Categoria: Approfondimenti

L'Abruzzo investe 9 milioni per le start-up: la speranza sta nell'innovazione

Un fondo di rotazione da 9 milioni di euro per finanziare start-up innovative in Abruzzo. Lo ha lanciato la Regione tramite Fira, finanziaria che fa capo al Palazzo dell'Emiciclo, e in collaborazione con la Banca popolare di Lanciano e Sulmona e le Casse di risparmio delle provincie di L’Aquila, Chieti, Teramo e Pescara. Si chiama StartHope e dallo scorso 16 aprile ha iniziato a raccogliere le candidature da parte delle giovani imprese.Come per la definizione di start-up innovativa contenuta nel decreto Passera, non si guarda all'età degli startupper, ma a quella della loro azienda: possono infatti presentare domanda quelle imprese costituite da non più di 48 mesi in cui la maggioranza del capitale è detenuto da persone fisiche. Oppure quei gruppi che abbiano un progetto senza avergli ancora dato una forma giuridica, ma si impegnino a farlo entro 60 giorni dall'accoglimento della candidatura. Altro vincolo di natura burocratica, quello di avere sede operativa in Abruzzo o comunque di essere disposti a trasferirla all'interno dei confini regionali nei due mesi successivi alla firma del contratto con Fira.Questo fondo si impegna infatti ad entrare nel capitale sociale delle start-up che saranno ammesse, per una quota compresa tra il 15 ed il 45% ed un investimento massimo di 1,5 milioni di euro per ciascuna impresa. Tecnicamente le tipologie di intervento previste dal bando StartHope, le modalità con cui questo fondo si propone di sostenere le start-up, sono tre. La prima è quella del seed capital, l'investimento più rischioso: quello concesso nella fase iniziale di definizione del progetto aziendale. Poi c'è lo start-up capital, un finanziamento a realtà che si affacciano sul mercato ed hanno bisogno di una “spinta” per sviluppare e commercializzare il loro prodotto. Infine Fira può decidere di dedicarsi all'expansion capital, investendo in un'azienda che è già attiva ed è prossima al raggiungimento del punto di pareggio o addirittura in grado di produrre utile. In questo caso, il capitale aggiuntivo garantito attraverso i 9 milioni di questo fondo di rotazione servirà ad aiutare le imprese a conquistare nuove fette di mercato.Quali saranno però i criteri sulla base dei quali saranno selezionate le start-up ammesse al finanziamento? Il bando afferma che gli interventi dovranno essere «strumentali» rispetto ad alcune «finalità», come l'innovazione di prodotto o servizio in settori ad alta conoscenza, il miglioramento dei metodi produttivi o distributivi, l'innovazione organizzativa e lo sviluppo sperimentale, il trasferimento tecnologico dalla ricerca alla produzione. All'atto pratico, nella valutazione delle richieste di finanziamento il fondo terrà conto di elementi come la rilevanza tecnico-scientifica delle proposte e il loro grado di innovazione, ma anche la possibilie ricaduta in termini di occupazione.Una volta accolta la domanda - sono più di 150 quelle già presentate dall'apertura del bando - al momento del finanziamento verranno sottoscritti dei patti parasociali che dovranno definire le modalità di governance dell'azienda, ma soprattutto chiarire i meccanismi di disinvestimento. Il sostegno di Fira infatti non potrà durare più di cinque anni, trascorsi i quali le (ormai ex) start-up verranno accompagnate nella fase del cosiddetto go to market: la ricerca di nuovi soci di capitale piuttosto che della piena autosufficienza economica.«Abbiamo scelto di investire in queste realtà perché il mondo sta cambiando: da parte pubblica non basta più il finanziamento, ma serve l'investimento: occorre selezionare buone idee e progetti che crescano e permettano di far rientrare i soldi, così che possano essere utilizzari per finanziare nuove imprese», spiega Rocco Micucci [nella foto a destra], presidente della finanziaria che fa capo alla Regione. I 9 milioni del fondo di rotazione arrivano dal bilancio di Palazzo dell'Emiciclo, ma il modello di gestione è ritagliato su quello delle società di venture capital. «Se non avessimo dato un taglio privato il progetto non avrebbe funzionato. Noi vogliamo far diventare l'Abruzzo una terra attrattiva per le start-up, vogliamo attrarre menti brillanti da Nord e da Sud, dai Balcani e da tutto il bacino del Mediterraneo». E anche la scelta del nome del progetto va in questa direzione: «l'obiettivo era quello di riaccendere la speranza, dare un segnale positivo e cominciare a credere nella crescita. In pochi giorni, però, abbiamo ricevuto oltre 150 candidature. Con questi numeri possiamo passare dalla speranza alla fiducia nel fatto che il futuro dipenda da noi».Riccardo Saporitistartupper@repubblicadeglistagisti.itVuoi conoscere altre iniziative di sostegno alle start-up? Leggi anche:- Al via Wind business factor 2013, il campionato italiano delle start-up- Non solo mele, con TechPeaks a Trento si coltiveranno anche start-upVuoi conoscere altre storie di start-up? Leggi anche:- Il matrimonio diventa low-cost grazie alla start-up siracusana Progetto Wedding- L'artigianato si vende in Rete grazie alla startup fiorentina Buru-Buru- Solwa, la start-up padovana che purifica l'acqua con l'energia solare- Startupper, nuova rubrica della Repubblica degli Stagisti dedicata ai giovani che creano impresa

