Categoria: Approfondimenti

Start-up, la task force lavora a criteri più inclusivi e accelera sul decreto attuativo

«È meglio che ci entri una pizzeria, che non deve starci, piuttosto che tenere fuori una vera start-up». Alessandro Fusacchia, responsabile della task force che ha redatto il rapporto «Restart Italia!» e consulente del ministero per lo Sviluppo economico, ha spiegato così la disponibilità del governo a rivedere quei sette articoli del decreto sull'agenda digitale chiamati a favorire la nascita di nuove start-up in Italia.Intervenendo mercoledì scorso ad una conferenza stampa indetta dopo la prima assemblea di «Italia Startup», associazione impegnata nello sviluppo di un ecosistema per gli startupper, il braccio destro del ministro Corrado Passera ha fatto il punto sull'iter di approvazione del provvedimento, che dovrà essere convertito in legge entro il 18 dicembre. «Per la parte dedicata alle nuove aziende sono stati presentati 188 emendamenti formali», che dovranno essere discussi e votati prima dell'approvazione finale. In generale, ha spiegato Fusacchia, «il dibattito è rimasto ad un livello abbastanza elevato. Le proposte di modifica interessano soprattutto la definizione di start-up innovativa». Per essere riconosciute come tali, il decreto impone il rispetto di uno di questi criteri: titolarità di un brevetto, presenza tra i soci di persone che abbiano conseguito un dottorato, investimento di almeno il 30% degli utili in ricerca.Sulla base dell'assunto per cui «non ha senso che approviamo una legge per accorgerci che la maggior parte delle imprese restano fuori», è possibile che quest'ultima voce venga modificata, riducendo la quota da investire in ricerca necessaria per rientrare nel novero delle start-up innovative e quindi beneficiare della normativa in fase di approvazione. Un altro tema sul quale si sta lavorando è quello definito dal comma 6 dell'articolo 25, in base al quale entro 60 giorni dalla conversione in legge il Mise dovrà emanare un decreto attuativo che individui i criteri per la definizione di un incubatore certificato. «Stiamo cercando di accelerare su questo», ha spiegato Fusacchia: le elezioni si avvicinano e il rischio è che il 18 febbraio, scadenza per la presentazione di questo documento, arrivi a camere sciolte. Per questo il ministero sta cercando di portarsi avanti con il lavoro. «Stiamo cercando di mappare le strutture esistenti per evitare di imporre criteri avulsi dalla realtà, di fare in modo che le strutture che hanno realizzato bene l'incubazione possano essere certificate», ha spiegato il responsabile della task force, invitando i diretti interessati «a farmi avere suggerimenti entro i primi giorni di dicembre», direttamente a lui via email, oppure tramite la segreteria del Mise.E sono stati proprio i responsabili degli incubatori a porre un problema rispetto a come vengono definite le start-up all'interno del decreto. Il testo del governo impone infatti che la maggioranza delle quote societarie siano detenute da persone fisiche. Ma gli incubatori e i fondi di venture capital che entrano nel capitale sociale per sostenere queste aziende sono persone giuridiche. Il rischio, insomma, è che le imprese finanziate, quelle cioè con possibilità di successo più concrete, vengano escluse dai benefici introdotti dalla legge in discussione al Senato. Fusacchia ha difeso la scelta, spiegando innanzitutto che «è stato posto l'accento sulle persone fisiche perché l'obiettivo è quello di contribuire a creare occupazione in Italia». Inoltre «abbiamo voluto evitare di creare margini troppo ampi, tali da permettere di offrire vantaggi fiscali a società che esternalizzano un ramo d'azienda e lo chiamano start-up».Fin qui l'iter della norma, «condizione necessaria ma non sufficiente» per lo sviluppo di un ecosistema favorevole alle nuove imprese. «La differenza la farà il modo in cui questa legge riuscirà ad irrorare il Paese. E questo è un lavoro che non può essere svolto dal governo, ma dalle forze vive della società: le imprese, gli incubatori, le associazioni». Come appunto «Italia Startup», che la scorsa settimana si è riunita a Milano per la sua prima assemblea. Occasione per fare un punto sull'attività svolta dal sodalizio, che ha organizzato le giornate di discussione che hanno portato all'elaborazione di «Restart Italia» nella sede di «H-Farm» a Roncade. E per lanciare i progetti futuri: «vogliamo creare un ponte tra i giovani, tra gli startupper in generale e l'industria tradizionale», ha spiegato il presidente Riccardo Donadon, «e vogliamo partire raccontando le storie di alcuni modelli, di italiani che hanno dato forma al futuro». Vicende che «magari non sono sotto i riflettori e possono renderci orgogliosi di quello che facciamo». In America si parlerebbe di role model. Ma l'obiettivo, in questo caso, è far capire che i modelli stanno anche da questa parte dell'Oceano.Riccardo Saporitistartupper@repubblicadeglistagisti.it Vuoi saperne di più sul decreto Sviluppo e sul sostegno alle start-up? Leggi anche:- «Restart Italia», con il decreto Sviluppo bis arrivano (quasi tutte) le proposte per le start-up- «L'Italia riparta dalle start-up»: ecco il piano del ministro Passera- Aspiranti imprenditori, una pizza è l'occasione per partireVuoi conoscere altre storie di start-up? Leggi anche:- Alessandro Fusacchia: «Così, a cavallo dell'11 settembre 2001, lo stage al Wto mi ha cambiato la vita»- Ploonge, la start-up per tuffarsi nella vita notturna- A Torino una start-up prova a riscrivere il futuro del giornalismo- Startupper, nuova rubrica della Repubblica degli Stagisti dedicata ai giovani che creano impresa

