito è molto più difficile rispetto a chi, invece, ne ha svolto uno con rimborso spese. Gli imprenditori che pagano i loro stagisti sono molto più disponibili ad assumerli» spiega Hares. Risposta a cui fa eco Stanistreet, che aggiunge «I nostri giovani iscritti ci raccontano che di solito devono fare molti stage non pagati prima di riuscire a trovare un lavoro vero». E sono ancora una volta i numeri ad avvalorare queste dichiarazioni: secondo un sondaggio del 2014 di YouGov, il 46% dei datori di lavoro che pagano gli stagisti lo reputano un metodo utile di selezione del personale. Percentuale che scende di oltre dieci punti per quanti, invece, non prevedono nemmeno un rimborso spese. Per questo recentemente Intern Aware e la National Union of Students hanno lanciato un’indagine nazionale sull’uso dei tirocini non retribuiti. «Il numero verde che abbiamo istituito consente agli studenti e laureati di raccontare i propri stage non pagati nel più totale anonimato. Ed è un bene» spiega Chris Hares «perché a volte parlarne può mettere a rischio le proprie opportunità di carriera. L’obiettivo è coinvolgere molte persone, ascoltare le loro storie e aiutarle a chiedere il rimborso della retribuzione che gli spetta attraverso Intern Aware». Oltre a cercare di sovvertire quello che secondo Hares è un pratica veramente scorretta. «L’unico risultato dell’uso indiscriminato dei tirocini non retribuiti è che solo chi ha i contatti, le risorse economiche e la famiglia giusta può riuscire ad avere una carriera. Ed è veramente ingiusto se si considera quanto i giovani debbano duramente lavorare per raggiungere una laurea. Non è certamente corretto che il secondo titolo necessario per diventare avvocati, artisti o giornalisti oggi sia semplicemente accettare di lavorare gratis». Sui risultati finali di questa indagine, però, Stanistreet è incerta tanto da dire «Credo che mostrerà quanto sia diffusa la pratica dei tirocini non retribuiti in molti settori lavorativi e allo stesso tempo come sia basso il numero di azioni legali intraprese». Per i risultati bisognerà aspettare ancora, ma questi avvenimenti avvicinano purtroppo il Regno Unito all’Italia, mostrando un’irresponsabile uso degli stage non pagati e della voglia dei giovani di imparare “a qualsiasi costo”, portando a un unico triste risultato: discriminare sempre di più, dividendo tra chi può permettersi di affrontare questo lungo cammino e chi no.   Foto quadrata: "Videojournalist" di Roberto Ferrari in modalità creative commons Foto rettangolare: dall'indagine "Journalists at work" del National Council for the training of journalists

Stagisti 50enni nei tribunali, nel Milleproroghe l'ok all'ultima tranche: «Ora però si trovi una soluzione»

Tirocinanti, molti di loro cassintegrati o persone in mobilità anche over 50, usati negli uffici giudiziari per coprire i vuoti di organico: la Repubblica degli Stagisti ha raccontato qualche settimana fa la storia dei "precari della giustizia", mettendo in luce anche lo strano sistema con cui questi tirocini sono stati prorogati nel tempo, con l'utilizzo di termini come “completamento” e “perfezionamento”. Nella realtà dei fatti, un unico lungo percorso partito nel 2010 che ha illuso e continua a illudere (e a far perdere tempo prezioso) a quasi tremila persone. Oggi c’è una buona notizia per questi tirocinanti. È ripreso, infatti, un ulteriore step del “perfezionamento” del tirocinio. Altre 50 ore che si concluderanno a febbraio. A cui si aggiungeranno le ultime 230 ore di tirocinio come previsto dal decreto mille proroghe approvato ieri definitivamente in Senato. In cui, semplicemente, si estendono i termini per lo svolgimento del tirocinio dal 31 dicembre 2014 – poi già esteso al 28 febbraio 2015 – fino al 30 aprile di quest’anno. Dando un po’ di tranquillità ai tanti tirocinanti che negli ultimi anni sono entrati e usciti dai tribunali e ne hanno permesso il funzionamento. Un ritorno negli uffici giudiziari che Sergio Lo Giudice del Partito democratico, membro della Commissione giustizia del Senato definisce «sicuramente positivo» anche perché quel residuo di ore «era stato finanziato già con la legge di stabilità del 2014. Ma è chiaro che questo non risolve il problema in prospettiva», spiega alla Repubblica degli Stagisti. Una considerazione, quella sul futuro, condivisa da Gianna Fracassi, segretario confederale della Cgil, che osserva: «Il punto vero è che fine faranno questi lavoratori al termine della fase del tirocinio formativo, tra l’altro lunghissimo, per la stragrande maggioranza di loro iniziato nel 2010». E senza giri di parole afferma che questo nuovo step «è una cosa che gli spetta perché è la fase finale del tirocinio partito con risorse 2014, quindi siamo nella normalità». Forse una delle poche cose normali di questo percorso, partito ben quattro anni fa e prolungato nel tempo nonostante i limiti di legge per i tirocini, proroghe comprese, sia di 12 mesi. «È paradossale che sia accaduto all’interno proprio degli uffici giudiziari. All’amministrazione chiediamo come sia potuto succedere» osserva Fracassi, che ripercorre il percorso dei tirocini partiti con le convenzioni delle regioni e continuato con il passaggio e l’accentramento sul versante del ministero della giustizia. Il segretario confederale Cgil si anima nel dire quanto sia «inaccettabile che si faccia un’operazione per cui un tirocinio formativo sfori abbondantemente quelli che sono i limiti di legge solo perché non si vuole trovare una soluzione».  