Categoria: Approfondimenti

Brain, la start-up che ti fa andare più veloce in moto e ti aiuta se cadi

Un apparecchio che permette di andare più veloce con la moto quando sei in pista. E che aiuta se, in strada, si viene coinvolti in un incidente. Tutto questo è Brain, uno strumento sviluppato dall'omonima start-up fondata da due giovani ingegneri, Simone Grillo (29 anni) e Timoteo Ziccardi (34). «L'idea mi è venuta un giorno mentre ero in vacanza in Austria» racconta Grillo: «sono entrato in un megastore e ho visto una Ducati Panigale con diverse telecamere montate sopra. Da lì è scattato il resto». Dove il “resto” è «un apparecchio che permette di quantificare l'emozione». Detto altrimenti: «è come un piccolo computer con dei sensori che viene montato a bordo della motocicletta. Il software è basato su Android e questo permette anche a degli sviluppatori esterni di programmare in un ambiente familiare e creare nuove applicazioni». Ovvero applicare la tecnologia di Brain anche ad altre discipline sportive più o meno estreme, dall'arrampicata al paracadutismo. Montato su una moto - «ma bisogna usarlo soltanto in pista, non in strada» precisa Grillo - registra dati come il tempo sul giro e la velocità. «Unito ad una telecamera Go pro i dati possono essere montati in overlay sul filmato». E permettere così di rivedere la propria prestazione come se si fosse un pilota della MotoGp. «Rivedendosi è possibile capire dove e come si può “spingere” di più».Brain è utile anche una volta usciti dalla pista. «In strada la guida è completamente diversa. E qui si innesca un discorso di sicurezza». L'apparecchio è infatti in grado di capire se c'è stato un incidente, ad esempio registrando le brusche accelerate che sono tipiche quando avviene uno scontro. O “capendo” che la moto si trova rovesciata sull'asfalto. In situazioni come questa non solo lancia l'allarme ad altri dispositivi Android sincronizzati: «L'idea è anche quella di rendere disponibili a chiunque si connetta la cartella clinica, il gruppo sanguigno e le allergie della persona coinvolta». Tutte informazioni preziose per i soccorritori.I due ingegneri si sono conosciuti mentre entrambi lavoravano per un'azienda del gruppo M31, e a un certo punto hanno deciso di sviluppare insieme questo progetto. L'idea è piaciuta, tanto che hanno ricevuto subito un finanziamento da 150mila euro da parte di Ban Trentino, un network di business angels, e da Industrio, incubatore di start-up di Rovereto. Risorse che sono state utilizzate anche per versare il capitale sociale - 10mila euro - necessario per fondare la loro srl. «Ho contattato l'incubatore e ho fatto una prima presentazione via Skype. Quindi ci siamo incontrati di persona ed abbiamo partecipato ad una presentazione di fronte ad un gruppo di investitori». L'incontro ha avuto esito positivo, i due startupper hanno ricevuto i primi fondi e si sono trasferiti da Padova a Rovereto.L'azienda è nata ufficialmente a giugno di quest'anno e a metà ottobre ha partecipato alla Maker Faire di Roma; a gennaio Grillo e Ziccardi saranno al Ces di Los Angeles. In questo momento è già possibile preordinare il prodotto, e a febbraio partirà una campagna di crowdfunding reward based per raccogliere la somma necessaria, circa 90mila euro, per arrivare alla fase di go to market. «Questa campagna per noi avrà anche una funzione importante in termini di marketing», precisa Grillo. Il punto infatti è quello di costruire attorno a Brain una comunità e lasciare che sia quest'ultima ad "hackerare" il dispositivo, sviluppandone nuove funzionalità. Ad esempio, elaborando software che permettano di utilizzare Brain anche in altre discipline, sempre con la sua doppia funzionalità: da un lato aiutare a migliorare le proprie prestazioni, dall'altra favorire i soccorsi in caso di incidente.Riccardo Saporitistartupper@repubblicadeglistagisti.it 

Quando è l'azienda a sbagliare l'annuncio di lavoro

«Cerchiamo giovani lavoratori, ma agli annunci non risponde nessuno». Ciclicamente alcune aziende italiane si rivolgono ai giornali per lamentare una scarsa risposta alle loro inserzioni di lavoro, ingenerando il solito e trito dibattito a suon di editoriali sui giovani italiani che non hanno voglia di “sporcarsi le mani”. L'ultimo, in ordine cronologico, riguarda la Laser Group di Strambino, in provincia di Torino, che cerca senza successo da circa sei mesi cinque programmatori e analisti. Ma in questo caso non c'è, a ben vedere, nessuna “notizia”: i programmatori sono molto ambiti sul mercato del lavoro, e difficili da reperire; inoltre, ve ne sono pochi disposti a vivere e lavorare in una cittadina di provincia, che di solito risulta attrattiva solo per chi già ci vive. Ma il problema degli annunci a vuoto riguarda in realtà anche categorie meno gettonate: tornando indietro allo scorso giugno, il titolare di un ristorante di Oderzo in provincia di Treviso si lamentava, sui giornali locali, di non riuscire a trovare camerieri. Circa un anno fa la J Colors, una società nel settore delle vernici, offriva quattro posti come sales account: nonostante uno stipendio da più di 50mila euro, le selezioni andarono quasi deserte e il caso finì anche sull'Espresso. Che in Italia sia difficile far combaciare offerta e domanda di lavoro è innegabile. Ma è sempre colpa di chi cerca lavoro, oppure talvolta sono le aziende che formulano male, o sui canali sbagliati, le loro richieste?«Ci sono almeno tre motivi per i quali la domanda e l'offerta di lavoro non si incontrano», spiega alla Repubblica degli Stagisti Osvaldo Danzi, executive recruiter per Carriere Italia e fondatore del gruppo LinkedIn “Fior di Risorse”. Due riguardano non le aziende, bensì i candidati: «Il primo è legato sicuramente al sistema scolastico. Sono spariti gli istituti tecnici e, allo stesso tempo, scuola e mondo del lavoro oggi parlano due lingue troppo diverse». Il secondo motivo riguarda in parte ancora la formazione: «Il mercato del lavoro richiede delle vere e proprie strategie di accesso. Bisogna non solo sapersi presentare ma anche saper indirizzare le proprie candidature nel modo e nel posto giusto». E a scuola questo non lo insegnano: insomma, «senza competenze e un buon cv, niente lavoro».La terza, ma non ultima, causa del mancato incontro tra domanda e offerta di lavoro riguarda, invece, la qualità degli annunci. «Non è raro vedere pubblicate offerte di lavoro scritte male o sovradimensionate rispetto alla propria struttura aziendale e spesso anche al proprio portafoglio», prosegue Danzi. «Si cercano profili molto strutturati offrendo solo di contratti di stage e di apprendistato, oppure figure strategiche... a partita Iva! Questo in qualche modo ha falsato il mondo della ricerca di lavoro, creando molta insofferenza nei candidati e in certi casi anche molta rassegnazione». Anche agli uffici stage delle università talvolta giungono richieste quasi impossibili. «Nella nostra esperienza non troviamo particolari difficoltà a comprendere quali profili le aziende stanno cercando ma riscontriamo, alcune volte, richieste contraddittorie», spiega Raffaella Mecangeli, responsabile dell'Ufficio Stage dell'università Lumsa di Roma. «Può accadere che ci giungano offerte di stage extracurricolari per i quali l'azienda richiede almeno un anno di esperienza: questa è una contraddizione in termini! Infatti uno stage extracurricolare di formazione e orientamento può essere attivato solo nei 12 mesi successivi al conseguimento del titolo che sia di laurea, di master o di scuola di specializzazione. In questi casi le imprese non dovrebbero rivolgersi agli atenei, bensì richiedere questi profili alle agenzie di lavoro». Di fronte ad un'offerta di stage di questo tipo, «cerco nel nostro bacino di ex studenti laureati alla Lumsa da almeno 12 mesi e fornisco all'azienda il curriculum del candidato, specificando che l'ex studente non può svolgere più stage attraverso di noi e che quindi, se interessati, devono formulare un'offerta di lavoro». Ma al di là di offerte di lavoro confuse con stage o sovradimensionate, «chi si occupa di ricerca del personale, spesso, non ha le competenze tecniche sulla figura professionale che sta cercando», aggiunge Maria Grazia Balduino, cacciatrice di teste per Arpa Consulting a Torino. Come dire: senza conoscenze tecniche non si va da nessuna parte. «I profili sono spesso complessi, come è complesso ciò che le aziende vogliono. E queste esigenze particolari non sono sempre correttamente percepite da chi si occupa di reclutamento. È necessario, quindi, che il reclutatore apra un canale di dialogo con il responsabile tecnico per capire alcuni aspetti che il direttore del personale raramente conosce».Negli ultimi anni Osvaldo Danzi ha registrato una grande debolezza nella dirigenza delle risorse umane, sia dal punto di vista decisionale che di qualità della selezione. «Intravedo una grossa difficoltà da parte dei direttori del personale “vecchio stile” a relazionarsi con gli strumenti più innovativi e una forte resistenza ad aggiornarsi e a partecipare. Il recruiting è finito in mano a giovani e inesperti oppure viene affidato, insieme al marketing, ai figli dei titolari, perché percepita come attività non collegata direttamente al business».E poi: l'annuncio è sempre la strada più corretta? Secondo una ricerca del 2013 condotta da Spinlight, società di outplacement (cioé ricollocamento lavorativo di dipendenti licenziati) che opera in Italia, tra le soluzioni ritenute più valide dai direttori delle risorse umane ci sono ancora gli annunci online (84%) soprattutto per figure meno specializzate. Ma non sempre si tratta della strada più efficace. «Talvolta, l'azienda sbaglia la scelta del canale di reclutamento. In certi casi, più che l'annuncio, le aziende dovrebbero utilizzare l'università o rivolgersi al proprio network di contatti aziendali e creare un veloce passaparola», spiega la Balduino. Anche se questo perpetuerebbe ciò che in realtà rappresenta uno dei mali più gravi del mercato del lavoro italiano, e cioè l'assenza di meritocrazia e di “disputabilità” dei posti di lavoro, allocati fin troppo spesso tramite conoscenze anziché aprendo la competizione e valutando i cv più interessanti indipendentemente dai legami personali dei recruiter.C'è poi il capitolo social network. Secondo la più recente indagine Adecco Work Trends Study, condotta su quasi 150 recruiter interni alle aziende, le attività di ricerca dei profili professionali si svolgono in due terzi dei casi sui social network, con un incremento del 19% rispetto allo scorso anno. Se l'interesse verso il digitale sta crescendo nelle aziende, tra i cacciatori di teste, invece, i social network sono già praticamente indispensabili: li utilizzano oltre nove intervistati su dieci. È quanto emerge da un'altra recente indagine, stavolta di Jobvite, condotta su 1.400 professionisti del settore. Il più utilizzato è ovviamente LinkedIn (87%), seguito da Facebook (47%) e Twitter (47%). E tornando allo studio di Adecco, coloro che trovano lavoro attraverso i social network sono l'8,4% dei candidati.«LinkedIn è importante per i cacciatori di teste e fondamentale per i candidati che vogliono farsi trovare. Chi non è su LinkedIn, non esiste», conferma Osvaldo Danzi. «Questo social network ha un aggiornamento costante e continuo da parte dei candidati che lo rende uno strumento strategico, superando completamente i vecchi portali del lavoro dove ormai si trovano solo cv obsoleti e mai aggiornati. Per le aziende significa non solo trovare candidati ma anche posizionarsi in un'ottica di employer branding: le pagina corporate di LinkedIn hanno un grande impatto in termini di visualizzazione, spesso più visitate degli stessi siti aziendali e dove è possibile pubblicare e far conoscere le offerte a migliaia di candidati in tempo reale». Ma anche con questo mezzo non sempre le aziende agiscono nel modo migliore. «Alcune non usano lo strumento corporate: si muovono su LinkedIn attraverso gli account personali dei propri reclutatori», conclude Danzi. «Se, invece, viene utilizzato correttamente, permette di raggiungere l'80% delle figure normalmente richieste».Paolo Ribichini