L'azienda invece dello Stato: il welfare aziendale come antidoto alla crisi

Il potere d'acquisto dei lavoratori italiani è diventato una delle prime emergenze del Paese. E questo non solo a partire dalla crisi del 2008, che ha unicamente aggravato un problema già esistente - come dimostra il fatto che il dibattito sulla riduzione del cuneo fiscale (ovvero lo scarto tra ciò che l'azienda paga per il lavoratore e quello che poi effettivamente entra in busta paga, al 49,6% in Italia nel 2010 secondo dati Oecd) si sono basate intere campagne elettorali anche nelle precedenti tornate. Una possibile soluzione emersa negli ultimi tempi sta nel cosiddetto welfare secondario o aziendale: una serie di agevolazioni riconosciute ai lavoratori o dalla singola azienda o per mezzo della contrattazione collettiva, con l'intento di migliorarne il benessere e accrescere l'organizzazione del lavoro. In pratica si aiutano gli occupati mettendo servizi a loro disposizione e nel frattempo lo Stato risparmia e l'azienda guadagna in termini di produttività (i beneficiari - si spera - sono più sereni e lavorano meglio). Di esempi teorici su come applicarlo ce ne sono a non finire, dagli asili nido ai voucher, dai corsi di formazione ai buoni pasto. Il nodo principale resta - come sempre, e soprattutto in Italia - la pratica. Se ne è parlato di recente in un convegno romano a cura dell'Arel, in occasione della presentazione del volume Welfare: dalla crisi alle opportunità, dove il dibattito è ruotato attorno alla questione centrale: come far sì che se ad esempio un impiegato - perché, tanto per cambiare, dai benefit restano esclusi i tantissimi lavoratori autonomi e i precari - percepisce 100 euro di aumento in busta paga, la metà di questi non finisca all'erario per via del benedetto cuneo fiscale? Un'idea che ha poi fatto scuola è stata quella messa in pratica dalla Luxottica già nel 2009: incentivare i dipendenti invece che con un banale e poco fruttuoso aumento salariale, regalando carrelli della spesa da 100 euro con beni alimentari di prima necessità. Avvantaggiando così sia il lavoratore dal punto di vista del potere d'acquisto, sia l'azienda che poteva contare su cospicui sconti da parte dei fornitori vista l'enorme quantità di alimenti acquistati. Il welfare aziendale e il dibattito che ne è scaturito non è affatto marginale, perché «nei prossimi anni assisteremo a una scarsità delle risorse da destinare al welfare pubblico. Il Paese sarà impegnato al rientro dal debito eccessivo e sarà difficile incrementare la spesa sociale, per lo meno in maniera da soddisfare in maniera crescente i bisogni di una popolazione che sta invecchiando» spiegano l'economista Carlo Dell'Aringa [nella foto sotto] e l'ex ministro del Lavoro Tiziano Treu [nella foto a destra] nell'introduzione a quattro mani del libro. «L'attenzione alla persona si è fatta più forte» scrivono e su questo sono le parti sociali, i sindacati, a dover fare bene il loro lavoro di difesa dei diritti. Perché la questione del welfare non è solo legata solo allo scarso reddito di chi lavora ma anche al sopperimento delle esigenze delle fasce deboli della popolazione, a cui lo Stato potrà farà fronte sempre di meno. Ne è certo Roberto Cicciomessere di Italia Lavoro, che fa un confronto con altri Paesi più avanzati: «La quota di spesa sociale nel nostro Paese è molto bassa (2,1% di Pil), a fronte del 3% di Francia e Germania e del 7,1% del Regno Unito. Le esperienze di welfare aziendale sono molto limitate in Italia anche se il dibattito su come implementarlo ha iniziato a interessare molti attori economici». E anche i lavoratori che ne beneficiano sono pochi: solo il 17,6% dei lavoratori gode di buoni pasto, l'8,4% di mense aziendali, il 2,3% ha il rimborso per le spese sanitarie e lo 0,4% per l'asilo nido. Un esempio virtuoso che sta partendo in Italia è richiamato nel libro da Franca Maino, docente di Teoria e politiche dello stato sociale all'università di Milano: si tratta del caso della Regione Lombardia, che ha avviato progetti sperimentali come la Dote conciliazione "Servizi alla persona", che offre ai genitori rientrati al lavoro dopo i congedi rimborsi di servizi per l'infanzia pari a 200 euro al mese per otto mensilità (totale 1600 euro). O ancora la Dote conciliazione "Premialità assunzione" che stanzia per le pmi un voucher di mille euro per l'assunzione di madri escluse dal mercato del lavoro o precarie. Sono solo due dei 33 progetti avviati - di durata biennale - e che hanno coinvolto 6.300 lavoratori. Per ora si parla di provvedimenti pilota, ma potrebbero dare uno scossone alla condizione occupazionale delle donne che - nel 2011 - «erano disoccupate per il 50%» secondo dati Eurostat ripresi da Roberta Marracino di McKinsey (società di consulenza e ricerca in business, marketing e finanza) e Carlo Alberto Carnevale, docente alla Bocconi. Il risultato di un così scarso impiego della componente femminile della società si riflette anche sul Pil che in Italia «tra il 2000 e il 2010 è salito dello 0,4%, contro il 2,2% della Svezia dove il tasso di occupazione femminile è del 76%». Scettica è poi la posizione di Sandro Del fattore, del dipartimento Welfare della Cgil, che nega l'eventuale aumento di produttività che i buoni aziendali garantirebbero perché - scrive - «non è un buono che dà un servizio ma la sua esistenza. Un voucher, ancorché defiscalizzato, non sostituisce ad esempio l'asilo nido». Ovvero c'è bisogno di infrastrutture in questi casi, non si può demandare tutto al privato eliminando lo Stato. E poi - aspetto non secondario - se il welfare aziendale dipende dalla contrattazione collettiva nazionale, si taglia fuori praticamente la metà dei lavoratori «nel paese delle microimprese» che è l'Italia. La Cgil, d'altronde, non è nuova a critiche simili verso questa sorta di 'ammortizzatori sociali' a carico delle aziende, un sistema che i sindacati in generale non vedono di buon grado, ma anzi osteggiano. Caso esemplare è stato quello dell'imprenditore del cachemire Bruno Cucinelli, che a Natale 2012 ha deciso di suddividere una porzione degli utili annuali - 5 milioni - con i suoi quasi 800 dipendenti. Elargizione concretizzata in un 'regalo' da 6.385 euro ciascuno. Il precedente c'era stato con Diego Della Valle nel 2008, quando il manager premiò i lavoratori con un bonus da 1400 euro. Magnanimità ripetuta poi di anno in anno fino al 2012, anno in cui il numero uno della Tod's ha garantito ai suoi dipendenti la copertura per l'acquisto dei libri scolastici dei figli e per le spese mediche familiari. Tutti gesti questi che i sindacati hanno invece paradossalmente attaccato. Ma chi paga i servizi di welfare aziendale? La questione è stata aperta dai relatori Treu e Dell'Aringa. «L'incentivo pubblico è giustificato dagli obiettivi che il sistema è in grado di raggiungere. E non vi è dubbio che la qualità di questi obiettivi giustificano anche l'intervento del fisco». La normativa andrebbe aggiornata, non è più accettabile, a loro dire, applicare l'esenzione fiscale solo al di sotto del tetto massimo dei 5 euro (il valore standard del buono pasto), come stabilisce la legge attuale. Bisogna fare di più per rendere il sistema efficiente e appetibile. Un'ipotesi è anche quella della ripartizione del costo dei servizi «tra Stato, impresa e lavoratori: in fondo se il lavoratore paga ha comunque un vantaggio perché il costo del servizio è inferiore al valore di ciò di cui usufruisce». In questo senso «la strada più semplice è lasciare ai dipendenti un menu di possibili servizi, il cui totale dovrebbe essere equivalente in moneta per tutti». In tempi di crisi, insomma, tocca arrangiarsi. E anche il ripensamento del sistema del welfare, che - come dicono gli esperti - potrebbe trovarsi a breve senza fondi, deve passare attraverso il filtro di una riduzione delle risorse disponibili. Il che non vuol dire necessariamente stare peggio: una spesa al supermercato già fatta invece di 100 euro in più in busta paga è un'ottima idea, che semplifica la vita e ottimizza i tempi dei lavoratori, specie se donne e ancor più se madri. La prospettiva è a prima vista entusiasmante. Non sarebbe tollerabile però un potenziamento del welfare solo a favore di chi dispone di un contratto a tempo indeterminato. La crisi chiede anche di guardare a chi più ha bisogno: e in questo momento sono i precari. Marracino e Carnevale accennano al problema nella monografia all'interno del libro: «A fronte della generazione degli inpergaranatiti dal welfare, i cittadini più giovani si trovano di fronte a un saldo fiscale strutturalmente negativo, per il quale non hanno nessuna prospettiva di maturare gli stessi privilegi dei genitori ma si trovano anche a dover obbligatoriamente pagare il conto degli eccessi di debito accumulati». Oggi, scrivono, abbiamo un «welfare recessivo» che «sta scatenando un diffuso e comprensibile risentimento generazionale». Per questo è indispensabile ripensare un nuovo welfare «solidale ma sussidiario, sostenibile e orientato alla produttività e allo sviluppo». Per la società civile, «una priorità assoluta». Ilaria Mariotti Per saperne di più su questo argomento, leggi anche: - Videointervista a Michel Martone: welfare dei privati, cos'è e a cosa serve- Maternità precaria: per avere un sussidio meglio essere ragazza madre- Indennità di maternità per le precarie, quanto danno le casse previdenziali dei professionisti- La Regione Veneto avvia Welfare to Work: 1.250 stage con rimborso di 600 euro al mese per gli under 30

Il matrimonio diventa low-cost grazie alla start-up siracusana Progetto Wedding

«Tutto è partito da una nostra esigenza: quando stavamo organizzando il nostro matrimonio siamo andati in cerca di prodotti originali sul web. Nessuno offriva questo servizio e li abbiamo acquistati all'estero. Ma tornati dal viaggio di nozze abbiamo fatto un'analisi di mercato dettagliata». A raccontare la nascita di Progetto Wedding è Salvatore Cobuzio (34), che insieme alla moglie Simona Canto (30) [a destra nella foto] e a Laura Bevelacqua (31) hanno dato vita a questa start-up che si dedica al commercio on-line di prodotti legati alle cerimonie.I tre, tutti originari di Siracusa dove ha sede anche l'azienda, si conoscono da una vita. E tra il 2005 ed il 2010 hanno condiviso anche un soggiorno a Roma dove Cobuzio, a quattro esami dalla laurea in Architettura, ha lavorato alle campagne pubblicitarie di Zoomarine e Sammontana. Ed ha anche scritto un libro, “Il testamento di Salvatore Siciliano”, uscito per Fazi, casa editrice della quale è poi diventato direttore marketing. Nel suo staff ha sempre voluto accanto a sé Bevelacqua, che invece si è laureata in Storia e conservazione dei beni culturali. Mentre Canto, nella capitale, ha lavorato come commerciale in diverse realtà.Unico tratto comune, oltre all'amicizia reciproca, il contratto a progetto: «Noi non abbiamo nemmeno mai chiesto qualcosa di diverso, avevamo l'obiettivo di creare qualcosa di nostro. Volevamo uscire dalla Sicilia per fare esperienza per poi lanciare un progetto nella nostra regione, dove i costi di gestione sono più bassi». A cominciare da quelli per la sede, che «a tutt'oggi è ancora casa mia».L'azienda è nata ufficialmente nel settembre del 2011, anche se il sito è andato on-line solo nel gennaio 2012. Il nome scelto parte dall'esperienza delle nozze tra due dei tre fondatori: «Organizzare un matrimonio richiede un progetto». In particolare, il modello di business ricalca i servizi dei quali Cobuzio e Costa avrebbero voluto usufruire prima di sposarsi. Non si tratta solo di vendere bomboniere, abiti, confetti e partecipazioni: «Abbiamo attivato una serie di collaborazioni con wedding planner, fotografi, location e autonoleggi in tutta Italia», un gruppo di professionisti che, in cambio della visibilità offerta dal portale, offrono ai clienti di Progetto Wedding dei prezzi vantaggiosi. E in breve tempo l'orizzonte si è allargato anche alle nascite, ai battesimi, alle feste di compleanno.«Fare e-commerce in Italia è molto duro, la gente non si fida». Per combattere la diffidenza dei potenziali clienti i tre startupper siracusani hanno escogitato «nuove modalità di pagamento, come quello alla consegna. Abbiamo un numero di telefono sempre a disposizione e spediamo anche un semplice campione», così che gli utenti del sito possano decidere l'acquisto avendo toccato con mano il prodotto. I risultati di questa politica non sono tardati: «in un anno abbiamo realizzato quasi 2mila spedizioni e come utenti unici sul sito superiamo i 10mila al mese».Anche sul piano economico, i risultati sono positivi. Il punto di pareggio è stato raggiunto «due giorni dopo la messa on-line, anche perché era molto basso». Il primo mese ha portato un fatturato di 12mila euro, «dopo il primo anno abbiamo superato i 150mila». I tre fondatori riescono così a vivere del loro lavoro ed hanno appena assunto una ragazza di Milano che si occuperà solo di abiti da sposa e un ingegnere torinese che si occuperà di ottimizzare il sito web. In entrambi i casi con contratti a progetto, ma «non appena diventeremo srl passeranno a tempo indeterminato, sono persone che valgono e le vogliamo bloccare».Al momento, infatti, Progetto Wedding è una ditta individuale, «perché i costi sono più bassi: con un migliaio di euro abbiamo registrato l'azienda e creato il sito», ma tra qualche settimana verrà registrata come società a responsabilità limitata. Il tutto grazie ad un aumento di capitale garantito da investitori privati e fondi di venture capital. «Dovremmo raggiungere qualche centinaio di migliaia di euro, ma ancora non possiamo dare notizie ufficiali».Un risultato reso possibile anche grazie alla particolare tecnica di marketing messa in piedi da questa start-up nata con lo scopo di «vendere un sogno e venderlo low-cost». Non un euro è stato investito in pubblicità: «Siamo su Internet tutto il giorno, frequentiamo blog e forum dove si parla di matrimoni e cerimonie in genere. Vediamo cosa cerca la gente e rispondiamo dicendo che noi l'abbiamo». Ed inserendo il link al proprio sito: tutto viral & unconventional marketing, insomma. Il risultato è quello di un'azienda partita da un garage di Siracusa, che tuttora ospita il magazzino dal quale partono i prodotti che vengono spediti anche in Francia e Spagna, ed arrivata tra i finalisti del terzo girone di Wind Business Factor 2012 e del concorso “Prendi parte al cambiamento” di Ing-Direct. E che con l'aumento di capitale punta ad attuare un piano di sviluppo che prevede l'inserimento in azienda di altre dieci persone. Chiamate a contribuire alla realizzazione del Progetto Wedding.Riccardo Saporitistartupper@repubblicadeglistagisti.itVuoi conoscere altre storie di start-up? Leggi anche:- L'artigianato si vende in Rete grazie alla startup fiorentina Buru-Buru- Solwa, la start-up padovana che purifica l'acqua con l'energia solare- Dalla Romania a Torino per diventare startupper. E italiano- Tiny Bull Studios, la start-up che guarda al futuro dei mobile game- Startupper, nuova rubrica della Repubblica degli Stagisti dedicata ai giovani che creano impresaVuoi saperne di più sui concorsi per le start-up? Leggi anche:- Al via Wind business factor 2013, il campionato italiano delle start-up