Da detenuti a tirocinanti. Quando lo stage apre le porte del carcere

Nicola ha vissuto gli ultimi dieci anni della sua vita dentro una cella, Endry (nomi di fantasia) oltre sedici. Immaginare il ritorno alla libertà è stato per loro un conforto nei momenti più duri. Ma difficilmente avrebbero pensato che l’occasione per uscire da quelle mura si sarebbe presentata sotto forma di tirocinio.Operatore con i disabili mentali «Una sensazione travolgente, un misto di elettrizzante felicità e paura del nuovo» racconta Nicola, 41 anni «nel giro di pochi minuti sono passato dalla condizione di educando a quella di educatore». È ansioso, dopo anni in cella passati a preparare esami è arrivato per lui il momento di mettere in pratica quello che ha appreso sui libri. Nicola è stato uno studente-detenuto, si è iscritto al corso di laurea in Psicologia del lavoro dell’università di Urbino nel 2006 dal carcere di Fossombrone per poi passare alla facoltà di Scienze della formazione dell’Uuniversità di Firenze dopo il trasferimento nell’istituto penitenziario di Prato. «Studiare significava evadere dalla pesantezza della detenzione», spiega. Il tirocinio formativo previsto nel suo corso di studi, quattrocento ore per dieci crediti formativi, ha significato la possibilità di ritornare in quel mondo che da anni vedeva attraverso le sbarre. Così ha lasciato la cella per assistere persone con disturbi psichiatrici in un centro gestito dalla cooperativa Alice. «Ho ottenuto un articolo 21 esterno, un beneficio concesso dal direttore dell’istituto penitenziario che consente di lavorare all’esterno». Per tre mesi, da ottobre 2011 a gennaio 2012, Nicola ha assistito gli utenti della casa famiglia, rientrando in carcere alle otto di sera. «La mia condizione mi ha permesso di sviluppare empatia con gli ospiti, trascorrevamo le giornate insieme ma la sera anche loro come me andavano a dormire in una stanza, beh certo loro, a differenza mia, erano liberi di lasciare il centro in qualsiasi momento». La fine del tirocinio avrebbe significato per Nicola il ritorno al normale regime detentivo fino alla fine della pena. Attraverso l’università di Firenze è riuscito però ad ottenere un altro stage: stavolta presso la polisportiva Aurora, che organizza attività ricreative per persone affette da disabilità mentale. «La psichiatria mi ha sempre interessato, lavorare con queste persone è un’esperienza profondamente formativa che mi ha fatto conoscere una parte di me che non credevo di possedere». Per sei mesi quindi ha giocato sui campi di calcio, rugby e pallavolo con gli utenti della Polisportiva condividendo con loro passeggiate nei boschi e gite nell’hinterland pratese.«Grazie agli stage ho avuto la possibilità di acquisire competenze e conoscenze fondamentali per iniziare un percorso di reinserimento». Tre mesi fa ha ottenuto la scarcerazione e, come tutti gli stagisti, ha cercato una possibilità di inserimento lavorativo. Magari proprio nella cooperativa Alice: «Sono rimasti molto soddisfatti del mio lavoro e forse una possibilità c’è». Per ora scrive la tesi – la discuterà a febbraio – e fper arrotondare, fa lo spedizioniere . Tramite l’assistente sociale ha ottenuto una borsa lavoro dal Comune di Prato, lavorerà come giardiniere. Prima dell’assunzione, tre mesi di tirocinio con un rimborso spese di 500 euro.Obiettivo: diventare assistente sociale. Anche Endry ha studiato nel carcere di Prato, anni sui libri inseguendo un sogno. Durante il suo percorso universitario ha svolto tre tirocini, due dei quali in centri di assistenza per anziani, «i nonni» li definisce. «Uno crede che dopo tanti anni dietro le sbarre non ci sia niente di peggio del carcere,ma anche fuori ci sono tante situazioni drammatiche. Il mio primo contatto con l’esterno è stato con la sofferenza». Lui, che ha convissuto sia con il dolore psicologico che fisico, qualche hanno fa ha subìto un pesante intervento chirurgico, ha conosciuto in questa condizione di marginalità l’altruismo degli operatori. «Vedere la dedizione di queste persone, l’aiuto che forniscono quotidianamente ai nonni mi ha reso ancora più convinto della mia scelta». Nel 2004, a quarantacinque anni, Endry si è iscritto al corso di laurea in Servizio sociale dalla casa circondariale di Prato, dopo aver preso la licenza elementare, media e superiore dietro le sbarre. Per imparare l’italiano ha dovuto mettere da parte il diploma preso in Albania, il suo paese d’origine e ricominciare da zero. «Ho scelto questa facoltà perché voglio aiutare gli altri, rendermi utile come le persone che mi sono state vicine, senza le quali non avrei mai saputo affrontare una condanna di trent'anni». Dopo l’assistenza ai «nonni», ha svolto il terzo stage previsto dal suo corso di laurea, a fianco di un’assistente sociale in una struttura delle Asl. Un'esperienza più lunga, di 440 ore cioè quasi tre mesi a tempo pieno: «In questa occasione ho capito la complessità del lavoro che voglio fare». Al momento Endry lavora all’esterno e rientra in carcere la sera. Sa bene che la sua strada sarà in salita date le difficoltà di inserimento in cooperative sociali e la sua condizione di detenuto. Fra pochi mesi conseguirà la laurea magistrale ed è determinato a portare avanti il suo obiettivo. «Se mi sarà concessa questa possibilità sarò l’uomo più felice della terra, in caso contrario» promette «io comunque non mollo». Annalisa Ausilio Per saperne di più, leggi anche:  - Stage all'università di Torino, la rappresentante del Rettore: «Vogliamo solo proteggere i giovani. Se la nostra interpretazione è sbagliata, il ministero lo dica»- Anche più di uno stage: così l'università di Bologna si adegua alle indicazioni del ministero- Quando l'università si rifiuta di attivare lo stage

Stage e laurea? Anche per gli «studenti-detenuti»

Sono universitari, faticano sui libri, sostengono esami puntando alla laurea. Tutto dietro le sbarre. Sono «studenti-detenuti» iscritti nei sedici poli universitari penitenziari, nati da protocolli di intesa fra università, amministrazioni carcerarie, enti regionali, cooperative e associazioni. Da Torino a Bologna, passando per Sassari e Roma, i carcerati che ambiscono a diventare dottori beneficiano di appositi spazi adeguati allo studio. Su 66mila detenuti, circa trecento sono universitari (secondo l’ultima ricerca relativa al 2010) di cui ottanta donne e quaranta stranieri, i meno agiati in regola con gli esami ricevono borse di studio e rimborso tasse dagli enti regionali. E per molti il percorso universitario, così come per gli studenti “a piede libero”, comporta anche lo svolgimento di tirocini formativi. «La detenzione comporta la necessità di trovare continuamente accordi per conciliare le esigenze della didattica con quelle dell’istituto», spiega alla Repubblica degli Stagisti Antonio Vallini docente di diritto penale e delegato alla facoltà di Scienze politiche del polo penitenziario dell’università di Firenze che nel 2000, a seguito della convenzione fra Regione Toscana e amministrazione penitenziaria, ha istituito una sede didattica nella casa circondariale di Prato. Due sezioni del carcere, in media e in alta sicurezza, sono dedicate interamente al polo universitario: sono reclusi solo i sessanta «studenti-detenuti» che hanno accesso a sale comuni per poter studiare, ricevere i professori e sostenere esami. Le difficoltà non mancano, soprattutto quando per ottenere crediti formativi lo studente è chiamato a svolgere uno stage.I permessi giornalieri «È chiaro che il tirocinio non è una motivazione sufficiente per aprire le porte del carcere», chiarisce Vallini: «l’università e l’istituto studiano delle soluzioni a seconda del singolo caso». Diversi sono i fattori da prendere in considerazione: durata dello stage, pena residua e condizione del detenuto. Se il numero di ore è limitato, si possono ottenere i crediti formativi attraverso permessi di uscita rilasciati dalla direzione dell’istituto. In questi casi lo studente può acquisire conoscenze pratiche delle materie che ha conosciuto solo attraverso i libri in alcune strutture prossime al carcere come cooperative o associazioni individuate dall’università. Ma quando il tirocinio prevede oltre 150 ore i permessi giornalieri non sono più sufficienti.Le misure alternative per i tirocinanti Qualcuno ottiene dall’amministrazione penitenziaria il regime di semilibertà o l’articolo 21 esterno, un beneficio che consente di svolgere attività formative o lavorative fuori. «Sono valutazioni che non competono a noi, in diverse occasioni ci siamo trovati ad affrontare un diniego da parte dell’istituto», afferma Vallini. In queste situazioni la carriera universitaria dello studente detenuto può subire un rallentamento in attesa di ottenere misure alternative o trovare, di intesa con il delegato della propria facoltà, altre soluzioni come esami integrativi o tesine supplementari. Se invece l’amministrazione concede il beneficio, il tirocinio diventa non solo l’occasione per ritornare all’esterno ma anche per entrare in contatto con il mondo del lavoro. Le strutture sono individuate dal delegato del corso di laurea e soggette alla valutazione dell’amministrazione penitenziaria.E dopo lo stage? Parlare di inserimento lavorativo dopo lo stage per un detenuto è azzardato non solo per le difficoltà economiche del momento ma anche per gli ostacoli legati al percorso di reinserimento. «Lo scopo del tirocinio è formativo, l’università non ha il compito di trovare lavoro», chiarisce Vallini. Insomma  una volta fuori, terminato il tirocinio e conseguita la laurea, anche loro, entrano nella condizione comune a tutti i neolaureati: cercareno un impiego. E, come per tutti i neolaureati, l’impresa non è semplice. Molto dipende, oltre che dalla condizione individuale di ognuno, dal titolo di studio conseguito. A determinare la scelta del corso di laurea concorrono diversi fattori: non solo la spendibilità lavorativa, ma anche la pena residua e gli interessi personali. Sull’inserimento nel mondo del lavoro degli ex detenuti diventati dottori dietro le sbarre non ci sono dati specifici: certo laurearsi in carcere, oltre ad essere un importante elemento nel percorso rieducativo, potrebbe accorciare le distanze con il mondo del lavoro – ma una volta fuori l’ex detenuto deve fare i conti con la complessità, e le difficoltà, del reinserimento.I numeri Dopo dodici anni di attività, nel carcere di Prato si contano venti laureati e attualmente oltre sessanta studenti iscritti alle diverse facoltà. Sono 53 i corsi di laurea attivi: la maggior parte degli studenti predilige l’indirizzo giuridico, letterario e politico-sociale. Nel 2010, si legge nella ricerca di Antonella Barone “I numeri del trattamento”, su 300 iscritti si sono laureati 19 detenuti, di cui dieci uomini e nove donne.Studiare dietro le sbarre I poli universitari penitenziari sono sedi universitarie a tutti gli effetti: i docenti sono tenuti ad entrare in carcere per permettere agli studenti di sostenere gli esami. I professori più volenterosi possono decidere di tenere anche delle lezioni per gli iscritti al loro corso di laurea, a volte anche un solo studente. Le associazioni apportano un fondamentale contributo: seguono i detenuti nello studio, forniscono i testi e curano i contatti con i docenti. I volontari sono l’anello di congiunzione fra il contesto universitario e quello penitenziario: contribuiscono, fra mille ristrettezze, a portare avanti il difficile percorso universitario degli studenti-detenuti. Perché come scriveva Victor Hugo quasi duecento anni fa nel suo poema Mélancholia «se si apre una scuola si chiude una prigione».   Annalisa Ausilio   Per saperne di più, leggi anche: - Per i disabili le opportunità di stage diminuiscono del 25%: i dati della Cgil in esclusiva per la Repubblica degli Stagisti- La Regione Sicilia non perde il vizio, nuovo maxi bando da 50 milioni per la "formazione" delle categorie svantaggiate- Chance ai giovani, Bangladesh - Italia uno a zero. A quando anche qui un microcredito "alla Yunus" per aiutare i ragazzi a diventare indipendenti?

