Categoria: Approfondimenti

Troppa burocrazia e pochi aiuti dalle banche: per le startup è un cammino in salita

Sono il fenomeno degli ultimi tempi: hanno permesso a tanti giovani di crearsi un’attività in periodo di crisi e a molti altri di riposizionarsi sul mercato grazie alle nuove competenze acquisite. Eppure le start up non sono in piena salute in Italia. Secondo una ricerca condotta dalla Claai (Confederazione delle libere associazioni artigiane italiane) su dati forniti dalla Camera di commercio di Monza e Brianza, un’impresa su tre di quelle che chiude ha meno di quattro anni e una delle regioni più segnate dal fenomeno è la Lombardia. Significa, quindi, che non c’è spazio per le start up nel nostro paese? La Repubblica degli Stagisti ha provato a capirlo parlando con Marco Accornero, 54 anni, segretario generale Claai e dell’unione artigiani della provincia di Milano. «Certamente la partenza di una start up è particolarmente un percorso a ostacoli in Italia: per le difficoltà burocratiche, che frenano sul nascere le imprese, e per la difficoltà di accesso al credito. Le banche hanno perso la loro vocazione di scommettere su progetti imprenditoriali» spiega Accornero «e quindi le start up, all’inizio, non avendo accesso al credito devono farcela con le loro forze, con i risparmi familiari». C’è poi un altro problema, non di poco conto, che mette in difficoltà le start up ed è, secondo il segretario generale, il fenomeno dell’autoimprenditorialità, quando cioè a causa del mercato saturo si decide di inventarsi un’attività magari sulla base di competenze precedentemente acquisite. Fare tutto questo, però, senza aver prima costruito un adeguato progetto imprenditoriale, causa la vita breve delle imprese.«Per questo come associazione di categoria, come Claai e unione artigiani, abbiamo promosso un servizio di tutoraggio degli aspiranti imprenditori, per aiutarli a costruire i loro progetti, il loro business plan in maniera professionale, in modo da ridurre i rischi» dice alla Repubblica degli Stagisti il segretario generale Claai, che aggiunge «perché chiudere una start up è un fallimento umano ed economico oltre a una perdita di tempo e risorse. Per questo motivo il consiglio è di non gettarsi subito nell’avvio della nuova attività, ma di costruirla avendo chiare tutte le misure da adottare».Anche perché a mettere il bastone tra le ruote ci pensano già le tante “carte” richieste alle nuove imprese. «Appena apre, l’azienda già comincia a generare costi. Ad esempio ci sono licenze da pagare di vario tipo, sia commerciale sia produttivo. E poi c’è il negozio o l’ufficio da pagare, le spese di consulenza. Se la burocrazia non è quindi veloce nel rilasciare le licenze e autorizzazioni, allora l’attività comincerà a produrre costi senza ottenere ricavi. Quindi più è lenta la burocrazia, più la start up parte con un fardello di spese alle spalle che sono assimilabili a un debito».Motivo per cui Accornero, senza giri di parole è deciso nel dire che «una delle cause della morte delle start up è proprio la burocrazia». Che non coinvolge solo la nascita dell’azienda, ma finisce per compromettere anche i bandi per giovani imprenditori o start up che dovrebbero teoricamente aiutare lo sviluppo di queste attività.«A causa della crisi della finanza pubblica questi bandi sono sempre di meno. E poi soffrono di un eccesso di burocrazia che nasce, certo, sotto le buone intenzioni di non sprecare soldi pubblici, ma questo eccesso di zelo spesso produce il risultato opposto: chi ha una buona idea imprenditoriale non riesce a mettere insieme questi documenti complicatissimi. O è obbligato a rivolgersi a un professionista che curerà la documentazione con il rischio di pagarlo senza sapere se riceverà il contributo». A questo punto l’unica soluzione sarebbe quella di chiedere aiuto a una banca per poter far fronte ai pagamenti, ma in questo caso l’azienda «Viene vista malissimo» dice Accornero. «Le banche hanno perso lo spirito di valutare il progetto e rischiare insieme all’imprenditore. Certo la crisi finanziaria che abbiamo vissuto e le stringenti regole di Basilea 2 e Basilea 3 impongono di valutare i parametri, non è sufficiente la sola idea imprenditoriale per avere i finanziamenti. Serve anche sapere cosa metti sul piatto, se hai delle garanzie familiari, qualcuno che possa garantire per te, o se hai una casa di proprietà su cui mettere un’ipoteca».E qui arriva il confronto desolante con gli Stati Uniti: «Lì si ragiona in maniera diversa. Si dà per scontato che un po’ di start up falliranno, ma quella che avrà successo, senza necessariamente fare il caso di Apple o Google, poi ripagherà tutte le altre imprese che sono nel frattempo fallite. Hanno più voglia di scommettere sulle belle idee che possono avere successo. Da noi si fa solo un calcolo matematico: quante risorse ci metti tu, quante la tua famiglia, che garanzie porti».Negli ultimi anni qualche piccolo aiuto nei confronti delle start up è arrivato, basti pensare alla forma giuridica delle srl semplificate introdotta nel 2012, ma di strada secondo il segretario generale Claai ce n’è ancora molta da fare. «Occorrerebbe innanzitutto un’esenzione da più normative burocratiche possibile nei primi anni di vita. Ma uno snellimento effettivo, non di facciata come spesso è avvenuto. E poi occorre creare, come è stato fatto nei paesi anglosassoni, dei fondi di private equity, che investano nel facilitare la nascita delle start up e creare una normativa perché si possa investire anche in piccole realtà. Cosa che non avviene» spiega Accornero, «perché i fondi di private equity che noi conosciamo fanno investimenti sui milioni di euro. Mentre noi parliamo di micro attività che necessitano di micro investimenti: 50, 100, 200mila euro. Quindi serve uno strumento finanziario di queste dimensioni».Perché alla fine è proprio questo accesso al credito ad essere una delle difficoltà più grandi per le start up, come certifica anche una recente indagine Unioncamere che mostra come già all’avvio il 35% di queste imprese deve scontrarsi contro la mancanza di capitale necessario, percentuale simile anche per quante hanno difficoltà di ottenere credito dalle banche. «Un’impresa quando comincia ha spese di consulenza, di avvio, per l’ufficio, mentre i ricavi si cominciano a generare sei mesi, un anno dopo. Quindi all’inizio l’azienda genera solo costi» spiega Accornero «e serve un’attività finanziaria propria o data dalle banche per sostenerli».Ma poiché è difficile convincere gli istituti di credito ad aiutare le start up ecco che arriva la proposta del segretario Claai: «Si potrebbero stanziare dei fondi per fare in modo che lo Stato garantisca il 100% del finanziamento che la banca concede all’impresa con determinate caratteristiche: ad esempio un bussiness plan ben fatto o il patronage di qualche ente. La banca in questo modo non rischia quasi nulla se non le spese di istruttoria e della pratica e visto che rischia lo Stato, per lei sarebbe più semplice concedere il finanziamento. Certo sono soldi pubblici» osserva giustamente Accornero «ma se partiamo dalla logica di favorire i progetti ben fatti e le buone idee alla fine tutto questo torna alla collettività, anche in termini di tasse e contributi versati».Perché se a qualcuno può sembrare strano che nasca una società come Google anche da noi, il ragionamento che dovrebbe spingere le banche a investire di più nei progetti ben fatti è che basta un’impresa importante che si realizza e «che nel giro di qualche anno arriva a 100 dipendenti per ripagare dieci imprese a cui il finanziamento è andato male». Un ragionamento che si spera venga quanto prima abbracciato da chi di dovere, insieme a una rapidità d’azione, per nulla italiana, in modo da convincere chi fa start up nel nostro Paese a non rinunciarci, a non farla all’estero e soprattutto a portare a termine, con successo, i propri progetti.Marianna Lepore

Fare il giornalista: meglio o peggio che lavorare?

