Categoria: Approfondimenti

Apprendistato, la via italiana al sistema duale: tutte le novità

Specializzati, competenti, con conoscenze non solo teoriche ma soprattutto pratiche, sviluppate sul campo. In azienda. Lo chiamano sistema duale: la Germania ne ha fatto motivo di vanto di fronte al resto d’Europa dei suoi tecnici e operai, formati attraverso un sistema di apprendistato che miscela l’esperienza concreta - tre o quattro giorni in azienda - alla teoria imparata sui banchi degli istituti professionali per un paio di giorni a settimana.  Il sistema duale ha oltre un secolo di vita eppure è ancora oggi sotto un vortice di critiche, soprattutto di recente. Pare che anche in Germania formare un giovane sia sempre più costoso. E che le imprese disponibili a farlo siano sempre meno (secondo un rapporto del governo tedesco, citato dal Foglio). Ma se la disoccupazione tra i giovani in Italia è esplosa da tempo oltre il 40 per cento, a Berlino e dintorni gli under 25 senza un impiego sono appena il 7%. Anche in Austria e Svizzera - entrambi Paesi grandi circa come la nostra Regione Lombardia, con 8 milioni di abitanti - il sistema duale è ormai parte integrante del sistema scolastico e formativo. A Vienna la lista delle qualifiche possibili è di circa 240. L’apprendistato attraverso il sistema scuola-lavoro coinvolge circa il 40% degli adolescenti, con percorsi di circa 3 anni, un contratto di lavoro che include copertura sanitaria, assicurativa e pensionistica, e l’obbligo da parte delle aziende di garantire degli standard minimi di formazione pratica, affiancata a corsi scolastici professionali (Berufsschule). Le statistiche parlano di 120mila apprendisti formati in 40mila imprese, con un rapporto quindi di tre a uno. Percorso analogo in Svizzera, dove le qualifiche possibili sono oltre 300 e il sistema duale, secondo la Segreteria di Stato per la formazione, la ricerca e l'innovazione, è l’opzione più scelta tra gli oltre 230mila giovani che scelgono una formazione professionale di base dopo la scuola dell’obbligo. Un modello da esportare, insomma, quello duale. Ma che in Italia non ha mai preso veramente piede. Nel nostro Paese rientrerebbe nell’apprendistato «per la qualifica il diploma e la specializzazione professionale», come definito nel Testo Unico per l’Apprendistato (decreto legislativo 167/2011), ovvero quella formula che unisce la formazione in azienda al conseguimento di un titolo formativo. Un’opzione che ha sempre registrato cifre irrisorie. Secondo l’ultimo rapporto Isfol, è al 2,4%, appena sopra i contratti di apprendistato per “l’alta formazione e ricerca”, che coinvolge poche centinaia di giovani in tutta Italia (appena lo 0,8% di tutti gli apprendisti). A farla da padrone, con oltre il 97% dei casi, sono i contratti per “l’apprendistato professionalizzante”. Qualcosa, ora, potrebbe cambiare. «L’apprendistato per la qualifica, il diploma e la specializzazione professionale e quello di alta formazione e ricerca integrano organicamente, in un sistema duale, formazione e lavoro per l’occupazione dei giovani». Queste le intenzioni, contenute nel nuovo Jobs Act. Almeno sulla carta. Nella pratica, nell’ultimo anno sono nati alcuni progetti sperimentali, portati avanti dalle Regioni o da grandi aziende, per tracciare la strada di un’esperienza più concreta. Il Veneto si propone come terreno di sperimentazione con FITT - Forma il tuo futuro. Un progetto europeo, finanziato con quasi 300mila euro nell’ambito del programma Erasmus+, che vedrà impegnati la Regione Veneto insieme all’agenzia Veneto Lavoro, in stretto contatto con il ministero del Lavoro. Tra i partner, l’Istituto tedesco per la formazione professionale (BIBB) e l’Agenzia tedesca per la Cooperazione internazionale GIZ. I primi mesi saranno votati ad approfondire gli aspetti vincenti del sistema tedesco e a selezionare una proposta di alternanza scuola-lavoro da testare in alcune scuole ed enti di formazione, soprattutto nel settore turistico-alberghiero, nei prossimi anni scolastici. Due anni di tempo, per trovare una via italiana al sistema duale tedesco. Una via che coniughi in modo sistematico la formazione in azienda a quella in classe, con il conseguimento di un diploma finale. E  che sia replicabile, poi, anche a livello nazionale. «Dobbiamo chiederci il perché del sostanziale insuccesso dell’apprendistato per la qualifica», riflette Sergio Rosato, direttore generale di Veneto Lavoro. Secondo i dati dell’ente regionale, infatti, sono 19.700 i giovani che frequentano un corso di formazione professionale per la qualifica e oltre 43.700 quelli iscritti agli istituti professionali di Stato. Eppure, secondo l’ultimo rapporto regionale sull’apprendistato, nel 2013 erano poco più di un migliaio quelli coinvolti in percorsi di apprendistato per la qualifica (506) o nell’apprendistato per l’assolvimento del diritto-dovere (590, in via di esaurimento per la progressiva sostituzione della nuova tipologia di apprendistato, ndr). «L’apprendistato per la qualifica attraverso formule di alternanza scuola-lavoro è sfruttato pochissimo. Pesa la concorrenza degli stage e tirocini curriculari, legati ad una vasta offerta formativa», spiega Rosato. Come dire: per i ragazzi stessi, finora, è rimasto una strada molto poco appetibile. «Pesa moltissimo, però, anche la concorrenza dell’apprendistato professionalizzante: si fatica a trovare imprese interessate. Meglio, per loro, assumere un apprendista già diplomato, che passare per la trafila degli accordi formativi da stipulare con le scuole. La crisi, poi, ha inciso non poco: l’apprendistato è visto come un rapporto a medio-lungo termine. Difficile, per un imprenditore che fa fatica, decidere di aggiungere un apprendista ad un organico magari già in sofferenza», precisa Rosato. Non a caso, i dati italiani e veneti registrano una flessione non solo nell’apprendistato per la qualifica, ma anche nella fascia di giovani under 20 assunti con ogni forma di apprendistato. Tra il 2005 e il 2012 si sono dimezzati, passando da oltre il 60% a poco più del 30%. La dinamica si riflette anche a livello nazionale. Secondo l’ultimo rapporto Isfol, presentato proprio oggi, i giovani coinvolti in un percorso di apprendistato per la qualifica sono stati 3.405 nel 2013. E si può dire che sia un "affare" che riguarda quasi solamente il Nordest, che ha registrato in tutto 3115 casi, cioè oltre il 91%. Totalmente assente nel Centro e nel Sud Italia questa tipologia di avviamento al lavoro. Il rapporto Isfol riporta un declino del 3,9% dell’apprendistato in generale, con una media di quasi 425mila apprendisti attivi in Italia nel 2013, rispetto agli oltre 461mila dell’anno precedente (elaborati da Veneto Lavoro su dati Inps). «In Italia dobbiamo lavorare sull’applicazione del sistema duale alle pmi. In Germania il modello funziona in realtà imprenditoriali di dimensioni consistenti», precisa Rosato. «Non a caso uno dei pochi progetti sperimentali già attivi in Italia è stato lanciato da una realtà come la Ducati». Il colosso motoristico di Borgo Panigale, infatti, ha avviato con questo anno scolastico il progetto Desi, in accordo con la Regione Emilia-Romagna: cinque mesi nei centri training di Ducati e Lamborghini, ad assorbire i segreti della meccanica di livello, seguiti da tre mesi sui banchi degli istituti professionali Aldini Valeriani e Belluzzi Fioravanti di Bologna, ad affinare le competenze teoriche, per poi tornare in officina. In totale, un percorso di due anni, coperti da una borsa di studio di 600 euro mensili netti, che coinvolge 48 giovani inoccupati, ma già in possesso di almeno una qualifica triennale. Non è un contratto di apprendistato vero e proprio e nemmeno uno stage. Tecnicamente lo definiscono un percorso di istruzione di secondo livello per adulti.  Gli studenti alternano periodi di apprendimento scolastico a periodi di training on the job, non in linea produttiva, ma in attività di laboratorio o su prototipi, presso i training center di Ducati Motor Holding e Automobili Lamborghini, con una copertura Inail garantita dall’assicurazione scolastica. Di sicuro, una delle esperienze che più si avvicina, nel concreto, al sistema duale tedesco. Sulla stessa lunghezza d’onda, il programma sperimentale messo a punto da un altro gigante dell’industria italiana, Enel, con i ministeri dell’Istruzione e del Lavoro, insieme a sette Regioni (Campania, Emilia-Romagna, Lazio, Piemonte, Puglia, Toscana e Veneto) e alle organizzazioni sindacali: 145 studenti al quarto e quinto anno di sette istituti, questa volta tecnici e non professionali, coinvolti in un progetto di alternanza scuola-lavoro potenziato. A differenza della modalità "normale", che prevede l'inquadramento in stage, i ragazzi qui sono assunti con un contratto di apprendistato di alta formazione e ricerca. Da quest’anno, passeranno nelle sedi del gruppo Enel almeno un giorno a settimana e continueranno il lavoro nel periodo estivo. Ad accompagnarli, un tutor scolastico ed uno aziendale, con i contenuti formativi decisi a quattro mani tra insegnanti e formatori Enel. Dopo il diploma, la possibilità di continuare l’apprendistato per un altro anno. «L’apprendistato scuola-azienda è una novità assoluta per il sistema italiano in cui crediamo molto e che sarà valorizzata anche nell’ambito dell’Esame di Stato», aveva detto il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini commentando l’iniziativa. Alle potenzialità del sistema duale crede anche la Regione Lombardia, al lavoro su un disegno di legge, ora in discussione al Consiglio regionale, per rafforzare i percorsi di formazione professionale basati sull’alternanza tra aula e impresa, anche grazie all’annuncio di un bonus occupazionale dal governo pari a 2500 euro per le aziende che prenderanno studenti con il sistema dell’apprendistato. Tutti segni di un cambiamento che sta prendendo piede. Nella classificazione normativa precedente, l’apprendistato per la qualifica era definito «apprendistato per l’espletamento del diritto-dovere di istruzione e formazione». Uno strumento destinato a chi sui banchi proprio non ci voleva stare. Potrebbe trasformarsi in strumento per sviluppare e tramandare un know-how ad alta specializzazione, capace di rappresentare il valore aggiunto di un Paese competitivo sul mercato globale. Germania, Austria e Svizzera docent. Maura Bertanzon@maura07  Crediti: Copertina: Ambra Galassi (Flickr)In altro a destra: Ottawa Technical School - Biblio Archives (Flickr)In centro a sinistra: Olle Svensson (Flickr)In basso a destra: Nicoletta Antonini (Flickr)