Ploonge, la start-up per tuffarsi nella vita notturna

«Tutto è nato durante un viaggio di lavoro. Mi trovavo a Mosca, stavo in ufficio tutto il giorno e la sera, visto il freddo, non avevo voglia di uscire. Così mi ritrovavo a cenare da solo in albergo». Ed è stato durante una di queste serate che è spuntata l'idea: «Ho pensato che sarebbe stato bello avere uno strumento che informasse su eventi conviviali in cui tuffarsi per vivere al meglio la città». E siccome to plunge, in inglese, significa sia immergersi che tuffarsi, il nome della sua start-up è diventato Ploonge.Il viaggiatore solitario è Giorgio Bertolini, 25enne varesino che per lanciare la sua azienda ha mollato un contratto a tempo indeterminato. «Per 18 mesi ho lavorato in una società tessile, per la quale mi occupavo di vendite e marketing: è stata un'esperienza molto bella anche perché mi ha permesso di viaggiare molto». Almeno finché non è si è accesa la lampadina e ha deciso di mettersi in proprio. Sfruttando la laurea triennale in economia, perfezionata con un master all'università di Bristol. E anche il fatto che «sin da piccolo ho avuto un certo spirito di iniziativa».L'azienda - una srl con capitale sociale di 13mila euro, è nata ad aprile di quest'anno - mentre il sito è stato messo online a fine maggio. Prima di arrivare a crearla, però, Bertolini ha cercato di trovare chi potesse sostenerlo e lo scorso anno ha presentato domanda per partecipare a «Mind the bridge», concorso riservato alle start-up italiane. Una volta selezionato è volato a San Francisco, dove ha conosciuto Alessandro Coscia, suo coetaneo che stava lavorando ad un'idea simile alla sua. «Lui stava sviluppando un'applicazione che illustrava la vita notturna delle città, con l'obiettivo di portare gli utenti ad incontrarsi nella vita reale».I due hanno deciso di collaborare, lavorando insieme ad un progetto comune. Forse anche grazie al clima che si respira in California: «Abbiamo incontrato persone di grande esperienza, anche manager di aziende di grosse dimensioni pronti a condividere le loro conoscenze e capacità». Ma, cosa ancora più importante, «senti che ci sono altre persone che credono nella tua idea». E questo, prima ancora di eventuali finanziamenti, contribuisce a far crescere l'entusiasmo degli startupper. «Noi aiutiamo la gente a vivere alla grande» racconta infatti l'ideatore di Ploonge «diciamo che si ha finito di lavorare, si va in palestra e poi non si sa che fare. Magari si è da soli, non si ha voglia di cucinare. Ecco, noi proponiamo eventi da condividere con qualcuno». Non si tratta di semplici cene: «Il cibo è un mezzo. Il punto è vivere una bella esperienza e conoscere nuove persone».Sono direttamente i ristoratori a registrarsi sul sito per poter pubblicizzare gli eventi promossi all'interno del locale. «Attualmente ne abbiamo in database 800 in tutta Italia». Gli utenti acquistano l'evento in Rete, pagando tramite Paypal. Solo dopo aver saldato vengono fornite indicazioni sull'indirizzo e i recapiti del locale. «Noi tratteniamo una percentuale che varia dal 10 al 20% a seconda della giornata e di dove si svolge la serata». I costi fissi sono limitati alla commissione dovuta alla piattaforma che gestisce la transazione finanziaria, che trattiene il 4% dell'importo. Fino ad agosto Ploonge era ospitata all'interno di PoliHub, l'acceleratore di impresa del Politecnico di Milano. «Pagavamo 400 euro al mese, avevamo quattro postazioni, la corrente e la connessione Internet». Con l'arrivo dell'autunno è iniziata la ricerca di una nuova sede.Intanto però Bertolini e Coscia hanno già ottenuto un finanziamento di 300mila euro da Berrier Capital. «Una persona che conosceva il nostro progetto ci ha messo in contatto con questo fondo». L'idea è piaciuta ed è arrivato il contributo. «Avevamo anche un'altra offerta da parte di un privato. Diciamo che ci è andata bene, non abbiamo dovuto cercare molto». Al momento, per quanto l'azienda abbia già iniziato a fatturare, è grazie ai soldi arrivati da questo fondo di investimento italiano che i due startupper riescono a garantire uno stipendio a loro stessi e a Claudio Venturini, 26 anni, terzo socio che di recente si è tuffato in Ploonge dopo aver lavorato insieme ad Alessandro a Youreporter.Mentre si adoperano per crescere sul mercato italiano, i tre stanno già pensando ad espandersi all'estero. «Cerchiamo un collaboratore a Berlino. Vogliamo partire con un periodo di prova di sei mesi perché ci interessa il mercato tedesco, e sarebbe interessante ampliarci lì». L'Italia, infatti, va stretta per diverse ragioni. «La cosa più difficile è che aprire un'azienda costa. Ma se uno ha un'idea e solo poche centinaia di euro, perché non deve poterci provare?». Una domanda, quella di Giorgio Bertolini, alla quale né la ssrl, l'impresa a 1 euro che però tra tasse e imposte di registro ne costa comunque 700, né la isrl sanno rispondere. Quest'ultima formula, pensata appositamente per le nuove imprese e inserita nel decreto Sviluppo bis, pone un problema: «È riservata alle imprese che fanno innovazione tecnologica, non credo che sia il nostro caso. Ma secondo me ogni start-up in ogni settore deve avere delle agevolazioni».Riccardo Saporitistartupper@repubblicadeglistagisti.itVuoi conoscere altre storie di start-up? Leggi anche:- A Torino una start-up prova a riscrivere il futuro del giornalismo- Arriva DeRev, una start-up da guinness dei primati- Una startupper sarda negli States: «Qui conta il merito. Ma si può fare anche in Italia»- Guk Kim, il giovane coreano che suggerisce agli italiani dove andare a mangiare: con un'app- Startupper, nuova rubrica della Repubblica degli Stagisti dedicata ai giovani che creano impresaVuoi saperne di più su ssrl, isrl e sul decreto Sviluppo bis? Leggi anche:- «Restart Italia», con il decreto Sviluppo bis arrivano (quasi tutte) le proposte per le start-up- «L'Italia riparta dalle start-up»: ecco il piano del ministro Passera- Impresa a 1 euro, dopo otto mesi la promessa del governo è finalmente realtà