«Vuoi fare il giornalista? Non farlo». La prima provocazione sta nel titolo del dibattito: uno dei 279 previsti dal calendario del Festival del giornalismo, che negli ultimi cinque giorni ha attirato a Perugia decine di migliaia di spettatori. I problemi della professione sono tornati al centro anche nell'edizione 2015, che proprio oggi chiude i battenti. Soprattutto ragazzi, quotidianamente alle prese con Ia valutazione dei costi-opportunità legati al “mestiere più bello del mondo”, hanno affollato giovedì la Sala del Dottorato per capire come fosse possibile che a un festival del giornalismo un panel suggerisse... di non fare i giornalisti. E si sono trovati di fronte cinque relatori suddivisi in due fazioni: a sostenere che, nonostante tutto, ne vale ancora la pena il condirettore di Repubblica Giuseppe Smorto, la praticante Chiara Baldi e il giovane videomaker Max Brodo; meno ottimiste la giornalista e scrittrice Caterina Soffici e l'imprenditrice, giornalista e scrittrice Giovanna Zucconi. «Il giornalismo è come il calcio: i più bravi alla fine ce la fanno». Questa è la metafora utilizzata da Smorto, che ha ribadito l’importanza della professione nella società attuale e ha messo in evidenza che la difficoltà dei giovani nell'accesso al mercato del lavoro è diffusa non solo nel settore del giornalismo: «C’è una forbice generazionale tra garantiti e non che dal mondo del giornalismo si estende a tutte le professioni». Dunque i giovani aspiranti giornalisti ce l'hanno dura, è vero, ma non più dei colleghi aspiranti architetti, o insegnanti, o avvocati. E chi la dura, in qualsiasi campo, secondo Smorto la vince.Smorza l’ottimismo del collega Caterina Soffici, dal 2010 expat a Londra da dove scrive come freelance di cultura e attualità per Il Fatto Quotidiano, l’inserto culturale del Sole 24 Ore e il settimanale Vanity Fair: «I più bravi vengono premiati, ma bisogna vedere se sopravvivono. Io credo che ancora esista ancora il buon giornalismo, ma vi posso elencare tanti motivi per cui oggi non vale la pena farlo». Sottolineando l'aspetto più prosaico - e più spesso tenuto sottotraccia, come fosse motivo di vergogna - della querelle sul "diritto di cittadinanza" del lavoro gratuito:  «Con la visibilità che molti ottengono lavorando per anni gratis non si pagano le bollette o il macellaio».Anche Giovanna Zucconi è convinta che oggi non si possa vivere soltanto di giornalismo. Per spiegarlo paragona la condizione della sua generazione con quella dei più giovani: «Non discutiamo la bellezza della professione, ma c’è un cambiamento epocale che riguarda voi ragazzi: anche a me e Caterina è capitato di scrivere gratis, abbiamo  passato mesi a correggere bozze o a leggere giornali stranieri al posto dei redattori, ma lo abbiamo fatto sapendo che prima o poi sarebbe arrivata la stabilità». Cioè l'agognata assunzione, lo stipendio sicuro alla fine del mese, la protezione in caso di malattia o maternità. In una parola, la stabilità: «Oggi non potete avere questa certezza. E lo sfruttamento avviene in organizzazioni che spesso si ergono a moralizzatrici sociali e invece pagano 6 euro i giovani, garantendo personale che forse non merita più quel trattamento». Lo sa bene Chiara Baldi, 28 anni, allieva della Scuola di giornalismo “Walter Tobagi”, commossa nel raccontare la sua esperienza: «Nel 2012 è terminata la mia tesi specialistica sul mondo del giornalismo precario: quell’anno su 112mila iscritti all’albo, la metà era freelance. Oggi sono aumentati ancora. In questi anni ho lavorato per molti uffici stampa, per Adn Kronos, Asca e l’Espresso online. Poi ho vinto un premio dedicato a Walter Tobagi per un pezzo sulla libertà di stampa in Italia». Un premio ricevuto proprio a Perugia, nell'edizione 2013 del Festival: «Non ho mai accettato di lavorare gratis, ma per terminare il praticantato sono costretta a pagarmi la Scuola di giornalismo. E nonostante le difficoltà non ho mai pensato di abbandonare il mio sogno. E' paradossale, ma secondo me questa è l'età d'oro del giornalismo».Ne è convinto anche Max Brodo, 23 anni: di fronte a prospettive concrete come enologo, ha deciso di puntare sulla carriera giornalistica. Ora collabora con Il Fatto Quotidiano. Con un pizzico di realismo, il giovane videomaker spezza una lancia a favore della visibilità a costo zero: «Non lavorerei gratis per tutta la vita, ma sfido chiunque dei ragazzi presenti a dire di no alla proposta di uno stage di sei mesi gratis al Corriere o Repubblica. I costi delle Scuole sono molto alti e lo stage è uno strumento che permette di accedere alle redazioni anche a chi non può investire migliaia di euro».Molti gli interventi degli indecisi in cerca di risposte: «Siamo nella "terra di mezzo" della professione, ci dicono che se terminiamo il praticantato non ci assumeranno perché costiamo troppo. Che cosa dobbiamo fare?» A porre questa domanda, uno degli ex redattori de L’Ora della Calabria cassintegrato dopo la chiusura della testata, alla fine di aprile 2014.Ma insomma, vale ancora l'affermazione della storica penna Luigi Barzini junior - «Fare il giornalista è sempre meglio che lavorare» - oppure bisogna dar retta alla parafrasi proposta da Caterina Soffici: «Fare il giornalista oggi è peggio che lavorare»? Il match non lo ha vinto nessuno: zero a zero, giornalismo al centro, e ciascuno può dare la sua risposta - scegliendo di pretendere un pagamento dignitoso per ogni suo lavoro, oppure accettando condizioni capestro o addirittura gratis.Silvia Colangeli (foto di Isabella Borrelli)

La selva oscura delle partite Iva: come e perché aprirne una nel 2015

La Repubblica degli Stagisti inizia oggi un viaggio, passo dopo passo, nella selva oscura delle partite Iva: “oscura” perché un rapporto di lavoro autonomo implica una serie di scelte, spesso complesse, e per fare quella giusta bisogna capire quali siano le conseguenze. Già il primo passo, l’apertura della partita Iva stessa, entro e non oltre trenta giorni dall’inizio dell’attività, è preceduto da un bivio: secondo l’indagine del sindacato Nidil Cigil quattro su dieci sono false. Significa che in realtà servono a camuffare un effettivo rapporto di subordinazione, in modo particolare se si ha a che fare con fatturati inferiori ai 25mila euro l’anno e con un monocommittente, quando cioè la prestazione è svolta per un unico datore di lavoro.Questa immagine - partite Iva sane versus partite Iva malate - è bene stamparsela in testa, può essere un ottimo antidoto nel mondo in cui si è appena messo piede. Dopodiché le operazioni non sono né difficili né lunghe: letteralmente la partita Iva è un codice, una catena di undici numeri rilasciata dall’Agenzia delle Entrate a cui bisogna presentare domanda, compilando il modello AA7 (per soggetti diversi dalle persone fisiche ovvero soggetti collettivi come le società) o il modello AA9 (per imprese individuali e lavoratori autonomi). Inoltre, chi volesse avviare un’attività imprenditoriale deve aggiungere alle cose da fare anche la comunicazione unica, la procedura necessaria a realizzare tutti gli adempimenti amministrativi.L’aspirante titolare della partita Iva è libero di scegliere se sbrogliare il tutto da solo oppure affidarsi a un commercialista, il quale per l’apertura richiede tra i 50 o i 100 euro in media. Questo servizio iniziale però potrebbe anche essere gratuito, è un passaggio abbastanza veloce (qualche ora, online) e in ogni caso il costo dipende anche dal tipo di rapporto che si intende instaurare in futuro per la consulenza. Sicuramente un consiglio di un commercialista è utile nella parte più ostica, la scelta del regime fiscale, che non risponde alla matematica, bensì combina una serie di elementi a disposizione del lavoratore: il genere di attività, la situazione personale e una stima indicativa di quanto si andrà a fatturare. Il decreto Milleproroghe del governo Renzi ha prodotto ad oggi una sorta di coabitazione parallela del nuovo regime dei minimi - introdotto dalla Legge finanziaria - con il vecchio regimi dei minimi esteso a tutto il 2015. Questo è rivolto a chi ha meno di 35 anni e a tutti gli altri con un limite di cinque anni, le condizioni non sono state modificate: tassazione sostitutiva Irpef del 5%, tetto di guadagni massimo sotto i 30mila euro, contributi Inps (gestione separata) al 27%. Il nuovo regime forfetario invece è scollato da vincoli di durata e di età, è però legato ad un’aliquota sostituiva del 15% e a una serie di soglie di ricavi e compensi stabiliti dalla Finanziaria, in base ai diversi settori professionali, oscillando tra i 15mila e i 40mila euro annui. Accanto a questi due regimi c’è poi il cosiddetto regime ordinario, destinato in teoria a fatturati più alti, con aliquota Iva minima al 22% e Irpef minima al 23%.Oltre al quadro della normativa sui regimi, nel kit del neofita non possono mancare le istruzioni per maneggiare due attrezzi imprescindibili: fatturazione e dichiarazione dei redditi. La fattura, emessa in duplice copia e con un numero progressivo indipendente dal committente, contiene alcuni elementi obbligatori: i dati personali dei due soggetti, il numero della partita Iva di chi la emette, l’oggetto della prestazione, i corrispettivi e gli altri dati per la determinazione della base imponibile, l’aliquota e l’ammontare dell’imposta. Ci sono poi due date da tenere a mente: il primo versamento delle imposte il 16 giugno dell’anno successivo alla data di apertura della partita Iva e la prima dichiarazione dei redditi da inviare entro il 30 settembre, tramite modello unico. Le spese deducibili riguardano tutti costi inerenti alla professione, dalla cancelleria alle trasferte, dall’affitto per lo studio alle consulenze di terzi, fino ai convegni e agli aggiornamenti.Addentrarsi nella selva oscura non è spesso lineare, per questo oltre ad avere informazioni di base, è sicuramente d’aiuto far riferimento alle confederazioni dei liberi professionisti come Confprofessioni, gruppi attivi di categoria quale Iva sei partita (creata per ingegneri e architetti) oppure associazioni di freelance, come Acta. E soprattutto è sempre il caso di confrontarsi con le persone già in possesso di una partita Iva, con l’obiettivo di sfruttare i primi mesi per organizzare il proprio network professionale, pensando già ad ampliare la platea di clienti.Marta Latini