Fotocopie gratis grazie alla pubblicità, il successo di una startup per studenti

Restare si può. Anche in Italia, dove il tasso di disoccupazione sfiora il 13%, quasi raddoppiato sul 2008; anche se per i giovani under 25 la situazione continua a peggiorare, con numeri in salita a quota 42%. C'è però chi non si lascia scoraggiare e decide che varcare i confini del proprio paese non è la soluzione. Come i ragazzi di Fotocopiagratis, una startup partita dal nulla, o quasi. E questo perché Andrea Geremicca, di Crotone, classe 1983 e medico mancato, e Giampiero De Paolis, 34enne commercialista di Anagni - founder del marchio - agli inizi della loro avventura hanno pensato di appoggiarsi alle strumentazioni di altri, in questo caso quelle delle tipografie.Tutto nasce da un semplice calcolo: gli studenti – che ancora fotocopiano, nonostante la rivoluzione digitale – spendono annualmente cifre sostanziose per stampare. «Circa 250 euro» spiega Geremicca, intervistato dalla Repubblica degli Stagisti. Da lì l'idea di stipulare convenzioni con le tipografie, con questa proposta: gli studenti possono fotocopiare gratis, a patto di vedersi impresse sul retro dei fogli le pubblicità delle aziende che aderiscono al circuito. «Lo studente si registra sul sito, ritira la sua tessera e può fotocopiare ovunque nei nostri corner» fa sapere. Può decidere di ritirare quando e dove vuole i propri materiali. Il tutto grazie a un algoritmo che, partendo dal pdf che lo studente ha caricato, sceglie la pubblicità perfetta per un determinato brand rispetto a quel cliente. Il vantaggio è che il marchio riesce a raggiungere un target specifico, e non una persona qualsiasi, mentre lo studente risparmia tempo - evitando le file - e soprattutto denaro. Il tutto con l’automatismo di iCloud, dove ognuno di loro può conservare i propri file. Come può venire in mente un’idea simile? «Io sono laureato in medicina. Ero emigrato a New York alla fine del 2012» racconta Geremicca. «Sentivo l’esigenza di assecondare il mio sogno di sempre, che era fare l’imprenditore, o meglio l’innovatore». Con De Paolis c’era una conoscenza tramite amicizie comuni. A legarli è stato il progetto di impresa: «Avevamo le stesse voglie e paure. Io seguivo corsi per startup, e con lui ho cominciato a consultarmi su questo nuovo modo di fare pubblicità che vedevo negli Stati Uniti, per cui si pubblicizzava non direttamente il prodotto, ma qualcosa che con quello creasse un forte legame». L’investimento iniziale è stato minimo, e tutto grazie ai risparmi messi da parte. «Entrambi lavoravamo, così siamo riusciti a sborsare 25mila euro in due» ricorda Geremicca, che ai tempi lavorava part time in una società di innovazione come project manager. Il resto lo avrebbero fatto le tipografie, il cui ritorno economico sarebbe arrivato dall’indotto: la condizione è infatti che siano gratuite le prime 25 pagine di fotocopie, anche «per evitare problemi di diritto d’autore» chiarisce. «Prendere delle macchine in comodato d’uso e allestire noi stessi dei corner avrebbe comportato troppi costi». All’inizio è una scommessa, e i due decidono di darsi quattro mesi di tempo. Siamo nel 2014, Geremicca e De Paolis iniziano con alcune giornate di prova. In un paio di giorni gli studenti che sperimentano il servizio sono 900: «Era un’idea carina, che piaceva». Dopo qualche porta sbattuta in faccia, il coinvolgimento dei primi partner commerciali forti, come Euronics e Banca di credito cooperativo. «E il Campus biomedico, il primo a credere in noi, nonostante fossimo solo due belle facce con un’idea e nessun passato alle spalle».Nasce la società, una srl semplificata, e nel frattempo arrivano proposte per entrare a farne parte. Così si aggiungono due nuovi soci, con quote minori. Il sito sbarca online l’11 ottobre 2014. E le cose cominciano a filare da subito, tanto che il breakeaven si supera dopo appena quattro mesi. In questo primo anno, tutte le entrate «sono state reinvestite», e il team è cresciuto: «Abbiamo con noi dieci persone, assunte con contratti di stage o a progetto, che con il Jobs Act diventeranno indeterminati». Dipendenti che guadagnano tra i 600 e i 1400 euro al mese, in un ufficio a piazza del Popolo con un canone di 2200 euro. Mentre per i due founder nessuno stipendio per ora: Geremicca si occupa full time nel progetto e continua a mantenersi con i miei risparmi, il socio De Paolis prosegue il suo lavoro di commercialista. Ma chissà ancora per quanto, visto che si intuisce che un fatturato cia sia, e ben consistente, nonostante Geremicca non si sbilanci: «Per ora non lo comunichiamo, anche perché siamo in trattative per lanciare il secondo step imprenditoriale, che prevede l'incasso di un primo fondo di investimento. Possiamo solo dire che supera i 300mila euro». Non hanno mai partecipato a bandi, né vinto premi («Non ne abbiamo avuto il tempo né ci crediamo più di tanto»). Eppure il business può considerarsi decollato, tanto che da giugno 2014 gli utenti registrati ammontano a 10mila, e il risparmio di chi partecipa - è stato calcolato - è di 1,5 milioni di euro. Le sedi, dapprima solo a Roma e Napoli, sono già anche a Firenze e Milano. Ma apriranno anche a Bologna, Cagliari, Genova. A cui va sommata una concessionaria pubblicitaria - la Media Place - che gestisce in esclusiva i loro spazi a livello nazionale e rappresenta l’interfaccia commerciale. È la storia di chi - con pochi soldi ma una buona idea - riesce a ritagliarsi uno spazio nel mercato. Ilaria Mariotti 

Merito, valutazione e stipendi degli insegnanti: una questione non solo italiana, ma europea

