Ilaria Mariotti
Scritto il 19 Giu 2023 in Approfondimenti
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Il gender pay gap consiste nel divario retributivo tra uomini e donne a parità di mansioni. Un fenomeno che si verifica in tutto il mondo. Ma quando si parla di gender pay gap in Italia bisogna fare attenzione a come si leggono i dati. Perché se a prima vista sembrerebbe che il nostro Paese sia tra quelli che meno risentono del problema, la realtà – andando a scavare – è invece all'opposto. Ed è fatta di donne «che guadagnano meno degli uomini e hanno un minore tasso di occupazione» sintetizza con la Repubblica degli Stagisti Paola Bocci [nella foto a destra], consigliera regionale del Pd in Lombardia.
Secondo il rapporto People at Work dell'Adp Research Institute, tra i 2mila lavoratori italiani analizzati nel 2022 la retribuzione maschile è aumentata del 5,8 per cento, rispetto al 5,2 per cento di quella femminile. Lo stesso si evince dai dati rilasciati da Eurostat in occasione dell'8 marzo e calcolati sul 2020, per cui se si guarda alla sola retribuzione oraria lorda, la differenza tra donne e uomini è di appena il 4,2 per cento, contro la media dei ventisette Paesi Ue del 12,7 per cento. Il gender pay gap sembrerebbe tutto sommato qualcosa di poco conto.
L'istituto di ricerca europeo, quando parla del 4 per cento, fa però riferimento all'unadjusted pay gap, ovvero a un dato che non tiene conto di alcuni fattori. Se si guarda infatti al gender overall earnings gap, l'Italia inverte la propria posizione con una percentuale di divario che passa al 43 per cento, sopra la media Ue che è invece del 36,2. Il motivo è che in questo tipo di analisi sono inclusi altri tre fattori, come spiega sul sito Eurostat. E sono la retribuzione media oraria, la media mensile del numero di ore pagate e il tasso di occupazione.
Anche la ricerca dell'Adp Research Institute fornisce dati analoghi: nel 2022 solo il 36 per cento delle donne ha avuto un aumento salariale, rispetto invece al 50 per cento degli uomini. Eppure a voler intervenire per uguagliare le paghe di uomini e donne, una normativa apposita in Italia ci sarebbe già. Ed è la legge Gribaudo per la parità salariale, che prevede una serie di obblighi per le aziende sopra i 50 dipendenti, tra cui quello della certificazione della parità di genere.
Peccato non sia operativa, «perché mancano i decreti attuativi» spiega Bocci. Che a sua volta è stata prima firmataria di due progetti di legge regionale per il superamento della disparità salariale, «depositati rispettivamente nel 2019 e 2021, in quest'ultimo caso con approvazione bipartisan». Lo scopo è adesso quello di far arrivare in porto l'iniziativa, anche in vista del recepimento della direttiva europea di marzo scorso sulla trasparenza salariale, che tra le altre cose vieta anche i vincoli riservatezza sulle retribuzioni. Una riforma che potrebbe portare a qualche avanzamento sul tema del gender pay gap.
Il dato italiano del 4,2 per cento è poi inficiato anche da altri elementi. Il primo è che «c'è tutto un mondo sommerso, che è quello delle libere professioni» commenta Bocci. In questo settore «abbiamo ricerche secondo cui il divario arriverebbe perfino al venti per cento. Quanto poi ai dati Eurostat, l'indagine è parziale perché si basa su imprese con più di dieci dipendenti, quando il tessuto produttivo italiano è composto proprio in larga parte da imprese sotto i dieci dipendenti. In più, il fatto che anche lo stesso unadjusted pay gap del 4 per cento si basa sul lavoro nel comparto pubblico. Lo stesso dato infatti triplica e sale al 15 per il settore privato, sempre guardando ai dati del 2021.
«Secondo i nostri dati» segnala alla Repubblica degli Stagisti Lara Ghiglione [nella foto a sinistra], responsabile delle politiche di genere della Cgil, «il divario di genere nell'ambito privato arriva perfino al 27 per cento».
La strada per la parità di salario tra uomini e donne è insomma ancora lunga: vanno prima sradicate le cause che la impediscono. In primis c'è «la frammentarietà della carriera delle donne» sottolinea Bocci, «non solo nei periodi che riguardano la maternità, ma anche quando si va verso la pensione e si hanno in carico gli anziani». È la prima penalizzazione per il lavoro femminile, «anche perché il sistema è strutturato in modo da premiare la presenza fisica sul posto di lavoro». Fanno la loro parte «anche i congedi, utilizzati come sappiamo per lo più dalle sole donne». Alla base di tutto «c'è il tema della condivisione del lavoro di cura, che non è ancora risolto per aspetti culturali». Un tema focalizzato anche dal recente saggio Non è un Paese per madri di Alessandra Minello [pubblicato da Laterza, qui la nostra recensione].
Affinché le donne «liberino energie da dedicare al lavoro devono esserci servizi, sia per l'infanzia che per gli anziani». E poi per intervenire nel contrasto al gender pay gap «bisogna iniziare già dall'orientamento e dalla formazione» evidenza Bocci. «In modo tale che non siano precluse alle ragazze le materie tecnologiche, che sono quelle con le migliori retribuzioni».
Perché una delle ragioni per cui le donne sono meno pagate «non è solo il percorso accidentato delle loro carriere, ma è proprio che i comparti in cui sono occupate sono spesso i più precari e quelli con minori remunerazioni». Dal lato dei sindacati, ragiona Ghiglione, il problema si concentra sulla limitata applicazione della contrattazione nazionale, «che prevede un salario uguale per uomini e donne ma non vale erga omnes», bensì solo per chi aderisce.
Ilaria Mariotti
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