Talento x investimento = risultati: la formula anticrisi per i giovani

Cinque anni. Da tanto dura la crisi economica peggiore dal secondo dopoguerra; ma oggi più che mai in Italia, complice lo stallo politico, si fatica ad intravedere valide soluzioni agli squarci creati nel tessuto produttivo e sociale, a cominciare da un mercato del lavoro in panne. Verrebbe da chiedersi: cosa fare quando tutto sembra non funzionare?Puntare sul proprio talento, risponde Sebastiano Zanolli, 48 anni, da sei direttore generale di una famosa linea di abbigliamento giovanile. «Dovresti tornare a guidare il camion Elvis» è il suo quinto libro (107 pagine, Franco Angeli Editore, disponibile anche in versione e-book), uno di quelli che fa comodo avere tra le mani quando la propria strada sembra difficile da scoprire, o da percorrere. Come successe ad Elvis Presley all'inizio della sua carriera: da camionista aspirante cantante a The King passando per svariati giudizi al vetriolo, come quello a cui si rifà il titolo del libro, pronunciato da un poco lungimirante talent scout. «Che possibilità abbiamo di essere ciò che sentiamo più coerente con la nostra essenza, qual è questa essenza, come arriviamo a capirlo? Quanto contano il parere del prossimo, le situazioni contingenti, la fortuna e il destino, e che reali possibilità ci sono in un mondo così diverso da quello del passato?». Laurea in Economia alla Ca' Foscari di Venezia e un'esperienza ventennale nel marketing di multinazionali del settore abbigliamento (passando per la vendita di software e di condizionatori, leggi qui l'intervista all'autore), Zanolli ha messo su carta i consigli che avrebbe lui stesso voluto ricevere e le riflessioni di un manager tanto di successo quanto singolare, che passa ore a rispondere alle domande e agli sfoghi su Facebook e realizza gratuitamente incontri di orientamento lavorativo per i giovani - coltivando nel frattempo una tenace allergia a giacche e cravatte.Il libro, curiosamente introdotto da una nota di Donatella Rettore, è un invito appassionato a inseguire i propri sogni, a non mollare, a rischiare, a far rumore, a non soccombere alla logica del "tanto non cambia niente". Nonostante la miopia delle classi dirigenti, nonostante i corporativismi, la precarietà dei contratti, le retribuzioni basse, le porte in faccia. O forse grazie a queste difficoltà inedite, nota Zanolli, visto che «la pancia piena, la sicurezza, non pungolano e non fanno scattare alcuna molla motivazionale». Non a caso il volume nasce spontaneamente da un popolare post dell'autore sul proprio blog, intitolato provocatoriamente "Non ce la farai", un po' un leitmotiv della sua gioventù. E invece sì, è il rimbecco implicito. Il segreto? Fare ciò che si ama, scoprire e coltivare il proprio talento. È una conquista, il punto di arrivo di un viaggio. Già la prima fase, la scoperta, può essere faticosa. Molti talenti non sono ovvi, lampanti, ma vanno riportati alla luce. Sebastiano Zanolli spiega il suo personale metodo, fatto di un percorso a ritroso nel passato (cosa da piccoli faceva passare il tempo in fretta, dava più gioia e soddisfazione, sembrava venire naturale?), ricostruzioni di sè nelle parole delle persone più care e test scientifici basati sulla psicologia junghiana. Un mix di introspezione e rigore, alla ricerca di "fili rossi", di indizi: tratti della personalità ricorrenti, abilità singolari, passioni sopite che puntino in una direzione.Ma siamo solo all'inizio: talent is overrated, il talento è sopravvalutato, per dirla con il giornalista Geoff Colvin. «Per ottenere un risultato serve qualcosa in più» spiega Zanolli «un lungo impegno cosciente, intenzionale e ininterrotto». Serve investire rigorosamente su se stessi e lavorare alla costruzione di reti: «quanto tempo alla settimana dedicate a preparare un'alternativa alla vostra situazione? Potrebbe essere studiare, contattare, informarsi, risparmiare». Qui, oggi, lo possono fare tutti. I mezzi non mancano. Ma prima bisogna liberarsi dalla convinzione di essere in credito, e dall'abitudine «a farci compatire più che a farci valere». Come ha scritto l'autore altrove, serve ottimismo e pelle dura. L'antidoto alla paura si chiama azione e nei momenti di difficoltà alcuni pezzetti di storia possono servire a spronarci: «La chitarra va bene John, ma non ti darà certo di che vivere», disse la zia di un giovane John Lennon (parole poi incise su targa) o, appunto, «Dovresti tornare a guidare il camion Elvis».Annalisa Di Palo [foto: Yorick Photography]Per saperne di più su questo argomento: - La pacchia è finita, giovani: ma potete farcela lo stesso. Basta crederci, come Elvis Presley - «Sta a noi, oggi, costruirci un domani migliore»: Rosina smonta gli alibi dell'Italia che non cresce- Al via Controesodo, lo scudo fiscale per il rientro dei talenti in Italia- In Nordafrica i giovani hanno deciso che il loro tempo è adesso. E in Italia?