Contratti a progetto nei call center, un giro di vite solo annunciato

Un film di qualche anno fa, «Tutta la vita davanti», li presentava come il luogo simbolo del precariato. Sono i call center, un tempo «meta lavorativa» dei giovani con qualifiche basse, oggi sempre più spesso tappa per neolaureati al primo impiego. Secondo Assocontact, associazione nazionale dei contact center, sono infatti circa 80mila gli addetti del settore, la maggior parte con un livello di scolarità alto - studi superiori o laurea - e oltre il 60% donne. La presenza di giovani alla prima occupazione è significativa. Degli 80mila lavoratori totali, più della metà - 46mila - sono dipendenti, per l’80% con un contratto a tempo indeterminato (spesso part time), più una quota di contratti a tempo determinato e di somministrazione. Gli altri 34mila sono collaboratori a progetto - che spesso però nei fatti svolgono vero e proprio lavoro subordinato. Il recente caso dei call center campani di Grottaminarda, nell’avellinese, dove sono state scoperte ben 211 posizioni lavorative irregolari, ne rappresenta l’ennesima dimostrazione.Nel tentativo di porre un freno all’abuso dei contratti di lavoro «flessibili», le disposizioni contenute nella riforma Fornero hanno stabilito dei limiti all’utilizzo del contratto a progetto, che riguardano anche chi lavora nei call center. Il comma 23 dell’articolo 1 stabilisce che «i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa devono essere riconducibili a uno o più progetti specifici determinati dal committente e gestiti autonomamente dal collaboratore». Ma soprattutto, poco più avanti afferma che «il progetto non può comportare lo svolgimento di compiti meramente esecutivi e ripetitivi, che possono essere individuati dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale».Questo punto riguarda molto da vicino la situazione dei call center: è opportuno, però fare una distinzione tra call center inbound e outbound. Nel primo caso, gli operatori gestiscono chiamate in entrata (come accade, ad esempio, per il customer care). Anche se non è possibile fare una separazione netta, perché moltissimi di essi svolgono entrambe le attività, i call center inbound rappresentano circa il 65% del totale. I call center outbound trattano, invece, le chiamate in uscita, come nel caso del telemarketing, dove è l’operatore a contattare clienti o potenziali clienti per scopi promozionali.È chiaro che la situazione descritta dall’articolo 1, dove si parla di «compiti meramente esecutivi e ripetitivi», per i cui lavori corrispondenti non sarebbe valido il contratto a progetto, si applica alla seconda tipologia di call center: l’intenzione della riforma del lavoro è quella di ridurre il ricorso al cocopro, orientando i datori di lavoro verso forme di impiego subordinato. Per Luca D’Ambrosio (foto a sinistra), presidente di Assocontact, però, «la riforma Fornero minacciava di far sparire il contratto a progetto dalle attività outbound dei call center, non a favore dell’assunzione dei lavoratori, ma della chiusura delle attività e del loro trasferimento all’estero, a causa dell’evidente impossibilità di effettuare quelle attività con personale assunto a condizioni e con modalità accettabili». E quel «modalità» va essenzialmente letto come «costi»: perchè un contratto di tipo subordinato al datore di lavoro costa molto di più che un contratto «atipico».  Quindi il timore è che, anziché stabilizzare la posizione lavorativa dei propri addetti, molte aziende chiudano i battenti per l'impossibilità di sostenere i maggiori costi di personale. E in questo caso il sindacato di categoria ha una posizione simile a quella della sua controparte: secondo Giorgio Serao, segretario nazionale della Fistel Cisl, è infatti vero che «una situazione del genere comporterebbe  una perdita di 30mila posti di lavoro, oltre la chiusura di alcune aziende importanti. Ed è quindi fondamentale ricercare soluzioni condivise, che possano salvaguardare l’occupazione». La nuova normativa però in concreto cambia poco: l'articolo 24 bis del decreto sviluppo consente di mantenere contratti di collaborazione coordinata e continuativa (cococo) o a progetto per i call center outbound. Una decisione che riprende quanto già stabilito nel 2007 dall’allora ministro del Lavoro Cesare Damiano, che aveva distinto tra lavoratori dell’inbound, da considerare dipendenti a tutti gli effetti, e dell’outbound, che potevano essere anche collaboratori a progetto.Un freno allo sfruttamento del lavoro flessibile dovrebbe essere però quantomeno la norma sulle retribuzioni. Il comma 23 dell’articolo 1 afferma anche che «il compenso corrisposto ai collaboratori a progetto deve essere proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro eseguito e non può essere inferiore ai minimi stabiliti in modo specifico per ciascun settore di attività». Una contrattazione collettiva che, nel caso dei call center, si è appena aperta, comportando il blocco di nuovi inserimenti, come denuncia Assocontact. Oggi le retribuzioni di un addetto ai call center sono regolate dal contratto nazionale delle telecomunicazioni: si parla di 900 euro per un full time e dai 600 ai 750 euro per un part time (a seconda se sia al 70 o al 75%), una delle forme contrattuali più gettonate. Cifre che, però, non comprendono quello che Serao definisce «un sottobosco, costituito da aziende che non appartengono a nessun sindacato e di cui non è possibile monitorare l’operato e le retribuzioni».I cambiamenti annunciati dalla riforma si sono, insomma, conclusi con un nulla di fatto: innanzitutto la norma sancita dall’articolo 1 avrebbe riguardato solo una parte, poco più del 30%, dei nostri call center e, in ogni caso, è stata praticamente azzerata dal decreto sviluppo, che riapre la possibilità di attivare cocopro sui dipendenti di call center outbond. Con questa decisione il governo ha implicitamente ammesso che limitare i contratti a progetto - anche se in larga parte impropri - avrebbe messo in crisi o comportato la chiusura definitiva di molte aziende che gestiscono call center. Circa il 35% di esse è, inoltre, concentrata al sud, dove, in presenza di tassi di disoccupazione molto elevati, i contact center rappresentano una delle poche realtà in grado di garantire sbocchi lavorativi. Assocontact in parte tira una sospiro di sollievo: «La riforma del mercato del lavoro non riteniamo abbia dato o tolto nulla; se non fossero stati apportati i correttivi staremmo invece parlando di una situazione catastrofica», conclude D’Ambrosio. Se, però, molti posti di lavoro per il momento sono salvi, resta l’amara constatazione che ancora una volta poco o nulla è stato fatto per un settore in cui salari da fame, contratti fantasma e irregolarità sono all’ordine del giorno.Chiara Del PriorePer approfondire questo argomento, leggi anche:La riforma del lavoro porterà più lavoro ai giovani? Secondo Pietro Ichino sìRiforma del lavoro approvata: e adesso che succede?Riforma Fornero, cosa non va secondo i sindacalisti esperti di precariato