Una soluzione che il senatore Lo Giudice, invece, in parte giustifica spiegando alla Repubblica degli Stagisti che dal punto di vista formale «sono stati due anni di tirocinio più uno di perfezionamento che ha permesso almeno per un altro anno a questi lavoratori di sbarcare il lunario. Si è trovata una formula legale che dal punto di vista dello spirito della norma si vorrebbe evitare, rapporti di lavoro configurati come tirocinio, per evitare di mandare a casa queste famiglie rispetto a cui non c’era alcuna possibilità di assunzione». Il punto centrale, infatti, è proprio questo: negli enti pubblici si accede tramite concorso, quindi prorogare nel tempo dei tirocini specie per persone in cassa integrazione o età avanzata significa inevitabilmente far nutrire false speranze su un’eventuale assunzione. «Questa è stata la principale obiezione di chi in questi anni è stato contrario a far proseguire questo tirocinio» specifica Lo Giudice che poi, però, mitiga: «In una organizzazione ottimale della pubblica amministrazione e del settore giustizia, in cui gli uffici sono in organico, e in un contesto del mondo del lavoro in cui ogni cittadino possa avere la giusta retribuzione, è chiaro che non ha senso far fare un tirocinio a un 40-50enne in cassa integrazione. Sarebbe opportuno farlo fare a un ventenne e trovare un lavoro a un cinquantenne. Ma in una situazione di forte crisi economica, con un sotto organico ingestibile della pubblica amministrazione, si è fatta di necessità virtù e un tirocinio ha consentito agli uffici di portare avanti il loro lavoro e a tremila famiglie di avere un minimo di reddito» Di tutt’altro avviso Gianna Fracassi che definisce «inaccettabile» un inquadramento come tirocinante anche per cinquantenni in cassa integrazione da anni. «Non ha senso l’utilizzo di questo personale attraverso percorsi di stage quando è evidente che per diventare dipendenti pubblici il percorso è quello del concorso. Ed è inaccettabile soprattutto perché lo Stato forma personale, tra l’altro in una situazione di vacanza di organico visto che negli uffici giudiziari mancano intorno alle 9mila unità in tutta Italia. Come Cgil crediamo che si debba trovare una soluzione e la cosa più sensata è l’utilizzo fuori dal percorso di tirocinio e all’interno di un perimetro contrattuale di questo personale». E c’è un altro aspetto di cui, secondo Fracassi, amministrazione e ministero sono al momento colpevoli: la contrapposizione tra questi tirocinanti e il personale interno che ha diritto alla riqualificazione. Risorse diverse che non possono essere mescolate e per cui la Cgil trova assurdo che in condizioni di carenza di personale si approfitti della lotta tra lavoratori per creare ulteriori divisioni. A chi ribatte che per stabilizzare queste persone siano necessarie risorse che dovevano essere inserite nella legge di stabilità e che in tempi di crisi non è facile trovare, Gianna Fracassi risponde che ci sono anche altre possibilità che proprio la Cgil ha avanzato. «Esiste il Fondo unico di giustizia che è alimentato dalle confische di beni mobili e denaro liquido. Per una legge dello Stato questo Fondo unico giustizia, che ha una certa consistenza, può essere utilizzato dai ministeri della giustizia e dell’interno per garantire la funzionalità degli uffici giudiziari e amministrativi. La nostra proposta,» continua il segretario confederale «che abbiamo già fatto al Governo, è di utilizzare queste risorse per garantire l’efficienza degli uffici giudiziari, utilizzando una norma che già c’è». Di fatto, però, la richiesta della Cgil di una contrattualizzazione ad oggi non ha ancora avuto risposta ed è lo stesso Lo Giudice ad osservarlo. «Il governo continua a ribadire di non voler considerare quel tirocinio come l’anticamera di un’assunzione. Il ministro Orlando rispondendo a una mia domanda fatta durante la relazione annuale sull’amministrazione della giustizia in Senato ha detto che vede due possibilità per questa platea di tirocinanti: che lo stage possa essere considerato con un punteggio aggiuntivo in caso di futuri concorsi o che almeno una parte di questi 2600 ex tirocinanti ormai formati siano utilizzati nell’avvio del nuovo ufficio del processo, che è quella nuova struttura che affianca il giudice nella gestione delle pratiche». Ma anche in questo caso, come il senatore Pd dichiara alla Repubblica degli Stagisti, il ministro ha precisato che si tratterebbe solo di un accompagnamento e non di un’assunzione. Ipotesi che non sono approvate dalla Cgil: «Il ministro potrebbe iniziare a pensare che questo personale è una risorsa su cui proprio lo Stato ha speso. Ma non dovrebbe dirci, come ha fatto, che si faranno mille assunzioni. Perché quelle fanno parte del concorso, che va bene, ma è un percorso lungo. Nel frattempo vanno trovate soluzioni per questi lavoratori che sono per metà ex cassintegrati e per l’altra metà giovani laureati. Un’operazione di questo tipo, quindi, avrebbe un risvolto positivo anche sul versante del rinnovamento». Le mille assunzioni di cui parla Fracassi sono uno degli altri problemi con cui si scontra l’eventuale ingresso di questi lavoratori negli uffici giudiziari, ed è anche il senatore Pd a evidenziarlo. C’è, infatti, la necessità di ricollocare il personale in esubero da altre amministrazioni, in particolare i lavoratori delle province, e il concetto contenuto nella legge di riforma della giustizia secondo cui anche i laureati in giurisprudenza che vogliono avviarsi a una carriera in magistratura possono essere utilizzati in uno stage nell’ufficio del processo. «È una situazione molto complicata ed è giusto evitare di creare false aspettative» osserva davanti a questi dati il senatore Lo giudice. Su un punto, però, sono entrambi d’accordo: il lavoro a intermittenza di questi tirocinanti incide negativamente sul funzionamento della macchina della giustizia. «Gli uffici giudiziari avrebbero bisogno di un organico strutturato» dice il senatore Pd, a cui fa eco il segretario confederale Cgil che aggiunge: «Si fa un gran parlare dello stato della giustizia in questo Paese. Ecco si dovrebbe anche andare a vedere le condizioni di lavoro del personale. Questi tirocinanti stanno dando il massimo in una condizione di carenze di organico pesantissima». Per questo la Cgil chiede che si attivi un percorso che porti alla stabilizzazione di questi quasi tremila tirocinanti.  La partita, dunque, è ancora aperta. E per quanto creare dei percorsi di favore per questi lavoratori possa sembrare ad alcuni sbagliato, c'è anche chi evidenzia che non farlo significherebbe buttare al macero quattro anni di risorse investite su personale che andrebbe a ingrossare di nuovo le fila dei disoccupati, nonostante una professionalità acquisita e largamente difesa da presidenti di corti d’appello di tutta Italia.   