Contratti e occupazione, come evitare di «dare i numeri»

«Le parole sono importanti», diceva Nanni Moretti. Anche le cifre, sarebbe doveroso aggiungere. A quanto pare però questa precisazione è sfuggita a qualcuno. In molti ricorderanno i dati diffusi a fine estate dal ministero del Lavoro, che aveva parlato di oltre 630mila nuovi assunti a tempo indeterminato tra gennaio e luglio 2015, salvo poi correggere il tiro e arrivare a 327mila. Non si tratta dell’unico «errore» ammesso da Palazzo Chigi sui risultati del Jobs Act: molta confusione si è creata anche su collaborazioni e apprendistato. E non è certo un problema nato col governo Renzi: più o meno ciclicamente scoppia qualche bufera sui numeri, soprattutto relativi al tema dell'occupazione. E leggendo giornali e documenti non è raro imbattersi in una vera e propria «selva» di numeri: valori assoluti, percentuali, confronti tra semestri e anni, che non sempre «tornano».La Repubblica degli Stagisti ha provato a capire quali possono essere le cause di queste discrepanze e quali dovrebbero essere i criteri giusti per raccogliere, spiegare e interpretare i dati sul lavoro. Giuseppe Roma, 66 anni, direttore generale della Fondazione Censis, suggerisce di partire dalle diversità tra le fonti: «Innanzitutto per valutare l’andamento dell’occupazione bisogna capire le differenze fra le due principali fonti di dati: ministero del Lavoro e Inps da una parte, Istat dall'altra. I dati del ministero registrano le comunicazioni obbligatorie che il datore di lavoro deve effettuare quando assume o quando si conclude un rapporto di lavoro. Si riferiscono al flusso e non contabilizzano le teste, cioè i lavoratori. Inoltre riguardano il solo lavoro dipendente. Userei con molta cautela questi dati. La rilevazione Istat, invece, è quella più attendibile, soprattutto il dato trimestrale. In questo caso si tratta di un’indagine su un campione di 65mila famiglie (legali o di fatto), residenti in circa 1.300 comuni. Questo campione viene articolato, da più di dieci anni, su base mensile rendendo anche possibile così la disponibilità di dati mese per mese. La rilevazione viene effettuata con la stessa metodologia in tutti i  paesi dell’Unione Europea. Considero i dai trimestrali Istat quelli più attendibili». Una prima discriminante deve quindi essere fatta guardando la fonte dei dati e tenendo ben fermi nella mente i differenti criteri alla base dei rispettivi conteggi: ministero/Inps registrano i dati sui contratti dei dipendenti, l’Istat sulle persone. Nel calcolo dei nuovi contratti attivati è bene però non perdere di vista un altro aspetto: la differenza tra contratti attivati e contratti cessati, che restituisce il valore «autentico» sull’effettivo aumento di occupazione.  Un altro elemento importante è la forma con cui il dato numerico è presentato, cioè valore assoluto o percentuale: «Le regole per non creare confusione sono precise, anche se presentano qualche complessità.  Consiglierei a tal fine di usare i valori assoluti in modo da valutare più correttamente le variazioni. I dati in percentuale spesso vengono interpretati in modo non corretto. Il tasso di disoccupazione è quello che crea maggiore confusione. Non si tratta della percentuale dei disoccupati sulla popolazione. Quel 44% di disoccupazione giovanile, ad esempio, non vuol dire che ci sono 44 disoccupati ogni 100 giovani fra 15 e 24 anni, ma ogni 100 giovani di quell’età presenti nel mercato del lavoro come occupati o come persone alla ricerca di un lavoro. Se usiamo di più i valori assoluti controlleremo meglio le variazioni nel tempo», spiega Roma alla Repubblica degli Stagisti.Altro errore frequente l’utilizzo di dati non «destagionalizzati»: vengono messi a confronto dati  di periodi differenti (ad esempio dicembre 2014 con un altro mese di anni precedenti). È importante invece mettere a confronto dati gli stessi mesi o comunque periodi privi dell’effetto «stagionalità».Calando queste indicazioni nella realtà si ottengono delle evidenze ben concrete: «Se analizziamo i dati degli ultimi quattro anni, ad esempio, notiamo che quasi tutta la riduzione degli occupati si registra nel lavoro autonomo e non in quello dipendente» rileva Roma: «Inoltre, l’industria à stabile, i servizi aumentano mentre il crollo occupazionale si è registrato nelle costruzioni. Infine, il lavoro diminuisce nel Mezzogiorno, mentre è aumentato nel Centro Nord, anche se di poco».Di chi è la responsabilità della corretta diffusione di queste informazioni? I giornalisti non sono esenti da colpe: secondo il direttore del Censis «da cronisti si trasformano in opinionisti e persino in analisti, rinunciando alla fondamentale funzione di utilizzare gli esperti». Ma anche la politica fa spessissimo un uso strumentale dei dati: «Mi rendo conto che nel gioco mediatico e politico si abbia l’ansia di usare i dati per dimostrare che le cose vanno bene o al contrario che tutto va sempre male. Ma i dati ci devono aiutare a capire, bisogna interpretarli con correttezza. E soprattutto non bisogna dare giudizi affrettati. Ci si guadagna in affidabilità», conclude.Le cifre insomma non vanno solo raccolte e scritte, ma anche e soprattutto interpretate e contestualizzate seguendo criteri ben precisi per evitare di fare errori. E di veicolare al grande pubblico informazioni imprecise, o addirittura fuorvianti. Chiara Del Priore