Dopo aver ascoltato le ragioni di sostenitori e contestatori del ddl "La Buona Scuola", la Repubblica degli Stagisti dedica un altro approfondimento alla carriera degli insegnanti. Questa volta la prospettiva è internazionale: a partire dai dati contenuti in due rapporti curati da Eurydice, network della Commissione Europea che si occupa di monitorare i sistemi educativi del Vecchio Continente, la Repubblica degli Stagisti ha chiesto a tre esperti del settore - Marco Paolo Nigi, segretario generale del sindacato Snals (Sindacato Nazionale Autonomo Lavoratori Scuola) nonché docente di matematica; Tommaso Agasisti, professore associato specializzato in management dei sistemi educativi e co-direttore presso la scuola di Management del Politecnico di Milano; e Anna Grazia Stammati del comitato esecutivo dei Cobas Scuola - di commentare la situazione degli insegnanti italiani, soprattutto dal punto di vista contrattuale e retributivo.Gender gap. Il corpo docente europeo si caratterizza prima di tutto per lo squilibrio di genere: è evidente a tutti che a svolgere questa professione sono principalmente donne. Nell’edizione 2013 del rapporto Eurydice Cifre chiave sugli insegnanti e i capi di istituto in Europa si legge però che «più è alto il livello educativo, meno donne ci sono a insegnare».  «Certo, bisognerebbe avere i dati scomposti» precisa Anna Grazia Stammati [nella foto a destra] «ma nelle scuole tecniche gli uomini aumentano perchè si tratta di professionisti, per esempio geometri e ingegneri, che lavorano anche a scuola. Inoltre l'appeal della professione diminuisce di anno in anno ed è noto che le donne svolgono, specialmente in italia, i lavori peggio retribuiti».Age Gap. L’altro problema è l’età. Se in tutto il continente soltanto il 33 % dei docenti ha meno di 40 anni, l'Italia però detiene saldamente la maglia nera con gli insegnanti mediamente più anziani d’Europa. Inoltre - un po' a sorpresa -  in Italia, così come in Spagna, c’è un’alta percentuale di mobilità del corpo docente, che invece nel resto d’Europa lavora in media da dieci anni nella stessa scuola. «Col discorso degli albi territoriali, raggruppati a livello provinciale, che sostituiranno le graduatorie d'istituto» aggiunge la sindacalista Cobas «la mobilità diventerà regola, causando ulteriori disagi a un personale mediamente avanti con l'età». Ma perchè i nostri docenti sono così avanti negli anni?  «L'età pensionabile per la nostra categoria attualmente è fissata a 70 anni» risponde Marco Paolo Nigi: «Ci sarebbe bisogno di maggiore ricambio e di stabilizzare anche i più giovani, che spesso, anche se affollano le nostra scuole, non figurano in queste indagini perchè hanno contratti di pochi mesi o incarichi annuali. Ma le sembrano trascurabili migliaia di persone?»Contratti. Nella maggior parte dei paesi europei gli insegnanti hanno un contratto da dipendenti. Solo in pochi stati sono equiparati a lavoratori del pubblico impiego. La maggioranza, anche in Italia (80%) sono assunti a tempo indeterminato. L’orario di lavoro specificato sul contratto varia notevolmente: anche se la media Ue si attesta su 20 ore settimanali, si va da un minimo di 14 ore in Croazia, Polonia, Finlandia e  Turchia, fino ad un massimo di 28 ore in Germania. In media, le ore d’insegnamento costituiscono solo il 44% del tempo di lavoro totale di un insegnante. Ma per esempio in Grecia diventano il 77% e il 64% nel Regno Unito. Solo in Belgio ed Italia il contratto regola il tempo d’insegnamento - 18 settimanali - ma non le ore spese in altre attività legate alla professione. È però previsto che ogni insegnante italiano dedichi 180 ore l'anno, circa 4 alla settimana, a mansioni da svolgere all'interno dell'istituto (consigli di classe, supplenze in altre classi ecc..).Retribuzioni. Gli stipendi degli insegnanti rappresentano un problema europeo, non solo italiano. Nell’edizione 2014 di Teachers’ and School Heads’ Salaries and Allowances in Europe, curato annualmente da Eurydice, si legge: «Confrontando gli stipendi nel 2009 con quelli del 2014, i salari minimi legali degli insegnanti sono stati direttamente colpiti dalla crisi economica nella maggior parte dei paesi». Infatti circa la metà dei paesi europei ha applicato tagli salariali o blocchi di stipendio per i dipendenti pubblici che di conseguenza hanno registrato una diminuzione del potere d'acquisto, in Italia stimabile tra il 5 e il 10%. Per l’anno 2013/2014 invece gli stipendi sono stati congelati: ma bloccare le retribuzioni è negativo per le prospettive future della categoria: «Non vorrei parlare della perdita del prestigio sociale, ma preferisco metterla sul piano economico» spiega Tommaso Agasisti: «Mantenendo i salari bassi la professione diviene meno attraente per i più capaci, scoraggiati da prospettive materiali non proprio allettanti». Stando ai dati aggiornati al 2014, lo stipendio medio di un’insegnante italiana della primaria si attesta su poco meno di 23mila euro lordi annui a inizio carriera, mentre a fine mandato diventano quasi 34mila. In Belgio lo stesso insegnante parte con 30mila euro e termina a 52mila annui. In Portogallo s’inizia con 21.458 euro ma si finisce con oltre 41mila. Inoltre, stando ai calcoli fatti dalla Uil Scuola, la media Ue si attesta sui 26mila euro alla partenza, mentre alla fine del percorso di docenza diventano oltre 43mila euro. «L'Italia viene dopo la maggior parte dei europei: solo Grecia e Turchia fanno peggio di noi» commenta mestamente la Stammati: «Con chi vogliamo fare i confronti su questa materia?»Aumenti. Scorrendo il rapporto Cifre chiave sugli insegnanti e i capi di istituto in Europa si scopre che «nella maggioranza dei paesi, gli stipendi di base minimi lordi degli insegnanti dell’istruzione primaria e secondaria inferiore sono più bassi del PIL pro capite del rispettivo paese». In Italia gli stipendi minimi sono di poco inferiori al Pil procapite, mentre i massimi lo superano a qualsiasi grado d’istruzione. Il nostro è uno dei paesi con maggiori differenze (più del 50%) tra il salario all’inizio e alla fine della carriera: il che non sorprende, dato che l'intero sistema retributivo italiano è rimasto saldamente ancorato, quantomeno finora, all'anzianità.«Non c'è molto da aggiungere a questi dati: i nostri stipendi sono bloccati da anni» denuncia Nigi [nella foto a sinistra]: «Il nostro sindacato, lo Snals-Confsal, si è mobilitato per l'indicizzazione dei salari e anche la Corte Costituzionale si è pronunciata sul tema. Inoltre bisogna tenere in  conto che queste stime riportano il salario lordo. A causa dell' alto livello di tassazione il nostro stipendio effettivo risulta ancora più basso. La "Buona scuola" ha completamente ignorato il tema delle nostre retribuzioni, quelle dei dirigenti scolastici invece sono aumentate». Prospettive di carriera. Secondo i dati Eurydice il training formativo per diventare insegnante in Italia è fra i più lunghi: dopo la scuola secondaria, ci vogliono circa sei anni di formazione specifica e un titolo equiparabile a un master. «E dopo la formazione specifica, occorre abilitarsi e vincere un concorso» aggiunge ancora Nigi: «Non sono sufficienti tutti questi passaggi a dimostrare il valore di un'insegnante? La graduatoria su cui finora ci si è basati finora è la sommatoria di tutta la carriera del docente e dei suoi successi, ma oggi si crede di fare bene sostituendo i numeri con i nomi».E poi ne vale la pena? Nel rapporto Cifre chiave sugli insegnanti e i capi di istituto in Europa i ricercatori di Eurydice smorzano gli entusiasmi, almeno a livello salariale: «In Europa, lo stipendio lordo massimo per gli insegnanti con più anzianità è generalmente il doppio rispetto allo stipendio minimo dei nuovi insegnanti. Considerando tuttavia che agli insegnanti possono occorrere fino a 30 anni per arrivare a guadagnare lo stipendio massimo (in Italia 35), i giovani potrebbero essere scoraggiati a intraprendere la professione»
. In Francia e in altri paesi, dice la Stammati, è possibile raggiungere il massimo dello stipendio già a metà carriera: «Sarebbero utili più soldi quando si ha famiglia e si affrontano spese consistenti, non alle soglie della pensione, quando i bisogni personali diminuiscono». Dimostrando almeno su questo punto una inaspettata sintonia con il ministro del lavoro Poletti, che qualche tempo fa aveva dichiarato «Dobbiamo anche cambiare la dinamica salariale: oggi si guadagna di più a fine carriera, bisognerebbe invece avere il massimo del guadagno quando si inizia, e si ha bisogno di più soldi per andare a vivere per conto proprio, maritarsi, metter su famiglia» (leggi tutto l'articolo).Merito. Per guadagnare di più non resta che appellarsi agli incentivi, già esistenti in tutta Europa e in qualche forma anche in Italia. In Teachers’ and School Heads’ Salaries and Allowances in Europe viene sottolineato che «le indennità che vanno ad aggiungersi allo stipendio di base possono aumentare considerevolmente lo stipendio di un insegnante. Le più comuni vengono attribuite per responsabilità aggiuntive o per ore di lavoro straordinario». Solo la metà dei Paesi assegna indennità agli insegnanti sulla base di un rendimento positivo nell’insegnamento o sulla base dei risultati degli studenti. E il ddl “La buona Scuola” vuole intraprendere quest’ultima strada: sono stati previsti 200 milioni per il merito del singolo docente che verranno distribuiti dal dirigente. Ma «cosa s'intende con merito?» si chiede la sindacalista del Cobas: «La scuola è un ambiente particolare e l'insegnamento è difficile da valutare: bisogna sapere ma anche saper trasmettere. E il dirigente scolastico quali parametri potrà utilizzare per dare un giudizio anche sui contenuti della didattica?». Agasisti invece si schiera a favore di questa novità: «Io credo che sia un passo necessario, anche se le proteste degli insegnanti dimostrano che non c’è ancora la volontà di farlo. E, prima di concentrarsi sul ddl proposto dal governo, dico che finché la contrattazione sarà condotta a livello nazionale sarà impossibile riformare davvero il sistema degli stipendi e legarli alla valutazione, cosa che per esempio avviene in Gran Bretagna, perché c’è autonomia nella contrattazione».Valutazione. Finora in Italia la valutazione individuale degli insegnanti si svolge soltanto al termine del periodo di prova. La contestatissima novità contenuta nel ddl proposto dal governo Renzi è l’istituzione del Comitato per la valutazione: ne faranno parte, oltre al preside, quattro docenti - tre scelti dal consiglio dei docenti e uno dal consiglio d'istituto - due genitori e uno studente. Ma come funziona la valutazione degli insegnanti nel resto d’Europa? La pubblicazione The Teaching Profession in Europe Practices, Perceptions, and Policies evidenzia che qualche forma di valutazione strutturata dei singoli insegnanti è presente in tutti Paesi europei, ad eccezione di Italia, Finlandia, Regno Unito (Scozia) e Norvegia. Nella maggior parte dei paesi, al capo d’istituto spetta la responsabilità della valutazione degli insegnanti e, in oltre la metà dei paesi europei esaminati, la svolge regolarmente. L’autovalutazione funziona solo in 7 paesi, mentre una minoranza si avvale di figure esterne, chiamate in causa in momenti cruciali della carriera. «Il dibattito sulla valutazione dei docenti è continuo in molti paesi del mondo» aggiunge Agasisti: «Negli Usa per esempio nel 2013 furono aspri i contrasti fra insegnanti e governatori degli Stati perché si voleva aumentare l’importanza della valutazione degli studenti che già concorre nel giudizio sui professori. La differenza sostanziale è che in Italia si discute ancora sull’introduzione o meno dei criteri di valutazione e le resistenze sono moltissime. Ma ricordo agli insegnanti italiani che non valutare penalizza i migliori». Sindacato. Sul tema della valutazione la Snals è pronta al dialogo, ma a certe condizioni. «E' facile valutare la produttività dell'insegnante: si può partire dalle assenze, dai ritardi, da chi storce il naso di fronte alle novità o a un lavoro in più»poi Nigi prosegue: «Ma certo il giudizio su un insegnante, che pesa sul salario, non si può affidare a un dirigente scolastico: nei grandi plessi con migliaia di studenti il capo d'istituto incontra ogni docente due volte l'anno e non ricorda nemmeno che materia insegna. Ancora più assurdo è che nel comitato di valutazione vi siano studenti e genitori: la dialettica nella scuola esiste da sempre, ma lei crede che un alunno nel corso dell'anno sia in grado di esprimere un giudizio valido sul suo professore, che per esempio insegna una materia che gli risulta difficile?». Più tranchant il giudizio dei Cobas: «La riforma aumenterà la flessibiltà e la dequalificazione del corpo docente, il dirigente potrà giudicare anche nel merito dell'insegnamento e psi erriverà a unagerarchizzazione del corpo docente» chiude Anna Grazia Stammati: «Ora i sindacati sono tutti d'accordo, ma il progetto di autonomia della scuola, condiviso allora anche dai confederati, è stato concepito negli anni Novanta e il governo Renzi lo sta attuando. Il punto è che la decantata autonomia degli istituti porterà a negare l'autonomia dei docenti e il diritto allo studio».Ma il governo è invece più che convinto della strada intrapresa: «La scuola che vogliamo dà fiducia agli studenti, sempre più al centro della vita scolastica nella scelta del loro curriculum, nelle decisioni che riguardano i loro istituti e nell’orientamento al mondo del lavoro» scriveva solo qualche giorno fa il sottosegretario all'Istruzione Davide Faraone sulla sua pagina Facebook, spiegando che i dirigenti scolastici saranno chiamati «a essere responsabili dei propri istituti in sinergia con la comunità scolastica e con il territorio e valutati, dopo tante intenzioni rimaste su carta, da un nucleo di valutazione e da ispettori esterni. Una scuola in cui tutti sono responsabili ciascuno per la propria parte. Ma che soprattutto risponde al suo mandato principale: formare cittadini consapevoli e pronti al domani».Silvia Colangeli  