Cassintegrati over 40 in stage nei tribunali, il parere degli esperti di mercato del lavoro: inopportuni

Ritrovarsi a fare gli stagisti a quaranta o cinquant'anni, un po' per scelta e un po' per costrizione. È il controverso caso dei tirocinanti nei tribunali italiani che la Repubblica degli Stagisti ha più volte documentato negli ultimi anni. E che racconta di come, a partire dal 2010, spesso in spregio a qualsiasi norma che regolamenta la materia degli stage, le sedi di giustizia italiane - con il via libera delle Regioni che hanno emanato i bandi per il reclutamento - hanno accolto al loro interno persone in cassaintegrazione, mobilità o disoccupazione inquadrandole come stagisti. Soggetti obbligati a accettare la convocazione, pena la perdita dell'indennità percepita mensilmente. E complici gli ormai cronici buchi di organico dei tribunali, per cui si è arrivato a parlare di una carenza che ammonta a circa 9mila unità, questi stagisti alla fine hanno fatto comodo a tutti per ben quattro anni. Per andare più a fondo nella questione, questa testata ha interpellato due consulenti del lavoro, chiedendo loro un'opinione non solo sulla legalità ma anche sull'opportunità di quanto accaduto. Paolo Stern del Consiglio nazionale consulenti del lavoro non ha dubbi a definire la vicenda un caso di «copertura di posti vacanti con l’impiego surrettizio di personale in formazione o comunque in fase di ricollocazione». Se lo scopo è razionalizzare la spesa pubblica, chiarisce, «non si possono prendere scorciatoie per trovare soluzioni inappropriate». Quanto ad esempio all'età degli interessati, a Stern non convince l'idea del coinvolgimento in stage di persone non più giovanissime. Il tirocinio è «una reale opportunità per creare cerniera tra studio e lavoro. Da questo punto di vista risulterebbe inopportuno per un soggetto lontano, per età, dai cicli di studio». Fuoriluogo quindi inserire chi ha superato gli anta, nonostante - ammette - «lo strumento possa sì avere la funzione di agevolare la ricollocazione attraverso un periodo formativo che costituisca un momento 'soft' di conoscenza tra le due parti, datore di lavoro e potenziale occupato».È solo in questi casi eccezionali che «lo stage può rappresentare un'occasione, magari nei casi in cui l’azienda in cui si è occupati attraversa momenti complicati». Un aspetto su cui fa leva anche Luca Paone, esperto affiliato alla Fondazione studi consulenti del lavoro, che ricorda come «la crisi mondiale ha focalizzato serie problematiche occupazionali proprio nella fascia di età 40-50 anni». Dunque passi pure uno stage in tarda età, ma la condizione di partenza è ineludibile: deve essere «misura formativa di politica attiva, finalizzata a far sì che il tirocinante arricchisca il bagaglio di conoscenze, acquisisca competenze professionali e si inserisca o reinserisca nel mercato lavorativo». Il caso dei gerontostagisti nei tribunali assomiglia invece di più a un rimpiazzo a basso costo di personale. Una situazione a cui Stern guarda infatti con perplessità: «In questo caso mi appaiono labili le funzioni di reinserimento al lavoro del tirocinio», spiega, «e ciò sia a causa del blocco delle assunzioni nella PA che del meccanismo di inserimento codificato per legge, vale a dire l'assunzione per concorso pubblico». Ragione per cui una reale formazione spendibile poi sul mercato del lavoro per questi tirocinanti un po' attempati è ipotesi remota. «Mi sembrerebbe obiettivo alquanto pretenzioso» prosegue Stern, «specialmente se il tirocinio avesse durata oltre i sei mesi, tempo utile per avere un contatto con un'altra realtà lavorativa». E anche qualora ci fosse una reale formazione, quante possibilità ci sarebbero che poi essa avesse una qualche utilità per il futuro lavorativo, soprattutto nel privato? «È evidente che una strettissima correlazione tra la cancelleria di un tribunale e altre realtà private non è così semplice da trovare, ma potrebbe comunque esistere. Si pensi per esempio a grandi studi legali, ai problemi di notifiche degli atti, alle esattorie e a tutti quei soggetti che hanno a che fare con archivi e protocolli» riflette Stern. Il caso riportato dalla Repubblica degli Stagisti parla di periodi stage altamente superiori alla media, talvolta lunghi addirittura anni, in contrasto alle previsioni di legge. Per gli stagisti a cui è stato richiesto di proseguire non c'era tuttavia scelta, come confermano gli esperti: «Il lavoratore che non accetti di frequentare corsi di formazione o aggiornamento finalizzato al reinserimento nel mondo del lavoro o offerte di lavoro che abbiano determinate caratteristiche e certe condizioni decade dal diritto al sussidio di cassa integrazione straordinaria o mobilità» spiega Paone. Per loro un no avrebbe causato la perdita dell'indennità di cassaintegrazione, mobilità o disoccupazione a seconda dei casi. È d'accordo anche Stern, seppur più cauto: «Il rifiuto dell’occasione di lavoro, o formazione o stage offerto dall’agenzia per il lavoro ha ripercussioni sul sussidio, ma è tema delicato e va valutato nei singoli casi».  Va tenuto presente poi che di fronte a una richiesta di proroga dopo dodici mesi, accettare non sarebbe sbagliato di per sé. Specie se la logica è quella evidenziata da Stern: «Vivere a casa aspettando un sussidio è mortificante. Ogni utilizzo del proprio tempo in modo proficuo e utile per terzi è per il singolo opportunità e dovere. Opportunità perché consente comunque di aprire finestre e dovere perché acquisendo un sussidio vi è un ritorno di servizio alla collettività». Tuttavia, gli fa eco Paone, «non si può prescindere dalle disposizioni normative, che prevedono una durata fino a 24 mesi, comprensiva di proroghe, solo per soggetti svantaggiati disabili». Ma Paone non vede negativamente il fatto che gli enti ospitanti di questi gerontotirocinanti siano pubbliche amministrazioni, a priori impossibilitate ad assumere al termine del periodo di stage, come nel caso dei tribunali: «Non vedo difficoltà nell’inserimento in stage di disoccupati in un ente pubblico». L'importante, ribadisce, «è che si rispettino le finalità del tirocinio». Solo così uno stage può dirsi legittimo, se conforme al dettato «delle Linee guida, per cui i tirocinanti non possono sostituire i lavoratori con contratti a termine nei periodi di picco delle attività e non possono essere utilizzati per sostituire il personale del soggetto ospitante nei periodi di malattia, maternità o ferie né, soprattutto, per ricoprire ruoli necessari all'organizzazione dello stesso». Una norma che sembra scritta apposta per vietare il fenomeno degli stage nei tribunali italiani in grave deficit di personale. Possibile che nessuno al ministero e negli assessorati al Lavoro regionali se ne sia accorto?Ilaria Mariotti 