Precari della giustizia, ennesima proroga per i tirocini nei Tribunali: ma il nuovo bando lascerà a casa mille persone

La loro sorte era rimasta nel limbo dall’aprile di quest’anno; ora per i tirocinanti degli uffici giudiziari si apre la possibilità di un nuovo stage lungo ben 12 mesi con un rimborso spese di 400 euro mensili. Il 4 novembre il ministero della giustizia ha, infatti, pubblicato le modalità e i termini per la partecipazione alla selezione di 1502 tirocinanti per un «ulteriore periodo di perfezionamento nella struttura organizzativa “Ufficio per il processo”». L’ennesima dimostrazione, se mai ce ne fosse stato bisogno, che i tirocinanti utilizzati dal 2010 ad oggi negli uffici giudiziari di tutta Italia sono necessari per il funzionamento del settore giustizia. A tal punto da consentire un susseguirsi di periodi di “tirocini formativi”, “completamento di tirocini” e “perfezionamento” che in nessuna normativa sono mai stati contemplati. La Repubblica degli Stagisti da tempo segue con attenzione il caso: abbiamo ricostruito la vicenda, quando l’ultima parte del periodo di stage era stata interrotta senza spiegazioni; abbiamo raccolto la testimonianza diretta di una stagista cinquantenne ex cassintegrata, poi ad aprile abbiamo riportato la "buona notizia" dell’attivazione di un’altra tranche di ore già previste e approvate nel piano del tirocinio ma mai svolte. Senza dimenticare la protesta del 28 aprile indetta dalla Cgil per sensibilizzare la politica ai problemi di questi lavoratori lasciati in mezzo a una strada. L’assurdità di questo nuovo provvedimento è già nel testo dell’avviso, in cui si parla di «un ulteriore periodo di perfezionamento della durata di dodici mesi». Come se dopo cinque anni di tirocini, con nomi diversi ma svolti nello stesso luogo e con gli stessi compiti - il primo bando è partito nel giugno 2010 e aveva una durata annuale - ci fosse davvero bisogno di altro "perfezionamento". Senza contare che tutto questo è palesemente contro legge, visto che la normativa vigente sugli stage è molto chiara sulla durata: non superiore a 12 mesi per i tirocini di inserimento e reinserimento, proroghe comprese. Nonostante il ministero della giustizia debba vigilare sul rispetto delle norme, infatti, è lo stesso ministero a creare contra legem l’ultimo tassello di questa storia, con il decreto interministeriale del 20 ottobre che ha indetto la procedura di selezione. Le modalità e termini sono state stabiliti due settimane dopo, mettendo come limite temporale massimo per la presentazione delle domande la mezzanotte del 19 novembre. La Repubblica degli Stagisti ha provato a contattare il ministero della Giustizia per parlare con il direttore generale che ha firmato il provvedimento e capire come sia stato possibile proseguire per cinque anni con stage, che avevano nomi diversi ma stessi compiti e coinvolgevano sempre le stesse persone, come se fossero stati un unico grande tirocinio. Purtroppo, però, non è riuscita ad avere ancora una risposta dall'ufficio stampa. Il bando contiene per i suoi destinatari alcuni lati apparentemente positivi, tanto da essere definito da Gianna Fracassi, segretario confederale Cgil, «un primo passo importante». Eppure anche questa volta ci sono numerosi problemi: primo fra tutti il numero dei tirocinanti. Sui 2.600 stagisti degli uffici giudiziari, che da qualche tempo si sono autodefiniti "precari della giustizia", ben 1100 resteranno fuori. Ma su questo punto Fracassi dice alla Repubblica degli Stagisti che «per gli altri mille abbiamo l’assicurazione da parte del ministro che si dovrebbe aprire un tavolo con le Regioni per trovare una soluzione». Perché il punto centrale per il sindacato è che «ci deve essere una soluzione che riguarda tutti. È evidente che abbiamo una certa disomogeneità rispetto ai numeri tra i territori, quindi bisogna far fronte anche con risorse regionali alla copertura totale per tutti i precari della giustizia».  C’è un altro problema che ha sollevato molte critiche tra gli stagisti e i sindacati ed è quello che riguarda la distribuzione dei posti. In regioni in cui il numero dei tirocinanti è sempre stato basso, sono stati messi a bando diverse posizioni per gli stagisti. Mentre in altri casi in cui il numero di stagisti è sempre stato molto elevato, garantendo il funzionamento degli uffici giudiziari, le posizioni a disposizione questa volta sono pochissime. Certo, all’articolo 4 comma 5 del bando c’è scritto che si può fare richiesta fino a «quattro uffici giudiziari, anche collocati in diversi distretti», facendo quindi intendere che un "tirocinante" (noi lo mettiamo tra virgolette: dopo 5 anni non li consideriamo davvero più tirocinanti) della Calabria potrebbe mettere tra le sue preferenze anche una regione del Nord dove sa che ci sono pochi stagisti. In questo modo potrebbe avere la quasi certezza di essere chiamato, ma per un anno dovrebbe lavorare a 400 euro al mese lontano da casa, senza nessuna aggiunta. «Non so chi abbia pensato e scritto quella parte del bando, evidentemente qualcuno che pensa si possa sopravvivere lontani da casa con soli 400 euro. La considero quasi una presa in giro» dice Fracassi alla Repubblica degli Stagisti. «Certo, la distribuzione dei posti è legata alla legge, e quindi all’istituzione dell’ufficio del processo che è presente in tutte le giurisdizioni, anche quelle senza precari. Ma poiché bando e legge sono finalizzati all’assorbimento di una parte dei precari, è evidente che c’è una contraddizione».Perché «la metà dei 2600 precari della giustizia provengono da percorsi di mobilità e non sono giovani neolaureati che hanno attivato un percorso di formazione». Quindi over 40-50enni, con famiglie a carico, che difficilmente potrebbero spostarsi per un anno in un’altra città solo per fare un tirocinio che non gli garantisce un futuro. «Abbiamo detto sin dalle prime indiscrezioni sul bando che la soluzione di spostarsi non era possibile. Perciò abbiamo avanzato la nostra richiesta: una volta soddisfatte le domande dei residenti nella regione, i posti non coperti vengano distribuiti nelle regioni dove hanno attribuito poco o niente».La proposta della Cgil potrebbe essere una soluzione, ma resterebbero dei nodi. Come quello della Calabria, dove pur redistribuendo i posti non si riuscirebbe a soddisfare la richiesta. Lì sono stati messi a concorso «23 posti a fronte di 700 precari. Non si comprende se la finalizzazione della norma è anche il precariato oltre all’ufficio del processo» osserva sarcastica Gianna Fracassi. Che ci tiene a ricordare come l’attivazione di questi percorsi non sia stata voluta dai tirocinanti che pensavano di accedere a un percorso che avrebbe dovuto ricollocarli, ma da Regioni e ministero della Giustizia.Le richieste, quindi, sono l’attribuzione dei posti rimasti vuoti nelle regioni dove sono già presenti precari e l’apertura del tavolo con le regioni per dare una soluzioni ai mille esclusi dal bando. «Questo va fatto» spiega la segretaria confederale Cgil. «Il ministro su questo punto si era impegnato e se non mantiene la sua parola riattiveremo il percorso di mobilitazione come abbiamo fatto da 12 mesi a questa parte. Le soluzioni non possono essere parziali».Su questo punto Fracassi rilancia la proposta Cgil di utilizzare le risorse del Fondo unico giustizia, che sono ingenti e disponibili, e su cui c’è una legge che ne consente l’impiego per aumentare la funzionalità dei ministeri della giustizia e degli interni. «Non possono dire che non ci sono le risorse perché abbiamo individuato anche una possibile fonte», ricorda, aggiungendo anche che va studiata la modalità per proseguire nella stabilizzazione di questo personale. Magari non solo all’interno del ministero della giustizia dove i vuoti di organico sono pure molto alti, ma «anche in altri ministeri, visto che le sedi periferiche sono molto spesso sguarnite nonostante la riattribuzione di posti al personale in esubero dalle province».Prima di qualsiasi eventuale mobilitazione, la Cgil vuole quindi aspettare la chiusura e definizione del bando. Poi, numeri alla mano su esclusi e posti non coperti si spera che ci sarà l’apertura del tavolo con Regioni e ministero «per fare un ragionamento che tenga insieme più risorse». Ai tirocinanti che da maggio aspettavano questo momento, conviene invece affrettarsi nel compilare la domanda di partecipazione e sperare di rientrare tra i fortunati che per un anno torneranno, in barba alla legge e all’età, a fare gli stagisti.Marianna LeporeFoto quadrata in alto a destra: di Morganforuall da Pixabay in modalità Creative Commons