H-Farm. Boox e Nanabianca, un'«alliance» per sostenere le start-up

«Il nostro obiettivo è quello di sviluppare un rapporto di collaborazione già proficuo tra tre acceleratori d'impresa protagonisti della scena italiana: fare sistema, aumentare la capacità di investimento e concentrarla sulle start-up più interessanti, evitando dispersioni».  Riccardo Donadon, patron di H-Farm, racconta così la genesi di Alliance - un progetto che unisce oltre all'incubatore di Ca' Tron anche la realtà milanese di Boox e quella fiorentina di Nanabianca.Non si tratta di una fusione ma, come dice il nome stesso del progetto, di un'alleanza. «È un'iniziativa nata da diversi co-investimenti», prosegue Donadon, «non è escluso che in futuro siano sviluppate delle iniziative proprie di Alliance, ma al momento si vuole mantenere questo carattere assolutamente operativo e pragmatico, coordinando gli sforzi di tre soggetti indipendenti senza creare sovrastrutture o duplicazioni». Detto altrimenti, uno startupper non potrà chiedere di essere incubato in Alliance ma appoggiandosi ad uno dei tre acceleratori avrà accesso alle competenze e ai servizi forniti anche dagli altri due.Si tratta di tre dei principali incubatori attivi nel panorama italiano. H-Farm fa base in provincia di Treviso, ma negli anni ha aperto sedi a Seattle, Londra e Mombai. Sono più di trenta le imprese accolte all'interno della struttura, sei delle quali hanno già superato la fase di exit. Ovvero, una volta cresciute e consolidate, sono state cedute ad altre realtà, completando così il loro percorso di start-up. La realtà fondata da Donadon ha ospitato, a maggio e a settembre, l'ISDay, ovvero i due incontri con il ministro dello Sviluppo economico Corrado Passera. Durante il secondo c'è stata la presentazione di «Restart Italia», le proposte di sostegno alle nuove aziende formulate da una task force voluta dallo stesso esponente del governo e poi confluite in larga parte nel decreto Sviluppo bis.Un gruppo del quale oltre a Donadon fa parte anche Andrea Di Camillo, uno dei fondatori di Boox. Questa realtà, con sede a Milano, ha oggi in portafoglio nove start-up. Tra queste ci sono Fubles, social network per chi cerca amici con cui giocare a calcetto, e Viamente, azienda che si occupa di ottimizzazione dei percorsi per corrieri e distributori. Il terzo partner di questo progetto è Nanabianca, incubatore fiorentino creato dal team che nel 1994 diede vita a Dada. Questa realtà ospita oggi Timbuktu, una delle prime realtà raccontate da Startupper.La nascita di Alliance garantirà innanzitutto nuovi orizzonti alle imprese attualmente incubate nei tre acceleratori. «Sicuramente il network potenziale si amplia in maniera consistente», spiega Donadon alla Repubblica degli Stagisti: «ogni realtà ha un approccio e un bagaglio di competenze specifico e dal confronto scaturiscono sempre grandi vantaggi». Questo non significa che il percorso seguito oggi da queste start-up debba «necessariamente cambiare». Piuttosto, «se dovessero essere intenzionate a spostarsi in una struttura diversa su Milano o Firenze avranno un punto di appoggio importante». Un altro vantaggio è legato alla «dote di competenze e contatti locali, nazionali e internazionali» di ciascuno dei tre incubatori. «Anche sul fronte della capacità di investimento, l'unione di più soggetti permette di spingersi anche oltre il tradizionale seed capital degli  acceleratori». I quali, unendo i fondi che mettono a disposizione delle aziende, potranno così sostenere anche un finanziamento più consistente di quelli attualmente concessi alle start-up.Perché in sostanza di questo si occuperà Alliance: «trovare aziende interessanti, finanziarle e spingerle verso il mercato». Non cambieranno i meccanismi di selezione, nel senso che «ogni acceleratore mantiene assoluta indipendenza nelle sue scelte di investimento, ma ovviamente c'è una forte convergenza nelle modalità di selezione». Mentre non è escluso che un'impresa individuata a Roncade finisca per essere incubata a Milano piuttosto che a Firenze. «Per la localizzazione non ci sono modalità di assegnazione predefinite, si valuta secondo l'opportunità e i singoli casi». Senza dimenticare, poi, che il processo di incubazione potrebbe svolgersi in futuro anche in altre realtà. Sì perché «la naturale evoluzione» di Alliance è proprio quella di «aprirsi ad altri soggetti che ne sposano la visione».Riccardo Saporitistartupper@repubblicadeglistagisti.it Vuoi saperne di più sul decreto Sviluppo e sul sostegno alle start-up? Leggi anche:- «Restart Italia», con il decreto Sviluppo bis arrivano (quasi tutte) le proposte per le start-up- «L'Italia riparta dalle start-up»: ecco il piano del ministro Passera- Aspiranti imprenditori, una pizza è l'occasione per partireVuoi conoscere altre storie di start-up? Leggi anche:- A Torino una start-up prova a riscrivere il futuro del giornalismo- Arriva DeRev, una start-up da guinness dei primati- Startupper, nuova rubrica della Repubblica degli Stagisti dedicata ai giovani che creano impresa