Figli o lavoro? Per i genitori moderni c'è un Piano C

Si può essere mamme, o papà, magari liberi professionisti e lavorare in uno spazio accogliente in cui avere vicino i propri figli piccoli, contemporaneamente seguiti da professioniste esperte, senza dover necessariamente separare la dimensione personale da quella lavorativa? A quanto pare è possibile: succede, ad esempio, a Milano dal dicembre 2012 con Piano C, «un’associazione per lavorare in modo diverso». «Il nostro obiettivo era di cambiare le dinamiche attuali del mercato del lavoro, con un particolare focus sulle donne» spiega alla Repubblica degli Stagisti Raffaele Giaquinto, 29 anni, co-founder e strategist di Piano C, con precedenti collaborazioni in agenzie di comunicazione e alla commissione europea e attualmente consulente sui temi dello smart working, del social innovation business e della change communications. «La nostra idea era di avere uno spazio fisico che permettesse di svolgere le proprie attività professionali, ma avere anche dei servizi che facilitassero l’equilibrio con la propria vita privata, come lo spazio infanzia o i servizi commerciali con il quartiere, come la spesa o la lavanderia. Da quella intuizione abbiamo iniziato a sperimentare modelli organizzativi che sono riusciti a dare risposte alternative al rapporto donne - lavoro».Così è nato Piano C, non solo come associazione, ma proprio come spazio fisico: 250 metri quadri di superficie in cui ci sono venti postazioni in open space, cinque uffici e sei sale multifunzione, oltre alla cucina e alle due aeree per i bambini con educatrici sempre presenti. «Attualmente abbiamo una community globale, quindi persone che frequentano il nostro spazio ma non tutti i giorni, di 2500 contatti. In una settimana, tendenzialmente, ruotano un centinaio di persone. Quindi in un mese, se calcoliamo le persone che partecipano agli eventi, usano il coworking e lo spazio infanzia, abbiamo all’incirca tra le 300 e le 500 persone. Di queste circa il 30% è rappresentato da uomini». Proprio perché gli utenti hanno esigenze lavorative diverse tra loro, anche i costi per far parte di Piano C sono modulari: si va dal day pass di 20 euro al giorno al carnet da 10 ingressi a 180 euro, passando per il C-sono a 120 euro l’anno, gli ingressi illimitati Open a 250 euro al mese e al C-year a 2400 euro l’anno. In ognuno dei pacchetti sono inclusi servizi diversi, come il numero di ore comprese di sala riunione o i servizi salvatempo e l’uso di cucina, armadietti o fotocopiatrice. Il progetto iniziale di aiutare la conciliazione lavoro - famiglia è stato raggiunto, secondo Giaquinto «perché abbiamo dimostrato in due anni che modificando alcuni elementi dei modelli organizzativi si poteva rendere possibile il lavoro e l’imprenditoria femminile, il rilancio professionale, le connessioni. La sperimentazione del laboratorio di Milano è assolutamente riuscita, adesso comincia la nuova sfida». Che è stata lanciata pochi giorni fa e si chiama Piano C Partner Network.«In due anni abbiamo ispirato un certo tipo di cambiamento culturale, perciò ora lanciamo questo network nazionale che ha l’obiettivo di creare una rete di altri co-working in giro per l’Italia, con caratteristiche simili a Piano C, che vadano a lavorare sulla dimensione della conciliazione e che facciano anche attività di advocacy presso le istituzioni. La verità» riflette Giaquinto «è che lo spazio Piano C è una meravigliosa storia, ben riuscita, e ora con una rete si vuole effettivamente andare a cambiare la cultura all’interno del Paese».I partener attuali sono realtà a volte nate prima altre dopo il loro progetto, ma tutte in qualche modo si sono ispirate a Piano C, che in due anni ha ricevuto oltre 100 richieste di replicabilità, perché ha soddisfatto bisogni «che non sono radicati solo a Milano, ma in tutta Italia».La rete al momento è composta da nove partner, Piano C incluso, che coprono tutta la dorsale italiana da nord a sud: Milano, Mestre, Parma, Bologna, Firenze, Roma, Matera e Palermo. «Tutti mantengono una propria identità rispetto alla propria impostazione sul modello di co-working. Condividiamo, però, il concetto di community e i servizi. Tra questi in particolare il co-baby e i servizi salvatempo».Il primo è uno spazio, nel caso di Piano C di 30 metri quadri, aperto dalle 9 alle 19, su prenotazione, per bambini da 3 mesi a 3 anni e con una seconda sala aperta il pomeriggio per bambini fino a 12 anni tutti seguiti da professioniste qualificate. I servizi salvatempo, invece, sono una rete di convenzioni e professionisti connessi alla comunità di Piano C che facilitano e migliorano la qualità della vita degli aderenti. Si va dal servizio di lavanderia alla spesa, passando per la sartoria a domicilio e la cena pronta da portare a casa, fino al commercialista o al grafico. «È un modello che definiamo no-profit, nel senso che Piano C ha creato la rete di convenzioni di cui possono usufruire i nostri utenti, ma non applichiamo nessuna fee di intermediazione, semplicemente ottimizziamo l’incontro tra domanda e offerta», spiega Giaquinto che aggiunge «Chiaramente questi servizi sono molto gettonati perché facilitano enormemente la gestione del tempo ed è un modello che ha ispirato anche altre realtà del nostro network».Se Piano C è un servizio per venire incontro alla lavoratrice - o al lavoratore - non dimentica di avere davanti anche una persona: per questo offre anche il “terzo tempo”, per consentire l’equilibrio, la soddisfazione e la felicità attraverso incontri dedicati alla cura delle persone, oppure momenti di formazione e di networking che aiutano anche a far nascere nuovi progetti lavorativi.«Da noi sono ripartite professionalmente centinaia di donne, ad esempio con una start up, usando il co-baby, il grafico, il legale ma soprattutto creando alleanze all’interno di questo spazio per far crescere la propria impresa», spiega Giaquinto. Perché è qui, gomito a gomito, che la maternità spesso sfociata in isolamento diventa incrocio tra domanda e offerta e nuovo spazio per le connessioni.Co-fondatore di Piano C, Raffaele Giaquinto è deciso nel dire che la sua vita «è sicuramente migliorata» da quando ne fa parte, anche se lui non ha ancora figli, perché vedere le persone che riescono a ripartire e sono felici «è una ricchezza intangibile che ha arricchito il mio percorso professionale». E sul fatto che un padre possa sentirsi a disagio a farne parte per la forte componente femminile, non ha dubbi: «Assolutamente no. C’è sicuramente una presenza inferiore, ma non manca. Ci sono delle meravigliose storie di papà che lavorano da remoto o in autonomia e decidono di farlo portando con sé i figli, ottimizzando il tempo professionale».I modelli sperimentati non restano solo chiusi dentro lo spazio fisico di Piano C, perché una delle attività è anche la consulenza aziendale. «Il progetto più alto che abbiamo è MAAM, acronimo di Maternity As a Master, che è un libro uscito a settembre 2014 con Bur editore, dove si raccontano le teorie scientifiche sulle quali si basa questo percorso. Una teoria che si fonda sull’idea di sfruttare le competenze genitoriali e trasformarle in professionali. Un percorso che ha fortemente rinnovato certi ragionamenti rispetto al mondo delle risorse umane, della gestione delle persone, della valutazione dei talenti e che abbiamo avuto la fortuna di sperimentare con grandissime aziende come Pirelli, Unicredit, Nestlé, Invitalia».La richiesta principale che è stata avanzata da tutte le aziende è quella di mettere in campo nuove soluzioni di gender balance a cui Piano C ha sempre risposto proponendo modelli che non avessero una ricaduta solo sulla neo-genitorialità, ma che riuscissero a rinnovare la cultura aziendale globale. Escogitando quindi soluzioni che aiutassero l’azienda a sviluppare il proprio business, a valutare i talenti e a far aumentare la felicità. Perché il punto cruciale, per Piano C e chi applica le sue teorie, è che un genitore felice, che riesce a lavorare senza accumulare sensi di colpa verso il figlio sapendolo vicino e seguito da gente competente, è un lavoratore più felice e di conseguenza porta maggior profitto anche all’azienda.Idee che fanno di Piano C un modello positivo da replicare in giro per l’Italia. Ed è proprio questo l’obiettivo per il nuovo anno: far crescere sempre di più i progetti realizzati e diffonderli in altre realtà mantenendo forti, però, identità e specificità locali. Marianna Lepore

Garanzia Giovani, come sta andando in tutta Europa? Ancora troppo presto per dirlo (ma non benissimo)