Legge di Stabilità e lavoratori autonomi, cosa cambia per i freelance

Le novità dedicate al lavoro autonomo e contenute nel ddl Stabilità, pare abbiano finalmente catturato l'attenzione di molti professionisti senza busta paga che, forse, proprio per la natura "indipendente" delle loro professioni, non sono abituati a stare al centro del dibattito politico. Così, in attesa che il governo vari il testo definitivo, le associazioni che rappresentano gli interessi della categoria organizzano eventi e incontri per discutere gli imminenti cambiamenti. Oggi a Roma appuntamento con l'evento #RipartelItalia del Colap, il Coordinamento libere associazioni professionali, con la sua "Road Map", un documento ricco di proposte, alcune delle quali sono state accolte nella legge di Stabilità. Si parlerà di previdenza, formazione, fisco e altri argomenti che interessano da vicino chi lavora con partita Iva, senza datore di lavoro. Quelli che Sergio Bologna, docente, storico e membro di Acta, l’Associazione dei consulenti del terziario avanzato, ha descritto di recente al Freelanceday di Torino "Lavoratori che affrontano il mercato senza paracadute”. Una definizione inquietante, ma che rende benissimo l’idea. Perché oggi il freelance assomiglia davvero a un pilota spericolato, che si getta a capofitto in un mestiere senza neppure avere la certezza di atterrare. Un lavoratore che i più anziani, ma non solo, faticano a comprendere e continuano a considerare alla stregua dei precari. Eppure oggi gli autonomi, secondo l'Istat, rappresentano un quarto degli occupati (24,7%), anche se di questi solo il 5,7% sono professionisti, cioè lavoratori specializzati che prestano opera intellettuale. In Italia si trovano dappertutto, con una leggera prevalenza nel nord-est. E mentre gli autonomi diminuiscono, loro continuano a crescere, soprattutto la componente femminile. «Nonostante dopo la crisi del 2008 il mercato sia più difficile» spiega Bologna «tra i freelance c’è una maggiore consapevolezza: sono nati nuovi strumenti di business come il coworking, che ha aiutato molte persone ad avviare la loro attività. Si sta cominciando a diffondere, seppur lentamente, una mentalità della cooperazione, solidarietà e condivisione». Un contesto in continuo movimento, dove un ruolo fondamentale è giocato dai governi nazionali e dalle norme che riusciranno ad approvare. Una di queste è la Legge di Stabilità, che al suo interno contiene alcune importanti novità per i lavoratori indipendenti. Qualcuno l’ha già definita il “Jobs Act degli autonomi”, anche se ancora non è del tutto chiaro comprendere la bontà dei provvedimenti contenuti al suo interno. La prima, grande novità è senz'altro lo Statuto dei lavoratori autonomi, che finalmente dovrebbe definire regole e tutele per i professionisti. «Ha tre peculiarità che lo distinguono dalle vecchie versioni e allo stesso tempo segnano una discontinuità rispetto alla situazione attuale» dicono con soddisfazione da Acta. «Si rivolge esclusivamente al lavoro autonomo professionale e non a tutto il lavoro autonomo e lo definisce escludendo il lavoro autonomo svolto in forma di impresa. Abbandona ogni difficile distinzione tra “vero” e “finto” lavoro autonomo, tra “economicamente dipendente” e non e, accogliendo una nostra richiesta, pone alcune norme a tutela di tutto il lavoro autonomo professionale. Infine, alle controversie si applicherà il diritto del lavoro, un primo passo per riconoscerci come lavoratori e non venditori di servizi». Accolto con soddisfazione il punto che riguarda i ritardi nei pagamenti, che tanto fanno penare i freelance: scaduto il tempo massimo di 60 giorni, dovrebbe scattare automaticamente un risarcimento fin dal primo giorno di ritardo. Bene anche la deducibilità totale delle spese per la formazione, fino a un massimo di 10 mila euro «che finalmente permette di riconosce quello che rappresenta il principale investimento per un professionista autonomo. Senza dimenticare l’eliminazione del vincolo che impediva ai professionisti di accedere ai bandi pubblici». Se lo Statuto convince, sono gli interventi in ambito fiscale a lasciare qualche perplessità. «Nelle situazioni di malattia grave, che impediscono lo svolgimento dell’attività per oltre 60 giorni, sarà sospeso il versamento degli oneri previdenziali» aggiungono dall’Associazione «e il pagamento sarà successivamente rateizzato. Questo va bene. anche se sarebbe stato opportuno interrompere anche i pagamenti fiscali. Inoltre, siamo un po’ delusi dalla sospensione dell’aumento dei contributi Inps degli iscritti alla gestione separata, perché ci aspettavamo il blocco definitivo dell’aliquota». A far discutere, però, è soprattutto il nuovo regime forfettario del numeroso popolo dei Partita Iva, che raddoppia la soglia di fatturato rispetto al regime attualmente in vigore, passando da 15mila a 30mila euro. Una modifica positiva che però, sempre secondo Acta «diventerà facilmente una trappola.  E ciò non è un bene né per i professionisti, che non sono stimolati a crescere, né per il Paese. Le tariffe proposte da chi fruisce di queste agevolazioni hanno effetti depressivi sull’intero mercato dei servizi professionali, già in forte ribasso nell’ultimo decennio». Ad Acta non piace neppure la forfettizzazione dei costi che, seppur semplifichi le procedure «elimina un importante strumento di contrasto all’evasione fiscale, perché non sarà necessario portare prova degli acquisti; disincentiva gli investimenti, inclusi quelli in formazione, perché non comporteranno alcun vantaggio fiscale». Bocciata anche la cumulabilità del forfettario con un reddito da dipendente o da pensione di altri 30.000 euro. «Perché in sostanza un dipendente o un pensionato con un reddito di 30.000 euro, potrà beneficiare di un'aliquota sostitutiva del 15% (5% se nuova attività) per il reddito aggiuntivo da lavoro autonomo: un’agevolazione notevole e decisamente spropositata rispetto a quella goduta da chi è solo autonomo».Marco Panzarella

Infortuni sul lavoro, gli stagisti curriculari non hanno diritto alla copertura in caso di incidenti fuori ufficio