Università in Europa, quanto mi costi

Dopo aver visto come funziona in Spagna il sistema di tassazione universitaria, la Repubblica degli stagisti ha indagato sui costi dell’università negli altri principali Paesi europei per capire dove conviene studiare e se anche altrove, come in Italia e in Spagna, il supporto economico dei genitori è indispensabile. Ebbene, quello che emerge è che, a parte l’Inghilterra, i Paesi in cui le tasse costano meno sono quelli più ricchi.In Francia le università pubbliche hanno tutte gli stessi costi: ci vogliono 181 euro all’anno per la licence (laurea triennale), 250 euro per i master (laurea magistrale), che diventano rispettivamente 120 e 164 se si è in possesso dei requisiti di borsista in base al reddito. Ci sono però studenti, quelli con i redditi più bassi, che pagano solo 30 euro all’anno. I dottorati costano 380 euro (254 con  borsa). A questi importi possono aggiungersi costi supplementari per prestazioni specifiche, che possono aggirarsi tra i 60 e i 140 euro. Questi supplementi sono consentiti dalla legge  solo per servizi non essenziali per l’apprendimento. Il punto è capire quali sono i servizi essenziali e quali no: è capitato che alcune università abbiano aumentato i costi per le spese della biblioteca universitaria o dei servizi informatici o per l’apertura del campus dalla mattina presto alla sera tardi. Secondo i sindacati studenteschi, come l’Unef, si tratta di aumenti spesso illegali.Lo Stato, comunque, si fa carico della gran parte delle spese per la formazione e i borsisti ricevono anche assegni extra oltre allo sconto sull’immatricolazione.Più care sono le scuole pubbliche di ingegneria, paragonabili ai nostri politenici, che costano 596 euro all’anno e che prevedono due anni di classes préparatoires, ovvero corsi di insegnamento universitario, generalmente tenuti nei licei, ai quali possono accedere gli studenti che si sono distinti per il loro alto rendimento scolastico. Le classes préparatoires preparano gli studenti ai concorsi di ammissione delle Grandes Écoles, cioè gli istituti di livello superiore caratterizzati da un'alta qualità dell’ insegnamento, ma anche da selezioni per l’accesso molto dure (ad esempio per l’École Normale Supérieure, l’École polytechnique).Le Grandes Ecoles più prestigiose prevedono un assegno di 1500 euro al mese più vitto e alloggio per gli studenti, quindi il discorso si rovescia e gli studenti vengono pagati per studiare.Il costo di iscrizione negli istituti privati è notevolmente più alto e oscilla tra i 3mila e i 10mila euro all’anno. Le più care sono le Business school, come l’École supérieure des sciences économiques et commerciales. Tuttavia, nonostante il loro costo elevato, anche in queste scuole le tasse coprono solo il 30% dei costi effettivi degli studi, il resto è costituito da sussidi statali o risorse interne.La principale differenza del sistema di tassazione francese rispetto agli altri Paesi europei è l’obbligo di  pagamento dell’assicurazione sanitaria degli studenti, che costa circa 200 euro all’anno. Ogni studente francese o straniero riceve dal governo un aiuto per la casa, la Caf, che varia a seconda della città e del tipo di appartamento, se si è borsisti o meno. Il contributo è di circa 115 euro al mese se si vive in un appartamento con altre persone (150 se si è borsisti) e 200 se si vive soli (250 euro con borsa di studio). «Sono molto contento del sistema universitario francese, soprattutto per quello che accade negli altri Paesi» afferma Emmanuel Reilhac, studente di matematica a Limoges. «Potrebbe essere molto meno caro, o gratuito come in Norvegia, potrebbero esserci molte più borse di studio, nuove residenze universitarie, ma mi sembra tutto sommato un buon sistema il nostro». Soddisfatto anche Amaury Blais, ex studente di ingegneria alla Ecole superieure electronique et du numerique (ISEN) a Lille e che attualmente lavora in Camerun per l’azienda Capgemini: «In Francia ci sono sempre soluzioni per studiare quello che si vuole, ma bisogna mettere il massimo impegno nello studio». «Io ho studiato in un’università privata» racconta Sarah Spiegel, ex studentessa dell’Université catholique de l'Ouest. «Pagavo 3mila euro all’anno, molto più che nelle università pubbliche. Se si riesce a ottenere una borsa di studio dal Crous (Centro regionale di opere universitarie e studentesche) si può sopravvivere, ma in genere c’è bisogno di un’altra fonte di reddito per studiare».Specularmente il Paese europeo in cui gli studenti pagano le tasse universitarie più alte è l’Inghilterra. Qui, infatti, dopo l’ultima riforma universitaria, le rette sono addirittura triplicate, arrivando a toccare il tetto delle 9mila sterline (circa 11mila euro) ogni anno. Solo le università che danno garanzie di sostegno economico per studenti di estrazione sociale più bassa possono toccare i picchi massimi. Le borse di studio, normalmente, si aggirano intorno alle 3mila sterline annue.Per far fronte alla spesa, gli universitari inglesi spesso ricorrono a un prestito dello Stato, che saranno tenuti a restituire solo quando inizieranno a lavorare e guadagneranno 15mila sterline all’anno (circa 21mila euro). L’aumento delle tasse è la principale causa della riduzione delle iscrizioni alle università inglesi, diminuite quest’anno del 9% circa rispetto all’anno scorso (dati Ucas, Universities and colleges admission service). Molti giovani stanno abbandonando gli studi o decidendo di emigrare per studiare in Paesi come la Scozia - dove l’università è gratuita - ma anche Norvegia, Svezia, Finlandia e Danimarca, Francia e Spagna. In Irlanda del Nord e Galles il tetto delle tasse è rimasto invariato a 3290 sterline. In Germania le università sono finanziate dai Lander, ovvero dagli Stati federali. Fino al 2005 l’università era completamente gratuita, poi una sentenza della Corte costituzionale tedesca ha sancito l’incostituzionalità della legge che proibiva la tassazione universitaria. In seguito a questa sentenza, ci sono state molte proteste degli studenti e ancora oggi l’introduzione della tassazione è molto dibattuta. Alcuni Stati federali hanno introdotto il massimale di 500 euro all’anno (Baviera e Bassa Sassonia), altri 5 Stati lo avevano fatto negli anni scorsi ma poi sono tornati sui loro passi (Baden-Württemberg, Hamburg, Hesse, Saarland and North Rhine-Westphalia). A parte Baviera e Bassa Sassonia, negli altri 14 Stati l’università pubblica è gratuita, fatta eccezione per un contributo amministrativo che si aggira intorno ai 50 euro a semestre e che serve per l’adempimento delle pratiche burocratiche. Non ci sono borse di studio finanziate dalle università, ma una serie di istituzioni pubbliche e private le assegna, solitamente per aiutare gli studenti a sostenere i costi dell’alloggio e dei libri. Inoltre c’è una legge che assicura alle persone bisognose un assegno di 650 euro al mese per 4 o 5 anni se le loro famiglie non sono in grado di sostenere i costi. Una parte – normalmente la metà – di questi assegni è un prestito a tasso zero che deve essere poi rimborsato. Alcuni Stati prevedono tasse solo per i livelli superiori di istruzione universitaria (dal master in poi), mentre altri le richiedono agli studenti che impiegano più del tempo previsto per terminare gli studi (5 o 7 anni). «Le nostre tasse non sono alte se messe a confronto con quelle di altri Paesi» commenta sicura Britta Uhde, studentessa di selvicoltura a Dresda.Le università di Norvegia, Finlandia, Svezia e Danimarca sono totalmente gratuite per studenti locali e per quelli provenienti da altri Paesi dell’Unione europea. Pagano solo gli studenti di Paesi che non fanno parte dell’Unione a 27. Oltre ad essere gratuite, le università del nord Europa danno la possibilità agli studenti di pagarsi da soli, senza il sostegno dei genitori, tutto il periodo di studi: ai danesi tra i 18 e i 20 anni, per esempio, è concesso un assegno che dipende dal reddito dei genitori, ma al di sopra dei 20 anni tutti gli universitari che vivono da soli hanno diritto a 750 euro al mese. «Ho studiato anche in altri Paesi e la mia idea è che il nostro è il miglior sistema al mondo: tutti hanno accesso a un’educazione libera e gratuita, tutti ricevono una borsa di studio, lo studente ha anche a disposizione aiuti gratuiti come lo psicologo» racconta Melisa Rondic, studentessa danese di origine bosniaca, che studia International business comunication all’università di Odense. «Inoltre esiste un vero dialogo tra studenti e professori, ai quali ci si rivolge come a una persona di pari livello. Gli esami non consistono in una ripetizione di quello che ha detto il professore in aula, ma mirano a verificare la capacità di elaborare proprie soluzioni a problemi. Non viene valutato se si dice la cosa corretta o vera, ma se si è stati in grado di risolvere problemi in maniera autonoma».Il diritto allo studio è uno dei diritti fondamentali e inalienabili della persona. Se però in alcuni Stati è effettivamente garantito, tanto da essere un indicatore del funzionamento della società, della considerazione che queste hanno dei giovani e del loro futuro, dell’uguaglianza di possibilità offerte a tutti, in altri Paesi è rimasto solo un diritto sulla carta. L’Europa è una comunità molto frammentata e le opportunità offerte dagli Stati ai giovani universitari per accedere liberamente agli studi sono spesso incomparabili tra di loro.Antonio SiragusaPer saperne di più su questo argomento, leggi anche: - Tasse universitarie in Europa. Spagna, la bocciatura costa- Studiare costa, ma in Italia i prestiti d'onore ancora non decollano- Addio diritto allo studio? Fondi ministeriali ridotti all'osso- Borse di studio, un montepremi complessivo a cinque zeri finanzia formazione e idee