Il terremoto, il rientro, la raccolta fondi: giovani italiani volontari in Nepal, a due mesi dallo shock

La capacità di governare gli imprevisti è una delle qualità che si apprendono durante il Servizio volontario europeo. Ma ciò che ha vissuto a Kathmandu Carlo Murenu insieme al suo compagno di avventura Marcello Fadda era impossibile da governare: il 25 aprile un terremoto di magnitudo 7.8 ha sconquassato il Nepal e causato migliaia di vittime. Carlo quel giorno era in casa con Marcello. I due volontari erano partiti da Cagliari alla fine dello scorso ottobre, tramite l’associazione di invio TDM 2000, per il progetto «Mapping solidarity». La loro abitazione ha resistito al sisma e i due si sono salvati. Dopo una decina di giorni dal terremoto sono rientrati in Italia, hanno raccolto fondi e poco tempo fa sono tornati in Nepal. Prima del volo per Kathmandu, Carlo ha accettato di condividere con la Repubblica degli Stagisti il racconto di ciò che è accaduto; e quel che hanno vissuto i due volontari sardi è anche utile per comprendere cosa accade a un progetto di Servizio volontario europeo - a livello operativo e burocratico - in caso di calamità naturale.Carlo Murenu ha 29 anni ed è un fotografo. Pochi mesi prima di andare in Nepal aveva svolto un Sve di breve periodo in Turchia, vicino Mersin. «Sono stato lì tra febbraio e marzo del 2014, inviato dall’associazione Scambieuropei. Ho lavorato in un progetto di salvaguardia dell’ambiente: ci prendevamo cura delle spiagge dove vive una specie protetta di tartarughe»: grazie a quell’esperienza Carlo ha scoperto il valore dello Sve. Essendo un progetto di short term, aveva la possibilità di candidarsi per un altro Sve di lungo periodo, e così ha fatto. «Tornato dalla Turchia ero triste, perché a Cagliari non trovavo lavoro. Perciò, quando ho visto alcuni progetti della TDM 2000, mi sono candidato».A fine ottobre Carlo è partito per Kathmandu, dove fa base l’associazione VCD Nepal, la hosting organization che lavora anche nei dintorni della capitale. «Prima del terremoto il nostro progetto prevedeva diverse attività, come insegnare inglese a bambini e ragazzi nelle scuole e giocare con loro, sia a Kathmandu sia nei villaggi», spiega, «e fuori città abbiamo portato avanti un progetto di educazione ambientale, con laboratori nelle scuole e la fornitura di cestini per raccogliere l’immondizia nelle strade». Carlo ha così viaggiato per il Paese, ospite a casa degli abitanti locali per pochi giorni oppure per settimane. Ma ci sono stati anche i viaggi di svago. «I soldi per vivere qui sono sufficienti, ricevo circa 75 euro per il vitto e 95 euro di pocket money. Così ho potuto visitare il Nepal» racconta Carlo «e questo a livello personale mi è stato molto utile, perché ha sbloccato il mio timore di viaggiare da solo. Ho girato parecchi paesini della valle di Kathmandu, conosciuto abitanti con cui parlare in inglese e prendere il thè a casa loro».Carlo stava insomma vivendo il suo Sve alla grande. Finché, a sette mesi dall’arrivo in Nepal, il terremoto ha cambiato tutto. «Era sabato mattina. Io ero in salotto a controllare la mail, Marcello nella camera che dividiamo. La scossa sarà durata venti secondi al massimo. Abbiamo guardato fuori dal terrazzo», prosegue, «e visto polveroni enormi poco lontano, più alti delle case. Ci siamo così accorti che la situazione era gravissima. La nostra casa non ha subito danni e siamo usciti senza problemi, per poi rifugiarci in un campo di fronte, unico spazio aperto. Avevamo il fiato tagliato. Il cellulare non funzionava. Sarebbe poi stata una nostra vicina a dirci che era riuscita a mettersi in contatto con il responsabile locale della nostra associazione, che si trovava fuori città. Abbiamo potuto incontrarlo solo due giorni dopo». Anche TDM 2000 era riuscita a contattare l’associazione partner locale, per poi rassicurare le famiglie dei volontari.A casa, Carlo e Marcello avevano abbastanza scorte di cibo e acqua potabile per affrontare i primi giorni. Alla popolazione bisognosa sono stati di aiuto i ristoranti e i negozi, che hanno messo a disposizione la propria merce. «Ho visto molte persone in giro soprattutto per cercare acqua. C’erano i camion a distribuirla. E ho visto molte persone scavare e tirare fuori dalle macerie i feriti, ho visto tendopoli senza bagni. A livello emotivo la situazione era molto stressante», racconta Carlo, «la notte non si dormiva perché c’erano continuamente le scosse di assestamento. Alcune nottate le abbiamo passate fuori nel campo, in sacco a pelo».Con l’associazione locale, Carlo ha prestato i soccorsi nei primi giorni post-terremoto. «Abbiamo portato medicine e cibo in un villaggio, donato il sangue in ospedale, trasportato feriti», spiega. I due volontari sardi dopo una settimana sono rientrati in Italia. «All’inizio volevamo rimanere, ma poi la situazione era insostenibile e abbiamo pensato di aiutare il Nepal da casa, con una raccolta fondi». Carlo ha così organizzato con TDM 2000 una mostra fotografica a Cagliari, con 20 suoi scatti in vendita più diverse stampe e cartoline. L’iniziativa ha raccolto circa mille euro: questi soldi, in base alle indicazioni del volontario cagliaritano, saranno utilizzati in Nepal.Oggi Carlo è a Kathmandu e nei villaggi della valle per le ultime settimane di Sve. A fine luglio, come previsto dal progetto, rientrerà a casa, e il suo Sve non è più quello di prima. «Quel che facevamo ormai non ha più senso. Adesso bisogna aiutare nella ricostruzione, la popolazione deve prepararsi all’arrivo dei monsoni», spiega. Cosa farà una volta tornato in Italia? «Siccome vorrei continuare a lavorare nella fotografia, dopo alcune collaborazioni che ho avuto in passato, mi piacerebbe approfittare dell’Erasmus per giovani imprenditori e trovare un progetto in ambito fotografico», risponde. «D’altronde durante questo Sve ho scattato moltissimo, dal punto di vista professionale è un’esperienza che mi ha insegnato ad adattarmi, ad avere pazienza e a controllare le emozioni. Sono qualità indispensabili per un buon fotografo».Ad approfondire con la Repubblica degli Stagisti cosa succede a un progetto Sve dopo tragedie come quella nepalese è Luisa Zedda, responsabile del Servizio volontario europeo di TDM 2000. «Non ci sono regole standard per il rimpatrio. In questo caso noi abbiamo seguito le indicazioni delle autorità locali e della Farnesina, e chiesto ai ragazzi e all’associazione di accoglienza che cosa volessero fare. I voli del rientro erano impossibili nei primi giorni, comunque i volontari all’inizio hanno deciso di restare», spiega Zedda. Poi però c’erano i rischi di epidemia e della conseguente chiusura delle frontiere. «I ragazzi  sono rientrati in Italia con un volo della Farnesina per Milano. Abbiamo poi pagato noi l’aereo per Cagliari e anche quello di ritorno in Nepal», prosegue la responsabile, «perché la convenzione assicurativa con MSH International [la società che tramite il gruppo Axa copre eventuali spese sanitarie dei volontari Sve, ndr] non prevede il rimborso di un viaggio di rientro, a meno che i volontari non siano feriti o in condizioni di salute precaria».Per regolamento, inoltre, non è previsto posticipare il termine di un progetto Sve, anche se interrotto per una calamità come in Nepal. «In ogni caso i biglietti erano già prenotati da tempo, e sarebbe costato troppo prenderne altri per un solo mese in più. A mio parere andrebbe piuttosto rivista la convenzione assicurativa, perché in casi come questi, in cui voli e comunicazioni sono interrotti, e le ambasciate non ci sono [quella italiana più vicina al Nepal è in India, ndr], il supporto di una società come l’Axa, che è radicata in tutto il mondo, sarebbe di notevole aiuto», sostiene Zedda. «Noi per fortuna, avendo esperienza, ce la siamo cavata da soli, ma abbiamo avuto richieste di aiuto da altre organizzazioni non italiane che avevano volontari in Nepal. Bisogna comunque aggiungere che con il nuovo Erasmus+, i progetti Sve fuori dall’Ue sono ormai pochissimi».Daniele Ferro@danieleferroTutte le foto che corredano questo articolo sono state scattate da Carlo Murenu