Può capitare a tutti, stagisti inclusi, un incidente nel tragitto verso l'ufficio, o tornando a casa. È successo a una lettrice della Repubblica degli Stagisti, che sul forum ha condiviso la sua vicenda: «Tornando dal lavoro due giorni fa sono stata tamponata da un'auto. Tanto dolore ma niente di rotto fortunatamente: prognosi di sette giorni» racconta, firmandosi 'Matale'. «Al pronto soccorso» specifica «mi hanno aperto il fascicolo Inail». Un tamponamento nel rientro a casa dal luogo di lavoro configura la fattispecie del cosiddetto incidente in itinere: ovvero l'infortunio che si verifica nel percorso casa-lavoro che dà diritto, come per tutti gli incidenti sul lavoro, a un risarcimento. La domanda è: in casi simili i diritti della stagista sono equiparabili a quelli di un lavoratore? E qual è la normativa di riferimento? L'interlocutore più giusto per chiarire quale trattamento debba aspettarsi chi si trovasse in questa situazione è l'Inail, ente assicurativo per gli infortuni sul lavoro. Quanti sono i casi di infortunio sul "luogo di stage" ogni anno in Italia? Come li classifica l'Inail, e sopratutto, come li liquida? La Repubblica degli Stagisti ha rivolto queste domande all'ufficio stampa dell'Inail, e dopo alcune settimane di attesa sono arrivate alcune risposte. Non quella sui numeri: pare infatti che non sia possibile sapere quanti siano mediamente ogni anno gli infortuni che capitano a stagisti, trattandosi di «una richiesta inusuale per cui servirebbero risorse dedicate». L'ufficio stampa spiega poi che c'è una differenza molto rilevante, su questo tema, tra stage curriculari (cioè svolti all'interno di un percorso di studio) e stage extracurriculari (svolti una volta conseguito un titolo - diploma, laurea... - insomma quando non si sta più studiando: è il caso, per esempio, dei tirocini di inserimento/reinserimento lavorativo). All'indennità assicurativa ha pieno diritto solo chi sta svolgendo uno stage extracurriculare. «Come illustrato nella circolare n.16/2014, sia per i tirocini curriculari, sia per quelli extracurriculari sussiste l’obbligo assicurativo presso l’Inail» è scritto in una istruzione interna dell'ente. Premesso questo, va fatta una distinzione. «Mentre per i tirocinanti extracurriculari è prevista la copertura contro gli infortuni sul lavoro di tutte le attività rientranti nel progetto formativo, comprese quelle svolte al di fuori dell’azienda, con conseguente estensione della tutela anche agli infortuni in itinere, lo stesso non può dirsi per i tirocinanti curriculari». Una differenziazione di trattamento scaturita dalla circolare 16/204, «che trova il suo fondamento nelle Linee guida sui tirocini», sottolinea l'ufficio stampa, in piena autonomia rispetto al ministero del Lavoro («l'Inail agisce in autonomia senza necessità dell'avallo del dicastero vigilante»).  Dunque, se la ragazza si trovasse nel mezzo di uno stage extracurriculare – quello per cui è previsto l'obbligo di rimborso spese per intendersi – la copertura assicurativa riguarderebbe anche gli infortuni fuori dall'azienda, come nel caso dell'incidente stradale. Non è così invece per gli stagisti curriculari. «Questi ultimi, infatti, sono tutelabili quali studenti ai sensi del decreto 1124/1965 e cioè limitatamente ai rischi connessi a esercitazioni svolte nel contesto scolastico» chiarisce il documento. La spiegazione sta nel fatto che la strada tra casa e lavoro è esclusa dal progetto formativo: a mancare è «il collegamento teleologico» perché «l’attività protetta costituisce solo una parte della complessiva attività degli studenti di tirocinio curriculare, con la conseguenza che il percorso compiuto da e per l’istituto di formazione non è riferibile esclusivamente a quella parte dell’attività».Recarsi o tornare dal luogo in cui si svolge il tirocinio, insomma, può considerarsi una attività riferibile esclusivamente allo svolgimento del tirocinio stesso nel caso di un tirocinio extracurriculare, mentre non può considerarsi tale nel caso di uno stage extracurriculare. Sembra paradossale, perché la strada è sempre quella e il tirocinio sempre quello: ma le cose stanno così. «Quindi l’Inail ritiene che gli infortuni occorsi ai tirocinanti curriculari devono essere ammessi nei limiti e alle condizioni previste per gli allievi dei corsi professionali». Per questa tipologia di stagisti scatta allora l'equiparazione con chi segue corsi professionali, protetto solo per episodi che «si verifichino in occasione delle esperienze tecnico-scientifiche, pratiche e di lavoro». Dunque solo dentro i luoghi fisici in cui si svolge l'attività, e non fuori. Chiarito questo aspetto, l'altra questione riguarda il tipo di copertura assicurativa, ovvero gli importi. A sciogliere i dubbi in questo caso è il ministero del Lavoro, che tramite il suo ufficio stampa ricorda che il riferimento è di nuovo alla circolare 16/2014 dell'Inail. È qui che si stabilisce che il calcolo del premio assicurativo avviene «sulla base della retribuzione minima annua». Più nello specifico, l'Inail chiarisce che «il pagamento dell’indennità decorre dal quarto giorno successivo alla data di infortunio o di malattia e viene erogata per tutto il periodo dell'inabilità fino alla guarigione clinica». Per il calcolo il riferimento è «al 60% della retribuzione media giornaliera fino al 90esimo giorno e del 75% della retribuzione media giornaliera dal 91esimo giorno».Per uno stage a 600 euro al mese, si andrebbe dai 360 euro fino al 90esimo giorno ai 450 euro per i giorni seguenti. Peccato però che il compenso che gli stagisti ricevono non sia una retribuzione, bensì un "rimborso spese", una "indennità". Il parametro dunque in questo caso dipende «dal rimborso convenzionato annuo pari al minimale di rendita rapportato alle giornate di presenza». Il dovuto è legato insomma ai giorni di tirocinio effettuati. Non va tralasciato un altro aspetto: se lo stagista subisse dei danni permanenti scatterebbe il danno biologico, con due tipologie di indennizzo: «In capitale per gradi di menomazione pari o superiori al 6% e  inferiori al 16%, o in rendita per gradi di menomazione pari o superiori al 16%» specificano dall'Inail. Per due stage con rimborso rispettivamente di 400 e 750 euro «gli importi potrebbero variare da un minimo di 2.250 euro annui fino a un massimo di 33.300 euro» per un raggio di menomazione dal 16 al 100 per cento. E qui chiudiamo... con i dovuti scongiuri! Ilaria Mariotti  

Far ripartire il Sulcis dalle startup, un 25enne sardo ci prova con complementi d'arredo di lusso