Eurodyssée, stage all'estero nelle Regioni europee: e per candidarsi non serve la laurea

Stage in ingegneria meccanica o guida alpina in Valle d’Aosta, assistente alla coreografia e alla comunicazione in Île-de-France, tirocinio amministrativo a Bruxelles. Sono davvero per tutti i gusti le offerte presenti sul portale di Eurodyssée, progetto europeo che permette ai giovani diplomati dai 18 ai 32 anni di fare un’esperienza professionale di massimo 7 mesi, con un rimborso spese medio intorno ai 600 euro al mese, che varia di Paese in Paese - si legge infatti nel regolamento che il rimborso deve essere «adeguato a coprire il costo della vita nella regione ospitante». I ragazzi che partecipano hanno diritto anche a un corso di lingua di almeno tre settimane, da fare nella regione ospitante prima di iniziare il tirocinio.Per partire è necessario essere residenti in una delle Regioni aderenti al progetto. Poi il primo passo consiste nel creare un account personale sul portale di Eurodyssée (tradotto in inglese, francese, spagnolo e portoghese) necessario a inserire il proprio curriculum in almeno due lingue. Ci si può candidare per una delle offerte di stage presenti in quel momento in bacheca, oppure inviare la propria candidatura spontanea verso una specifica regione. Il portale è attivo tutto l'anno, ma alcune regioni, come l'Île-de-France, ospitano un numero limitato di tirocinanti l'anno. Promosso dallo statista francese Edgar Faure, Eurodyssée nasce nel 1985, patrocinato dall’Are, l'Assemblea delle regioni europee, di cui fanno parte anche Svizzera, Georgia e Bosnia e altri territori oltre i tradizionali confini del vecchio continente. È Michel Duprè, referente per la France Comté, regione "madre" del progetto, che spiega l'origine del nome: «Il termine odissea, oltre ad avere molto a che fare con le esperienze di stage e formazione giovanili, ha lo stesso significato in quasi tutte le lingue del continente». Stando ai dati del portale e a quelli forniti dalle varie regioni alla Repubblica degli Stagisti, in trent'anni sono partiti per la loro "eurodissea" quasi 18mila giovani, una media di 475 l'anno dal 2000 al 2010, un numero che supera i 500 negli ultimi cinque anni. La Spagna e la Francia sono gli Stati che più attivamente partecipano al progetto: hanno il maggior numero di regioni coinvolte e realizzano insieme quasi il 70% dei tirocini totali. Oltre all'Île-de-France e alla Catalogna, Bruxelles capitale e le Isole Azzorre sono le mete più scelte.Per l’Italia aderiscono l’Umbria e la Valle d’Aosta. Negli ultimi tre anni sono più di 100 i giovani italiani che hanno fatto o stanno facendo uno stage con Eurodyssée, mentre il numero degli arrivi è un po' inferiore. «L'Umbria e la Val d'Aosta sono piccoli territori, meno conosciuti di grandi città come Parigi, Bruxelles o Barcellona. Per questo attraggono meno»: A dirlo è Stijn d'Hollander, 28 anni, ex stagista Eurodyssée della regione di Bruxelles capitale, che ha scelto un ufficio di Perugia per la sua prima esperienza fuori dal Belgio. «Ho iniziato con uno stage a ottobre 2013 e sono ancora qui in Italia, non credevo sarei rimasto così a lungo». Stijn, laureato in scienze politiche e con numerose esperienze di speech writer nell'ambiente politico belga, era orientato a spostarsi in Spagna, ma l'offerta di tirocinio in Italia gli ha fatto cambiare idea: «Era in linea con quanto avevo studiato, ma che nello stesso tempo mi ha permesso di fare nuove esperienze e acquisire competenze sull'europrogettazione». Eurodyssée garantisce a ciascun partecipante un’assicurazione e una borsa di studio, erogata dalla regione ospitante, che permette di sostenersi nella per tutta la durata del progetto. Il rimborso previsto varia da regione a regione, ma è mediamente più alto di quelli previsti per gli stage extracurriculari in Italia o per finanziare l’Erasmus. L’Umbria per esempio, sfruttando le risorse del Fondo Sociale Europeo, offre ai suoi tirocinanti 800 euro al mese, stessa cifra stanziata nell’Île-de France. La regione di Bruxelles rimborsa i partecipanti a Eurodyssée con 600 euro mensili. Chi sceglie un tirocinio in Istria riceverà 400 euro mensili. In alcuni  casi, tra le facilitazioni previste, c’è anche l’alloggio: ad Aosta gli stagisti vengono ospitati gratuitamente in un appartamento nel centro della città, una soluzione simile viene adottata anche in Catalogna.Anche il Canton Ticino copre le spese per l’alloggio fino a 650 franchi svizzeri, in più eroga un rimborso di 450 franchi a ogni stagista per il primo mese, durante la frequenza del corso d'italiano. A confermarcelo è Susanna Memoli, collaboratrice di Lse (Lingue e stage all'estero), la divisione che si occupa di promuovere i progetti per la formazione dei giovani ticinesi, tra cui Eurodyssée. E spiega alla Repubblica degli stagisti perché non ci sono scambi con l'Italia: «Fra i nostri obiettivi c'è quello di promuovere il plurilingusimo dei nostri giovani, quindi non possiamo fare progetti con chi parla italiano». Il Canton Ticino partecipa da vent'anni a Eurodyssée e finora sono partiti o arrivati in questa regione 149 tirocinanti, circa 8 l'anno: 76 gli incoming, principalmente dalla Spagna e 73 gli outgoing, soprattutto verso Francia, Belgio e Spagna.«Nella nostra regione sono rimasti per lavoro almeno una ventina di ragazzi spagnoli che sono arrivati grazie a Eurodyssée, ma anche qualche ticinese è rimasto all'estero dopo questo progetto», conclude il referente operativo Andrea Togni.«La nostra regione ha aderito all'Are nel 1990, ma partecipa ad Eurodyssée da tre anni» aggiunge Riccardo Ilich Fanò, referente di Eurodyséè per l’Umbria e ricercatore per l’Aur, l'Agenzia Umbria Ricerche. «I dati degli ultimi dieci anni dimostrano che, oltre al numero di ragazzi disposti a partire, crescono le adesioni anche da parte delle Regioni, che per ora sono 43». Il ricercatore perugino ci tiene poi a sottolineare  un altro aspetto che distingue Eurodyssée dall’ Erasmus e da altri programmi di scambi europei riservati ai giovani. «Anche se la maggioranza dei tirocinanti che abbiamo coinvolto ha almeno la laurea triennale, questa iniziativa permette ai giovani di qualsiasi background educativo di spostarsi e crescere professionalmente in tutta Europa».Sono in molti a interrogarsi sull'efficacia degli stage, visto che, come emerso da tutti gli studi più recenti e sempre segnalato da questa testata, in Italia meno del 10% si trasforma in lavoro. Ma Eurodyssée sembra offrire un quadro meno pessimista: secondo un'indagine effettuata nella regione di Bruxelles, l'81% degli stagisti che ha partecipato a questo progetto (circa 260 dal 2001 ad oggi) trova un impiego fisso 6 mesi dopo il ritorno. Anche l'Aur, attraverso un sondaggio occupazionale alla fine del 2013, ha provato a verificare in termini numerici il riscontro di Eurodyssée sul mercato del lavoro.  «Il sondaggio è stato effettuato dopo un solo anno di progetto, quindi sappiamo che il campione è poco significativo in termini numerici e temporali» puntualizza Fanò: «Ma dopo 6 mesi, in piena crisi, il 70% dei tirocinanti aveva un contratto. Fra gli umbri c'è chi vive e lavora all'estero, ma anche chi è tornato arricchito di competenze che ha potuto spendere nel proprio territorio. In questo modo le stesse regioni, che spendono circa 6mila euro per ogni tirocinante, hanno avuto un riscontro positivo diretto».Sul portale di Eurodyssée c’è uno spazio riservato anche agli altri destinatari del progetto: enti, associazioni e imprese. Per ospitare un tirocinante è necessario avere sede in una delle regioni aderenti e coprire il costo dell'assicurazione: in Île-de France e in Umbria si aggira intorno ai 50 euro. Ma gli accordi variano di regione in regione: per esempio nel Canton Ticino l'impresa ospitante contribuisce con circa 700 franchi il primo mese e circa 1200 franchi nel periodo di stage. I dati confermano che i settori lavorativi maggiormente coinvolti nel progetto sono l’arte e la musica, la comunicazione, l’economia e l’amministrazione e naturalmente il turismo. Ma non mancano le offerte per gli insegnanti, per il personale dedito alla cura di disabili e anziani, gli ingegneri e gli informatici.In un mercato del lavoro sempre più frammentato e con un problema della disoccupazione giovanile che affligge la maggioranza dei paesi europei, i settori che si aprono a questi tipi di esperienze internazionali sono sempre di più. Dice Susanna Memoli: «Aderiscono per lo più di piccole e medie imprese, qui nel Ticino soprattutto studi  di architettura. Ma viste le scarse risorse, le aziende disponibili a prendere un tirocinante sono poche». Fanò conferma che anche in Umbria non è stato facile stabilire un rapporto con le imprese: «Molti imprenditori si chiedevano quanto fosse utile uno stagista che non parlasse perfettamente l'italiano. Ma dopo i primi esperimenti positivi ha funzionato il passaparola: le aziende umbre che in questi tre anni hanno ospitato tirocinanti Eurodyssée sono circa 70. Vedono uno stage internazionale non più come un peso, ma come un'opportunità per fare innovazione e internazionalizzazione, le due vie d'scita da questa grave crisi».

Tra tagli, precari, concorsi e ricorsi, il futuro della ricerca passa dal Cnr

Dal 1923 è il cuore pulsante della ricerca italiana: con i suoi novant’anni di età e le tante vicende che ne hanno scandito la storia, il Consiglio nazionale delle ricerche resta un punto di riferimento fondamentale del settore in Italia. Tra mille difficoltà: proprio questa mattina, ad esempio va in scena all'Istat l'assemblea dei lavoratori precari degli enti di ricerca, tra i quali anche il Cnr, che chiedono la stabilizzazione sulla base della sentenza della Corte di giustizia europea dello scorso 26 novembre, sull'abuso di contratti precari da parte della Pubblica amministrazione italiana. Una protesta che si affianca a un'altra battaglia, quella avviata da alcuni dei ricercatori risultati idonei al concorso del 2009. Si tratta di 700 studiosi, con un’età media di cinquant’anni e all’apice della carriera – tra loro ci sono anche nomi come quelli di Angelo Basile, titolare di sette brevetti internazionali – che da ben sei anni sono in attesa di una promozione sulla base della graduatoria, che resterà valida fino al 2016. Per loro a ottobre del 2013 è arrivata una doccia gelata: l’annuncio di un nuovo concorso bandito dall’ente, per altri 219 posti. Una decisione in aperto contrasto, denunciano, con un provvedimento del governo  – datato 2012  – che impedisce alle pubbliche amministrazioni di bandire nuovi concorsi se non sono ancora andate esaurite le graduatorie precedenti. Così alcuni di loro hanno deciso di presentare ricorso al Tar: la vicenda è ancora lontana dal trovare una soluzione, dopo che il nuovo concorso, annullato due volte dal tribunale amministrativo regionale, ha ricevuto a inizio dicembre il via libera del Consiglio di Stato. Al centro della protesta dei ricorrenti non c’è solo il nuovo concorso, ma anche il fatto che, come spiega Angelo Basile, «c’è stato uno scorrimento parziale della graduatoria del 2009, per cui alcuni degli idonei, circa una cinquantina, hanno comunque ottenuto la promozione e questo è assurdo». Quella di Basile, che ha 62 anni e ha all’attivo oltre 500 lavori internazionali nell’ambito della ricerca sulle membrane, «è una battaglia di principio. Com’è possibile» si chiede «che alla mia età e con i titoli di cui dispongo io sia ancora ricercatore? I concorsi, purtroppo, sono un terno al lotto».Il Cnr non ha voluto fornire ulteriori commenti sulla notizia, segnalando però alla Repubblica degli Stagisti l’esistenza di posizioni diverse: come quella di un altro ricercatore, Gianluca Groppelli, che al quotidiano La Repubblica ha scritto una lettera in cui sostiene invece la necessità di nuovi concorsi, per poter valutare i candidati anche sulla base dei titoli acquisiti in tempi più recenti e favorire l’ingresso di ricercatori più giovani.Questa situazione  riflette la condizione che il mondo della ricerca in generale e il Cnr in particolare si trovano a fronteggiare, tra riforme più o meno azzeccate e risorse sempre più scarse. A offrire una panoramica completa della storia e delle prospettive di un ente che ha segnato la strada del nostro Paese verso il progresso è un volume pubblicato a ottobre dell'anno scorso da Donzelli, La ricerca e il Belpaese, sottotitolo «La storia del Cnr raccontata da un protagonista». Lucio Bianco, presidente dell’ente dal 1997 al 2003, in una conversazione con il giornalista Pietro Greco ripercorre i novant’anni di vita del Consiglio, in un’analisi che parte dal passato per guardare al futuro. Sulla vicenda dei ricercatori beffati dal doppio concorso, ad esempio, l’ex presidente sottolinea che l’errore è nell’impostazione: «Il problema è che ora i concorsi si svolgono in maniera diversa da prima: si tratta un ente di ricerca come se fosse un ministero, mentre bisognerebbe distinguere i concorsi per il personale tecnico da quelli dei ricercatori» riassume. «Per ogni concorso i vincitori dovrebbero ottenere i posti messi a bando, mentre gli altri dovrebbero rimanere esclusi e avere la possibilità di ripresentarsi al prossimo bando. Il