Riccardo Saporiti
Scritto il 03 Mar 2012 in Approfondimenti
Apprendistato contratto di lavoro occupazione giovanile
In Italia ci sono 542mila giovani assunti con un contratto di apprendistato. Ma meno della metà di loro riuscirà a passare al tempo indeterminato. I numeri relativi all'evoluzione di questi rapporti di lavoro dimostrano infatti che sono sempre meno quelli che si trasformano in "posto fisso". Non è tutto: il XII rapporto di monitoraggio dell'Isfol - Ministero del lavoro conferma la scarsa attenzione alla formazione. E il fatto che l'apprendistato sembri essere precluso ai laureati.
Il documento contiene i primi risultati di un'analisi che ha messo a confronto due generazioni di apprendisti, quella cioè che ha iniziato la propria esperienza nel 2001 e quella che l'ha cominciata nel 2005. Obiettivo: scoprire la situazione di questi lavoratori a cinque anni dalla firma del contratto. Un primo dato da mettere in evidenza riguarda il fatto che undici anni fa furono 235mila i rapporti attivati nell'arco dei dodici mesi: numero sceso, dopo un lustro, a 225mila. Si tratta di un dato che oscilla: nel 2008 c'era stato un "quasi boom", con 386mila contratti avviati, crollati però nel 2010 a 289mila. Tornando all'analisi 'generazionale': i dati forniti dagli enti previdenziali evidenziano come l'81,5% di coloro che hanno iniziato come apprendisti nel 2001 fosse ancora attivo dopo cinque anni e solo uno su sette non avesse cambiato qualifica professionale. La generazione successiva, invece, dopo lo stesso lasso di tempo vede impiegato il 77,8% dei lavoratori. E in quasi un caso su otto il regime contrattuale non è stato modificato. In altre parole: quei giovani dopo ben cinque anni sono ancora apprendisti.
Un altro dato molto significativo è relativo a quanti sono riusciti a trasformare il rapporto di lavoro in un contratto a tempo indeterminato: la generazione 2001 è riuscita ad ottenere un posto fisso nel 44,9% dei casi, dato che per chi ha cominciato cinque anni più tardi è sceso al 40,4%. Cresce, invece, il ricorso a rapporti di lavoro dipendente che lo studio Isfol ricomprende nella dicitura generica di «altro tipo di contratto». Una formula che, escludendo il tempo indeterminato, si declina giocoforza in rapporti temporanei più o meno precari. Per coloro che hanno iniziato l'apprendistato nel 2001, sempre dopo cinque anni dall'avvio, questa situazione si è verificata nel 12,7% dei casi. Percentuale che sale al 17,7% tra coloro che fanno parte dell'infornata 2005. In altre parole, convivono due tendenze: si riducono gli apprendisti che riescono ad ottenere il posto fisso, aumentano coloro che invece terminano quella che dovrebbe essere un'esperienza formativa e, non riuscendo ad essere confermati in azienda, finiscono nell'universo del precariato.
I dati più generali, quelli cioè che riguardano la totalità dei 542mila titolari di un contratto di apprendistato, parlano però di un incremento del 12,3% delle trasformazioni in rapporti di lavoro a tempo indeterminato registrato nel 2010. Possibile questa contraddizione? «Le due analisi sono molto diverse e questo giustifica i risultati», spiega Sandra D'Agostino, responsabile della struttura Metodologie e strumenti per le competenze e le transizioni di Isfol e curatrice del rapporto. «In quest'ultimo caso si confrontano i risultati di due annualità con attenzione al totale delle trasformazioni avvenute nell'anno, a prescindere dall'anzianità dei contratti di apprendistato. Nel primo, invece, si segue il totale degli ingressi di un anno per verificare cosa accade in quelli successivi».
I contratti di apprendistato, in questo periodo, sono uno degli argomenti sul tavolo delle trattative tra il governo e le parti sociali sul tema della riforma del mercato del lavoro. Il ministro Elsa Fornero ha affermato di voler agire perché aumentino di numero e diventino un momento di formazione e non di flessibilità in entrata. L'esponente dell'esecutivo ha toccato un nervo scoperto: stando ai dati Isfol, appena il 25,2% dei titolari di questo tipo di rapporto viene effettivamente avviato ad attività formative, con picchi negativi dello 0,5% in Sardegna e del 4,4% in Campania. L'apprendistato infatti è una forma di contratto che prevede che il lavoratore non sia costantemente impegnato in azienda. Dovendo apprendere un mestiere, la legge prevede che svolga molte ore di formazione ogni anno. Ma questo avvviene in un caso su quattro. Il rapporto non entra nel merito delle motivazioni che portano a questo risultato, ma si limita a sottolineare che «i sistemi formativi implementati sul territorio nazionale appaiono adeguare i volumi di offerta».
Resta da evidenziare infine un dato preoccupante: l'apprendistato non è un contratto per i laureati. Lo si era visto già nei risultati contenuti nell'XI rapporto Isfol, in base al quale nel 2008 solo il 5,5% degli apprendisti era laureato. In pratica, uno su venti. E oggi? Questo dato è scomparso. Il XII rapporto limita la rilevazione sul titolo di studio agli apprendisti che davvero vengono coinvolti in attività formative. Un elemento che nel 2010 ha riguardato poco più di 136mila giovani inseriti in azienda con contratti di questo tipo. Ebbene, appena il 7% di questi ha un'istruzione universitaria. Un elemento certamente tra i più problematici: dopo anni di studio i laureati, vedendosi chiusa la porta dell'apprendistato - un contratto che, pur con tanti difetti, assicura retribuzioni dignitose, contributi, ferie pagate, malattia e maternità, permessi e tfr, e in un caso su tre porta all'assunzione a tempo indeterminato - finiscono nel mare magnum del precariato. Quando va bene. Perchè in agguato ci sono anche gli stage, magari senza rimborso, quasi sempre senza sbocchi, e sopratutto senza controlli.
Riccardo Saporiti
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