Dalla Sardegna alla conquista del mercato del lusso internazionale: questo l'obiettivo di Boutique Sardinia Design 1850, start-up che produce complementi d'arredo utilizzando materie prime che si trovano sull'isola. «I nostri sono tutti pezzi unici», assicura alla Repubblica degli Stagisti Daniele Casti, il 25enne ideatore del progetto. E diversamente non potrebbe essere, visto che uno dei materiali impiegati è rappresentato dai legni di mare, ovvero dal legname che viene trasportato sulla spiaggia durante le mareggiate. Un diploma da perito elettronico in tasca, dopo averlo conseguito Casti ha smesso di studiare ed ha iniziato a lavorare in un settore completamente diverso da quello del scuo corso di studi. Per anni si è infatti occupato di marketing e pubbliche relazioni. «Ho lavorato, sempre da free lance, sia in Italia che all'estero». Fino a che scelte non è tornato a casa, nel Sulcis. Una terra molto povera, dove la disoccupazione giovanile ha raggiunto addirittura l'incredibile tasso del 74%: praticamente il doppio della - già altissima - media nazionale. «A scuola c'era un professore che diceva che i ragazzi che nascono qui sono svantaggiati, perché è come se nell'aria ci fosse una nebbia che impedisce di conoscere la vita e vedere cosa c'è intorno», spiega il giovane imprenditore. Che, tornato in Sardegna per ragioni di natura personale, si è messo in testa di provare a diradare questa nebbia.È infatti proprio partendo dalle materie prime del territorio che Casti ha deciso di sviluppare la sua idea imprenditoriale. Oltre ai legni di mare, vengono utilizzate pietre originarie della Sardegna. Anche le lavorazioni sono tutte a chilometro zero: un modo per conciliare l'amore per la propria terra con «il design e l'arte contemporanea, due monti che mi sono sempre piaciuti. Il nostro desiderio era quello di contribuire all'evoluzione del design e siamo andati a cercare uno spazio dove non ci fosse la concorrenza dei grandi marchi e che non fosse saturo». Una nicchia di mercato, insomma, che permetta a Boutique Sardinia Design 1850 di crescere.Al momento Casti ha coinvolto altre sei persone nel suo progetto. Si tratta di suoi familiari, artigiani che per hobby realizzavano complementi d'arredo, fino a che Casti non li ha convinti a fare della loro passione una professione vera e propria, progettando e realizzando mobili e complementi d'arredo utilizzando materie prime della Sardegna, con l'obiettivo di conquistare il mercato internazionale del lusso. L'iniziativa imprenditoriale in realtà non ha ancora una forma giuridica precisa: «Siamo partiti a marzo di quest'anno, pensavamo che avremmo impiegato molto più tempo per ottenere visibilità. Invece è nato un grande fermento, specie negli ultimi tre mesi, e stiamo vedendo di organizzarci di conseguenza». A cominciare dalla creazione dell'azienda vera e propria. «L'ipotesi è quella di dar vita ad una srl. Un paio di anni fa ho conosciuto ad un convegno diversi membri di Confindustria Giovani, mi sto confrontando anche con loro per capire quale possa essere l'inquadramento più adeguato». Intanto, però, la start-up ha cominciato a lavorare. Sia per la produzione che per la fatturazione, per il momento si appoggia ad un'altra azienda che la sta letteralmente “incubando”. I primi ordini sono già arrivati e i primi prodotti sono già stati consegnati: merito di un'esposizione organizzata durante l'estate a Porto Cervo, alla ricerca di facoltosi clienti internazionali.«Per il momento io e i sei artigiani coinvolti ci siamo autofinanziati, investendo circa 50mila euro». Fondi che hanno coperto le spese per i primi prototipi e per il catalogo, oltre al sito internet che ha sia una versione in inglese che una in russo. Casti è alla ricerca di un finanziamento seed di altri 50mila euro, soldi che serviranno per aprire un laboratorio e per lanciare una nuova campagna di marketing, «che calibreremo sulla base dei fondi che saremo in grado di raccogliere». Non si pensa però soltanto ai soldi: «cerchiamo un partner che sia anche in grado di garantirci una mentorship. Sarebbe inutile avere chi ti finanzia senza capire cosa stai facendo e quindi senza contribuire alla realizzazione del progetto».Intanto il giovane startupper si gode i primi successi. «In estate abbiamo avuto un buon feedback di mercato da clienti sia europei che asiatici, così come originari dei Paesi arabi. Non posso dire di più rispetto alle quantità, ma posso affermare che stiamo raggiungendo il nostro obiettivo di raggiungere un mercato internazionale». E mentre si smaltiscono i primi ordini, si lavora al nuovo catalogo: «Presenteremo i nuovi prodotti durante l'inverno». Senza perdere di vista gli obiettivi più generali contenuti nel business plan, che prevedono «di raggiungere il pareggio entro il prossimo anno». E chissà che da qui ad allora Casti non sia davvero riuscito a disperdere quella nebbia che avvolge chi, come lui, è nato nel Sulcis.Riccardo Saporitistartupper@repubblicadeglistagisti.it 

Tirocini di specializzazione gratuiti, gli psicologi non ci stanno più: e lanciano una petizione online

«Perché i medici tirocinanti/specializzandi sono pagati e gli psicologi no? Perché questa differenza se, per legge, le due professioni sono equiparate?»: parte con questa domanda la petizione online lanciata su Change.org dall’associazione dei Giovani psicologi della Lombardia, per rompere il silenzio su questo tema e cercare di dare pari dignità ai due ruoli professionali. «La nostra mission associativa è promuovere la cultura psicologica e facilitare i giovani professionisti della nostra categoria a realizzarsi il prima possibile. Per farlo, però, è necessario un minimo di portafoglio mentre la nostra categoria è oberata da tirocini gratuiti sin dal percorso universitario» spiega alla Repubblica degli Stagisti Matteo Baruffi, 28 anni, psicologo dal 2014 e tesoriere dell’associazione. «Il vero problema è che i tirocini senza rimborso spese continuano anche nel percorso della specializzazione in psicoterapia, periodo in cui invece un medico viene profumatamente pagato».  E allora «stanchi di questa situazione» ecco che gli attivisti di questa associazione, nata nel 2006 e aperta ai giovani laureati entro 15 anni dal titolo magistrale o 10 da quello triennale, hanno deciso di partire con questa petizione online che al momento ha raccolto quasi 2mila firme: il “traguardo” è fissato a 2.500. «Appena avremo raccolto un numero sufficientemente ampio di firme andremo al passo successivo». Che è quello di presentarsi all’Ordine professionale lombardo, chiedere il sostegno alla petizione e fare pressioni sul governo. «L’idea è quella di usare gli organi che caratterizzano la nostra professione. Un conto è presentarsi al ministero come piccola associazione, un altro spalleggiati da un ordine professionale, come quello degli psicologi lombardi, che conta 16mila iscritti». Anche perché al momento l’associazione è sola nel condurre questa battaglia: «Esistono altre associazioni di giovani psicologi presenti nelle altre regioni» spiega alla Repubblica degli Stagisti Cecilia Pecchioli, presidente della GPL, «ma hanno una natura prettamente politica, quindi non in linea con la nostra realtà. Proprio perché sollecitati da colleghi di altre regioni, ci stiamo però muovendo per creare nuove sedi distaccate». L’obiettivo dei Giovani psicologi lombardi è cercare di equiparare almeno in parte il percorso di specializzazione medica con quello in psicologia. Un problema che riguarda anche le altre professioni sanitarie e di cui la Repubblica degli Stagisti si è già occupata in passato, evidenziando come mentre i colleghi dottori hanno diritto a un contratto di formazione per tutta la durata della specializzazione, a uno stipendio mensile di circa 1.800 euro, alla copertura previdenziale, maternità e malattia, tutti gli altri – biologi, veterinari, psicologi, fisici, chimici, farmacisti – non godono dello stesso trattamento.  La discriminazione tra medici e altri professionisti dell’area sanitaria in realtà non avrebbe ragione di esistere. Baruffi la spiega come una «questione culturale. Il medico c’è da secoli, lo psicologo e le altre figure si sono affermate nel tempo. Quindi nell’immaginario culturale il medico rappresenta colui che ti guarisce dai problemi più impellenti, ma le altre professioni aiutano "solo" a mantenere una qualità della vita migliore. Andrebbe invece cambiata la mentalità della gente e dei medici su questo punto» spiega il giovane psicologo. Certo, almeno sul fronte dell'orario si potrebbe obiettare che la specializzazione di uno psicologo non è così impegnativa come quella di medico: per gli psicologi è concomitante l’anno accademico e deve essere tra le 180 e le 200 ore l’anno per quattro anni. Anche se spesso si finisce per fare molte più ore perché «è una pratica che aiuta molto». Al di là del problema di costi - non indifferente visto che, facendo una media, si arriva a 12.500 euro solo per i cinque anni universitari - c'è però poi «il tirocinio post laurea di mille ore per iscriversi all’albo e fare l’esame di stato abilitante. Anche questo senza rimborso spese». Questo tirocinio professionalizzante deve essere svolto in 12 mesi ed è totalmente gratuito. «Il tirocinio post lauream è definito “osservativo”» spiega la presidente Pecchioli, «e come tale non è retribuibile. Nei fatti, però, la natura di questi stage dipende molto dal contesto in cui vengono svolti. Ufficialmente sono osservativi, ufficiosamente i colleghi sono messi a fare lavori di vario tipo». E poiché occupa il tirocinante fino a 5 ore al giorno, questo tirocinio rende anche piuttosto difficile far svolgere nello stesso periodo altri stage o lavori part time che possano parzialmente ricoprire le spese. Anche perché per legge il monte orario complessivo non può superare le otto ore. Avrebbe quindi più logica aumentare le ore di stage giornaliere per ridurre i tempi dello svolgimento ed evitare che un neolaureato impieghi un intero anno, in cui non può fare null’altro, per raggiungere un monte ore che si potrebbe invece raggiungere in 6 mesi (a un normale ritmo di 40 ore a settimana).  Il problema dell’anno di tirocinio innegabilmente rallenta l’entrata nel mondo del lavoro: per questo è stato affrontato anche dal Consiglio nazionale dell’Ordine degli psicologi. A fine febbraio di quest’anno, infatti, durante un incontro con il sottosegretario al Miur Davide Faraone, il presidente del Cnop, Fulvio Giardina, ha segnalato le criticità relative all’accesso alla professione di psicologo che appare ancora troppo lungo per i giovani laureati e ha proposto di ridurre a sei mesi lo stage post lauream. Proposta presa in carico dal sottosegretario Faraone, ma che non ha ancora avuto esito. E che, è necessario segnalarlo, nonostante venga incontro ai giovani psicologi non è stata commentata positivamente da molti professionisti, tra cui anche il presidente dell’ordine psicologi del Lazio, Nicola Piccinini, che in rete (vari commenti si possono leggere qui o qui) hanno criticato la decisione considerando invece questo tirocinio il primo vero momento professionalizzante.La Repubblica degli Stagisti ha provato a mettersi in contatto con il Consiglio nazionale dell'ordine degli psicologi, per verificare la posizione dell'Ordine nei confronti di questa istanza: ma purtroppo in oltre due settimane non è riuscita ad avere una risposta né alle mail né alle telefonate fatte al coordinatore dell'area comunicazione. Non è dato quindi sapere se il Consiglio nazionale dell'ordine degli psicologi appoggi o meno questa petizione. Il problema, comunque, non è solo il lungo tirocinio gratuito che i giovani psicologi sono costretti ad affrontare, ma anche il fatto che esso si sommi alla scuola di specializzazione di quattro anni. In teoria sarebbe a scelta, «ma ormai è diventata quasi obbligatoria visto che tutti i concorsi la richiedono, e alla fine si arriva a una spesa totale di 25-30mila euro tra università e specializzazione», spiega Baruffi. Cifra impensabile se dietro non c’è una famiglia che paga. Poi c’è l’impatto con il mondo del lavoro reale, in cui trovare un’occupazione è sempre più difficile perché la psicologia attira sempre più studenti - nella sola Lombardia ogni anno circa mille nuovi iscritti - ma gli sbocchi occupazionali, complice anche la crisi economica degli ultimi anni, non sono moltissimi. Ora, però, per l'associazione dei Giovani psicologi della Lombardia la battaglia più importante è ottenere tirocini con il rimborso spese, cercando di raccogliere quanto più sostegno possibile - che, paradossalmente, se tarda ad arrivare da alcuni colleghi psicologi, arriva invece dai medici che, «quando si pongono nei panni di uno specializzando senza riconoscimento, capiscono qual è il problema». Eppure Matteo Baruffi è ottimista e convinto che con calma e perseveranza si riuscirà a raggiungere l’obiettivo. «Forse nel nord Europa questi temi sarebbero stati risolti prima. In Italia ci vuole molto tempo per ottenere qualcosa. Ma siamo ottimisti perché la nostra azione serve per tutelare i professionisti che si affacciano sul mercato del lavoro». Di una cosa Baruffi è sicuro: tornando indietro rifarebbe la scelta di intraprendere questo percorso di studi e lavoro. «È una scelta che arricchisce molto la persona. Bisogna lottare, come ormai in qualsiasi campo. Però con un buon curriculum e una buona preparazione è possibile farsi conoscere e avere successo con la libera professione. O avere la fortuna di farsi notare in qualche ente pubblico e superare quei quattro raccomandati, che ci sono sempre». Perché lì non c’è nessuna petizione che possa aiutare.  Marianna Lepore