Tribook, la startup che aiuta le librerie indipendenti

Costruire grazie al connubio tra rete internet e iniziative offline una «tribù» intorno alle librerie di quartiere: nasce da questa idea Tribook, la start up milanese di Michela Gualtieri e Brian Suarez, 30 e 28 anni, che la Repubblica degli Stagisti ha avuto modo di incontrare durante l’ultimo Salone del libro, a Torino, nell’area dedicata alle start up, Book to the future.  Una start up che crea iniziative social e che sensibilizza verso la scelta dei servizi offerti dalle librerie indipendenti, ma che non dimentica di creare anche una serie di iniziative per riportare – fisicamente – i clienti in libreria. «Tribook è un progetto a cui stiamo lavorando da un anno: è stato sviluppato nell’ambito del percorso Dr. Startupper, promosso dall’università Cattolica e dalla Camera di commercio di Milano tra il novembre 2013 e il marzo 2014, risultando tra i tre progetti premiati come i più promettenti dalla giuria finale. All’epoca stavo sviluppando da sola l’idea», spiega Michela Gualtieri alla Repubblica degli Stagisti, «e mi ero rivolta a Brian, che conoscevo già, per avere una consulenza tecnica. A lui il progetto è piaciuto e abbiamo cominciato a lavorarci insieme. Poi nel settembre 2014 è stata costituita la società e ora stiamo mettendo online la versione beta». E recentemente ai due co-founder si è aggiunta la collaborazione di Samuele Macchi, anche lui sviluppatore. «È una piattaforma per le librerie indipendenti di Milano, ma stiamo studiando un modello che sarà poi esportabile anche in altri contesti urbani. Al momento ne fanno parte sette librerie che pagano a Tribook una percentuale sulle vendite effettuate tramite la piattaforma». Materialmente il lettore che si registra sul portale può consultare il catalogo online di tutte le librerie aderenti al circuito, «localizzare sulla mappa quella più vicina che dispone del libro di suo interesse, acquistarlo online» e poi ritirarlo direttamente in libreria o se preferisce, «farselo recapitare da un corriere in bicicletta, della società Milan Bike. Quindi è una soluzione rapida, ecologica, a sostegno delle realtà locali che un po’ ridisegna il modello dell’ecommerce del libro», spiega entusiasta Michela Gualtieri, che è arrivata a sviluppare una startup in questo settore innanzitutto perché è un’appassionata lettrice. In secondo luogo, aveva competenze in ambito editoriale dopo aver frequentato un master in editoria all’università Cattolica. E infine perché sentiva in prima persona il bisogno di trovare facilmente sul territorio i libri che cercava e grazie al master per startupper ha acquisito una serie di competenze manageriali e di business che sono stati necessari proprio per creare Tribook. Tribook vorrebbe anche riportare in auge le librerie indipendenti: «Sono realtà spesso storiche con decenni di esperienza alle spalle, con un’attenta costruzione del catalogo, che decidono di coltivare determinate nicchie e restano un po’ indietro rispetto ai nuovi bisogni dei lettori che vengono invece soddisfatti dai grandi megastore o dalle librerie online», spiega la startupper. Che sottolinea come, però, ci sia negli ultimi tempi una tendenza a rivalutare proprio queste realtà locali. Un esempio viene dal Regno Unito, dove le grandi catene stanno affidando «la gestione di singoli punti vendita a dei librai che hanno un’esperienza di libreria indipendente e stanno diventando sempre più caratterizzate rispetto al territorio, perché è questo che vuole il lettore oggi». A Salone del libro concluso, l’obiettivo di Tribook è quello di crescere sia a livello di circuito di librerie che di utenti, magari trovando tra i tanti contatti avviati in quell’occasione anche nuovi finanziatori. Perché pur essendo una srl semplificata e usufruendo di un regime agevolato rispetto alle società più grandi «sosteniamo comunque delle spese che secondo me sono un po’ sproporzionate rispetto a quello che è effettivamente l’impegno necessario a gestire le nostre finanze. Se dovessimo chiedere qualcosa al governo, sarebbe allora cercare di ridurre ulteriormente queste spese di amministrazione per società a capitali ridotti come la nostra», dice la Gualtieri: «Le tasse che una srls deve pagare sono le stesse di una srl normale e questo mi sembra un paradosso» spiega la startupper, «considerando che il capitale sociale necessario a costituirla va da 1 a 9.999 euro. L'unica agevolazione è data dall'abbattimento dei costi di apertura della società: non è poco, ma poi se deve pagare tutte quelle tasse è difficile sopravvivere».Certo, c'è anche l'alternativa di iscriversi al registro delle startup innovative, che hanno altre agevolazioni ma anche molti vincoli forti come quello di non dividere gli utili per quattro anni. Una soluzione che la startupper definisce praticabile «solo per quanti hanno trovato finanziatori e i cui fondatori possono ritagliarsi uno stipendio».Adesso la priorità per Tribook è tutta per la versione beta, operativa da pochi giorni, che consente di avere informazioni che aiutano a migliorare il servizio. E si porta a casa un altro traguardo importante: la selezione per la seconda fase del progetto Innovazione culturale della Fondazione Cariplo che sostiene «quelle pratiche utili e replicabili in grado di generare un impatto significativo nei modi di vivere e condividere cultura e valorizzare il patrimonio storico artistico del nostro Paese».  Nei prossimi tre mesi «saremo impegnati in un laboratorio residenziale che ci aiuterà a mettere a punto il progetto per renderlo efficace sul mercato», dice Michela Gualteri sottolineando con una punta di orgoglio che «i progetti selezionati per la fase di accompagnamento sono 12 su un totale di 259 candidature: una bella soddisfazione!». Anche perché la terza fase prevede l’erogazione di un finanziamento a fondo perduto per un valore massimo di 150mila euro. Se al momento Tribook impegna il 50% del tempo di Suarez, Macchi e Gualtieri, permettendo loro di affiancare a questo altri lavori, l’obiettivo è farlo diventare in futuro l’unico propria fonte di reddito. Rimanendo però con i piedi per terra, perché da queste parti alla «retorica delle start up come soluzione alla disoccupazione» non ci si crede. «Non tutti possono fare gli imprenditori ed è giusto che sia così. Certo in un momento di crisi come questo è intelligente non stare con le mani in mano e diventare imprenditori di se stessi, reinventandosi tutti i giorni e guardando al mondo del lavoro in maniera creativa. Ma bisogna analizzare le proprie competenze e le proprie aspettative anche lavorative e saperle interpretare sulla base di quello che il mercato offre». Non è così facile. Michela Gualtieri offre un suo suggerimento: analizzare le aziende, cercare quelle che fanno qualcosa che «ci piace», individuare i bisogni di questa impresa e proporsi in maniera da soddisfarlo. Ricordandosi che «alla fine le aziende cercano persone innamorate di quello che loro fanno».  Su un punto è sicura: «Diffondere l’idea che bisogna fare lo startupper per forza è sbagliato perché poi si vanno a creare delle bolle che scoppiano e tutte queste realtà che vengono finanziate falliscono senza produrre valore». Marianna Lepore

Professioni sanitarie: oggi posto assicurato e ottimo stipendio, nel futuro si profila l’infermiere di famiglia

Nell’immaginario collettivo il regno degli infermieri sono corsie e sale operatorie. Angeli custodi dei pazienti in reparto, oltre che di medici e chirurghi. Ma è un’idea destinata a cambiare, almeno un po’. Perché se il posto di lavoro sembra assicurato quasi al 100%, il loro “destino”, così come quello delle molte professioni sanitarie o collegate alla riabilitazione, sarà sempre più fuori dai poli ospedalieri. Per ora e prevedibilmente anche in futuro, comunque, studiare queste materie garantisce una prospettiva economica molto migliore rispetto ad altri indirizzi universitari: le statistiche raccontano retribuzioni ben al di sopra della media. Ma c'è anche qualche ombra: contratti al ribasso e condizioni occupazionali non in linea con i contratti nazionali sono in molti casi un rischio concreto per i liberi professionisti che collaborano con le cooperative.Il rapporto Almalaurea 2015 incorona le professioni medico-sanitarie, ponendole in vetta alla classifica delle chance occupazionali. A cinque anni dalla laurea magistrale, il tasso di occupazione sfiora la totalità (97%), con stipendi netti medi tra i 1600 e i 1700 euro. Un sogno se si considera la media retribuitiva dei giovani sotto i 30 anni, basti pensare che per indirizzi come quello psicologico, fanalino di coda, la prospettiva di stipendio si ferma ad appena 962 euro mensili. È un'istantanea che nasconde però molti dettagli. Per capire come orientarsi al meglio, la Repubblica degli Stagisti ha chiesto aiuto alla Federazione degli Infermieri (Ipasvi) e agli atenei di Verona e del Piemonte Orientale, in vetta all’ultima classifica Censis rispettivamente per infermieristica e medicina, grazie a un’offerta didattica di qualità, improntata in entrambi i casi a esperienze formative molto pratiche e professionalizzanti. Cambia la società, cambiano le esigenze del territorio. E l’assistenza sanitaria, così come la conoscevamo fino ad oggi, deve andare incontro a nuovi bisogni. Un fatto su tutti: l'invecchiamento della popolazione, con la richiesta di un'assistenza sempre più capillare (per riabilitazione, malattie croniche, …) e di prestazioni specialistiche vicine ai cittadini. Il futuro prossimo, non a caso, è la figura dell’infermiere di famiglia, prevista dall’Organizzazione mondiale della sanità, e su cui molte Regioni stanno già lavorando. Andando nel dettaglio, alcune professionalità sembrano trovare più spazio di altre: «Vanno molto bene tutte le professioni legate alla riabilitazione, compresi fisioterapisti e logopedisti», evidenzia Luisa Saiani, docente di scienze infermieristiche all'università di Verona e presidente del Comitato Scientifico del Master Universitario in Metodologie tutoriali e di coordinamento dell’insegnamento clinico nelle professioni sanitarie e sociali. «I corsi di infermieristica sono ormai entrati a pieno titolo nel panorama accademico, producendo un'abbondanza di professionisti sanitari che possono trovare sbocco anche e soprattutto nel privato», aggiunge Saiani. «Cliniche, case di riposo, studi professionali: sono tutte realtà che compensano bisogni privati di cronicità, di sostegno a lungo termine e che traggono molto beneficio dallo sviluppo di queste professioni sanitarie». Il blocco del turn over, tra l’altro, dura ormai da cinque anni nel settore pubblico, «ma non c'è più l'attenzione di un tempo per il posto fisso». A fare più fatica, ostetrici e tecnici di radiologia: «Ce ne sono molti. Per questo credo facciano più fatica a trovare lavoro», osserva la docente veronese.  La prova del nove, un'altra ricerca del Censis: l'anno scorso le prestazioni infermieristiche erogate fuori dagli ospedali sono state 8,7 milioni, per un valore di 2,7 miliardi di euro. Anziani, malati cronici e persone non autosufficienti richiedono un'assistenza sempre maggiore e, soprattutto, regolare. Il che rende le professioni sanitarie molto appetibili, anche solo dopo la triennale: secondo Almalaurea infatti, a un anno dalla triennale oltre il 92% dei laureati non è iscritto a un corso specialistico né ad un altro corso triennale, mentre il 61% risulta già occupato (con un guadagno medio, in questo caso più basso, intorno ai 1160 euro netti). «I corsi specialistici in questo settore danno competenze gestionali e di coordinamento. Per questo anche solo la triennale funziona molto bene, magari abbinata a un master specialistico», conferma Giorgio Bellomo, presidente della Scuola di Medicina dell'università del Piemonte Orientale. «Si creano così figure molto richieste. Da noi, ad esempio, i master in ambito oncologico, come quello  di primo livello in "Accessi venosi centrali per le Professioni Mediche e Infermieristiche", fanno sempre il pieno».  «C'è bisogno di infermieri e il rapporto Almalaurea ne dà la prova», conferma Barbara Mangiacavalli, presidente di Ipasvi, la Federazione nazionale di categoria. «Infermieri che tuttavia devono fare i conti, soprattutto all'inizio della carriera, con blocchi e paletti che spesso li costringono a optare per alternative al tempo indeterminato». Nel pubblico, il turn over sconta un blocco in corso ormai da cinque anni e i sotto-occupati o disoccupati sono tra i 25 e i 30mila, secondo stime Ipasvi, su una categoria che conta 423mila professionisti. Anche per questo, chi non trova spazio nel pubblico molto spesso si affida a cooperative che “appaltano” professionisti alle strutture pubbliche. Rischiando stipendi risicati.«Premesso che ci sono cooperative ottime, che offrono condizioni di lavoro adeguate, non possiamo chiudere gli occhi su un fenomeno che vede grandi squilibri, anche geografici», avverte non senza preoccupazione Luigi Pais, presidente del collegio Ipasvi di Belluno, membro della Commissione nazionale Ipasvi Libera Professione. E da libero professionista, titolare di uno studio di infermieristica legale-forense. «Secondo i nostri riscontri, ad esempio, se in una casa di riposo nel Nordest un infermiere libero professionista può essere pagato tra i 24 e i 30 euro l’ora, al Centro-Sud registriamo casi di compensi anche di 6-7 euro l’ora. L’ultimo tariffario, quello del 2002, proponeva un compenso minimo di 23 euro l’ora». Qualche stima sul fenomeno? «Difficile dare cifre sicure. Consideriamo però che gli iscritti come liberi professionisti alla nostra cassa previdenziale sono circa 40mila. E nella stragrande maggioranza sono infermieri singoli. Facile ipotizzare che, per lavorare, si affidino alle cooperative», evidenzia Pais. Ma perché gli infermieri si appoggiano a loro? «È un problema culturale: l’infermiere fa fatica a riconoscersi come professionista singolo o associato in uno studio, come invece è naturale per altri», riflette Pais. «Uno studio associato può negoziare le condizioni migliori per i suoi soci. Ma tutto questo presuppone un’evoluzione verso una mentalità più imprenditoriale. Ci vorrà tempo, forse qualche decennio, perché anche gli infermieri imparino a presentarsi come società solide e non solo come professionisti di valore».Maura Bertanzon @maura07  (nella foto in alto, da Flickr: infermiere durante la guerra russo-giapponese 1904-1908)