Crowdfunding e registro delle start-up innovative: il punto sul decreto Passera

La Consob ha aperto una consultazione online sul regolamento per il crowdfunding, 453 imprese si sono iscritte nel registro delle start-up innovative, Mise e Miur hanno stanziato 30 milioni di euro a sostegno delle nuove aziende del Sud.  Questo il punto della situazione a quattro mesi dalla conversione in legge del decreto Sviluppo bis.Il tassello mancante nel mosaico definito dal governo a partire dal rapporto Restart Italia!, realizzato da una task force voluta a inizio 2012 dal ministro Corrado Passera, è appunto quello del crowdfunding, ovvero la possibilità per le imprese di raccogliere finanziamenti attraverso sottoscrizioni in Rete. La norma prevedeva che entro il 19 marzo la Consob, l'autorità che vigila sulla Borsa, definisse le regole del gioco. Una scadenza che l'autorità di controllo dei mercati in realtà non ha rispettato: nelle scorse settimane ha rivolto un questionario a investitori professionali e startupper, sui risultati del quale ha stilato una bozza di regolamento pubblicata sul proprio sito.Questo documento prevede l'istituzione di un registro dei gestori, ovvero un albo dei soggetti che si occupano di piattaforme di crowdfunding al quale deve iscriversi chiunque voglia muoversi nel settore della raccolta di fondi destinati alle start-up. Viene inoltre stabilito il principio per cui la pubblicazione delle offerte sarà possibile se almeno il 5% della somma richiesta sia stata sottoscritta da investitori professionali. Ovvero da fondazioni bancarie, società finanziarie, venture capitalist e incubatori di impresa. A tutela degli aspiranti azionisti, inoltre, i gestori sono tenuti a sottolineare i rischi di perdita dell'intero capitale e di illiquidità, così come il fatto che per i primi cinque anni di attività le start-up innovative non possono distribuire utili. Rispetto a questo documento, gli interessati possono far pervenire le proprie osservazioni entro il 30 aprile. Solo successivamente verrà quindi redatto il testo definitivo.In attesa che la Consob stabilisca le regole perché possano ottenere finanziamenti online, cresce - anche se a passo di lumaca - il numero di start-up innovative che si iscrivono nell'apposito registro istituito dalle singole Camere di Commercio. Lo scorso 25 marzo, data dell'ultima rilevazione, erano 453 le nuove aziende inserite nell'elenco. Il settore maggiormente presente è quello dei servizi, con 325 realtà, seguito da industria ed artigianato rappresentate da 90 imprese. La provincia che vede il maggior numero di iscrizioni è Torino, dove sono 53 le ragioni sociali inserite nell'elenco curato dalla Cciaa. Seguono Milano e Roma, rispettivamente con 31 e 24 start-up innovative.Va molto peggio al Sud: solo 15 in tutta la Puglia, 10 in Sicilia, 4 in Calabria e appena 3 in Campania. Per favorire lo sviluppo di nuoveaziende in queste quattro regioni, però, il ministero dell'Istruzione insieme a quello per lo Sviluppo economico hanno stanziato 30 milioni per finanziare micro, piccole e medie imprese attive da meno di sei anni. I titolari hanno tempo fino al 13 maggio per presentare domanda e ottenere finanziamenti biennali di entità compresa tra i 400mila ed il milione e 200mila euro.Il bando si articola in quattro sezioni. Quella sulla quale si concentra la maggior entità di risorse (14 milioni) è quello culturale: il governo vuole sostenere imprese in grado di sviluppare tecnologie per la valorizzazione dei beni artistici e culturali. Altri 8 milioni vanno al cosiddetto “Big data”, ovvero alle start-up che si occupano della gestione di grandi quantità di dati, mentre 7 sono riservati alla social innovation, cioè ad aziende che lavorano in settori come le energie rinnovabili, l'istruzione, il dialogo interculturale, le produzioni biologiche, la finanza etica. Infine 1 milione di euro viene riservato alle università con sede in queste quattro regioni che sviluppino dei Contamination labs, ovvero spazi aperti a studenti di diverse discipline nei qualsi si organizzino eventi di promozione dell'imprenditorialità e dell'innovazione. L'auspicio è che queste realtà possano rappresentare il brodo di coltura per lo sviluppo di nuove start-up nel Mezzogiorno.Riccardo Saporitistartupper@repubblicadeglistagisti.it Vuoi saperne di più sul decreto Sviluppo bis e sul sostegno alle start-up? Leggi anche:- Il decreto per le start-up è legge. E comincia già a far discutere- Start-up, la task force lavora a criteri più inclusivi e accelera sul decreto attuativo- «Restart Italia», con il decreto Sviluppo bis arrivano (quasi tutte) le proposte per le start-up- «L'Italia riparta dalle start-up»: ecco il piano del ministro PasseraVuoi conoscere altre storie di start-up? Leggi anche:- L'artigianato si vende in Rete grazie alla startup fiorentina Buru-Buru- Solwa, la start-up padovana che purifica l'acqua con l'energia solare- Startupper, nuova rubrica della Repubblica degli Stagisti dedicata ai giovani che creano impresa

Inoccupati e disoccupati, distinzione complicata. E da luglio cambierà tutto

Che differenza c'è tra disoccupati e inoccupati? Sembra assurdo, anche perchè su queste definizioni spesso si basa la possibilità di accedere a iniziative di sostegno all'occupabilità, ma una risposta univoca non c'è. Perchè la distinzione non è uniforme su tutto il territorio nazionale. I centri per l'impiego applicano infatti criteri differenti per stabilire se i cittadini privi di lavoro debbano iscriversi all’una o all’altra categoria. Entro il luglio di quest’anno, però, la situazione potrebbe cambiare. E finalmente i cpi di Roma potrebbero adottare gli stessi criteri dei Cpi di Milano o Napoli. Il punto di svolta arriva dalla legge 92 del 2012, più nota come «riforma Fornero», che modifica i criteri di perdita e sospensione dello stato di disoccupazione, eliminando la possibilità di conservare tale status pur percependo un reddito massimo di 8mila euro (per i lavoratori dipendenti) o 4.800 euro (per i lavoratori autonomi) lordi l’anno. È stata inoltre ridotta da 8 a 6 mesi la durata dei contratti di lavoro subordinati che permette di sospendere lo stato di disoccupazione. Queste novità non sono ancora entrate in vigore, ma dovranno essere recepite dalle Regioni con dei regolamenti appositi entro il primo luglio del 2013. Sarà proprio l’inasprimento dei requisiti per la disoccupazione a permettere di far chiarezza sulla distinzione tra inoccupati e disoccupati.«La definizione esatta di “inoccupato”? In teoria è colui che non ha mai avuto un’esperienza di lavoro. In pratica, però, non esiste ancora una risposta chiara e univoca. Per capire perchè bisogna ripercorrere un po’ di storia della normativa italiana in materia di disoccupazione». Così Grazia Strano, responsabile della Direzione generale per le politiche dei servizi per il lavoro del ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, chiarisce con la Repubblica degli Stagisti una questione che a tutt’oggi solleva molti dubbi e perplessità tra i lettori.«Il decreto legislativo 181 del 2000 ha abolito le vecchie liste di collocamento istituendo un’anagrafe dei lavoratori», spiega Strano. Il decreto distingue tra disoccupati e inoccupati: i primi sono individui di età superiore ai 15 anni, che abbiano assolto gli obblighi dello studio e che abbiano già avuto un lavoro retribuito in passato; devono essere sì privi di impiego, ma anche immediatamente disponibili sia a lavorare, sia a ricercare il lavoro.  Per gli inoccupati valgono sostanzialmente gli stessi requisiti, con una importante differenza di base: si tratta di individui che non hanno mai avuto contratti di lavoro. Spesso, quindi, gli inoccupati sono neolaureati o neodiplomati che rientrano nella crescente percentuale di giovani privi di impiego in Italia.Fin qui la distinzione tra disoccupati e inoccupati sembra lineare. Le cose si complicano quando si tiene conto delle condizioni per la conservazione dello stato di disoccupazione anche durante lo svolgimento di attività lavorative. Stando alla vecchia normativa (che verrà soppiantata a luglio dall’entrata in vigore della legge 92), chi è iscritto all’anagrafe dei lavoratori resta comunque disoccupato anche qualora abbia un contratto di lavoro dipendente, cococo o quale socio di una cooperativa, a patto però che il reddito annuo lordo imponibile non superi la soglia degli 8mila euro. Stesso discorso per i lavoratori autonomi, i liberi professionisti, i titolari di partita Iva e i prestatori d’opera occasionali che non guadagnino più di 4.800 euro lordi l’anno. Lo stato di disoccupazione è invece sospeso in presenza di rapporti di lavoro subordinato della durata inferiore agli 8 mesi (che diventeranno 6 con la nuova legge).Dov’è l’inghippo? «Il decreto 181 agisce come una legge quadro; sono le Regioni che devono disciplinare concretamente l’attuazione sul territorio» chiarisce Strano. E su questo punto specifico non tutte le amministrazioni locali hanno adottato un orientamento uniforme. Così, ci sono regioni che prendono alla lettera la definizione di “inoccupati”: «Basta avere effettuato anche soltanto un giorno di lavoro per passare dallo stato di inoccupato a quello di disoccupato», commentano dal Cpi di Catanzaro. Giuseppe Squillace, responsabile dei Cpi di Rozzano e Corsico (Milano), concorda con questa interpretazione e specifica ulteriormente: «Non importa la tipologia di rapporto di lavoro. Che sia un apprendistato portato a termine o lasciato dopo poche settimane, un cococo, una prestazione da libero professionista: aver svolto in precedenza una qualsiasi di queste attività comporta il passaggio da inoccupato a disoccupato». Restano esclusi da questo principio soltanto gli stage che, per l’appunto, non sono rapporti di lavoro ma di formazione.Ci sono poi le Regioni che hanno fornito un’elaborazione più articolata della legge. Il principio è questo: se i limiti di 8mila euro e 4.800 euro per i lavoratori dipendenti e autonomi sono sufficienti a conservare la disoccupazione, allora valgono anche per mantenere lo status di inoccupato. Dal Cpi di Empoli lo spiegano chiaramente: «Possono iscriversi alle liste degli inoccupati, fermi restando i requisiti generali, tutti i lavoratori che in passato abbiano avuto contratti di lavoro di durata inferiore a 8 mesi e con retribuzione compresa entro i 4.800 - 8mila euro lordi l’anno. Se un qualsiasi rapporto di lavoro passato ha superato queste soglie, allora è possibile iscriversi alle liste dei disoccupati».In questo quadro interviene , però, la distinzione tra inoccupati e disoccupati potrebbe diventare più chiara, o almeno essere trattata uniformemente a livello nazionale. «La legge 92, articolo 4, comma 33, lettera c, ha parzialmente modificato il decreto 181. Ha eliminato i requisiti di conservazione dello status di disoccupazione. Chi fa un lavoro temporaneo, anche da 2mila euro lordi l’anno, perde comunque lo stato di disoccupato. Le Regioni hanno manifestato la volontà di adottare delle discipline omogenee che recepissero le novità normative introdotte nel 2012. Hanno però riscontrato delle difficoltà a disciplinare in materia in tempi brevi. Si sono quindi date un limite temporale per l’emanazione dei regolamenti regionali: il primo luglio del 2013», conclude Strano.In attesa del nuovo quadro disciplinare omogeneo, ad oggi è possibile dare i seguenti consigli pratici ai giovani senza lavoro che debbano iscriversi ai Centri per l’Impiego: prima di tutto, è bene tenere conto di tutti i lavori svolti in passato, anche quando si trattava di collaborazioni occasionali. Per sicurezza, conviene chiamare il Cpi di riferimento sul territorio e chiedere quale sia la politica locale in materia di disoccupati e inoccupati. Infine, non bisogna confondere l’apprendistato (che è un contratto a tempo indeterminato a tutti gli effetti) con i tirocini (che sono invece rapporti di formazione e quindi non vanno considerati al momento dell’iscrizione alle liste dei disoccupati o degli inoccupati). Tenendo sempre ben presente che da luglio cambia tutto.di Andrea CuriatPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Inoccupati, disoccupati, stagisti: facciamo chiarezza- Tirocini extracurriculari, linee guida approvate: le Regioni legiferino entro luglio- Simoncini: «Positive le linee guida sugli stage: ora vigilate affinché ciascuna Regione le renda al più presto operative»- La Corte costituzionale annulla l'ultima legge sugli stage: «Solo le Regioni competenti in materia»