A Torino una start-up prova a riscrivere il futuro del giornalismo

La convinzione di fondo è che il futuro del giornalismo passi da qui. Anche per questo Clara Attene, 30 anni, ha dato vita a Spazi Inclusi, service giornalistico con sede a Torino fondato a novembre dello scorso anno insieme a due colleghe: Mariachiara Voci (37) e Silvia Alparone (39). «Mi sono laureata in Scienze della comunicazione a Trieste nel 2006 e poi ho passato le selezioni per l'istituto per la formazione al giornalismo di Urbino, che ho completato nel 2008». E che le ha permesso di svolgere stage (purtroppo completamente gratuiti) in alcune importanti realtà giornalistiche: innanzitutto il Sole24Ore e il Venerdì di Repubblica, testate per le quali tuttora scrive, quindi Radio Popolare e la sede dell'agenzia Ansa di Bruxelles. Terminati gli studi ha iniziato con una serie di contratti di collaborazione pagati al pezzo, «che purtroppo sono la regola per gran parte della categoria». Una categoria che ha recentemente cominciato a farsi sentire chiedendo a gran voce l'approvazione del disegno di legge sull'equo compenso giornalistico: «Vista la situazione attuale, credo che sarebbe una norma di civiltà» conferma la Attene «anche perché in questo momento c'è bisogno di educare il mercato. C'è l'idea che il lavoro intellettuale non abbia valore, invece ce l'ha eccome: se chiedo una consulenza ad un avvocato senza che si arrivi ad una causa in tribunale, devo comunque pagarlo, no?». Lei ha scelto di non aspettare i tempi lunghi del parlamento e di mettersi in proprio. «Nel 2010 sono tornata a Torino e tramite il mio caporedattore ho saputo che c'era una giornalista, Mariachiara, che cercava un collega con cui condividere un ufficio». I giornalisti freelance infatti lavorano normalmente da casa propria, oppure affittano uno spazio e condividono le spese. «Abbiamo un ufficio in coworking in via Verdi a Torino. Nello stesso stabile ci sono un'agenzia di comunicazione e un ufficio di grafica». È stato quest'ultimo, una volta che a Clara e Mariachiara si è aggiunta Silvia Alparone e tutte e tre hanno deciso di creare un service giornalistico, a realizzare il logo di Spazi Inclusi. «Il nome nasce dal gergo giornalistico [si tratta della formula che indica la lunghezza in battute degli articoli, ndr], ma c'è anche l'idea dell'inclusione che è nata dalla nostra esperienza: questo è un luogo in cui ci si ritrova e ci si confronta. Abbiamo messo insieme le nostre rubriche di contatti, le idee, gli strumenti di lavoro». Ma di cosa si occupa questa start-up? «Creiamo per committenti diversi dei prodotti editoriali multimediali che abbiano un contenuto di taglio giornalistico». Articoli, servizi radiofonici, video per la televisione o per Internet: sono questi i prodotti di Spazi Inclusi. Le tre fondatrici hanno invece deciso di escludere di lavorare come ufficio stampa, perché «per quanto sia un lavoro complementare a quello del giornalista, si tratta di ruoli che non possono coincidere». L'idea di lanciare una realtà del genere nasce dalla convinzione che «vista la situazione economica delle redazioni ci sarà sempre di più la tendenza ad esternalizzare», affidandosi ai freelance pagati "a pezzo". Questi ultimi «possono considerarsi come dei cani sciolti se sono inviati di un grande quotidiano, altrimenti rischiano di innescare una guerra tra poveri. La nostra idea è quella di provare a sistematizzare la collaborazione, per confrontarci in maniera diversa con le redazioni». L'offerta è quella di un gruppo «con competenze diverse ed approfondite su diversi settori, con conoscenze di tutte le tipologie di media». Una realtà che ha una forza contrattuale maggiore di quella del singolo giornalista, così da riuscire a spuntare dei prezzi migliori. E i pagamenti? «Alcuni lavori vengono pagati come se fossimo collaboratori, per altri c'è una contrattazione relativa al tempo necessario per produrre i contenuti richiesti». Dal canto loro «le redazioni sembrano interessate, anche se sappiamo che il mercato non si cambia in un giorno. Con il tempo, però, penso che inizieranno a confrontarsi con realtà come la nostra e a capire che la contrattazione sul singolo pezzo non è più la forma adatta. Anche perché discutiamo sempre di libertà di stampa, ma non c'è libertà senza un compenso equo». Per la loro start-up Clara Attene e le sue socie hanno scelto la forma dello studio professionale associato, «la formula più leggera per partire». Nessun capitale sociale versato, costi mensili intorno ai 500 euro tra affitto dell'ufficio e altre spese. Per il resto «ognuna usa il proprio computer, abbiamo solo dovuto realizzare i biglietti da visita e investire 500 euro per creare il sito Internet». Quindi hanno iniziato a farsi conoscere. «In alcuni casi ci siamo presentate direttamente, come è successo per Il Fatto Quotidiano. Questa primavera invece siamo state al Festival del giornalismo di Perugia per presentarci alle redazioni. Mentre a settembre siamo stati tra i protagonisti della Social media week di Torino». Del loro lavoro si è accorta l'associazione della stampa subalpina che, riconoscendo il taglio innovativo di Spazi Inclusi, ha erogato un contributo di 2mila euro a fondo perduto. Per il resto «stiamo studiando i bandi europei alla ricerca di finanziamenti». Nonostante le difficoltà, le tre compagne d'avventura riescono a mettere insieme uno stipendio tra le attività della start-up e le varie testate per le quali scrivono. Così come garantiscono il pagamento, anche in questo caso in base al lavoro svolto, per i diversi collaboratori che ruotano intorno all'agenzia. Il pareggio di bilancio è ancora lontano, ma aver dato vita ad un service giornalistico è meglio che lavorare in solitudine e per pochi euro al pezzo.Riccardo Saporitistartupper@repubblicadeglistagisti.itVuoi conoscere altre storie di start-up? Leggi anche:- Arriva DeRev, una start-up da guinness dei primati- Una startupper sarda negli States: «Qui conta il merito. Ma si può fare anche in Italia»- Guk Kim, il giovane coreano che suggerisce agli italiani dove andare a mangiare: con un'app- Il mouse diventa smart grazie a cinque giovani startupper mantovani- Startupper, nuova rubrica della Repubblica degli Stagisti dedicata ai giovani che creano impresaVuoi saperne di più sull'equo compenso per i giornalisti? Leggi anche:- Equo compenso per i giornalisti, sfuma l'approvazione della legge ma i freelance non demordono- Enzo Carra: «Dal 2013 equo compenso per i giornalisti freelance»- Giornalisti precari, il problema non è il posto fisso ma le retribuzioni sotto la soglia della povertà - Articoli pagati 2,50 euro e collaborazioni mai retribuite. Ecco i dati della vergogna che emergono da una ricerca dell'Ordine dei giornalisti

Bandi e progetti per finanziare le start-up. In attesa che il crowdfunding diventi realtà

Una delle principali novità introdotte dal decreto Sviluppo bis riguarda il crowdfunding, ovvero la possibilità di raccogliere risorse a sostegno della propria start-up attraverso la Rete. Perché questa norma diventi operativa, a meno di modifiche al testo durante l'iter parlamentare, servirà attendere 90 giorni dalla data di conversione in legge del decreto. Entro questa scadenza infatti la Consob dovrà emanare le «disposizioni attuative» dell'articolo 30, quello che introduce anche in Italia questo particolare meccanismo di finanziamento. Fatti due conti, visto che il decreto è stato firmato dal Presidente della Repubblica il 17 ottobre, l'approvazione del Parlamento dovrà avvenire entro il 17 dicembre. Quindi le norme attuative si avranno per l'inizio della primavera.Nel frattempo per gli startupper in cerca di risorse non restano che due strade: affidarsi alle cosiddette tre 'F', ovvero family, friends and fool oppure mettersi in cerca di uno dei tanti bandi di sostegno alle giovani imprese lanciati dalle regioni e dalle istituzioni locali. Come quelli pubblicati da due Camere di Commercio. Il primo è Startup Venture della CCIAA di Milano ed è rivolto a società di capitali nate da meno di 48 mesi con sede legale nella provincia meneghina il cui capitale sociale sia detenuto per almeno due terzi da under 40. Aperto il 26 ottobre, il progetto prevede due fasi: nella prima i titolari saranno coinvolti in un corso di formazione dedicato alla pianificazione finanziaria e all'accesso al credito, quindi riceveranno un voucher per l'inserimento in azienda di un manager over 45 con alta qualifica. A disposizione ci saranno 145mila euro. Le domande saranno accolte fino ad esaurimento fondi e comunque non oltre il 30 novembre.Con la fine di ottobre si chiude invece «Valoreassoluto» un progetto della Camera di Commercio di Bari destinato alle aziende che hanno sede nella provincia del capoluogo pugliese e che sono attive in uno di questi settori: informatica, salute, energie rinnovabili, integrazione sociale, meccanica. In una prima fase una giuria interna alla CCIAA selezionerà i cinque migliori progetti, che riceveranno un contributo pari a 10mila euro ciascuno. Quindi un comitato esterno indipendente valuterà il grado di innovazione delle singole aziende, che sulla base dei risultati di questa analisi potranno ricevere un contributo per un importo massimo di 100mila euro.Oltre alle realtà camerali, anche le regioni sono impegnate nel sostegno alle nuove imprese. Fino al 31 dicembre è possibile presentare domanda per ottenere i contributi messi a disposizione dalla giunta dell'Emilia-Romagna. Il bando è aperto alle piccole imprese aperte nel territorio regionale dopo il 1 gennaio del 2010 ed impegnati nella ricerca e nello sviluppo di prodotti e servizi ad alta tecnologia. Questo significa che devono lavorare sfruttando un brevetto e aver stipulato un accordo di collaborazione con una delle università o degli enti di ricerca della Rete alta tecnologia dell'Emilia-Romagna. Le spese finanziabili vanno dall'acquisto di macchinari all'affitto degli spazi, fino a quelle di promozione e partecipazione a fiere di settore. La regione finanzia il 60 per cento di ogni singolo progetto, con il vincolo che quest'ultimo debba comportare una spesa minima complessiva di 75mila euro. L'importo massimo concesso alle start-up è pari invece a 100mila euro.In Veneto l'Osservatorio regionale per le politiche sociali ha invece lanciato «Crea Lavoro», un bando per i giovani che hanno un'idea e vogliono trasformarla in un'impresa, sostenuto da un contributo regionale di 2 milioni di euro: ai selezionati viene garantito un finanziamento fino a 50mila euro, che i beneficiari dovranno integrare con un importo pari al 10 per cento. Tra le spese ammissibili l'acquisto di macchinari, materiali, software, brevetti e licenze. Possono partecipare al progetto giovani di età compresa tra i 18 ed i 35 anni che siano cittadini italiani residenti in Veneto da almeno 5 anni. I partecipanti non devono essere titolari di impresa, né avere quote azionarie e/o partecipazioni superiori al 10% in società già costituite alla data di scadenza del bando, fissata per il prossimo 21 dicembre.Le opportunità per ottenere dei finanziamenti dunque non mancano. Basta avere il tempo di cercarli e di espletare tutto l'iter di presentazione delle richieste. In attesa che, si spera senza ritardi, la primavera porti con sé l'entrata in vigore del crowdfunding, aprendo così alle start-up nuove forme per il reperimento delle risorse necessarie per crescere. Riccardo Saporiti startupper@repubblicadeglistagisti.it Vuoi saperne di più sul decreto Sviluppo e sul sostegno alle start-up? Leggi anche:- «Restart Italia», con il decreto Sviluppo bis arrivano (quasi tutte) le proposte per le start-up- «L'Italia riparta dalle start-up»: ecco il piano del ministro Passera- Autunno, è tempo di start-up: finanziamenti e bandi da cogliere al voloVuoi conoscere altre storie di start-up? Leggi anche:- Arriva DeRev, una start-up da guinness dei primati- Una startupper sarda negli States: «Qui conta il merito. Ma si può fare anche in Italia»- Startupper, nuova rubrica della Repubblica degli Stagisti dedicata ai giovani che creano impresa  