Si parla molto di Garanzia Giovani, un piano pensato per tutti i Paesi europei con tassi di disoccupazione giovanile superiori al 25%. La diversità di approccio dei singoli Stati ha creato dei problemi, visto che in un report della European Court of Auditors, pubblicato pochissimi giorni fa, si evidenzia che al momento la Commissione europea non ha ancora un quadro dettagliato delle spese necessarie per supportare il piano, motivo per cui c’è il rischio che il finanziamento totale possa non essere sufficiente per attuarlo. La Repubblica degli Stagisti ha cercato di capire se l’Italia sia l’unico paese in cui l’implementazione della Garanzia procede a rilento o se non sia tutto il Piano ad avere delle difficoltà nella sua applicazione, partendo da tre documenti: il report della Corte dei conti europea, la ricerca della European Trade Union Institute e il rapporto della Commissione europea pubblicato a metà marzo.«Il livello di implementazione in Europa varia a seconda dei Paesi e bisogna tener presente che in alcuni di questi esisteva già», spiega alla RdS Margherita Bussi, ricercatrice dell’European Trade Union Institute e curatrice, sotto la supervisione di Patrick Itschert e Ignacio Doreste dell'Etuc, della ricerca «The Youth Guarantee in Europe», conclusa a fine 2014. «Finlandia, Austria e Svezia prevedevano già che ci fosse un intervento tempestivo a favore dei giovani disoccupati sotto forma di formazione e offerta di lavoro» specifica la ricercatrice. «Le varie situazioni locali hanno un peso enorme sulla capacità di implementazione. La Commissione, poi, aveva imposto inizialmente dei tempi impraticabili, perché i governi nazionali dovevano rispettare dei criteri precisi, non facili da mettere insieme, in poco più di un anno e mezzo». I ritardi nell’applicazione del Piano sono da cercare nell’utilizzo dei fondi FSE. Se Italia e Francia hanno deciso di creare un Piano operativo a parte per usare i fondi speciali della Youth Employment Initiative e «sono quindi stati operativi quasi subito dopo la loro approvazione, altri Paesi hanno scelto di legare questi fondi alla programmazione del fondo sociale europeo 2013-2020 e questa scelta ha prolungato i tempi». Idea condivisa anche da Massimiliano Mascherini, research manager all’Eurofound, la fondazione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, che da tempo si occupa proprio dei Neet. «I governi hanno iniziato adesso a implementare la Garanzia giovani, che per certi Stati membri è una sorta di rivoluzione nel modo di intendere e organizzare le politiche giovanili. Dopo la sottomissione dei piani di implementazione nazionali dell’inizio del 2014, nel semestre successivo ci sono state le prime azioni da parte dei governi al fine di attivare la Garanzia, quindi pensare non solo alle opportunità da offrire, ma stabilire anche quei servizi necessari per la personalized interview che dovrebbe consentire quel successo registrato nei paesi del nord. Ma poiché molti Paesi hanno punti di partenza diversi fra loro, ognuno ha lanciato la GG nel proprio stile. Possiamo quindi dire che siamo a una fase iniziale dell’implementazione». Un dato che emerge dalla ricerca «The Youth Guarantee in Europe», fa riflettere: lo scarso investimento, solo lo 0,03 per cento del Pil, che il nostro Paese spende per il mercato del lavoro, nonostante la media europea sia ben al di sopra, allo 0,21. Mascherini sostiene che la «Garanzia giovani invertirà inevitabilmente questa tendenza» che in Italia, a suo avviso, vorrà dire irrobustire i servizi per l’impiego attraverso investimenti che permettano di fornire servizi come le personalized interview.  C’è un altro elemento evidenziato nella ricerca: i sindacati non sono stati coinvolti nello stesso modo ovunque nell’applicazione del piano e secondo Margherita Bussi «Se l’idea è quella di promuovere il modello tedesco di concertazione e partecipazione sociale nella promozione degli apprendistati e delle formazioni adattate al mondo del lavoro, è necessario far partecipare le parti sociali. Questo garantisce un equilibrio nella scelta delle direzioni di formazione, ma anche il pieno riconoscimento, da parte di sindacati e impresa, dell’apprendista come parte integrante, anche se in formazione, dell’azienda». Il ruolo dei sindacati poi, sarebbe stato fondamentale per sensibilizzare i giovani ai loro diritti nel mondo del lavoro, per difendere i loro interessi in fase di negoziazione e per continuare a spingere per un approccio rivolto alla crescita e non ai tagli.L’Italia non è però, come detto, l’unico paese in ritardo nell’implementazione della Garanzia. «È difficile stabilire quale paese sia più avanti. Ci sono differenze anche tra le singole regioni perché non tutte ricevono i finanziamenti dell’Unione europea. Alcune regioni in Spagna incontrano delle difficoltà, ma anche in Croazia e Francia le missioni locali hanno problemi nel gestire un incremento del pubblico giovane. Le cose vanno meglio in Finlandia, ma lì la Garanzia era partita già nel 2013» spiega Bussi.Anche Mascherini evidenzia che «non siamo il Paese che va più a rilento, i nostri vicini in Spagna non stanno meglio e lì la Garanzia ha preso una direzione totalmente ristretta all’impiego con una forte enfasi sul self employment. Poi c’è la Grecia che sta ancora peggio». La vera particolarità italiana, che secondo il research manager Eurofound crea dei problemi sta nel fatto che da noi si includono i giovani fino a 29 anni, arrivando a 2milioni di neet. «Pensare di integrare un bacino simile dall’oggi al domani è molto difficile. Ma l’implementazione della Garanzia dovrebbe essere vista come un processo che migliora pian piano, con le offerte che cominciano a confluire nei database e a essere abbinate con i job seeker». Perché il sistema vada a regime da noi servirebbero centri per l’impiego più qualificati. «Dovrebbero essere messi in condizione di affrontare e indirizzare le situazioni più complesse, come avviene nei paesi che hanno ideato il sistema della Garanzia, penso a Svezia e Finlandia. Quindi c’è bisogno di più personale e che sia anche più qualificato e specializzato» osserva Mascherini, che sull’opportunità di aprire alla collaborazione di agenzie per il lavoro private accreditate, come Lombardia e Lazio stanno facendo, dice: «In Europa si sta già andando verso l’uso di agenzie private, tanto che si parla di “servizi per l’impiego” e non più di “public employment services”». Anche se la Bussi in questa scelta intravede «il rischio che vengano ancora una volta trasferiti soldi ad agenzie private per fare dei lavori che avrebbero comunque fatto, anche senza risorse europee». Anche se ancora lontana dalla sua totale implementazione, la Garanzia giovani ha dei lati positivi, messi in luce dal rapporto pubblicato a metà marzo dalla Commissione europea, che sottolinea come essa sia riuscita a stimolare gran parte dei Paesi a ripensare il proprio approccio alle politiche per l’occupazione. Giudizio condiviso da Bussi: «Ha avuto il merito di sollevare problemi seri come la mancanza, in alcuni Paesi, di vere politiche attive del mercato del lavoro». Ma non crede che la condivisione di buone pratiche tra singoli Stati membri nell’applicazione della Garanzia possa servire a un suo miglior utilizzo. Di diverso avviso Mascherini: «Penso si possa imparare dalle best practices. Ad esempio sulla Garanzia giovani c’è molta discussione sul fatto che l’opportunità debba essere offerta entro quattro mesi a tutti, sia ai più a rischio disoccupazione sia a quelli che sono in un periodo di transizione tra un lavoro e un altro. In Svezia, invece, Youth Guarantee si attiva dopo quattro mesi dalla registrazione, prima solo in pochi casi. Una volta registrato al centro per l’impiego il giovane va a fare questa personalized interview» spiega alla Repubblica degli Stagisti il research manager Eurofound «poi si fa un piano di sviluppo individuale per il suo ingresso nel mercato del lavoro e sulla base di questa intervista si calcolano degli indicatori sulla possibilità che diventi un disoccupato a lungo termine. A quel punto, in base ai risultati, viene offerta subito l’opportunità, per integrarlo nel mercato del lavoro. Altrimenti l’offerta si attiva dopo quattro mesi, perché si pensa che sia capace di trovare da solo un’occupazione».Un sistema che in Svezia è automatizzato e che ottiene buoni risultati perché fa canalizzare le risorse verso le persone che sono più a rischio di restare escluse dal mercato del lavoro. Secondo Mascherini potrebbe essere utilizzato in Italia per fare lo screening iniziale, ma dovrebbe essere adattato al nostro contesto. Dagli altri paesi l’Italia insomma potrebbe imparare. Una cosa è sicura: fare un bilancio sullo stato di avanzamento della Garanzia Giovani in Europa a soli undici mesi dal lancio del programma a detta degli esperti è decisamente prematuro. «Per i risultati sul mercato del lavoro bisogna aspettare un anno e mezzo, per vedere i primi ragazzi che escono dalle offerte ricevute. E bisogna anche seguirli nel tempo» dice la Bussi. Che evidenzia un altro problema: «I sussidi dati alle aziende che assumono Neet sono stati erogati anche in maniera retroattiva.Non si può, quindi, stabilire se quelle aziende hanno impiegato i giovani grazie al sussidio, semplicemente perché non esisteva all’epoca dell’assunzione. Un elemento che rende complicata ogni valutazione». Tempi lunghi su cui è d’accordo anche Mascherini: «per vedere se il programma è stato seriamente implementato bisognerà aspettare la fine del 2015 e per verificare la sua efficacia dovremo attendere un altro anno».Al momento, però, c’è il rischio che il finanziamento totale stanziato per la Garanzia possa non essere sufficiente per attuarla. È l’analisi della European Court of Auditors di pochissimi giorni fa a metterlo nero su bianco. Bussi conferma alla Repubblica degli Stagisti che effettivamente i dati precisi sul costo di attuazione mancano, perché gli Stati non hanno detto quanto intendono spendere per coprire la popolazione interessata dal programma. «Mancano i numeri sui neets, ovvero del bacino potenziale dei giovani interessati. Ci sono quelli raccolti da Eurostat, ma non sono sufficienti. Il fatto, però, che la Corte abbia messo in luce questo problema credo possa essere utilizzato come leva dalla Commissione per spingere gli Stati a dare delle indicazioni più chiare sui costi reali. Fino al 2016 ci sono i soldi del Fondo europeo, che possono coprire almeno alcune delle misure potenziali. Ma se non c’è continuità di finanziamento nazionale, probabile nei paesi dell’est europeo ma anche in Italia, potrebbe concludersi tutto in una bolla di sapone». La Court of Auditors evidenzia, poi, che non si definisce in nessun documento cosa sia “buona qualità” e questo porta al rischio di avere – come è capitato molte volte in Italia – offerte incoerenti ed inefficaci. «Effettivamente manca, ma è difficile che la Commissione possa stabilirlo perché è di competenza degli Stati membri» osserva Bussi: «Certo il fatto che ci sia una definizione così larga dà spazio a delle omissioni, tanto che in Italia il 74% delle offerte di lavoro sono solo temporanee e non includono la formazione. È importante che la Corte abbia evidenziato questo problema perché permette alla Commissione di andare più in profondità, nel momento in cui ci sarà un sistema di monitoraggio».Il punto centrale del report, secondo Bussi, è che finalmente sono state connesse le condizioni iniziali stabilite per erogare i soldi della Youth employment Initiative con il piano di implementazione della Garanzia. «È importante perché i piani di implementazione sono stati presi sotto gamba. Connettere le condizionalità ex ante con le promesse degli Stati è un buon modo per controllare che ci sia una risposta coerente tra quello che si promette e quello che poi si fa».Tutte spiegazioni che obbligano a spostare più avanti il tempo per trarre le somme e, alla luce dei dati, capire se la Garanzia Giovani ha finalmente rilanciato l’occupazione per i giovani in Europa o se invece ha incontrato troppe difficoltà nella sua applicazione.