La Focsiv premia il volontariato internazionale, quest’anno c’è anche lo Sve

C’è tempo fino al 27 giugno per partecipare al «Premio del volontariato internazionale» organizzato dalla Focsiv, la Federazione organismi cristiani di servizio internazionale volontario nata nel 1972, alla quale oggi aderiscono 65 associazioni. Quest’anno il premio arriva alla 22ma edizione con una novità, perché alla categoria finora proposta («Volontariato internazionale») ne è stata aggiunta un’altra: «Giovane volontario europeo». I premiati saranno quindi due: un volontario impegnato in un progetto in qualunque parte del mondo, e un altro che invece sta svolgendo il Servizio volontario europeo (o l’ha concluso da non più di sei mesi).Per lo Sve questo premio rappresenta un passo in più verso un riconoscimento sociale diffuso. A spiegarlo alla Repubblica degli Stagisti è Simona Rasile, responsabile Comunicazione della Focsiv: «Quando abbiamo pensato di innovare il premio, allargando le categorie alle quali partecipare, abbiamo scelto lo Sve perché questo programma dell’Erasmus+ rappresenta un esempio importante di impegno ed esperienza interculturale, molto utile alla formazione dei giovani e alla valorizzazione della dimensione europea». Con lo Sve i giovani fanno volontariato e si formano come cittadini europei, grazie anche ai metodi dell’educazione non formale. «Nel momento in cui abbiamo deciso di promuovere, attraverso il premio, altre forme di volontariato che coinvolgessero in particolare i giovani, ci è venuto naturale scegliere lo Sve, un programma nel quale la nostra federazione è impegnata da tempo e che rappresenta sempre più un’opportunità di crescita importante per i ragazzi», aggiunge Rasile. Grazie alla nuova categoria i giovani hanno quindi uno spazio privilegiato, mentre finora il premio era rivolto a volontari di qualsiasi età: l’anno scorso ha vinto Maria Luisa Cortinovis Beretta, 74 anni, da oltre 40 impegnata in un progetto in Ecuador. Lei è solo l’ultima di un lungo elenco di volontari premiati dalla Focsiv.Il riconoscimento ha ricevuto il patrocinio dell’Agenzia nazionale per i giovani, di Radio Vaticana e del Pontificio consiglio della giustizia e della pace. Nelle edizioni precedenti l’iniziativa ha sempre ottenuto l’adesione della presidenza della Repubblica e come premio ai volontari è stata consegnata una «medaglia di rappresentanza del presidente della Repubblica». Ancora è presto per affermare che il premio riceverà di nuovo l’adesione della presidenza, perché se alla scadenza per partecipare manca poco, la cerimonia di premiazione si terrà invece, come ogni anno, il 5 dicembre, in occasione della Giornata mondiale del volontariato indetta dalle Nazioni Unite.Che cosa bisogna fare per candidarsi? Tutte le indicazioni si trovano sul sito dedicato all’iniziativa, www.premiodelvolontariato.it, dal quale bisogna scaricare un formulario da compilare e inviare alla Focsiv entro il 27 giugno. Ci sono alcune indicazioni da tenere in particolare considerazione. Innanzitutto non è il volontario a mandare la candidatura, ma l’organizzazione di appartenenza: «Al premio non si partecipa come singoli, ma come volontari che operano all’interno di un’associazione. Quindi il premio è un riconoscimento che va al tempo stesso al volontario e all’organizzazione», spiega Rasile. In sostanza, di solito è l’associazione che decide di partecipare al concorso, individuando tra i propri progetti e volontari quelli che ritiene più idonei. Il volontario però ha un ruolo fondamentale nella candidatura: deve realizzare un video di presentazione - di sé e del progetto - della durata massima di 3 minuti. «Non sarà assolutamente valutata la qualità del video. La registrazione fatta con un cellulare, una macchina fotografica digitale o qualsiasi altro strumento andrà benissimo», precisa la responsabile Comunicazione della Focsiv.Altro dato da tenere in considerazione è che saranno valutati positivamente i progetti di volontariato che hanno l’obiettivo di promuovere lo sviluppo sostenibile. «Abbiamo fatto questa scelta», spiega Rasile, «perché nella seconda parte del 2015 si terranno tre importanti conferenze della Nazioni Unite sull’ambiente, e inoltre papa Francesco, nell’«Enciclica sulla custodia del creato», ha lanciato un forte richiamo alla necessità di agire urgentemente nella giustizia climatica, promuovendo in particolare l’agricoltura familiare. In ogni caso è bene sottolineare che la promozione dello sviluppo sostenibile è solo un requisito preferenziale, tutti i tipi di progetto sono invitati a partecipare al premio». Così come tutte le organizzazioni, indipendentemente dalla loro adesione alla Focsiv o più in generale alla dottrina cattolica. I due vincitori saranno selezionati con un processo «popolare», così come definito dal regolamento. I video verranno pubblicati online sul sito del premio, e potranno essere votati dal 15 luglio al 7 settembre. In base al numero dei voti ricevuti, saranno scelti otto candidati - quattro per la categoria «Volontariato internazionale» e quattro per «Giovane volontario europeo» - ed entro il 30 settembre sarà poi una giuria, composta da rappresentanti del mondo del volontariato e docenti universitari, a stabilire definitivamente chi saranno i due vincitori.Daniele Ferro@danieleferro

Concorso Rai, interrogazione parlamentare sui 5mila candidati convocati in fretta e furia a Bastia Umbra