Reddito minimo garantito, le proposte dei partiti

Cosa pensano i partiti in tema di reddito minimo? Alcuni, come il Movimento 5 Stelle, fanno della proposta di introdurre sussidi universalistici pagati dallo Stato una vera e propria bandiera. Ma con cognizione di causa?Nelle 15 pagine di programma del M5S si trova il sussidio di disoccupazione garantito; però a più riprese nei comizi elettorali Beppe Grillo a dire il vero ha parlato di reddito di cittadinanza: «Il lavoro non c'è più. Io voglio fare solo una cosa: mettere la possibilità di sopravvivere senza un lavoro. Fare un reddito di cittadinanza». Il che significherebbe stabilire una cifra mensile che ciascun cittadino, senza nessuna restrizione, avrebbe diritto di ricevere dallo Stato in cui vive: questo è, tecnicamente, il reddito di cittadinanza – una misura molto più onerosa per le casse dello Stato. Grillo sostiene che l’Italia è l’unico Paese a non averlo in Europa, e nei comizi aggiunge: «Allora hai tre anni di tempo per cercarti un lavoro che ti compete un po' di più, perché accettare qualsiasi lavoro non è lavoro». Da tutto questo si capisce che il M5S fa un po’ di confusione con la terminologia, e che quello che si ripropone di realizzare è una versione ibrida di reddito minimo garantito – infatti alcuni parlamentari del M5S parlano di “sussidio condizionato”. Anche il Pd ha toccato l’argomento negli “otto punti per un governo di cambiamento” presentati dopo le elezioni: Bersani ha proposto un salario minimo per chi è senza copertura contrattuale, un'indennità di disoccupazione universale, e un reddito minimo di inserimento, un termine, quest'ultimo, mutuato dai nostri cugini d'Oltralpe. Nel programma di Sinistra Ecologia e Libertà si parla invece esplicitamente di un reddito minimo garantito di 600 euro al mese, ma in diverse occasioni Nichi Vendola ha affermato la necessità di introdurre un reddito di cittadinanza. Per capire in cosa consistono concretamente le proposte delle tre forze politiche presenti in Parlamento che chiedono l'introduzione di in reddito minimo, La Repubblica degli Stagisti ha chiesto chiarimenti a tre esponenti esperti in materia. La proposta del M5S. Sussidio di disoccupazione, reddito di cittadinanza o reddito minimo garantito? «In realtà si tratta di un ibrido tra un reddito di inserimento e un sussidio di disoccupazione, una sorta di “salario sociale”», spiega Mauro Gallegati, 55 anni, professore di Economia politica all'università politecnica delle Marche e consulente economico del M5S. «Quello che abbiamo in mente è un sussidio di 1.000 euro erogato per tre anni a tutti i disoccupati, indipendentemente dalla forma contrattuale, a condizione che il beneficiario si impegni a cercare attivamente lavoro. Accanto a questo sussidio vorremmo poi introdurre una sorta di “reddito di inserimento” per i giovani alla ricerca della prima occupazione: potrebbero essere 500 euro per un massimo di quattro anni. Il fatto che si tratti di misure limitate nel tempo fa sì che non si creino pericolosi meccanismi di disincentivazione al lavoro e rende economicamente sostenibile la proposta. Secondo le nostre stime, costerebbe circa 25-30 miliardi all'anno. Ma da questa somma bisognerebbe scorporare i 18 miliardi di costi degli ammortizzatori sociali già esistenti, frammentati e non universali (indennità di disoccupazione, cassa integrazione, mobilità), che verrebbero assorbiti da questo sussidio». Quanto al meccanismo di decadenza, Gallegati ha in mente una sorta di “condizionatezza temperata”: «Nella nostra idea, che però è ancora in fase embrionale, il sussidio cesserebbe solo se il beneficiario rifiutasse offerte di lavoro “congrue”, cioè adeguate alle sue qualifiche. Non si può chiedere a un ingegnere di accettare un impiego da cameriere, non perché sia un lavoro meno dignitoso, ma perché in questo modo andrebbero persi talenti e competenze preziosi per la nostra società». 
La proposta del Pd. Cos’è il reddito minimo d'inserimento, uno dei punti in programma per il prossimo governo? A spiegarlo è Stefano Fassina, deputato e responsabile del settore economia e lavoro del Pd, 46 anni: «Intendiamo un reddito di ultima istanza per chi, in età attiva, si trovi temporaneamente senza impiego e sia disponibile a lavorare e a partecipare ad attività di formazione per la rioccupabilità. Si tratterebbe quindi di uno strumento di contrasto alla povertà e insieme di reinserimento lavorativo. Andrebbe ad affiancare l’indennità di disoccupazione, che a sua volta dovrebbe essere riformata e universalizzata. Sarebbe una misura pensata per chi non ha mai lavorato, per chi ha esaurito il periodo di sussidio di disoccupazione e per chi lavora in modo discontinuo o intermittente. Lo immaginiamo come un reddito mensile di circa 500 euro, di durata illimitata ma strettamente condizionato alla disponibilità ad accettare un lavoro che rientri in in un range di adeguatezza rispetto al proprio profilo professionale». Il costo di una misura del genere? «Difficile dirlo, sono troppe le variabili da stabilire, come ad esempio la soglia reddituale e patrimoniale da non superare per averne diritto. Noi vorremmo dei parametri piuttosto stringenti, in modo da aiutare chi ha davvero bisogno di assistenza. Immaginiamo una spesa non troppo lontana da quella sostenuta dalla Francia, circa 10 miliardi di euro l'anno. Se è vero che il Pil francese è un quinto più alto del nostro, è vero anche che la soglia di reddito sotto cui intervenire sarebbe sicuramente inferiore, perché purtroppo in Italia gli stipendi sono più bassi e una persona che guadagna 1.400 euro lordi non è considerata affatto bisognosa di aiuto». La proposta di Sel. Reddito minimo garantito o reddito di cittadinanza? «La confusione è solo nella scelta lessicale, non nelle idee, che il partito ha molto chiare già da tempo» assicura alla Repubblica degli Stagisti Marco Furfaro, 32 anni, responsabile delle politiche giovanili di Sel, primo dei non eletti al consiglio regionale malgrado le 4.737 preferenze. «Un reddito minimo garantito di 600 euro al mese a tutte le persone inoccupate, disoccupate e precariamente occupate con un reddito personale imponibile inferiore a 7.200 euro, residenti sul territorio nazionale da almeno 24 mesi. Questa è la proposta di legge di iniziativa popolare che Sel ha fortemente sostenuto insieme a oltre 170 associazioni e che ora è pronta a sbarcare in Parlamento», afferma Furfaro. «Il sussidio andrebbe ovviamente ricalcolato in base al numero di familiari a carico: si passa dai 600 euro per un single ai 1.000 per un nucleo di due persone ai 1.330 per tre. Il mio partito intende il reddito minimo come un programma di welfare e non solo come misura assistenziale: è un'opportunità che consentirebbe di vivere con dignità le delicate fasi di passaggio tra un lavoro e l’altro e offrirebbe finalmente tutele adeguate anche ai soggetti più esposti ai rischi di esclusione sociale, come giovani, precari e donne». Come risolvere il problema di coniugare il reddito minimo garantito con l’esigenza di mantenere alta la propensione al lavoro? «Attraverso un sistema di ricollocamento attivo che segua in maniera efficiente il percorso di reinserimento di ogni singolo lavoratore, lo aiuti nell’attrezzarsi alle nuove sfide del mondo del lavoro e condizioni il mantenimento del reddito minimo alla sua disponibilità effettiva ad accettare offerte di lavoro compatibili con le sue competenze. A Roma per esempio nel 2011 è nata Porta Futuro, una struttura moderna pensata per incoraggiare l’incontro tra domanda e offerta. Qui disoccupati e inoccupati possono accedere a servizi di orientamento, bilancio di competenze, stesura del cv, mentre le aziende hanno a disposizione servizi mirati per il reclutamento del personale, che vanno dalla preselezione al career day. Non solo: il centro romano aiuta anche chi intende intraprendere un’attività autonoma, ad esempio favorendo l'incontro tra persone interessate a condividere spazi e spese attraverso il coworking».E i costi? «È molto difficile fare una stima, perché la platea dei possibili beneficiari cambia ogni giorno e perché molto dipende da come verrebbe riorganizzato il welfare, e quindi da quali e quanti strumenti esistenti verrebbero assorbiti. Per dare un'idea almeno sull'ordine di grandezza, Sel ha previsto un costo annuo compreso tra i 10 e i 14 miliardi di euro. Una cifra che potrebbe essere abbattuta se avessimo delle politiche per l'occupazione efficienti e funzionali, ma anche una riforma strutturale di questi servizi avrebbe ovviamente i suoi costi, difficilmente quantificabili». Al di là della proliferazione di termini, dunque, sembra che Sel e Pd possano facilmente convergere in una proposta di reddito minimo garantito che abbia caratteristiche di universalità, durata illimitata e condizionatezza “temperata”, subordinata cioè al criterio della “congruità” dei lavori offerti rispetto alle competenze del singolo. Una soluzione che, nonostante le tante variabili ancora da stabilire, si inserirebbe pienamente nello schema delle misure di sostegno al reddito europee. Paradossalmente la proposta del M5S, urlata dalle piazze di mezza Italia e presentata come rivoluzionaria ed “esplosiva”, è non solo quella ad oggi meno definita e più confusa, ma anche la meno innovativa, perché si configura più come un'estensione (nel tempo e nella platea dei beneficiari) del sussidio di disoccupazione che come un reddito minimo garantito. Una misura ancora una volta frammentata e non universalistica, che prevede significative differenze di tutela per disoccupati e giovani inoccupati. Alle urla di Grillo bisogna però riconoscere il merito di aver portato per la prima volta il tema al centro della discussione politica e di aver costretto a una presa di posizione più decisa anche un partito sinora molto cauto come il Pd. Anna GuidaPer approfondire questo argomento, leggi anche:- Radiografia del reddito minimo garantito: cos'è, quanto costa, come funziona- Abolire la legge Biagi e dare mille euro di sussidio a tutti: grillini, fate chiarezza sul programma e sulla copertura dei costiE anche:- Luca Santini: sì al reddito minimo per affrontare la precarietà- Pietro Ichino: il reddito minimo può funzionare solo a certe condizioni