meccanismo dell’idoneità, attraverso il quale si creano queste graduatorie, non dovrebbe essere applicato agli enti di ricerca: invece ora tutto è assimilato al pubblico impiego». Per l’ex presidente del Cnr «questo meccanismo penalizza proprio i più giovani, perché le liste degli idonei sono valide per diversi anni, creando così un blocco ai nuovi ingressi e una riduzione delle opportunità per i ricercatori più giovani: questo per la ricerca non è un fatto positivo».Fin dalla fondazione, ricorda Bianco, «il Cnr si è caratterizzato per una sua fisionomia, che si è andata configurando a partire dal primo presidente, Vito Volterra. A lui si deve l’idea di effettuare la ricerca anche al di fuori dell’università, con quello che all’estero chiamano “sistema duale”». A partire degli anni Sessanta del secolo scorso «il Cnr è divenuto un ente di ricerca ad ampio spettro, con una duplice funzione:  in primo luogo quella di agenzia, cioè di ente finanziatore della ricerca svolta in ambito universitario e non solo, come ad esempio per le ricerche svolte da enti pubblici e imprese; in secondo luogo quella di ente di ricerca, con un gruppo di ricercatori interni a tempo pieno, che lavoravano in collegamento con l’università, ma con una loro autonomia». Fino al Duemila, l’ente «ha avuto questo duplice ruolo: finanziatore e produttore di ricerca in proprio. Data la sua struttura, il Cnr era la sede più idonea per far sviluppare settori di ricerca emergenti, nuovi, che non riuscivano a svilupparsi nell’ambito universitario, come la fisica nucleare e l’informatica. Da esso sono nati molti istituti che poi hanno raggiunto dimensioni tali da diventare autonomi, come l’Ingv – l’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia o l’Enea – l’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile». In questo modo, sottolinea Bianco, «il Cnr ha svolto un’importante funzione di incubatore, che oggi non svolge più nessuno. Con la riforma del 1999 è rimasta solo la rete degli organi di ricerca attivi nei vari settori, che sono stati ridotti da 300 a 107. Non c’è più la parte accademica, né il ruolo di promotore e finanziatore di ricerche nuove». Una serie di errori bipartisan: Bianco rimarca che «la riforma Berlinguer-Zecchino del 1999 ha dato al Cnr la fisionomia di puro ente di ricerca, mentre la successiva riforma, quella del 2003 targata Moratti, ha purtroppo segnato una pesante ingerenza della politica nel settore della ricerca». Proprio in polemica con questa nuova impostazione, nello stesso anno Bianco rassegnò le sue dimissioni dalla poltrona più alta del Cnr. Si arriva così ai giorni nostri, con l’ente che si trova ad affrontare una situazione radicalmente diversa. Attualmente il Cnr conta oltre 8mila addetti, di cui 6mila ricercatori assunti; a questi si aggiungono altre 4mila persone che si occupano di ricerca con altri inquadramenti contrattuali – assegnisti, dottorandi e borsisti che lavorano in sette dipartimenti e venti aree di ricerca. La retribuzione media lorda annuale di un ricercatore è di 48.429,23 euro, come previsto dal contratto nazionale per i dipendenti degli enti di ricerca; calcolando 13 mensilità, la retribuzione lorda mensile dei nostri migliori cervelli corrisponde quindi in media più o meno a 3.725 euro.«Oggi il Cnr deve prendere atto che la storia passata non si può più ripetere, perché le condizioni sono cambiate, e puntare tutto sulla propria rete di ricerca», riflette Bianco. «Il punto di forza dell’ente sono proprio i suoi 107 istituti di ricerca e i ricercatori, che nonostante le scarse risorse finanziarie messe a disposizione del governo, riescono a procurarsi finanziamenti sul cosiddetto “mercato della ricerca” e a portare così avanti progetti di avanguardia». Per Bianco «bisogna puntare su questo, liberando gli istituti di ricerca dai troppi vincoli di carattere normativo e burocratico, e lasciando liberi i direttori di esprimere al meglio le potenzialità dei singoli organi di ricerca». Al momento, sottolinea l’ex presidente, «non ci sono le condizioni per sperare in un finanziamento pubblico adeguato. Forse il governo attuale non proseguirà nella politica dei tagli, ma non mi pare che nel breve periodo possa esserci un’inversione di tendenza, che determini invece un aumento degli investimenti».    

Far giocare insieme bimbi disabili e normodotati: la mission di una start-up di Gorizia

Designer una, consulente l'altra. Amiche da una vita, hanno fondato una start-up che progetta giocattoli pensati per aiutare i bambini disabili a divertirsi insieme ai coetanei normodotati. Tutto questo è Lam Project, azienda fondata nel settembre 2014 a Gorizia da Anna Devecchi, 33 anni, e Giovanna Culot (31). Il nome è un acronimo che sta per “Look at me”, ovvero “guardami”. «La nostra amicizia è nata negli scout ed è proseguita facendo volontariato a favore dei disabili» racconta Devecchi: «In questi contesti abbiamo notato che spesso si dice ai bambini di non fissare i diversamente abili, perché non sta bene». Questo atteggiamento, però, «porta ad un disinteresse nei confronti della problematica. È quando si guardano queste persone che ci si accorge delle loro esigenze e si riesce a dare loro una mano». Insomma “look at me”, guardami: e «capisci di cosa ho bisogno».È esattamente questo lo spirito che guida le due startupper friulane. «Vogliamo progettare dei giocattoli che favoriscano l'inclusione dei diversamente abili. Per questo abbiamo contattato delle cliniche che operano con questo tipo di pazienti». Il punto, prosegue la designer, è che «di fondo tutti i bambini hanno bisogno di stimoli cognitivi, motori o di tipo sociale». Da una parte si tratta di porre un limite «ai giochi oggi sul mercato, che sovrastimolano i bambini». Dall'altro di offrirne alcuni mirati per i diversamente abili, ma che possano arricchire anche l'esperienza ludica dei normodotati. Un esempio? «Se inseriamo degli elementi tattili in un gioco dell'oca per un bimbo non vedente, anche uno che non ha questo problema li percepisce come un elemento in più e ne viene stimolato».Al momento l'attività si sta concentrando sulla fascia di età da zero a tre anni. «Abbiamo dei progetti pronti», sui quali però il riserbo è massimo. «Il fatto è che prima dobbiamo testarli nelle cliniche, verificare che i prototipi siano effettivamente validi». In un primo momento le due startupper pensavano di occuparsi anche della produzione. «Questo però avrebbe richiesto un investimento mostruoso per avere i requisiti necessari per ottenere il marchio CE». Per questo hanno deciso di affidare la produzione ad aziende esterne, già certificate.Il passo successivo sarà quello di studiare