Trovare il progetto Sve e candidarsi, piccola guida per iniziare una grande avventura

Il Servizio volontario europeo (Sve) è un programma di volontariato che mette alla prova ancora prima di iniziare le attività all’estero. Per partire è necessario trovare il progetto giusto, inviare la domanda, essere selezionati, attendere la conclusione delle procedure burocratiche: il potenziale futuro volontario deve avere da subito una buona dose di tenacia, pazienza, fiducia e spirito di adattabilità. Se non la possiede già, imparerà ad averla se vuole davvero partire, e in questo senso lo Sve è un processo di apprendimento che inizia nel momento in cui si muovono i primi passi per accedere al programma.Cercare un progetto adatto, per poi candidarsi mandando curriculum vitae e lettera motivazionale in inglese - quasi sempre sono richiesti entrambi - può richiedere tempi lunghi; oppure il processo può essere più facile e veloce, ma molto probabilmente bisognerà rinunciare a qualcuna delle proprie aspettative. In ogni caso, cosa bisogna fare per trovare il progetto giusto? Di seguito ecco qualche consiglio che potrebbe essere di aiuto nella ricerca.La prima cosa da fare, come in ogni situazione si affronti una novità, è informarsi: e per questo la Repubblica degli Stagisti offre un articolo di informazione generale sullo Sve e una rubrica in cui gli ex volontari raccontano le proprie esperienze. Solo una volta consapevoli degli aspetti essenziali dello Sve si è pronti per orientarsi nella ricerca. A questo scopo è anche utile leggere l’«Evs Charter», un documento in inglese che precisa quali sono i doveri delle organizzazioni a cui bisogna rivolgersi: l’organizzazione di invio (sending organisation), quella di accoglienza (hosting o receiving organisation) ed eventualmente l’organizzazione di coordinamento (coordinating), che ricopre un ruolo da intermediario tra le prime due.Per trovare lo Sve adatto, ci sono due modalità fondamentali: ci si può candidare per un progetto pubblicizzato da un’organizzazione di invio italiana oppure si può proporre a una sending organisation di propria scelta un progetto scoperto su Internet. In base alle necessità si può utilizzare solo una delle due modalità, oppure entrambe.Per candidarsi a un progetto in cui l’organizzazione di invio è già stabilita bisogna seguire le newsletter e i social network delle associazioni italiane accreditate dall’Agenzia nazionale per i giovani come sending organisation. In questo modo si riceveranno sempre aggiornamenti sulle opportunità Sve in scadenza per le quali le organizzazioni di invio italiane cercano volontari. Per scoprire quali sono le sending organisation nel nostro Paese è sufficiente usare il database Sve: spuntando nel menù a tendina a sinistra le opzioni «Italia» per il Paese dell’organizzazione e «Sending organisation» per il tipo di accreditamento Sve, si ottiene la lista di tutte le organizzazioni di invio sul territorio italiano, con il loro sito Internet di riferimento. Attraverso il sito non solo si può comprendere quanto l’associazione sia attiva nella promozione di progetti, ma si possono ricavare i contatti e-mail per chiedere più informazioni o per iscrivervi direttamente alle mailing list e ai canali social.Per perfezionare la ricerca e avere un contatto più diretto, nel menù a tendina del database Sve si può indicare anche la «località dell’organizzazione»: in questo modo si troverà la sending organisation più vicina a casa. Si potrà chiedere un colloquio per togliere dubbi e curiosità e soprattutto per conoscere dal vivo le persone che eventualmente "spediranno" il volontario all’estero.In ogni caso, una volta individuato un grappolo di associazioni di invio a cui far riferimento, bisogna essere pronti a passare ore davanti al computer, per spulciare tutte le offerte che arriveranno per mail e sui social network ed individuare i progetti che ispirano di più e per cui si possiedono i requisiti richiesti - ricordandosi comunque che spesso è sufficiente avere una forte motivazione. Nella call di ogni singolo progetto conviene leggere tutte le informazioni necessarie in base alle quali scegliere se candidarsi: settore di volontariato, associazione di accoglienza, luogo, data di partenza, durata, condizioni economiche. Per i dubbi non bisogna esitare a contattare la sending organisation per chiedere informazioni aggiuntive: una risposta dell’associazione potrebbe anche offrire un elemento in più sulla sua affidabilità. La scelta deve infine tenere conto della scadenza per inviare la candidatura, che spesso è ravvicinata per i progetti promossi tramite newsletter e social.La seconda opzione per trovare un progetto Sve è proporlo direttamente a una sending organisation. Questo può forse comportare un po' più di attesa per la partenza, perché di solito i progetti che non hanno già una sending organisation iniziano dopo diversi mesi, ma si avrà il beneficio di avere compiuto una scelta profondamente personale, adatta ai propri obiettivi; va ricordato sempre, però, che tutti i progetti Sve poi potrebbero essere diversi da come erano scritti sulla carta, come alcuni racconti degli ex volontari testimoniano: sapersi adattare ai cambiamenti è una delle abilità che si apprendono durante lo Sve.Per scoprire un progetto ci sono due possibilità. La prima è cercarlo sul database Sve di cui si è parlato in precedenza. Nel menù a tendina ci sono le opzioni per personalizzare la ricerca: Paese e settore di attività sono le principali. Per il «tipo di accreditamento Sve», bisogna spuntare sia «organizzazione di accoglienza» sia «organizzazione di coordinamento» (in alcuni casi, un’organizzazione di accoglienza non possiede tutte le caratteristiche necessarie per operare nella burocrazia europea: serve dunque l’intervento di un’organizzazione intermediaria). A questo punto si avranno tutti i progetti Sve attivi in Europa  e nel mondo che soddisfano i propri interessi, con i siti web di riferimento delle organizzazioni, dai quali reperire il contatto e-mail.È indispensabile scrivere all’organizzazione estera, perché il database Sve offre tutti i progetti attivi senza fare distinzione tra quelli già in corso e quelli per cui invece le associazioni cercano volontari. Alla hosting o coordinating organisation bisognerà dunque chiedere, dopo essersi presentati in poche righe, se il progetto ha bisogno, in quel momento, di volontari - è sempre bene anche allegare subito il proprio curriculum. Non bisogna sconfortarsi se, come capita spesso, le organizzazioni non risponderanno, oppure se lo faranno per dire che il progetto è in corso e il prossimo partirà dopo qualche mese. In questo caso si può prendere un appunto e prepararsi per inviare la candidatura al momento opportuno. Ciò è molto utile se si è individuato un progetto che attira particolarmente e per cui si è disposti ad aspettare: se con l’organizzazione estera si inizia a tessere un rapporto, dimostrando con mesi in anticipo il proprio interesse, probabilmente si avranno maggiori possibilità per essere poi selezionati.La seconda modalità per trovare uno Sve all’estero è cercarlo nel database delle «vacancies» del sito YouthNetworks. A fronte di un minor numero disponibile di progetti, il grosso vantaggio offerto da questo database rispetto a quello generale dello Sve è che vengono mostrati i soli progetti alla ricerca di volontari. Basta spuntare nel menù in alto a sinistra «Evs volunteer», nella sezione «Type», e il gioco è fatto. Si può anche filtrare la ricerca scegliendo per Paese. Cliccando sul progetto prescelto, si avranno tutte le informazioni su di esso e le modalità per candidarsi.In entrambi i casi - database generale Sve oppure di YouthNetworks - bisognerà attivarsi per trovare una sending organisation. Si può fare dopo avere letto un progetto interessante, ma è molto meglio muoversi in anticipo, avendo già la disponibilità di un’organizzazione di invio prima di cercare lo Sve: il potenziale volontario trova il progetto, e la sending organisation sbrigherà le pratiche burocratiche per stipulare il contratto con quella di accoglienza. Di solito basta una semplice richiesta per e-mail, o al massimo un colloquio, per avere la disponibilità di un’organizzazione di invio. In questo modo si avrà qualche possibilità in più di essere selezionati nel momento in cui si invierà la propria candidatura alla hosting organisation, che non dovrà spendere tempo per trovare un partner italiano.Quale che sia la modalità per la caccia allo Sve, l’importante è non risparmiarsi nel tempo dedicato alla ricerca, perché è dalla selezione del progetto che ha inizio un’esperienza che, molto probabilmente, cambierà la propria vita.Daniele Ferro@danieleferro   