Radiografia del reddito minimo garantito: cos'è, quanto costa, come funziona

Nelle ultime settimane si è parlato molto di reddito minimo garantito. Si tratta di un punto presente nei programmi di diverse forze politiche presenti nel Parlamento appena insediato ed è uno degli elementi programmatici fondamentali del M5S. Ma su cosa sia effettivamente c’è parecchia confusione. Prima di analizzare quale sia la proposta concreta dei singoli partiti su questo argomento, è bene fare un po’ di chiarezza e sgombrare il campo da possibili equivoci. Il reddito minimo garantito (Rmg) è una misura presente in molti Stati europei, volta a garantire un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongono di risorse sufficienti. È quindi un aiuto che lo Stato dà ai suoi cittadini affinché nessuno cada nella trappola della povertà e dell’esclusione sociale, ed è destinato principalmente a chi non ha redditi da lavoro o ha retribuzioni insufficienti. Si tratta di un programma universale e selettivo al tempo stesso, nel senso che è basato su regole uguali per tutti (non limitato ad alcune categorie di lavoratori), ma la concessione del sussidio è subordinato ad accertamenti sulla condizione economica di chi lo domanda e, generalmente, alla sua disponibilità a cercare un lavoro.Quindi il Rmg non è – solo – un sussidio di disoccupazione: quest'ultimo ha natura previdenziale (è finanziato con i contributi dei lavoratori), va soltanto a chi ha perso il lavoro e ha maturato una certa anzianità contributiva, è limitato nel tempo. Il sussidio di disoccupazione esiste anche in Italia e con la riforma Fornero è stato diversificato in due diversi strumenti, Aspi e MiniAspi, entrambi destinati ai lavoratori dipendenti. Secondo una proiezione della Banca d’Italia, mentre oggi solo il 50% dei lavoratori è coperto dal sussidio di disoccupazione, con la riforma Fornero questa percentuale aumenterà del 16%. Resterà comunque fuori più di un terzo dei lavoratori italiani, i più deboli, visto che Aspi e MiniAspi non includono chi ha un contratto di lavoro atipico. Né la nuova indennità una tantum per i collaboratori coordinati continuativi potrà colmare questa lacuna, dato che i parametri sono talmente stringenti da interessare potenzialmente meno del 10% dei parasubordinati, peraltro con importi pro capite bassissimi - compresi tra 750 e 4.500 euro l'anno. In molti Paesi europei il Rmg va proprio a coprire le fasce escluse dalle indennità di disoccupazione: precari, giovani alla ricerca del loro primo lavoro, persone che hanno cessato di ricevere il sussidio di disoccupazione, e anche chi, pur lavorando, non ha retribuzioni sufficienti a garantirgli una vita dignitosa. Un fenomeno che sembra tristemente in aumento in Italia, dove non esiste neppure il salario minimo, uno standard minimo di retribuzione oraria che deve essere inderogabilmente rispettato in tutti i rapporti di lavoro. In Francia per esempio è di 9,43 euro lordi all'ora, ovvero 1.430 euro mensili lordi per un impiego a tempo pieno. In Italia invece diversi livelli di salari minimi sono previsti, per ogni categoria di lavoratori, dalla contrattazione fra le parti sociali. Ma ancora una volta rimangono esclusi tutti coloro che “sfuggono” all’applicazione dei contratti nazionali (stagisti, parasubordinati o atipici ecc.). Nel dibattito politico italiano è poi molto diffusa la confusione tra Rmg e reddito di cittadinanza. Nonostante i due termini siano spesso usati come sinonimi, non lo sono affatto. Mentre il Rmg serve a dare una capacità di sussistenza a chi non accede a forme di retribuzione sufficienti, il reddito di cittadinanza è un sussidio dato a tutti i cittadini, indipendentemente dalla loro condizione lavorativa e patrimoniale, finalizzato al godimento pieno e consapevole dei loro diritti. Il reddito di cittadinanza (o di esistenza) è un sussidio universale e non condizionato: in altre parole se fosse introdotto in Italia lo riceverebbero tutti (dal disoccupato allo stagista fino a Lapo Elkann, come hanno scritto recentemente Tito Boeri e Roberto Perotti su La Voce) per un tempo indefinito e indipendentemente dalla loro ricchezza, da altri redditi e dalla loro volontà di cercare un lavoro. Un vero e proprio reddito di cittadinanza incondizionato al momento esiste solo in Alaska. Il modello nasce nel 1982 grazie a un'idea del governatore Jay Hammond: alla ricerca di un modo per sfruttare la ricchezza del petrolio della Prudhoe Bay a vantaggio dei cittadini, Hammond decise di creare un fondo sui rendimenti, l'Alaska Permanent Fund (APF) legato a una condizione: che una parte della rendita fosse devoluta al pagamento di un dividendo annuale a tutti i cittadini, dalla nascita fino alla morte. Grazie all'APF ogni cittadino dell’Alaska ha ricevuto dal 1982 a oggi fino a 2.069 dollari l’anno - cumulabili con lo stipendio, senza alcuna condizione. Se il reddito di cittadinanza, per ovvie ragioni di costi oltre che di opportunità politica, esiste solo in Alaska (un territorio sterminato popolato da soli 700mila abitanti), forme diversamente declinate di Rmg rappresentano invece uno schema comune a tutti i Paesi europei, eccetto Italia, Grecia e Ungheria.Sono state proprio le istituzioni della Comunità europea a indicare in più occasioni agli Stati membri la necessità di introdurre programmi nazionali di lotta alla povertà e all’esclusione sociale che prevedessero strumenti universalistici di tutela a partire proprio dal Rmg. In particolare il 20 ottobre 2010 il Parlamento europeo ha varato a vasta maggioranza una Risoluzione sul ruolo del reddito minimo nella lotta contro la povertà e la promozione di una società inclusiva in Europa, che afferma: «un adeguato sostegno al reddito è un elemento importante per le politiche di inclusione, dato che per coloro che sono esclusi dagli ammortizzatori sociali e dai sussidi di disoccupazione, il reddito minimo può essere l’unico modo per sfuggire alla povertà». Secondo questa risoluzione il Rmg è in primis un diritto sociale fondamentale, che ha come parametro assoluto la protezione della dignità dell'individuo e della sua «possibilità di partecipare pienamente alla vita sociale, culturale e politica».Ma chi può usufruirne nel resto d’Europa? Solitamente bisogna essere cittadino o almeno residente nel Paese da un certo lasso di tempo, bisogna avere una certa età (18 anni nella maggior parte dei casi, ma in Germania ne hanno diritto anche i minori), bisogna dimostrare di non avere risorse finanziarie o patrimoniali sopra una certa soglia e di essere alla ricerca attiva di un lavoro. Nella maggioranza dei Paesi, il Rmg è costituito in parte da un sussidio monetario, in parte da agevolazioni per la casa, i trasporti, gli asili nido, le cure mediche, i servizi culturali. In molti Paesi, è inteso anche come mezzo per consentire ai giovani di rendersi indipendenti dalla famiglia: per esempio in Danimarca un under 25 che non vive con i genitori riceve 719 euro mensili come “contributo per l’avviamento a una vita autonoma”. In Olanda il sussidio comprende anche misure specifiche per avviare i giovani al lavoro o a un percorso formativo, e integra i loro redditi qualora siano insufficienti o intermittenti. In quasi tutti i casi si tratta di un diritto soggettivo, rilasciato cioè a titolo individuale e non in base alle condizioni economiche del nucleo familiare, anche se può venire ricalcolato in base al numero di persone a carico. Per esempio in Germania un single inoccupato riceve 364 euro oltre alla copertura delle spese di alloggio e riscaldamento, mentre per un single con tre figli il sussidio monetario sale a 1.017 euro. Di norma la durata è illimitata, fino al miglioramento delle condizioni economiche del beneficiario, ma in molti Paesi il sussidio decade qualora si rifiutino proposte di lavoro giudicate congrue.Il problema del reddito minimo è che rappresenta un costo ingente. Ma quanto, di preciso? Una relazione dettagliata del dicembre 2011 sui risultati e sui costi della Revenu de solidarité active (Rsa) francese consente di esaminare i costi sostenuti da un Paese considerato simile al nostro per popolazione, tasso di disoccupazione, struttura sociale e tradizioni giuridiche. Il Rsa è stato introdotto dal 2009 per sostituire il Revenu minimum d’insertion, una forma di reddito minimo che esisteva dal 1988, il sussidio per i genitori soli e i diversi meccanismi di incentivo alla ripresa dell’attività lavorativa. Il Rsa spetta a tutti i residenti in Francia da almeno cinque anni, il cui reddito sia inferiore a una certa soglia (per un single è il salario minimo mensile, per una coppia senza figli circa 1,4 volte tanto) e la cui età sia compresa tra i 25 anni (fatta eccezione per quegli under 25 che siano già genitori o che abbiano almeno due anni di lavoro alle spalle) e l’età pensionabile. Il sussidio è pari a 483 euro per un single senza altri redditi, a 724 per una coppia, a 868 euro per una coppia con un figlio ecc. Al crescere del reddito da lavoro, il sussidio diminuisce ma il reddito disponibile aumenta: se un single guadagna 400 euro, per esempio perché lavora part-time, gli viene riconosciuto un sussidio di 318 euro e il suo reddito disponibile sarà di 718 euro, se uno ne guadagna 800 riceverà 166 euro di Rsa, per un “totale” di 966 euro. Questo meccanismo è pensato perché il Rsa non si trasformi in un disincentivo al lavoro, un’accortezza che potrebbe essere importata anche in Italia per evitare i temutissimi effetti distorsivi di un eventuale reddito minimo nel nostro Paese. Per riassumerli con le famose parole del ministro Elsa Fornero: «C’è troppa gente che si adagia, anche sul poco; e in questo Paese quindi se tu dai una cosetta a uno ha la tendenza a non muoversi, visto che c’è il sole per nove mesi all’anno e più o meno si vive con pomodori e pasta».Per tornare al modello francese e ai suoi costi, nel 2010 i beneficiari del Rsa sono stati 1,8 milioni (intesi come nuclei familiari, quindi circa 4 milioni di individui), di cui il 64% risultava del tutto privo di reddito, mentre il restante 36% ha richiesto il sussidio “integrativo”. La spesa complessiva per il finanziamento del Rsa nel 2010 è stata di 9,8 miliardi di euro, comprensiva delle erogazioni dei sussidi (84,4%), delle spese per i percorsi di attivazione e di inserimento (14,1%) e delle spese amministrative per la messa in opera della misura (1,5%). È una cifra molto simile a quella che l’erario italiano spende attualmente per i suoi ammortizzatori sociali. Secondo un’analisi a cura della Uil, nel 2011 le indennità di disoccupazione, mobilità e cassa integrazione sono costate nel complesso 18 miliardi di euro, di cui ben 9 hanno pesato sulla fiscalità generale, cioè sulle casse dello Stato. Ciò significa che abbiamo speso per un sistema di welfare che tutela solo un lavoratore su due la stessa cifra che Oltralpe ha garantito a tutti i cittadini un programma di protezione universalistico e più equo.Anna GuidaPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Reddito minimo garantito, le proposte dei partiti- Pietro Ichino: il reddito minimo può funzionare solo a certe condizioni- Luca Santini: sì al reddito minimo per affrontare la precarietàE anche:- Indennità una-tantum per cococo e cocopro: più che un ammortizzatore, una beffa- «Per garantire a tutti 600 euro al mese bastano 18 miliardi di euro all'anno»