Italiani all'estero in aumento per un «mix esplosivo» di insoddisfazioni: lasciano l'Italia i più giovani e istruiti

Quando decidono di andarsene dall'Italia di solito hanno intorno ai 30 anni. Guardano l'Europa, talvolta anche gli Stati Uniti. Trovano il lavoro per il quale hanno studiato, ottenendo migliori stipendi. Si rifanno una vita. E pazienza se dietro si lasciano lasciato famiglia e amicizie: a tornare sui propri passi, tra gli expat, ci pensa solo uno su dieci. Li ritrae così l'ultimo Rapporto sugli italiani nel mondo pubblicato di recente dalla Fondazione Migrantes, rilevando come gli italiani iscritti all'Aire - l'anagrafe degli italiani all'estero - sono ormai più di 4,6 milioni, in crescita di quasi il 50% dal 2006 a oggi. Se ne vanno sempre di più i Millenials – ovvero chi ha compiuto 18 anni dopo il 2000 – mentre continua a crescere il numero dei Neet, gli inattivi tra i 15 e i 29 anni: l'Italia è l'unico paese che li ha visti aumentare negli ultimi anni.«Più che in altri paesi, in Italia un ragazzo che finisce gli studi si trova davanti al dilemma tra rimanere in Italia, con il rischio di diventare un Neet, o decidere di emigrare per realizzare pienamente i propri progetti di vita e professionali» spiega alla Repubblica degli Stagisti Alessandro Rosina, docente di Demografia all'Università Cattolica e presidente dell'associazione Italents, che proprio a questo ha dedicato il suo ultimo libro, Neet - Giovani che non studiano e non lavorano, appena pubblicato dalla casa editrice Vita e pensiero. Insomma, dice Rosina, invece di valorizzare quei pochi giovani che compongono ancora la nostra popolazione - «L’Italia, come conseguenza di decenni di denatalità, ha meno giovani rispetto agli altri paesi» - riusciamo perfino «a inserirli di meno nei processi di cambiamento e di crescita del paese. La conseguenza è che aumentano sia i Neet, ovvero i giovani che dopo gli studi non trovano un lavoro, sia gli expat, ovvero i membri delle nuove generazioni che cercano migliori opportunità all’estero».E Garanzia giovani, che come obiettivo principale avrebbe proprio quello di ridurne il numero? «Anche la realizzazione di questo obiettivo va a rilento» commenta Rosina: «su un totale di due milioni e 400mila Neet solo un terzo si è iscritto al portale. Molti meno sono quelli davvero attivati». Il problema principale, tra l'altro, è che a rimanere fuori è «soprattutto la parte più problematica, ovvero quelli con basso capitale umano e sociale, da più lungo tempo in tale condizione, più demotivati, con più alto rischio di diventare un costo sociale permanente». Tutti gli altri «soprattutto con titolo medio-alto, sono invece spesso insoddisfatti del tipo di offerta e magari dopo essersi iscritti decidono di andarsene autonomamente all’estero».Quella odierna è però un tipo di emigrazione del tutto diversa da quelle dello scorso secolo. «Le valige degli expat non sono più di cartone» si legge nel rapporto, «ma soprattutto il capitale culturale di chi lascia l’Italia è molto elevato. Sono giovani istruiti, che hanno voglia di mettere a frutto concretamente le conoscenze apprese e che cercano una opportunità concreta e a breve termine per poterlo fare». E se decidono di mollare tutto non è tanto perché in Italia non riescano a trovare un lavoro purché sia. Ma perché quello in cui si imbattono non è all'altezza delle proprie aspettative. Ed è allora che la prospettiva dell'estero fa da richiamo. Non a caso, come emerge dal rapporto, tra i principali emigranti dello scorso anno si registrano proprio i lombardi (19%), i residenti della più ricca regione italiana. Fenomeno che si spiega perché «la molla non è il livello di occasioni di lavoro del proprio territorio di nascita in sé, ma il divario tra esse, da un lato, e la formazione del proprio capitale umano e le proprie ambizioni, dall’altro» ragiona Rosina. Secondo Paolo Balduzzi, docente della Cattolica e autore insieme ad Alessandro Toppeta di un recente articolo intitolato Le ragioni della nuova migrazione degli Italiani apparso sulla rivista Neodemos, si sommano ragioni di carattere sicuramente economico («il livello dei salari, le possibilità di lavoro, la competitività in senso lato del Paese») al pari di altre di tipo sociale («la mancanza percepita di meritocrazia in Italia»). Il risultato «è un mix esplosivo: per questo i giovani che decidono di emigrare sono sempre di più e sempre più qualificati».A lasciare l'Italia non sono più dunque le persone in gravi difficoltà economiche del secolo scorso, ma i laureati che all'estero trovano più spendibile il proprio titolo di studio (lo considera efficace per la propria area di lavoro il 59% degli espatriati, contro il 54 di chi resta), e che in un altro paese quasi sempre trovano un'occupazione - la quota è superiore all'80% - e migliori prospettive di guadagno e di carriera, come dichiarano nelle interviste. C'è infatti tutta la fetta dei dottori di ricerca a infoltire le fila degli expat. Il motivo è presto spiegato: «A un anno dal dottorato 52 dottori su 100 risultano occupati all’estero come ricercatori o docenti universitario, senza particolari differenze per macroarea, contro i 21 dottori su 100 osservati in Italia» chiarisce lo studio.Far tornare di nuovo in patria chi ormai si è stabilito all'estero e lì ha trovato una propria dimensione è dunque una mission sempre più impossibile. L'unica maniera per arginare l'enorme spreco di risorse prodotto dalla fuga dei migliori talenti potrebbe essere, per Rosina, quella di lavorare per rendere l'Italia allettante per chi è fuori: «favorire la circolazione, mettere in atto un piano credibile di valorizzazione del capitale umano in Italia, ovvero attrarre talenti». E non certo «continuando a investire poco in ricerca, sviluppo e innovazione». I giovani in Italia sono pochi e pagano «oggi in termini di bassa quantità e qualità della spesa in istruzione, domani in termini di un sistema pensionistico più equo ma meno generoso del passato» ricorda Balduzzi. A maggior ragione, per compensare lo svantaggio, andrebbero premiati, invece che sminuiti: insomma, che almeno questi giovani vengano ricompensati «con opportunità di lavoro che valorizzino e non umilino le loro capacità». Ilaria Mariotti 