Archon Droninstics, la startup italiana che fa volare i droni (da soli)

Quello che fa Francesca Lorenzoni in Italia è (ancora) illegale. La sua startup si chiama Archon Dronistics sta sviluppando un software per permettere ai droni di volare da soli, senza un pilota a terra che li controlli. Archon Droninistics è una startup ad alto tasso di innovazione, nasce dalla competenza e dall’intraprendenza di una ragazze che con la matematica ci sa fare. Per la sua idea Francesca  è stata inserita nella lista Girls in Tech 2014, l’associazione internazionale che riunisce tutte le donne che hanno fondato startup con una forte componente tecnologica.Francesca Lorenzoni ha 27 anni e una laurea in matematica applicata all’università di Ferrara. Archon Drones nasce dopo un viaggio nella terra dove fioriscono le idee: la Silicon Valley, in California. «Sono stata a San Francisco, ho visitato l’università di Stanford, i laboratori della Nasa e una volta che tocchi con mano quella realtà ti rendi conto della differenza che c’è fra quei posti e l’Italia: lì hai la sensazione che niente sia impossibile» racconta alla Repubblica degli Stagisti. L'idea nasce proprio in California da Davide Ghezzi e Davide Venturelli, due 31enni, il secondo con un posto di lavoro alla Nasa. Da un'idea diventa un progetto e Francesca, che ha la passione dei droni fin da bambina sale a bordo con un unico obiettivo: inventare un sistema per far volare i droni da soli. Insieme a loro c'è anche Matteo Ruina, il più grande del gruppo con i suoi 40 anni.«La startup ci è costata circa mille euro, ne servono altri 5mila all'anno per gestirla e a parte fondi personali abbiamo ricevuto finanziamenti dalla regione Emilia Romagna attraverso i programmi Spinner ed Emilia Romagna Startup e da Horizon 2020» racconta Francesca «per adesso non abbiamo un ufficio anche perché i componenti del team vivono fra Ferrara, Milano, Lugano e la Silicon Valley».   Ma cosa farsene di un drone che vola da solo? La risposta della giovane startupper è svelta: «Sorveglianza, pattugliamento, monitoraggio senza bisogno dell’intervento umano. Basti un esempio che è stato un altro finanziamento importante per la nostra azienda: Startup Cile, è un programma governativo che mette a disposizione 40mila dollari [circa 36mila euro, ndr] per lo sviluppo delle nuove aziende. Dopo che ci siamo iscritti al programma siamo stati subito selezionati. In Cile ci sono molte miniere a cielo aperto che vanno monitorate costantemente perché c’è il rischio che al loro interno si formino dei piccoli vulcani. Oggi l’attività di controllo è svolta dagli uomini e in alcuni casi è molto pericolosa. Con un drone si può sorvegliare la miniera e tutte le procedure potrebbero essere automatizzate. E proprio in Cile Francesca Lorenzoni e la sua Archon hanno fatto la prima vera esperienza sul campo. «Sono stata in Sudamerica otto mesi e in cambio di conferenze ed eventi dove abbiamo presentato il nostro progetto ai giovani studenti cileni abbiamo ricevuto sostegno per lo sviluppo della nostra startup. Quello che sta facendo il governo cileno è semplice: vuole far crescere una mentalità imprenditoriale nei suoi cittadini più giovani e per attrarre startupper da tutto il mondo offre loro risorse». Non potendo entrare sul mercato per i vincoli di legge - i droni senza pilota sono illegali in tutta Europa e in molti altri paesi del mondo; in Cile è stato avviato un programma di sperimentazione - l’attività prevalente di Archon è la ricerca: «Ne esistono di vari tipi» spiega la startupper superesperta di droni: «noi ci stiamo concentrando sui multicotteri, la “specie” più leggera e versatile. Il compito più difficile e quello che richiede un grande lavoro è lo sviluppo dell’intelligenza artificiale che permetta al mezzo di essere “autonomo”». Insomma algoritmi e matematica, tanta matematica. Obiettivi a lunga scadenza? «Vorremmo già essere pronti per andare sul mercato quando i paesi adegueranno la legislazione. E non ci dispiacerebbe, un giorno, entrare a far parte dei progetti della Nasa». Si punta nientemeno che a Washington, insomma.

Il Servizio volontario europeo, un'esperienza utile anche per trovare lavoro

Un’esperienza di volontariato lunga o breve in un Paese dell’Unione europea o del mondo, con la possibilità d'imparare una nuova lingua e di scegliere diversi settori in cui impegnarsi, la copertura dei costi di vitto, alloggio e trasporti e un rimborso per le spese extra: il Servizio volontario europeo (Sve) permette ai giovani dai 17 ai 30 anni di vivere all’estero fino a 12 mesi senza spendere quasi un soldo, contribuendo a portare avanti le attività di un’associazione no profit. Con lo Sve, il volontariato si trasforma in una grande opportunità per la propria crescita personale, diventando un percorso che può offrire vantaggi anche per l’inserimento nel mondo del lavoro. I giovani europei ne sono sempre più consapevoli e lo dimostra l’aumento vertiginoso della partecipazione a questo programma, iniziato diciassette anni fa.Secondo i dati rilasciati dalla Commissione europea alla Repubblica degli Stagisti, sono stati circa 79.000 i giovani che hanno partecipato al programma dal 1998 (anno di inizio dello Sve) al 2013, per una spesa complessiva da parte dell'Unione europea di 570 milioni di euro. Analizzando i dati annuali, è evidente l'incremento del numero dei volontari all'aumentare dei fondi europei per lo Sve: se nel 2007 sono stati circa 6.400 i volontari, per un finanziamento complessivo di 39 milioni di euro, le cifre sono via via cresciute arrivando a quasi 9.500 volontari nel 2013, con fondi che hanno superato i 65 milioni di euro. E la tendenza sarà la stessa per i prossimi anni, perché per il periodo 2014-2020 del nuovo programma Erasmus+, per lo Sve sono previsti un budget complessivo di 600 milioni di euro e una partecipazione di 85.000 giovani. Vale a dire che in 7 anni, dal 2014 al 2020, si supererà il numero complessivo di fondi e volontari che ci sono stati in 16 anni, dal 1998 al 2013: un chiaro segnale di quanto l'Unione europea consideri lo Sve un programma fondamentale, su cui puntare per lo sviluppo dei giovani. D'altronde una ricerca della Commissione europea, spiega l’Agenzia nazionale per i giovani (Ang),  evidenzia i risultati molto positivi delle esperienze dei volontari, in termini di accrescimento personale ed aspettative professionali. Il 76% dei volontari ha una chiara idea della professione che vorrebbe intraprendere e degli obiettivi che vuole raggiungere, ed è certo che lo Sve abbia migliorato le proprie capacità per viaggiare, studiare e lavorare all’estero; il 75% crede che un’esperienza di Servizio volontario europeo offra maggiori opportunità per trovare in seguito lavoro; l’85% dei volontari sostiene di essere più consapevole dei valori europei e l’81% si sente più impegnato nei confronti dei giovani più disagiati.Risultati molto simili, per quanto riguarda il legame tra Sve e opportunità lavorative, arrivano da una recente indagine effettuata dall’Ang su 500 giovani tra i 18 e i 25 anni che hanno partecipato ai programmi di mobilità offerti loro dall’Unione europea, tra cui lo Sve: oltre l’81% dei ragazzi ha affermato di  avere acquisito competenze ed abilità che si sono rivelate utili in ambito lavorativo. Considerando questo dato, spiega alla Repubblica degli Stagisti Giacomo D'Arrigo, direttore generale dell’Agenzia nazionale per i giovani, «il Servizio volontario europeo risulta essere importante volano per i giovani per accedere al mercato del lavoro. Ciò non significa che lo Sve garantisce il lavoro, ma piuttosto che offre ulteriori possibilità ai giovani di migliorare le loro competenze e conoscenze e rendersi maggiormente spendibili in un mercato del lavoro sempre più competitivo».Attraverso il coordinamento dell’Ang, dall’Italia partono in media circa 600 volontari all’anno. La maggior parte di loro - così come le circa 300 organizzazioni italiane accreditate dall’Agenzia per inviare volontari, accoglierli o coordinarli in progetti Sve - provengono dal Nord Italia. Le destinazioni più scelte dai ragazzi sono Germania, Spagna, Francia, Polonia, Portogallo e Turchia. Quasi uguale rispetto a quelli che partono è il numero di volontari Sve che in Italia arrivano: circa 650 all’anno, in particolare da Turchia, Francia, Spagna ed  Austria.Ma cos’è il Servizio volontario europeo nei dettagli, e come si fa a partecipare? Lo Sve è un progetto parte di Erasmus+, il programma dell’Unione europea per l’istruzione, la formazione, la gioventù e lo sport per il periodo 2014-2020. Un quadro d’insieme del progetto lo offre il Portale europeo per i giovani. Lo Sve è rivolto a tutti i giovani tra i 17 e i 30 anni, compresi coloro con minori opportunità (come le persone disabili) e gli extracomunitari residenti in un paese dell’Unione europea (non è necessaria la cittadinanza). Le attività, grazie ad accordi di collaborazione tra la Ue e paesi terzi, possono svolgersi non solo dentro i confini europei ma anche in Paesi extra Ue, e riguardano diversi settori come arte, assistenza sociale, cultura, ambiente, sport, comunicazione, cooperazione internazionale: i temi sono così vari che ogni giovane potrà trovare un progetto di proprio interesse.Lo Sve offre la copertura totale dei costi per vitto, alloggio, assicurazione, trasporti locali necessari per svolgere le attività, e inoltre viene garantito un rimborso spese (il cosiddetto pocket money) che varia da un minimo di 60 euro ad un massimo di 145 euro al mese, in base al costo della vita nel Paese ospitante. Ai ragazzi viene chiesto solamente un piccolo contributo (di solito del 10%) per la copertura dei costi di viaggio di andata e ritorno dal proprio Paese a quello di accoglienza. I volontari possono trascorrere all’estero dalle due settimane ai 12 mesi; se scelgono un progetto di durata superiore ai due mesi lo Sve sarà un’esperienza non ripetibile, altrimenti, una volta concluso un progetto breve (anche detto di short term) potranno candidarsi per un altro ancora.In linea generale, per partecipare allo Sve non è necessaria una conoscenza linguistica o un livello di istruzione particolari, ma è sufficiente inviare il proprio curriculum e una lettera di motivazione all’associazione italiana che cerca volontari da mandare all’estero, oppure a quella straniera che ne ha bisogno per portare avanti le attività. Solo in alcuni casi, per progetti molto specifici, l’associazione ospitante può richiedere determinate qualifiche.Per partire, i ragazzi hanno dunque bisogno di un’organizzazione di invio (sending organisation) e di una d'accoglienza (hosting organisation). La prima - come si può leggere nell’Evs Charter, la Carta dello Sve - è l’associazione del proprio Paese che aiuta il candidato a trovare un progetto e a contattare l’organizzazione di accoglienza. Se il candidato viene selezionato dalla hosting organisation, l’organizzazione di invio deve prepararlo prima della partenza, fornendogli tutte le informazione necessarie, seguirlo durante i mesi di soggiorno all’estero ed aiutarlo per risolvere eventuali problemi. Infine, una volta rientrato, l’ormai ex volontario Sve potrà rivolgersi alla sending organisation per reinserirsi nella propria comunità promuovendo la propria esperienza, e per approfittare eventualmente delle altre opportunità offerte ai giovani dall’Unione europea.L’organizzazione di accoglienza è invece quella in cui il volontario svolgerà le proprie attività e che si impegna ad offrire al giovane tutto il necessario per sfruttare l’esperienza, secondo quanto stabilito dagli accordi: vitto, alloggio, trasporti locali, pocket money, corso di lingua. L’hosting organisation assegnerà inoltre al volontario un "mentore", punto di riferimento per orientarsi nella nuova realtà, e darà al giovane le informazioni indispensabili per partecipare ai due training (uno poco dopo l’arrivo e un altro verso la fine del progetto) che il volontario dovrà frequentare insieme a decine di altri volontari Sve della regione in cui si trova, per riflettere sugli obiettivi e il significato del proprio percorso. Oltre a quella di invio e di accoglienza, ci può essere un’organizzazione di coordinamento (coordinating organisation) nel caso in cui la hosting organisation non possa affrontare da sola tutte le pratiche organizzative e burocratiche necessarie allo svolgimento del processo.Grazie al Database Sve è possibile trovare tutti i progetti di Servizio volontario europeo attivi, con i riferimenti delle organizzazioni. Concluso lo Sve, ogni volontario riceve lo Youthpass, il certificato che contiene la descrizione delle attività svolte e delle capacità acquisite. Un attestato che, nonostante manchi ancora di un riconoscimento diffuso, si può rivelare molto importante nella ricerca di un lavoro.Daniele Ferro@danieleferro 