giocattoli per bambini più grandi, senza trascurare il mondo digitale delle applicazioni per tablet. Nonostante la start-up abbia preso vita solo lo scorso anno, sta già diversificando la propria attività. «Abbiamo notato che c'è la necessità di progettazione degli spazi, ad esempio nei musei», che consentano ai bimbi disabili e normodotati di giocare insieme. E sono in trattativa con alcune gallerie per realizzarli. L'azienda è una srl, «ci hanno consigliato di evitare quella semplificata visto che le aziende che producono giocattoli sono dei colossi»: il capitale sociale di 10mila euro è stato versato grazie ai risparmi delle due socie.Soldi che sono serviti anche a sostenere le prime spese insieme ai 12mila euro vinti grazie a un bando della regione Friuli Venezia-Giulia che ha finanziato anche una ricerca di mercato. «Solo per il notaio se ne sono andati 2.600 euro. La stessa cifra l'abbiamo investita nella nuova versione del sito, che riteniamo uno strumento per noi molto importante». E poi c'è l'affitto della sede: «Fortuna che Gorizia è una piccola città, ce la caviamo con 250 euro al mese». Ma non sono le difficoltà economiche quelle che hanno creato più problemi alle due startupper. «È come se ci fossero delle barriere architettoniche di tipo culturale», spiega Devecchi: «Non tutti sposano la nostra idea, molto quando sentono parlare di giochi per disabili vanno nel pallone. Per questo preferiamo presentare i nostri progetti come giocattoli per lo sviluppo armonico del bambino». Nonostante l'entusiasmo e l'impegno delle due imprenditrici, la sopravvivenza della loro start-up è appesa a un filo. Culot a febbraio terminerà la maternità e tornerà alla sua scrivania al Boston Consulting Group, Devecchi alterna la sua professione di designer freelance al lavoro per l'azienda. «Ancora non percepisco uno stipendio per questo, forse nei prossimi mesi». Questo se Lam Project inizierà a fatturare: «Ci siamo date un anno e mezzo di tempo. A metà del 2016 decideremo se questa start-up ha le gambe per camminare». È anche per questo che le due socie sono alla ricerca di partner che le aiutino nel loro progetto di far giocare insieme bimbi disabili e normodotati.Riccardo Saporitistartupper@repubblicadeglistagisti.it

Dagli spot ai video musicali, con Grey Ladder anche il cinema si fa start-up

Ci sono il regista, lo sceneggiatore e il direttore della fotografia. Ma anche l'avvocato e l'economista. Copre tutta la scala dei grigi Grey Ladder, start-up torinese che nella mission ha scritto la parola 'cinema'. E che ad aprile comincerà le riprese del primo lungometraggio. Sei i fondatori, età media 26 anni: «L'idea era quella di unire, alla base della società, personalità e settori di lavoro diversi ma complementari. L'eterogeneità era uno degli obiettivi che volevamo raggiungere». In altre parole, prima di partire si è completato il team. A parlarne alla Repubblica degli Stagisti è Alessandro Regaldo, sceneggiatore e regista diplomato all'Accademia nazionale delle arti cinematografiche. Insieme a lui fanno parte della start-up lo sceneggiatore Davide Mela, appena uscito da un master in “Analisi di produzione cinematografica e televisiva e comunicazione crossmediale”; Stefano Accomo, attore professionista diplomato alla scuola d'arte drammatica “Paolo Grassi” di Milano; e due omonimi, Edoardo Fornelli ed Edoardo Scavo - laureato in giurisprudenza e con un'esperienza di gestione d'impresa alle spalle il primo, laureato in Business and management al Menlo College di Palo Alto in California il secondo. Tutti 25enni tranne Emiliano Ranzani, regista e direttore della fotografia: con i suoi 29 anni, il "vecchio" della società. «Vogliamo riportare il cinema ad un livello di ottimo artigianato. Oggi è un'arte che si compiace di sé stessa e nasconde poca professionalità e un vuoto pneumatico dal punto di vista dei contenuti», sostiene Regaldo. Con questa filosofia è stata scritta la sceneggiatura del primo film, «un giallo con venature da racconto nero», le cui riprese inizieranno ad aprile. Il titolo è “Magna mater”, ovvero Gran Madre: il nome con il quale viene comunemente chiamata la chiesa della Gran Madre di Dio di Torino, la città che oltre alla sede della start-up ospiterà la realizzazione della pellicola. «Sono otto anni che, a vario titolo, collaboriamo tra di noi per costruirci un humus di soggetti con i quali lavorare». La firma sull'atto costitutivo è stata però apposta solo ad aprile dello scorso anno. «Abbiamo dato vita ad una srl semplificata, l'impresa a un euro. Anche se credo che a breve la situazione subirà un cambiamento, perché il film imporrà un aumento di capitale». Una casa di produzione francese ha infatti deciso di finanziare la produzione con 40mila euro. Non dovessero essere sufficienti, i sei startupper reinvestiranno i soldi finora guadagnati: «La nostra idea è quella di mantenerci il più puliti possibile dal punto di vista dei prestiti».Come guadagna, allora, questa start-up? «Avevamo già in portafoglio una serie di clienti, che avevamo conosciuto negli ultimi anni». Tra questi ci sono molti rapper, che hanno coinvolto gli startpper torinesi nella produzione dei loro video: «Ne sono nate collaborazioni con Ensi, Club Dogo, Fred De Palma, Fabri Fibra, Salmo, Two Finger». E se c'è da girare una pubblicità, come la clip promozionale del Gran premio dell'automobile del Parco Valentino di Torino, non ci si tira indietro. Anzi: «cerchiamo di portare il cinema anche negli spot, di realizzare quella che potremmo chiamare pubblicità d'autore». D'altro canto anche il gigantesco Federico Fellini girò una reclame per una nota casa produttrice di pasta. Per il resto, come in ogni start-up, si cerca di risparmiare. Molte delle attrezzature, infatti, erano già di proprietà dei singoli soci. «Anche la sede è di uno di noi, il direttore della fotografia possedeva già le macchine e le luci». Mentre il compenso per lo spot del Valentino è stato investito per acquistare le apparecchiatura per il montaggio. Al momento il meccanismo sta funzionando: i conti tornano, i sei startupper vivono del loro lavoro e in primavera si inizierà a lavorare al film che uscirà nel 2016. E nel frattempo non si disdegna di lavorare a pubblicità e video musicali.Riccardo Saporitistartupper@repubblicadeglistagisti.it

Recruiting Day Elica, quattro mesi dopo: l'hr manager racconta i venti ragazzi scelti per lo stage