Start-up, «Le famiglie potrebbero diventare i business angels del Paese»: da Digital Magics un libro bianco per cambiare l'ecosistema

Un libro bianco per l'ecosistema start-up. Ovvero otto proposte per mettere mano alla normativa introdotta nel dicembre di tre anni fa e renderla più efficace nel garantire lo sviluppo delle nuove aziende, in particolar modo quelle digitali. Questi i contenuti del White paper che il venture incubator Digital Magics ha presentato nei giorni scorsi.Un'iniziativa «che nasce innanzitutto dalla nostra esperienza», spiega alla Repubblica degli Stagisti Enrico Gasperini, fondatore e presidente del fondo: «Lavoriamo da quasi dieci anni in questo settore, aiutando le start-up digitali a crescere. Ci siamo sentiti obbligati a formulare delle proposte di miglioramento rivolte sia al governo centrale che a quelli regionali, oltre che in generale a tutta la comunità degli investitori». Incubatore certificato di startup innovative digitali, che propongono contenuti e prodotti ad alto contenuto tecnologico, dal 2013 Digital Magics è quotato all’Aim Italia – il Mercato Alternativo del Capitale dedicato alle piccole e medie imprese e gestito da Borsa Italiana. Ad oggi ha partecipazioni in 48 startup digitali con un investimento di 18,2 milioni di euro; il 2015 è stato un anno fortunato, con una crescita del 74% sul fatturato aggregato del suo portafoglio rispetto al 2014.Diverse le tematiche affrontate all'interno del libro bianco, tutte legate al tema del finanziamento delle start-up. C'è ad esempio la richiesta di rimuovere il limite alla possibilità di investire nell'ecosistema imposto agli Organismi di investimento collettivo del risparmio e alle Società di gestione del risparmio. Al contrario, si chiede al governo di incentivare questo tipo di investimenti. In un Paese in cui i risparmi delle famiglie, secondo calcoli di Bankitalia, ammontano a qualcosa come 9mila miliardi di euro, Digital Magics si è posta il problema di come favorire il passaggio di questi capitali dall'industria del risparmio all'innovazione digitale. E propone di prevedere una ritenuta del 12,5% sui dividendi generati rispetto al 26% che viene pagato su ogni altro tipo di prodotto finanziario. Oltre alla possibilità di una deduzione fiscale di una quota pari al 20% del capitale investito in start-up, spalmata su cinque anni.Un'agevolazione fiscale che si aggiunge alla richiesta di alzare la soglia del credito di imposta Irpef dall'attuale 19% ad una quota compresa tra il 30 ed il 40% per le persone fisiche che scelgono di “scommettere” su un'azienda innovativa. Deduzione che per le persone giuridiche dovrebbe riguardare l'Ires ed arrivare, secondo l'incubatore guidato da Gasperini, ad almeno il 30%. Persone giuridiche come le piccole e medie imprese che, nella visione di Digital Magics, dovrebbero aver diritto ad una riduzione delle imposte nel momento in cui affidano in outsourcing dei servizi a delle start-up. Un modo per consentire alle giovani aziende di crescere allargando il proprio parco clienti.Altro tema affrontato, quello legato ai fondi di investimento. La prima proposta riguarda la creazione di un fondo di matching, ovvero una realtà in cui collaborino la mano pubblica, attraverso la Cassa Depositi e Prestiti, e grandi industrie italiane. I modello è quello tedesco, dove già nel 2005 la Kreditanstalt für Wiederaufbau e il ministero per lo Sviluppo economico di Berlino diedero vita all'High Tech Gruenderfonds, con una dotazione di 600 milioni di euro. Ora, Digital Magics riconosce che CdP è attiva nel venture capital dal 2012, anno in cui è stato creato il Fondo strategico italiano. Ma, si spiega nel White Paper, «non possiede attualmente competenze e strutture tali da poter sostenere (come invece nel caso tedesco) l’analisi di migliaia di presentazioni di idee e di aziende neonate». Per questo motivo «è preferibile la creazione di un Fondo di matching che agisca quale co-investitore di terzi privati, industriali, istituzionali o qualificati, prevedendo un ruolo centrale per gli incubatori certificati, maggiormente competenti e strutturati per la selezione, analisi e sostegno delle idee imprenditoriali più promettenti». In Italia, poi, sono attivi diversi fondi finanziati direttamente dalle regioni. Per loro la proposta è quella di uniformare le regole di ingaggio di queste realtà. Sul fronte dell'internazionalizzazione, l'idea è quella di creare un Italian Founders Institute, ovvero una realtà che si occupi di promuovere il made in Italy digitale nel mondo.Ultima questione trattata è quella relativa all'equity crowdfunding, la possibilità cioè per le start-up innovative di raccogliere fondi attraverso la rete concessa dal decreto Crescita. Il regolamento Consob, che ha reso operativa questa disposizione di legge, prevede che affinché la raccolta di capitali vada a buon fine una quota pari ad almeno il 5% debba essere sottoscritta da un investitore professionale. Una sorta di garanzia, per le altre persone che decidono di sostenere una start-up, della "bontà" del progetto. «Chiediamo non soltanto di abbassare questa soglia, così come i limiti agli investimenti, che oggi sono di mille euro l'anno e di 500 per singolo progetto. Ma anche di semplificare le procedure di certificazione degli investitori professionali», rimarca Gasperini: «Oggi come oggi abbiamo decine di piattaforme ma gli investimenti sono praticamente nulli: parliamo di qualche milione l'anno. La legge non libera l'enorme potenziale delle famiglie italiane che potrebbero diventare i più importanti business angels del Paese».Queste dunque le proposte di Digital Magics: «Vogliamo che diventino una battaglia collettiva, coinvoilgendo in primis le associazioni di categoria e gli altri attori dell'ecosistema. Questo è solo l'inizio di un lavoro» prosegue il presidente del venture incubator « che verrà arricchito nei prossimi mesi con il contributo di altri operatori, per costruire una piattaforma che serva da indirizzo per continuare l'attività legislativa dedicata alle start-up dopo i primi passi compiuti negli ultimi due-tre anni».Riccardo Saporitistartupper [chiocciola] repubblicadeglistagisti.it