Garanzia giovani non è un flop: un libro racconta i retroscena del programma

Da mesi i media si occupano del programma Garanzia giovani. E la maggior parte delle volte non è per tesserne le lodi. «I giornali hanno attaccato da subito il progetto», è l'accusa dell'economista Enrico Giovannini, ministro del Lavoro in carica al momento della preparazione dell'avvio del progetto in Italia - mentre poi il lancio vero e proprio, lo scorso maggio, avvenne già sotto la gestione Poletti. E la ragione sarebbe per Giovannini l'eccessiva trasparenza: «Da subito sono stati monitorati i risultati, una cosa che non viene mai fatta per le politiche pubbliche. Per questo poi ne abbiamo pagato le conseguenze». L'occasione per togliersi qualche sassolino dalla scarpa è la presentazione del volume Garanzia Giovani, la sfida, pubblicato pochi giorni fa da Brioschi. Un libro i cui autori sono stati parte attiva nell'attuazione di questa nuova politica del governo, di cui Bruxelles ha richiesto l'avvio a partire dalla scorsa primavera: Daniele Fano, capo della segreteria tecnica dell'ex ministro e rappresentante della Garanzia giovani per l'Italia in Europa; Elisa Gambardella, anche lei ex dello staff del ministro Giovannini e oggi riconfermata nella segreteria tecnica di Poletti, e infine Francesco Margiocco, giornalista specializzato nei temi scuola e università. Il riferimento è ai dati messi a disposizione da parte del ministero sul sito di Garanzia Giovani a ridosso della partenza del programma, dai quali si evince che le iscrizioni ammontano a 440mila – il numero è aggiornato all'inizio di marzo – mentre sono circa la metà - quindi 210mila - le prese in carico, cioè i giovani già «profilati» e pronti per essere piazzati sul mercato o in un qualche percorso di formazione.A distanza di quasi un anno dall'apertura del programma ha dunque aderito un quarto dei ragazzi che in Italia non studiano e non lavorano (i Neet), i principali beneficiari del programma. Il risultato non è certo brillante, ma il libro appena pubblicato ha il merito di far riflettere su una questione: forse il Paese era impreparato all'avvento di quello che per la prima volta si è profilata come politica attiva per il lavoro. «Facevamo solo politiche passive, solo tavoli per la cassa integrazione in deroga», sottolinea Lucia Valente, assessore al Lavoro del Lazio, una delle relatrici alla presentazione: «Il piano europeo per i giovani è stato in tal senso visionario». Una conferma di questa linea di pensiero arriva anche da Irene Tinagli, deputata ora in quota Pd, ed ex membro della commissione Lavoro: «Prima si parlava solo di pensioni e mai di giovani», ammette. Eppure 440mila adesioni in nove mesi a molti commentatori sembrano poche, e si punta il dito sulla scarsa comunicazione ai giovani dell'esistenza di questa possibilità, e sopratutto sulla scarsa capacità di intercettarli attraverso i canali informali e i siti e social network più frequentati. Eppure sarebbe stato controproducente, secondo Valente e Tinagli, pubblicizzare di più il programma, «perché non c'erano gli strumenti per metterlo in piedi». Meglio insomma procedere un passo alla volta. Come al solito, del resto, non bisogna nascondersi che l'Italia è partita già indietro rispetto ai cugini europei: dal 1998 ad esempio in Inghilterra esisteva «il cosiddetto 'New Deal degli under 25', programma da mezzo milione di sterline l’anno che offre ai giovani, disoccupati da almeno un semestre, quattro mesi di orientamento intensivo con un personal adviser, seguiti da un’offerta di lavoro o da una tra le seguenti quattro opzioni sovvenzionate della durata di sei mesi l’una», viene ricordato nel libro. Il panorama che Giovannini si è trovato davanti era quello di «un sistema di centri per l'impiego che occupava circa 10mila persone», evidenzia l'ex ministro, quando in Germania (un Paese con solo il 20% di popolazione in più dell'Italia) ce ne sono 90mila. È chiaro dunque che il paese era – e probabilmente è ancora – inadeguato a ricevere una proposta simile dall'Europa. «L'unica alternativa era mettere in campo anche i servizi privati di orientamento al lavoro, ovvero le agenzie interinali» afferma l'assessore Valente: «per cui in Lazio per esempio è stato adottato per la prima volta un sistema di accreditamento». Non sono mancate le resistenze, sia a livello regionale che provinciale, che Giovannini afferma di aver sperimentato in prima persona: «Le Regioni, e questo è stato il primo scoglio da aggirare, sono storicamente gelose delle proprie competenze e del proprio ruolo in materia di lavoro e politiche sociali» ha detto chiaro e tondo l'ex ministro. Un «ostacolo culturale» che si è provato a superare, negli ultimi mesi, anche grazie alla creazione di una piattaforma nazionale in cui sincronizzare tutti i dati dei centri per l'impiego e facilitare il matching di domanda e offerta di lavoro anche a livello extraregionale. E che, va dato atto, prima di Garanzia Giovani non esisteva. Non c'è dubbio che dei passi in avanti siano stati fatti sul fronte delle politiche attive per il lavoro, in quello che «era un deserto e invece ora è un terreno arato: i frutti non potevano arrivare da subito», ragiona la Valente. Ma il punto è capire se i media hanno avuto ragione a considerare il programma un flop. «Per valutare il successo di un piano come Garanzia Giovani bisogna capirne bene ambito e obiettivi rispetto alla popolazione target, i Neet» si legge nei primi capitoli del libro. Ma non sarà l'occupazione a dare la cifra dei risultati, bensì l'occupabilità: «Garanzia Giovani può favorire l’occupazione essenzialmente solo nella misura in cui contribuisce a ridurre il cosiddetto mismatch delle competenze» scrivono gli autori, perché «l’occupabilità è il vero obiettivo del programma, il cuore della sfida». In questo senso «i percorsi di istruzione e formazione hanno un peso centrale». Gli stessi che si sta tentando di riformare (con La buona scuola di Renzi), ma con strumenti – è il parere di Tullio De Mauro, linguista intervistato nel libro e presente al dibattito – a loro volta «chilometri lontani dal vero obiettivo», che è rendere competitivi a livello internazionale i ragazzi della scuola superiore, i meno preparati secondo le classifiche europee. La domanda però resta: anche se Garanzia Giovani si ferma nelle sue finalità al miglioramento del mismatch, e crea giovani più orientati ma che poi non debuttano mai sul mercato del lavoro, si può davvero dire in tutta onestà che assolva al suo ruolo di "garanzia"? Ilaria Mariotti 