L'artigianato si vende in Rete grazie alla startup fiorentina Buru-Buru

«Cercavamo una parola che descrivesse il valore aggiunto di un oggetto artigianale unico rispetto ad uno inserito nel circuito della grande distribuzione. Ci siamo rifatte al verso, allo stupore di un bambino che vede qualcosa di nuovo». E così è nata Buru-Buru, la start-up che Lisa Gucciarelli (29 anni, al centro nella foto) ha fondato insieme alla sorella Sara (33) e a Sara Campani (27). L'azienda si occupa di «rendere più fruibile il prodotto delle piccole realtà creative italiane».Non si tratta semplicemente di un sito di e-commerce. «Da un lato noi vendiamo creazioni artigianali selezionati, dall'altro produciamo internamente delle cose, selezioniamo delle grafiche che stampiamo su poster fine art e anche su t-shirt». L'idea di inserirsi in questo settore è nata partecipando a Free Shout, un festival della creatività andato in scena a Prato dal 2006 al 2009. «Abbiamo conosciuto molte persone che producevano complementi di arredo piuttosto che gioielli, molto belli e a prezzi accessibili ma che per diverse ragioni non riuscivano a venderli. Ci siamo rese conto che mancava un negozio trasversale e fluido nella gestione dei contatti».Esattamente quello che Buru-Buru si propone di essere. Per arrivare a crearla, però, c'è voluto del tempo. Laureatasi nel 2006 in Organizzazione di eventi culturali, per tre anni Lisa Gucciarelli ha lavorato per una cooperativa di Firenze. Poi, nel 2009, è partita per Roma: «per sei mesi mi sono arrangiata con dei lavoretti, poi ho trovato in un settore affine al mio percorso di studi. Ma solo con contratti a progetto, nulla di esaltante». Finché, lo scorso anno, ha deciso di seguire una sua «aspirazione», quella cioè di «arrivare intorno ai 30 anni ad aver costruito un lavoro legato ad un progetto che fosse nato da me. Le mie esperienze lavorative mi hanno portato a pensare che se in un contratto non c'è uno stipendio adeguato, né la tutela dei diritti, allora tanto vale provarci piuttosto che essere dipendente di qualcuno che non ti fa stare bene».Per «provarci» Gucciarelli ha coinvolto la sorella Sara, laureatasi a Prato in Ingegneria dell'informazione telematica: «lei si occupa degli aspetti legati al software, mantenendo i contatti con gli sviluppatori». Poi è arrivata Sara Campani. «A maggio dello scorso anno siamo entrate nell'Incubatore tecnologico fiorentino», realtà creata dal comune e dalla Camera di commercio di Firenze per favorire la nascita di nuove imprese. Qui le due sorelle hanno ricevuto la proposta di partecipare a «Firenze crea impresa», un'iniziativa promossa da Confindustria per far incontrare dei giovani startupper con degli studenti di marketing, a cui veniva chiesto di realizzare una presentazione dell'azienda per cercare degli investitori. «Noi non ne abbiamo trovati, però Sara è rimasta con noi».E così a settembre dello scorso anno le tre giovani hanno dato vita a Buru-Buru che, al momento, è una ditta individuale con il regime dei minimi intestata a Sara Gucciarelli. «È la forma che ci costava meno». Al momento l'azienda già sta fatturando, ma non in misura sufficiente a garantire uno stipendio alle tre fondatrici. Campani sta ultimando gli studi, Sara Gucciarelli continua a lavorare con ingegnere a partita Iva e solo la sorella Lisa è impegnata a tempo pieno nella start-up. «Ci aiuta nostra madre, la nostra business angel. Lei ha avuto un'attività per trent'anni e ora ha creduto di aiutarci a costruire un lavoro». Grazie all'aiuto della famiglia, che una volta di più si conferma colonna del welfare in Italia, le tre imprenditrici possono lavorare al loro progetto. Intanto a dicembre hanno lasciato l'Incubatore fiorentino per trasferirsi all'interno di Nana Bianca, acceleratore d'impresa che ha sede sempre a Firenze. «Abbiamo trovato persone con cui confrontarci rispetto al web: ci aiutano a realizzare campagne pubblicitarie, a lavorare sulla user experience, ad ottimizzare il sito».Il tutto in forma completamente gratuita. O meglio in base al principio del work for equity: «abbiamo firmato un contratto per cui ci impegniamo a dare all'acceleratore una quota della società non appena l'avremo costituita». Sì, perché le tre startupper sono alla ricerca di un finanziatore che consenta loro innanzitutto di dar vita ad una società a responsabilità limitata, quindi di investire sul marketing. «All'inizio abbiamo utilizzato i social network, da poche settimane abbiamo introdotto AdWords», servizio offerto da Google che permette di promuovere a pagamento il collegamento al proprio sito, che compare come link sponsorizzato come risposta ad alcune chiavi di ricerca. Ma l'obiettivo è quello di «acquistare spazi pubblicitari sui siti che si occupano di moda, nuove tendenze e artigianato». Mentre, a brevissimo, verrà aperto un blog, sul quale si potrà seguire il percorso di Buru-Buru. Che Gucciarelli traccia già con sicurezza: «abbiamo già iniziato a fatturare, contiamo a raggiungere il pareggio di bilancio entro la fine dell'anno». Per poi continuare a crescere.Riccardo Saporitistartupper@repubblicadeglistagisti.itVuoi conoscere altre storie di start-up? 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Pubblico, cassa integrazione per i giornalisti assunti: ma ancora niente compensi ai collaboratori