Dopo tredici mesi di silenzio, 5mila candidati ricevono un’email che annuncia la convocazione il 1° luglio 2015 alle ore 10.30 per la prima fase della selezione per giornalisti in Rai. Una buona notizia che, per tempistica e luogo prescelto – Bastia Umbra – fa indignare i candidati che ricevono l’appoggio dall’ordine dei giornalisti e dal deputato del movimento 5 stelle Dalila Nesci, che presenta un’interrogazione in vigilanza Rai.La notizia è sicuramente, prima di tutto, quella di un concorso in Rai per giornalisti, come ci tiene a precisare alla Repubblica degli Stagisti il segretario Usigrai, Vittorio di Trapani. «Il tema vero è che in Rai si fa una selezione pubblica di portata mai vista, come il sindacato chiedeva da anni. Mentre in tutto il mondo del lavoro si parla di anomalie contrattuali, casse integrazioni, licenziamenti, il servizio pubblico programma assunzioni. Credo che tutti dovrebbero essere felici e soddisfatti di questo» precisa il segretario.«Si potevano fare meglio le cose? Si può sempre fare meglio. Ma il bando di gara è quello e purtroppo ha portato a quel risultato, che io rispetto. La vera notizia è che la selezione pubblica parte».Eppure gli altri giornalisti, quelli che avevano presentato domanda, non la vedono tutti in questo modo. Perché la scelta di Bastia Umbra, comune di 22mila anime della provincia di Perugia, non sembra essere un luogo dove far soggiornare facilmente 5mila giornalisti precari. Perché raggiungerlo risulta difficile con i mezzi, tanto che nei vari gruppi facebook nati per l’iniziativa nascono improvvisi servizi di car sharing tra i partecipanti.Le segnalazioni sulla quantomeno anomala decisione del luogo sono arrivate fino in parlamento dove Dalila Nesci, deputata del Movimento 5 stelle ha presentato un’interrogazione in commissione di vigilanza Rai. «Ci sono arrivate tantissime segnalazioni e visto che nessuno comprende effettivamente perché con così poco preavviso si sia annunciata quella prova in quella sede ho deciso, insieme ad altri colleghi della vigilanza Rai, di fornire la possibilità all’azienda di fugare ogni dubbio e segnalare con trasparenza con quali criteri ha scelto la sede dove ci sarà il concorso ed anche le spese che sosterrà» spiega l’esponente grillina.Interrogazione a cui dovrebbe arrivare una risposta «in genere dopo una settimana. Ma visto che c’è abbastanza attenzione da parte dei giornalisti forse decideranno di rispondere prima». «Sappiamo che i criteri di legge anche per quanto riguarda il preavviso sono rispettati,» dice Nesci «certo dal punto di vista umano e professionale si poteva avere qualche giorno di preavviso in più».Sul luogo scelto per la prova attraverso un bando di gara, Bastia Umbra, cerca di ridimensionare le critiche di Trapani che dà anche una spiegazione a chi non si capacita del perché per la stessa selezione ci siano due sedi diverse. «Il primo test coinvolge contemporaneamente 5mila persone e necessita di un luogo in grado di ospitarle. Per le altre si passa da 5mila a 400 e visto che a Saxa Rubra o nelle sedi Rai di Roma quel tipo di prove si possono fare, è giusto farle nelle sedi Rai». E a chi dice che Bastia Umbra è un centro piccolo dove ci potrebbero essere difficoltà per tutti di soggiornare, risponde «Non mi risulta. La fiera è consapevole che nel circondario ci sono disponibilità di posti per diverse migliaia di persone».Anche l’Ordine dei giornalisti interviene sul tema e definisce «un’occasione mancata per recuperare quella credibilità che dovrebbe avere la prima azienda di informazione in Italia» il concorso e la scelta di Bastia Umbra una decisione che comporterà «una decimazione dei partecipanti», chiedendo a commissione di vigilanza e governo di prendere una netta posizione. La grillina Nesci non esclude totalmente che la scelta fatta possa essere corretta «Magari è un luogo adeguato», dice alla Repubblica degli Stagisti, ma «è giusto vigilare anche sui costi» dell’intera vicenda. Soltanto avendo qualche elemento in più «per capire le spese che ci saranno per allestire questo posto» si potrà giudicare la decisione dell’azienda.Nel frattempo la Rai ha deciso di rispondere con una nota al documento approvato dall’Ordine dei giornalisti esprimendo la «più profonda sorpresa» e «indignazione» e definendo il documento «un attacco gratuito, incomprensibile». E sottolinea che «Bastia Umbra è indubitabilmente posta nel centro del Paese e le strutture ricettive offrono 20mila posti letto». Lo scontro a colpi di comunicati è continuato con l’Ordine che in una nuova nota ha contestato la «superficialità nel non prevedere in un bando di selezione condizioni capaci di garantire un’accessibilità non problematica alla sede dell’esame».  A cui ha risposto direttamente il direttore generale della Rai, Luigi Gubitosi, che durante la presentazione del premio Biagio Agnes ha definito il concorso una «bellissima operazione», attaccando l’ordine «gestito in modo ignorante e demagogico». Al di là delle polemiche tra massimi esponenti, resta il fatto che qualcosa nella gestione del concorso non è andata nel verso giusto se, come anche raccontano su varie pagine facebook, hanno ricevuto la convocazione anche giornalisti pubblicisti – espressamente esclusi dal bando - e almeno un caso di una giornalista in pensione raccontato già da varie testate. Proprio su questo caso di Trapani dice che poiché «alcune sentenze ci vietano di mettere limiti di età, questi sono poi gli episodi che capitano». Una semi certezza comunque c’è: per quelli che decideranno di fare il primo test, i tempi di attesa per la seconda fase potrebbero essere molto brevi: «Il multiple choice prevede un risultato praticamente immediato e di lì a pochi giorni cominceranno le prove pratiche. Il cronoprogramma è molto serrato e spero che entro il mese di ottobre avremo la graduatoria dei cento», spiega il segretario Usigrai.Graduatoria da cui potranno essere chiamati per sostituzioni varie nell’arco di tre anni. «Il precariato oggi in Rai dura tre anni e mezzo di lavoro, in linea con le previsioni normative. Il sindacato spingerà affinché si dia un’opportunità nel più breve tempo possibile al maggior numero possibile di persone. Se un’azienda spende e investe un certo numero di euro per fare una selezione di questa portata è pienamente nell’interesse dell’azienda assorbire il risultato della selezione».Non ci sono, però, certezze: «La mia richiesta come Usigrai sarà di assorbire per intero i cento della graduatoria nel più breve tempo possibile. Ma queste decisioni non appartengono all’Usigrai».

Tirocini con Garanzia Giovani: sospensioni, ritardi e miglioramenti su cui si gioca la credibilità del programma

Ancora polemiche sui tirocini di Garanzia Giovani, stavolta anche in Parlamento: in Abruzzo sono momentaneamente sospesi, in Umbria si ritarda coi pagamenti, che invece paiono rientrare nella normalità in Sardegna. E intanto L’Inps chiarisce - solo per gli amministratori - le procedure per l’erogazione.Ma andiamo con ordine. Alla fine di maggio, decine di ragazzi abruzzesi iscritti al programma Garanzia Giovani in attesa di iniziare il tirocinio vengono improvvisamente bloccati. A scriverlo sul gruppo facebook  "Garanzia Giovani" è Chiara Carota, 24enne che alla Repubblica degli Stagisti racconta volentieri la sua esperienza: «Sono ragioniera e a giugno avrei dovuto iniziare ufficialmente un tirocinio formativo come addetta contabile in uno studio commerciale di Sambuceto, vicino a Pescara. Mi sono iscritta al programma il 13 giugno 2014, ho avuto il mio primo colloquio prima di ferragosto e ho firmato il patto il 25 ottobre. Le offerte faticavano ad uscire e dall’agenzia privata, la Synergie, che segue la mia pratica mi è stato suggerito di trovare da sola un’azienda interessata al mio profilo. Dopo aver chiamato 50 studi - non esagero con la cifra! - l'ultimo ha risposto positivamente. Avrei dovuto iniziare ad  aprile ma ci sono stati ritardi nella stipula della polizza assicurativa». Il 27 maggio sono infatti proprio i titolari dello studio a comunicare a Chiara che non potrà iniziare il tirocinio per mancanza di fondi. Per niente soddisfatta di quanto le hanno detto, Chiara chiede spiegazioni e dalla Regione le confermano che i tirocini in partenza sono sospesi fino all’arrivo dei nuovi fondi. «Avendo provveduto ad attivare oltre 1700 tirocini, le risorse a valere sul programma Garanzia Giovani che sono state stanziate sulla misura dei tirocini extracurriculari con il PAR Abruzzo sono terminate» ribadisce alla Repubblica degli Stagisti Alba Labarba, funzionaria del dipartimento regionale per le Politiche del lavoro e  addetta alla comunicazione: «Siamo però in attesa di un addendum alla convenzione originaria, da sottoscrivere con l’Inps e il Ministero del Lavoro, per utilizzare altri fondi previsti dal decreto legge 76/2013. I tirocini sono quindi sospesi, ma solo momentaneamente». Nessuna risposta però sui tempi di ripresa del programma.Anche in Umbria si stanno verificando ritardi nei pagamenti, come del resto aveva anticipato dirigente del centro dell’impiego Riccardo Pompili in una intervista alla Repubblica degli Stagisti di qualche settimana fa. Paola per esempio ad aprile ha iniziato il tirocinio in un’azienda agroalimentare con sede a Todi. «Io sono di Assisi, ma vivo a Perugia: trovo molto utile lo stage che sto facendo perché perfettamente attinente a quello che ho studiato. Non ho mai fatto esperienze lavorative in Italia, gli unici compensi che ho ricevuto risalgono al mio periodo di tesi all’estero, a Parigi». Dopo un mese senza rimborso, Paola si è attivata chiedendo spiegazioni al centro dell’impiego, in Regione e all’Inps di Perugia. Ma nessuno è stato in grado di spiegare i motivi del ritardo. «In compenso dalla regione sono arrivate più mail in cui mi assicurano che sarò pagata. Dall’Inps invece non si sono nemmeno degnati di rispondermi con due righe». Gli ultimi a scrivere a Paola, il 3 giugno, sono stati i dipendenti del centro dell’impiego provinciale: «Mi hanno mandato i documenti per ottenere il rimborso e mi hanno chiesto di confermare i dati. Stavolta ci sto credendo davvero! A mie spese faccio 50 chilometri al giorno perché mi sta piacendo il lavoro, ma non vorrei continuare a pesare totalmente sui miei per altri 4 mesi».In Sardegna la questione pare essersi chiusa positivamente il 4 giugno, con la pubblicazione della lista contenente i nomi  dei beneficiari dei voucher formativi. A darne notizia è Ambra Floris, una fra i centinaia di stagisti che ha iniziato la sua esperienza di tirocinio a febbraio 2015 senza aver ricevuto ancora un euro. Ambra ha 30 anni appena compiuti, una laurea e due master e si occupa di comunicazione inteenazionale e progettazione per il Teatro di Sardegna, a Cagliari. «Possiedo molti titoli, ma ho considerato di voler tornare in Sardegna e occuparmi di promozione culturale, così ho accettato di aderire a Garanzia Giovani». Nell’ultima lettera che la Regione le ha inviato la prima settimana di giugno c’è scritto che l’Inps provvederà alla liquidazione entro 15 giorni. Sottolinea: «C'è gente che dice "non lamentiamoci": quattro mesi e mezzo in effetti, che vuoi che siano. Ma voglio ricordare che in questo periodo nessuno si è degnato di rispondere alle nostre domande. Abbiamo fatto molta fatica a capire eventuali errori nella compilazione dei moduli perché nessuno ce lo ha segnalato. Chi avrebbe dovuto informare non è stato in grado o non ha voluto farlo».Nel frattempo sul sito di Ipsoa, che si occupa di approfondimenti e documentazione in materia di fisco, lavoro, diritto e gestione aziendale per professionisti e aziende, è stato pubblicato una specie di “tutorial” curato dell’Inps e rivolto ai membri della pubblica amministrazione. Dunque, seppur rivolgendosi agli addetti ai lavori, l’Ente nazionale per la previdenza sociale ha finalmente chiarito la procedura di erogazione dei rimborsi per i tirocinanti di Garanzia Giovani. Nell'articolo si legge: «Previa verifica della copertura finanziaria, la Direzione Regionale Inps procederà alla validazione dei file visibili nella finestra “validazione del file di richieste pagamenti pervenuti” contenente l’elenco dei nominativi delle richieste di pagamento, con l’indicazione dell’importo da porre in pagamento». Poi viene spiegato come i dipendenti regionali addetti potranno, tramite alcuni link ,autorizzare il pagamento di cui si occuperanno le sedi Inps regionali. Inoltre si fa riferimento a una recente nota - la numero 10894 del 14 maggio 2015 - con cui  il ministero del Lavoro ha comunicato alle Regioni e all’Inps i controlli da effettuare ai fini dell’erogazione dell’indennità di tirocinio. Il sistema inoltre pare essersi dotato di alcune forme di monitoraggio dei pagamenti disposti ed effettuati.Pur nelle incertezze, paiono imminenti i trasferimenti ai ragazzi che attendono da mesi i loro rimborsi. Gli enti che invece hanno terminato i primi fondi hanno scelto di non far iniziare ulteriori tirocini. Sembrerebbe la giusta via per dare credibilità alle parole dell’assessore siciliano alle politiche del Lavoro Sebastiano Bruno Caruso. In qualità di delegato della Conferenza delle Regioni, nella seduta della commissione Lavoro che si è svolta in Senato il 3 giugno, Caruso ha sottolineato la volontà di «migliorare e puntare sui tirocini, che in contesti  diversi come la Lombardia e la Sicilia, stanno avendo l’effetto comune di riavvicinare le aziende alle pubbliche amministrazioni, nonché di attivare i giovani. Sappiamo bene che sono poche le esperienze formative davvero valide e il nostro obiettivo è aumentarle per tutti».Silvia Colangeli