Sfiducia e sogno del posto fisso nella pubblica amministrazione, una ricerca fotografa il disincanto dei giovani

Hanno una visione «pragmatica» del lavoro, inteso soprattutto nella sua accezione di strumento di guadagno, e credono ben poco alla realizzazione personale e alla possibilità di fare carriera. Non stupisce che i risultati di una recente ricerca dell’agenzia per il lavoro GiGroup arrivino in una fase in cui trovare un lavoro e, soprattutto, trovare un lavoro soddisfacente, sembra sempre più un sogno.Lo studio ha coinvolto più di 2mila giovani di età compresa tra i 25 e i 29 anni, di cui un terzo con un contratto di lavoro a tempo indeterminato, genitori e un gruppo di 30 aziende. Manca invece completamente la fascia 29-35, che sarebbe stata interessante da analizzare perché comprensiva di buona parte dei laureati in cerca di lavoro o alle prime esperienze professionali. Aree di indagine: situazione professionale dei giovani, orientamento e ricerca dell’occupazione, rappresentazione del lavoro con focus sulle professioni manuali e apprendistato. La Repubblica degli Stagisti ha provato a fare il punto sugli aspetti salienti della pubblicazione con l’aiuto di Donato Speroni, giornalista e docente di economia e statistica, e Giacomo D'Arrigo, direttore generale dell'Agenzia nazionale giovani, partendo proprio dal ritratto giovanile che ne risulta. «Credo che l’immagine pragmatica dei giovani emersa dalla ricerca corrisponda a una visione realistica. Molti dei lavori offerti loro sono di scarsa soddisfazione e con poche prospettive di carriera. Non c’è da stupirsi che la maggioranza dei giovani avverta questa situazione, che corrisponde a mio avviso all’evoluzione del mondo del lavoro. Ormai la carriera, tranne che in una minoranza di casi, si costruisce passando da un lavoro all’altro», spiega Speroni. Non condivide invece il ritratto giovanile emerso dalla ricerca D'Arrigo: «I giovani che ho avuto modo di conoscere io cercano di impegnarsi, di trovare strumenti per realizzare idee, sono giovani creativi attivi nel terzo settore». Nonostante ciò dallo studio spicca impietosa un’altra evidenza, ossia la predilezione della maggior parte degli intervistati per un impiego nel settore pubblico, visto addirittura come il «lavoro dei sogni», in grado di offrire la stabilità tanto desiderata. I genitori invece vedrebbero volentieri i figli all’interno di una multinazionale. Insomma il pubblico è amato perché visto tradizionalmente come sinonimo di una sicurezza sempre meno accessibile, come sostiene anche Speroni: «il posto fisso è sempre più il sogno. Chi non lo vorrebbe, in un’epoca di tanta incertezza? Ma è sempre più difficile ottenerlo. Ad esempio anche le assunzioni a tempo indeterminato nelle piccole aziende  non possono più dare la certezza del posto fisso, perché esse stesse non sono eterne».Non a caso l'indagine afferma che né i giovani né i genitori hanno una visione positiva della piccola e media impresa come ambito in grado di garantire un’occupazione stabile. Così come si guarda sempre con una certa diffidenza al lavoro manuale da parte di tutti e tre i soggetti intervistati: figli, genitori e aziende. Giudizio che non trova d’accordo Speroni: a suo avviso sono proprio le occupazioni in cui il contributo dell’uomo è fondamentale a costituire chance importanti di impiego in uno scenario di passaggio verso la crescente automazione. «Nel giro di qualche anno quasi una metà dei posti di lavoro tanto ambiti negli uffici verrà eliminata dall’automazione. Certo, resterà una minoranza che padroneggia tecnologia o finanza, i privilegiati. Ma gli altri? A quel punto è molto più gratificante il tanto disprezzato lavoro manuale, cioè l’artigianato, che può offrire prospettive interessanti laddove l’uomo è insostituibile».Quanto alle modalità di ricerca del lavoro, emerge una nuova e per certi versi quasi incredibile discrepanza tra genitori e figli: se i primi ripongono fiducia in canali come siti web specializzati, i giovani danno ancora grande peso alla rete di conoscenze individuali. «Le difficoltà nel trovare lavoro ci sono e la rete di conosce indubbiamente è preziosa. Sulle raccomandazioni bisogna però distinguere tra quelle indebite, per esempio per vincere un concorso pubblico, e quelle che sono in realtà referenze: preferisco assumere una persona perché probabilmente potrò fidarmi di più. Inoltre, come si dice anche nella ricerca, l’Italia ha una struttura produttiva basata su aziende piccole e piccolissime che è difficile raggiungere con strumenti formali. Mi sembra che i genitori rispondano con una sorta di wishful thinking: il lavoro si dovrebbe cercare mandando in giro cv e consultando siti specializzati. I giovani più realisticamente sanno che i curriculum lasciano il tempo che trovano e i siti specializzati non sempre corrispondono alle promesse: si pensi ad esempio ai ritardi nel programma europeo Garanzia Giovani, nato proprio per mettere in contatto i giovani con il mondo del lavoro attraverso un sito ad hoc», commenta il docente.D'Arrigo aggiunge: «Certamente l'attuale crisi pone oggettive difficoltà nella ricerca del lavoro, che portano i giovani a pensare che la strada più facile sia quella delle conoscenze e relazioni personali. Ma è sbagliato lanciare un messaggio del genere. Ma per lavorare, e magari per fare il lavoro dei loro sogni, devono rimboccarsi le maniche e questi giovani, figli della generazione Erasmus, sanno benissimo come farlo e cosa significhi fare sacrifici per riuscire nella vita. Quindi la ricerca, lo studio, il lavoro a progetti come Erasmus +, sono strumenti che li aiutano nella ricerca del lavoro e questo i giovani lo sanno». Ma in una cornice di forte scetticismo esistono segnali positivi? Speroni vede di buon occhio il tentativo di riordino delle attuali tipologie contrattuali messo in campo dal Jobs Act, considerata un’operazione di «svecchiamento del sistema», che anche secondo D'Arrigo «sta delineando migliori condizioni di lavoro che potranno creare più occasioni per i giovani senza costringerli a dover sognare il posto fisso come unica possibilità».Sia Speroni sia D'Arrigo guardano con favore al contratto di apprendistato, giudicato anche da genitori e figli una buona opportunità di ingresso nel mercato del lavoro: «l’apprendistato è stato ulteriormente modificato con il Decreto lavoro dello scorso anno, che è stato il primo atto del Jobs Act di Renzi e ha creato una certa attesa. Certo, è meglio un apprendistato con stipendio ridotto e obblighi formativi rispetto a uno stage senza stipendio…». È importante però, come sottolinea il direttore dell'Agenzia nazionale giovani, che «l'apprendistato sia legato poi a un percorso che porti all'assunzione del giovane o comunque a una facilità per il giovane apprendista di inserirsi in qualsiasi contesto di lavoro. Una delle questioni che l'apprendistato potrebbe aiutare a risolvere è l'inserimento nel mercato del lavoro prima rispetto a quanto avviene ora, per portarci in linea con il resto dell'Europa».La formazione deve essere infine un importante punto di attenzione in un’ottica di miglioramento del nostro mercato occupazionale: «sono convinto che il più grande obiettivo politico che abbiamo davanti è togliere ai giovani l’angoscia del futuro, con una società inclusiva che ti protegge anche quando perdi il lavoro» chiude Speroni: «Il vero nodo è la garanzia di una remunerazione adeguata nel passaggio da un lavoro all’altro. Ovviamente bisogna evitare che questo possa diventare un incentivo a vivere alle spalle dei contribuenti o a lavorare in nero, come accadeva con certe forme di cassa integrazione. Da qui il problema della formazione per cogliere opportunità di lavoro rese sempre più variabili dalla tecnologia, e del controllo su chi percepisce indennità di disoccupazione; insomma di un “sistema lavoro” che in Italia è ancora da costruire».Chiara Del Priore