«Cronaca di un giornalicidio». I redattori di Pubblico scelgono questo titolo per raccontare la fine della loro avventura nel quotidiano fondato dal direttore-editore Luca Telese. È il 30 dicembre 2012: il giorno successivo il giornale sarà in edicola per l’ultima volta con un enorme «Grazie» ai lettori in prima pagina. Dopo appena tre mesi da quel 18 settembre in cui si era presentato con il motto «Dalla parte degli ultimi e dei primi», il quotidiano con il logo ispirato a quello della testata francese Libération chiude i battenti. Venti redattori (17 con contratto a tempo indeterminato e 3 a tempo determinato), sei grafici e una settantina di collaboratori esterni perdono il lavoro. A tre mesi dalla fine delle pubblicazioni i 26 dipendenti, dopo un lungo periodo di incertezza, hanno ottenuto la cassa integrazione: percepiranno dagli 800 ai 900 euro al mese finché non troveranno un nuovo lavoro. Niente lieto fine invece per i giornalisti che hanno collaborato da esterni inviando articoli e reportage: aspettano ancora di essere pagati, e alcuni di loro hanno con il giornale crediti a tre zeri. Contemporaneamente all'avvio del processo di liquidazione di Pubblico srl, il comitato di redazione (organo di rappresentanza sindacale dei giornalisti), supportato dal sindacato Stampa Romana, ha firmato un mese fa in Regione l’accordo con l’azienda per 24 mesi di cassa integrazione per cessazione di attività, il massimo previsto dal decreto legge 78/2009. «Nei casi in cui una testata chiude lasciando da un giorno all’altro i giornalisti senza lavoro di solito si prevedono due anni» spiega Mariagrazia Gerina, membro del cdr «saremmo stati quindi un unicum se solo per la breve vita di Pubblico, ci avessero dato ammortizzatori sociali ridotti per scoraggiare avventure simili». Una possibilità evitata: «Sarebbe stata una beffa se avessimo dovuto pagare anche in questo modo la fine di questa avventura». Del resto in questo periodo a partire dalle grandi testate - come il gruppo Rcs che ha messo in atto un piano per 800 esuberi - alle piccole realtà che fanno in conti con la riduzione di vendite e pubblicità, si ricorre in maniera sempre più massiccia a cassa integrazione e prepensionamenti a cui le casse dell’Inpgi (Istituto nazionale di previdenza dei giornalisti italiani) fanno fronte con fatica crescente. «A un certo punto abbiamo temuto che ci venisse scaricato addosso anche questo problema». Nonostante l’offerta del finanziere milanese Alessandro Proto di rilevare il giornale, il cdr ha sempre ritenuto di tenere aperto il tavolo della cassa integrazione e di eventualmente revocarlo quando fosse effettivamente subentrato un nuovo editore. Una possibilità che non si è più ripresentata da quando la trattativa con Proto, intenzionato a riportare Pubblico in edicola facendosi carico dei 200mila euro di debiti e investendo 4 milioni, è finita su un binario morto dopo l’arresto del 14 febbraio scorso dell’imprenditore con l’accusa di manipolazione del mercato. La linea editoriale immaginata dal finanziere 38enne, azionista di minoranza di Rcs, lasciava comunque molti perplessi, a iniziare dal direttore di Pubblico. L’idea di un «Fatto Quotidiano di destra» scoraggiava tanti giornalisti che avevano deciso di seguire Telese in un’esperienza editoriale del tutto diversa, lasciando talvolta contratti a tempo indeterminato per rischiare l'avventura in un giornale «di sinistra, progressista, senza finanziamenti pubblici». Dopo una trattativa naufragata che ha sollevato problemi di coscienza, nella cassa integrazione è stata inserita la clausola del «rientro volontario». Nel momento in cui un nuovo editore dovesse farsi avanti, i giornalisti potranno liberamente decidere, in base alla nuova linea editoriale, se tornare o meno al lavoro senza perdere, in caso di rifiuto, l’ammortizzatore sociale. Ma l’ingresso di un nuovo editore è a questo punto importante anche per un altro motivo: garantirebbe finalmente il pagamento dei collaboratori esterni che da novembre, un mese prima della chiusura del giornale, non hanno più ricevuto compensi. Una settantina di giornalisti che hanno contribuito alla breve vita di Pubblico scrivendo da casa - peraltro il giornale prevedeva compensi di tutto rispetto, variabili tra i 60 e i 150 euro ad articolo. A loro l’azienda deve circa 80mila euro. «I processi di liquidazione sono piuttosto lunghi e non sappiamo quando effettivamente l’azienda salderà questo debito», spiega alla Repubblica degli Stagisti Stella Morgana, rappresentante dei collaboratori in cdr, che il 4 marzo scorso, tramite il sindacato Stampa Romana, ha inviato una lettera di sollecitazione a cui l’azienda non ha risposto. «In ogni sede abbiamo ribadito la posizione di creditori privilegiati dei collaboratori, sono loro i primi a dover essere pagati, questa per noi resta una priorità assoluta» chiarisce Gerina. Ma che lo affermi il cdr è quasi scontato: ben più significativa sarebbe una conferma in questo senso da parte della proprietà. Conferma che finora non è arrivata.A distanza di tre mesi dalla fine dell’esperienza di Pubblico, continuano gli interrogativi sui motivi che ne hanno determinato la chiusura. Il giornale, nato con un capitale sociale iniziale di 748mila euro, per sopravvivere avrebbe dovuto vendere 8mila copie ma non ha mai toccato neanche la metà. Oltra alla carenza di vendite, i redattori rintracciano in un prezzo di copertina troppo alto (1 euro e mezzo), nell’assenza di una campagna pubblicitaria che precedesse l’esordio del giornale nelle edicole e nella mancanza di un piano B imprenditoriale altri motivi che ne hanno determinato la morte. «Un’analisi chiara sarà possibile solo quando vedremo il bilancio con le voci di spesa dal primo all’ultimo giorno», afferma Gerina. Terminata l’avventura di Pubblico, i giornalisti cercano di proseguire la professione. Alcuni hanno iniziato collaborazioni o si sono lanciati in altri progetti: la Gerina per esempio, dopo aver lasciato un contratto a tempo indeterminato a L’Unità per seguire l’avventura del giornale di Telese, sta girando come freelance un documentario sulla rinuncia di Ratzinger. Molti dei collaboratori continuano a proporre pezzi ad altre testate, come la Morgana che, dopo aver lavorato come advisor durante la campagna elettorale, firma articoli e reportage su diverse riviste. «Nonostante la soddisfazione dopo l’accordo per la cassa integrazione» dice Paola Natalicchio, anche lei membro del cdr «alla fine di questa esperienza resta una cicatrice professionale, l’amarezza di tanti che hanno rinunciato a un posto di lavoro sicuro per portare il loro contributo nelle pagine di Pubblico: il giornale dalla parte degli ultimi e dei primi». Prima però di chiudere senza pagare i collaboratori.Annalisa AusilioPer saperne di più su questo argomento, leggi anche: - Cassa integrazione per i padri, stage gratuiti per i figli: la perversa disconnessione fra paga e lavoro- Le scuole di giornalismo sono ormai solo per i figli dei ricchi- A Torino una start-up prova a riscrivere il futuro del giornalismo