Tirocini negli uffici giudiziari, Regione Campania e ministero della Giustizia ignorano le indicazioni del ministero del Lavoro su Garanzia Giovani

Niente stage negli enti pubblici, almeno per quanto riguarda quelli attivati all’interno del progetto Garanzia Giovani: all’inizio di aprile il ministero del Lavoro aveva esplicitato in un documento ufficiale il divieto, spiegando che questo tipo di stage non può mai portare a un’assunzione visto che l’accesso al lavoro nel pubblico impiego è vincolato ai concorsi, e quindi va contro i dettami che l’Unione europea ha impartito a tutti i Paesi per quanto riguarda l’utilizzo dei fondi della Youth Employment Initiative. Eppure, solo un mese dopo, in Campania è stato annunciato davanti alla stampa e alla presenza del sottosegretario del ministero della Giustizia un programma per l’utilizzo degli gli ex tirocinanti che negli ultimi anni hanno svolto percorsi formativi nei tribunali – che altro non sono se non uffici pubblici – proprio all’interno del piano regionale “Garanzia giovani in Campania”. Possibile che un ministero sigli una convenzione che contraddice completamente le indicazioni di un altro ministero? Alla base di questo programma di tirocini c’è un protocollo che da una parte vede la Regione Campania, insieme a corti di appello e procure della Repubblica di Napoli e Salerno, e dall'altra il ministero della giustizia. Questo protocollo ha il preciso intento di «reinserire in un percorso di formazione soggetti che abbiano partecipato alle attività formative presso gli uffici giudiziari della Regione, attivate dal ministero della Giustizia, con la finalità di non disperdere le conoscenze acquisite e porre parziale rimedio alle criticità funzionali degli stessi, dovuti anche a una situazione di grave carenza di personale». Lecito domandarsi che senso abbia proporre un percorso di formazione a chi ha già partecipato ad attività formative, e interrogarsi sulla opportunità di coprire i buchi di organico con gli stagisti anziché con un concorso che porti a nuove assunzioni. È infatti evidente che questo progetto va espressamente contro la circolare del ministero del Lavoro. Perché fin dal suo titolo si inscrive all'interno di Garanzia Giovani: nel testo si legge che «i soggetti ospitanti presenteranno un progetto di tirocinio denominato “Giovani per la giustizia”» e si fa riferimento più volte al termine “tirocinio”. Eppure dal ministero della giustizia, che ha controfirmato il protocollo, non sembrano preoccuparsi di questo punto.«Condivido la circolare del ministero del lavoro» dice anzi alla Repubblica degli Stagisti il sottosegretario Cosimo Ferri «ma questo non è un tirocinio. È un progetto che vuole coinvolgere questi soggetti». Cosa esattamente sia un “progetto”, purtroppo non è dato sapere; quanto a “questi soggetti”, sarebbero circa 300 persone che dal 2012 ad oggi sono già state a più riprese coinvolte in tirocini formativi all'interno degli uffici giudiziari campani: si sono autodefiniti “precari della giustizia”, sono oltre 2mila in tutta Italia, e la Repubblica degli Stagisti ha raccontato negli ultimi mesi la loro allucinante storia, con percorsi di tirocinio completamente al di fuori della legalità – con una durata complessiva di 2-3 anni, addirittura 4 per chi vive nelle Regioni che hanno attivato per prime (nel 2010) questi programmi di tirocinio. Le criticità immediatamente evidenti rispetto a quel che sta accadendo in Campania, oltre al palese contrasto con la direttiva del ministero del Lavoro, sono due. La prima: se i “precari della giustizia” in tutta Italia sono anche 40-50enni, talvolta ex cassintegrati, com'è possibile inscriverli nel programma Garanzia Giovani che è aperto solamente a persone under 30? La seconda: che senso ha far fare un ulteriore tirocinio a chi ha già alle spalle già 2-3 anni di tirocinio in una struttura simile (prima tribunale, ora corte d'appello), oltretutto sapendo che non c'è alcuna prospettiva di assunzione? Di quale ulteriore “formazione” hanno bisogno queste persone?  Il ministero della Giustizia non vuole entrare nella legittimità del protocollo perché «È tutto rimesso alla Regione Campania». Anzi, il sottosegretario non vede aspetti negativi nel progetto e arriva a dire: «Auspichiamo che il modello possa essere stipulato anche in altre Regioni» [qui l'intera intervista rilasciata alla Repubblica degli Stagisti]. Un auspicio condiviso anche da Antonio Cavallaro, responsabile del coordinamento spontaneo “Unione precari giustizia” per la Campania, che ammette che l’attivazione di questi tirocini nella sua regione ha creato malcontento negli altri tirocinanti: «Purtroppo il governo sta ultimamente usando una politica di divisione dei lavoratori. Non c’è solo la contestazione tra il tirocinante campano e quello delle altre regioni. Ma è anche l’attrito tra tirocinanti e dipendenti interni che chiedono la riqualificazione. È chiaro che i tirocinanti delle altre regioni possano restarci male, ma l’obiettivo che ci siamo posti come precari giustizia è quello di coinvolgere le regioni insieme al ministero e trovare tutte le soluzioni possibili per tutelare il bacino». Perché poi la richiesta finale è quella di «aprire un tavolo di discussione coinvolgendo ministero e Regioni per trovare una soluzione finale sicura per tutti i  gli oltre 2mila tirocinanti» riassume Cavallaro. Che però ci tiene a rimarcare le differenze tra la loro situazione e quella degli altri “colleghi”. «Siamo principalmente disoccupati e inoccupati e veniamo dal mondo universitario e dalle selezioni rivolte ai laureati e a una piccola parte di laureandi» spiega alla Repubblica degli Stagisti, chiarendo dunque perchè almeno dal punto di vista anagrafico non ci sarebbero problemi con la Garanzia Giovani: «Siamo una situazione un po’ diversa da altre Regioni, come il Lazio, in cui la selezione ha riguardato principalmente cassintegrati chiamati attraverso i centri per l’impiego. Per loro si trattava di reinserimento nel mondo del lavoro: per noi invece di inserimento, a volte per la prima volta. Abbiamo sostenuto delle prove scritte e orali organizzate da tutte le università campane in cui per ogni quindici posti c’erano all’incirca 1500 candidati e, svolto un primo periodo con la Regione, ci siamo poi trovati nel percorso di formazione gestito direttamente dal ministero». Dunque l'obiettivo di Cavallaro e dei suoi “colleghi”, prevalentemente laureati in Giurisprudenza e impegnati dal 2012 negli uffici giudiziari campani in un lunghissimo percorso come tirocinanti, è quello di una stabilizzazione. Questa nuova opportunità di tirocinio è dunque salutata con favore, perché permette di “tenere un piede dentro”.  Anche perché la Campania ha la particolarità di avere, come detto, circa 300 ex tirocinanti del bacino “precari giustizia” a fronte di  un vuoto di organico, secondo dati del ministero, di 270 dipendenti nel solo distretto della corte di appello di Napoli. Insomma: questi uffici giudiziari di nuove risorse avrebbero molto bisogno.  Ma può tutto questo essere la scusa per non rispettare il protocollo del ministero del Lavoro? Proprio dai precari della giustizia arriva l’esplicita richiesta alla soluzione del caso: «Chiediamo la contrattualizzazione, rispettando le norme del pubblico impiego. Quindi anche un concorso» ci tiene a precisare Cavallaro, «ma valorizzando l’esperienza che abbiamo fatto, perché altrimenti si butterebbe all’aria questa formazione». La verità è che di stabilizzazione il ministero della Giustizia non vuol neanche sentire parlare. Il sottosegretario con la Repubblica degli Stagisti non lascia adito a dubbi: «Mi piace non illudere le persone ed essere molto chiaro: oggi non si può pensare a una loro stabilizzazione e non penso si possa farlo nemmeno giuridicamente». E i sindacati in tutta questa situazione che posizione prendono? Bisogna partire dal fatto che in Campania la situazione lavorativa è drammatica: «Nella sola annata 2013-2014 si sono perse 93 imprese al giorno e il sud ne ha perse quotidianamente 336» snocciola il segretario regionale Cisl Lina Lucci: «Questo dovrebbe far interrogare il governo quando decide delle politiche occupazionali». La Cisl Campania in questa situazione dunque non se la sente di scagliarsi contro questi 250-300 tirocini “proroga” che sistemeranno, almeno per 6 mesi, i “precari della giustizia”: «Il problema non è che il protocollo va contro la circolare del ministero del Lavoro, il problema è che è uno strumento tampone» denuncia la Lucci: «Il ministero dovrebbe ammettere di aver fallito nella strategia della nuova occupazione per i giovani. Potrei fare almeno cento di esempi nel Paese nelle altre regioni dove i governatori si sono inventati uno strumento per poter dare una risposta al territorio e non perdere le risorse».  Resta sullo sfondo la domanda sulla opportunità di fare un nuovo tirocinio per chi tirocinante lo è da anni, senza alcuna prospettiva di essere assunto né direttamente né tramite un concorso, violando una circolare del ministero del Lavoro e rischiando oltretutto di illudere i partecipanti che questo possa essere un nuovo step verso la tanto agognata assunzione.  Marianna Lepore