Tremila dipendenti, una produzione annua di circa 17 milioni di pezzi fra cappe e motori, Elica è una azienda italiana attiva nel mercato delle cappe da cucina a uso domestico ed è oggi leader mondiale in termini di unità vendute. Ha quattro siti produttivi in Italia e altri cinque nel resto del mondo - in Polonia, Messico, Germania, Cina e India. Da maggio dell'anno scorso è entrata a far parte dell'RdS network: si tratta della prima azienda con sede nel territorio marchigiano. Qualche mese fa ha organizzato a Roma un giorno dedicato al recruiting di giovani talenti, selezionando una rosa finale di venti giovani che ha poi progressivamente inserito in stage. Ad Emilio Zampetti, Hr manager dell'azienda, la Repubblica degli Stagisti ha chiesto un bilancio di questo evento e sopratutto notizie di come sta andando l'avventura dei venti giovani appena inseriti.A fine settembre Elica ha incontrato, a Roma, 200 giovani selezionati attraverso una sorta di "bando". Questi ragazzi hanno vissuto la prima edizione del Recruiting Day Elica, al termine del quale avete scelto venti giovani da inserire in stage presso la vostra sede a Fabriano. Com'è stata questa giornata?Molto positiva: i ragazzi si sono messi in gioco, mostrando entusiasmo ed interesse per Elica sia durante le presentazioni dei nostri direttori che durante gli incontri con i recruiter. Ciò che ci siamo portati a casa sono oltre cento profili interessanti ed estremamente motivati che abbiamo ospitato presso la nostra sede per assessment e colloqui con i manager aziendali e che sono confluiti in un processo di selezione che ha visto l’ingresso di circa 15 profili tra settembre e dicembre e altri 5-6 a gennaio.I 200 partecipanti erano stati preselezionati da Monster a partire da 1.400 candidature. Com'è nata la collaborazione con Monster e in cosa vi ha supportato in questo percorso?Eravamo alla ricerca di un partner che fosse in grado di raggiungere i migliori neolaureati presenti sul mercato del lavoro e che allo stesso tempo ci potesse aiutare in una prima scrematura delle candidature. Collaboravamo già con Monster per attività di recruiting per cui ci è sembrato naturale proporre a qualcuno che già conoscevamo un supporto nell’organizzazione di quest’evento.Parliamo dei venti prescelti: qual è la "scintilla" che ve li ha fatti scegliere tra i 200 presenti al Recruiting Day? Prima del know-how e delle competenze, abbiamo dato spazio a quelle persone che si identificavano e si identificano tuttora nei nostri valori, filosofia e pensiero: ragazzi che abbiano voglia di crescere e di prendersi responsabilità, che abbiano voglia di vivere esperienze internazionali, che siano capaci di ascoltare e di mettersi in discussione. Credo che ciò che ha fatto la differenza sia la persona in sé unita ad un buon cv in linea con le nostre aspettative ed esigenze, altrimenti non avrebbe avuto senso pensare ad un’iniziativa del genere.Li avete quasi tutti in azienda ormai da qualche mese. Chi sono? Non abbiamo dato preferenze ad alcuna categoria - sesso, età, residenza, ecc - ma è venuto fuori un buon mix di ragazzi e ragazze, di marchigiani, campani, calabresi, laziali ed anche dei ragazzi indiani che hanno iniziato con noi un percorso di stage al termine di un master che hanno effettuato nel loro paese. Molti di loro sono appena usciti da università o percorsi di specializzazione, mentre altri hanno alle spalle delle piccole esperienze. Credo comunque che ciò che li accomuni tutti siano le caratteristiche di cui parlavo prima: spirito internazionale, ascolto, voglia di crescere e di mettersi in gioco.Che percorsi universitari hanno alle spalle queste venti "new entry"?I ragazzi che abbiamo ingressato arrivano da vari percorsi ed atenei. Certamente, essendo un’azienda metalmeccanica, molti arrivano da percorsi di tipo ingegneristico, ma non mancano economisti, laureati in scienze politiche, disegno industriale, ecc. Tra gli atenei ce ne sono alcuni che conosciamo meglio e con cui collaboriamo spesso: ad esempio c’è un ottimo rapporto con l’università della Calabria, dove incontriamo spesso degli studenti molto in gamba, piuttosto che la Federico II di Napoli o la Sapienza di Roma, ma i ragazzi che hanno iniziato questi percorsi con noi arrivano da vari poli come la Politecnica delle Marche, la Bocconi di Milano o l’università degli studi di Perugia.Oltre a ricevere il rimborso spese standard offerto da Elica, di 500 euro al mese, questi ragazzi sono alloggiati nelle foresterie di Elica vero?I ragazzi sono dislocati in vari appartamenti aziendali che si trovano a Fabriano insieme ad altri stageur che stanno con noi già da qualche mese. A dicembre abbiamo organizzato un networking aperitif in cui abbiamo coinvolto tutti i neoassunti di quest’anno ed i direttori per conoscere meglio i ragazzi e dar loro il benvenuto in Elica. Oltre a questo momento ufficiale spesso i ragazzi escono insieme per cene, aperitivi, serate e altre attività a cui in genere partecipano in gran numero.Cosa fanno concretamente in azienda?I ragazzi sono stati inseriti in vari settori: alcuni nell’area Sviluppo prodotto, dove si stanno occupando di progettare nuovi prodotti o di ricercare soluzioni innovative, altri stanno seguendo dei progetti di miglioramento ed efficientamento dei processi produttivi. Una ragazza andrà ad occuparsi di un nuovo progetto in ambito controllo di gestione, mentre ad un’altra verrà affidata una nuova attività dell’area Supply chain. Altri ancora si occupano di acquisti o di product management, piuttosto che di comunicazione e gestione degli eventi.Questi venti stagisti hanno "esaurito" lo spazio in Elica per quanto riguarda le posizioni di tirocinio, almeno fino alla prossima primavera quando i loro 6 mesi finiranno? Oppure prevedete comunque qualche altro ingresso di stagisti nei primi mesi del 2015?La nostra intenzione è quella di trattenere la maggior parte di loro: abbiamo investito e stiamo investendo tempo, risorse e know-how in questi ragazzi e siamo convinti che possano essere i protagonisti del successo di Elica nei prossimi anni. Detto ciò siamo sempre alla ricerca di collaboratori validi e che possano dare un valore aggiunto alla nostra realtà aziendale; sicuramente nel nuovo anno avremo ulteriori opportunità per giovani neolaureati, ma qualora incontrassimo qualcuno particolarmente brillante se la posizione non c’è la andremo a creare ad hoc.Pensate di bissare a settembre 2015 questa iniziativa con Monster, dando vita a una seconda edizione del Recruiting Day Elica?Sicuramente il feedback sull’evento di quest’anno è stato positivo e stiamo valutando di ripeterlo ancora in quest’anno o nel 2016. La forma potrebbe essere la stessa con l’aggiunta di qualche novità mentre per la location potremmo mantenerne una facilmente raggiungibile come Roma oppure spostarla altrove, magari all’estero per dare un respiro ancora più internazionale al nostro Recruiting Day.