Altro che choosy: un'indagine su giovani e lavoro smentisce il ministro Fornero

Sfigati, monotoni e mammoni, ma anche choosy, cioè «very careful in choosing, highly selective» secondo i dizionari di lingua inglese, «altamente selettivi nelle loro scelte».L’anglicismo, che ha avuto una tale risonanza in questi giorni da avere buone probabilità di entrare a far parte del nostro lessico comune, è stato utilizzato dal ministro del lavoro Elsa Fornero con l’intento di spronare i giovani a un ingresso rapido nel mercato del lavoro, senza attendere per anni l’occupazione dei loro sogni. La traduzione «schizzinosi» non rende abbastanza l’idea della scelta: non a caso l’aggettivo è un derivato del verbo to choose. Pesantemente contestata per le sue parole, la Fornero è subito tornata sui suoi passi, spiegando quanto da lei affermato poco prima: «Non ho mai detto che i giovani italiani sono schizzinosi. I giovani italiani sono disposti a prendere qualunque lavoro, tanto è vero che sono in condizioni di precarietà. Ho detto che in passato poteva capitare, quando il mercato del lavoro consentiva scelte diverse». Ma la smentita, osservando le due dichiarazioni a confronto, a molti non è sembrata pienamente convincente.I social network sono stati inondati da messaggi di indignazione e di ironia: tanti giovani, intrappolati nella precarietà pur avendo magari conseguito alti titoli di studio, si sono sentiti offesi dalle parole del ministro. Ma, al di là delle reazioni a caldo, a smentire le affermazioni della Fornero è stata un’indagine presentata da Ial (Innovazione, apprendimento, lavoro) e Cisl, intitolata Il futuro delle nuove generazioni in Italia. Su 3600 intervistati, il 71% degli under 35 si è detto disposto ad accettare qualsiasi lavoro, anche non interessante, purché retribuito. Solo uno su cinque dimostra un'attitudine choosy, sostenendo che oggi è invece preferibile attendere per trovare un lavoro che rispecchi le proprie aspirazioni. Il 91%, infine, considera la ricerca di un’occupazione la priorità assoluta, persino più importante dei rapporti familiari. «La ricerca di Ial-Cisl conferma che i rappresentanti del governo farebbero bene a proporre iniziative concrete per i giovani piuttosto che rilasciare commenti offensivi» spiega alla Repubblica degli Stagisti il segretario Confederale Cisl, con delega alle questioni giovanili, Liliana Ocmin. «Il Paese deve poter offrire possibilità occupazionali, dando maggiore spazio a ricerca, innovazione e al merito. Deve capire che abbiamo un immenso capitale umano, che non può essere costretto a fuggire all’estero. Tuttavia» continua la Ocmin, dando in parte ragione alla Fornero  «in questi tempi di crisi non si può fare affidamento solo sul welfare e le famiglie devono responsabilizzare di più i figli prima della laurea, spingendoli a fare anche lavori umili. C’è bisogno di un ripensamento complessivo della società sul riconoscimento sociale di alcuni lavori che saranno sempre più utili in futuro, come l’assistenza agli anziani». E i giovani? Si dividono. I più rumorosi sono naturalmente quelli che contestano il concetto di choosy e rinfacciano alla Fornero di parlare senza conoscere la situazione giovanile, da una condizione privilegiata: sono gli stessi che hanno inondato Facebook negli ultimi due giorni con messaggi di dissenso, istantanee anonime o cartelli scritti a mano. Ma perchè i giovani sono cosi solerti nell'indignarsi per una frase e non si mobilitano altrettanto accoratamente per vere e proprie battaglie che li riguarderebbero molto più da vicino? Repubblica degli Stagisti lo ha chiesto a Giuseppe Failla, portavoce del Forum nazionale dei giovani.«In un contesto di grandi possibilità e opportunità, la frase del ministro avrebbe sortito effetti certamente diversi, ma in un Paese bloccato come l'Italia, con i tassi di disoccupazione giovanile che conosciamo bene e le conseguenti ricadute per gli stessi anche sul piano personale, familiare e psicologico, ritengo naturali le reazioni alle quali abbiamo assistito. Ció detto, è senza dubbio vero che questo non é l'unico motivo che dovrebbe spingere i giovani italiani all'indignazione. Purtroppo la mobilitazione giovanile nel nostro Paese fatica ad essere organizzata, coesa, a rappresentare le istanze di una intera generazione al di sopra delle differenze culturali, sociali, politiche che esistono tra i giovani italiani. Il rischio, in tal senso, é che prevalgano visioni populistiche o fintamente giovanilistiche».Sulla stessa linea anche Ilaria Lani, coordinatrice politiche giovanili della Cgil, che peraltro non risparmia una stoccata alla Fornero: «Di fronte ad un messaggio di pubblica offesa, con un carattere così simbolico, è facile innescare la reazione sul web. Molto più difficile per una generazione che ha tanti lavori, tante condizioni, tanti contratti - e pochi luoghi di incontro - organizzare battaglie comuni: in questo caso non basta il web, bisogna organizzarsi, elaborare proposte, rischiare in proprio. E poi servono interlocutori e controparti chiare affinchè sia visibile lo sbocco. Tutto questo è molto difficile ma se le nuove generazioni non si organizzano rimarranno sempre schiacciate in una eterna condizione di giovinezza e subalternità».Eppure capita anche di trovare ragazzi che non si sono scandalizzati per le parole della Fornero, come nel caso di Davide Maria De Luca, giornalista di 27 anni che scrive di economia e lavoro per ilpost.it: «Siamo i figli viziati di una generazione che si è arricchita, ha comprato casa e ci ha mandato a studiare all'università. A parole siamo bravissimi a dire che siamo disposti a tutto pur di lavorare, ma nella pratica le cose cambiano e ci sono parecchi mestieri che non riteniamo alla nostra altezza. Fornero è stata coraggiosa, come al solito, nel dire una di quelle cose che sappiamo tutti, ma non diciamo mai».Il ministro avrebbe potuto evitare quelle parole, ma se non altro ha aperto un dibattito nella società, toccando un tasto molto dolente di una generazione stufa di essere additata come viziata e passiva. Gli adulti dovrebbero ammettere di aver lasciato sulle spalle dei giovani un peso enorme, quello del debito pubblico, e i ragazzi  riconoscere che molti di loro, anziché cercare di reagire alla crisi, preferiscono la rassegnazione o la comodità dell’ammortizzatore sociale familiare. Antonio Siragusa Hai trovato interessante questo articolo? Leggi anche:- I giovani sono i più colpiti dalla crisi, il Cnel: «Sempre più difficile trovare il lavoro per cui si è studiato»- In Italia un giovane su tre è senza lavoro. Ma è davvero così?- Trovare lavoro in Europa, per i giovani c'è Eures