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A Roma il lavoro si cerca a Porta Futuro, ufficio pubblico a misura di giovani

Oggi a Roma c'è il Jobmeeting, fiera del lavoro in cui una trentina di aziende entrano in contatto con giovani in cerca di lavoro. Nel corso dell'evento, alle 14 è in programma un seminario tenuto da Eleonora Voltolina: «Dopo i libri, il lavoro. Ma come trovarlo?», sottotitolo: «Dalla Repubblica degli Stagisti a Porta Futuro, tutti gli alleati virtuali e reali», con la partecipazione dei dirigenti della struttura Silvio Petrassi e Alessio Pontillo. L'appuntamento è all'Eur, presso il Salone delle Fontane in via Ciro il Grande 10/12.       Testaccio è uno dei quartieri più amati dai giovani romani. Pieno di ristoranti, locali, discoteche, centri sociali, di notte è un crocevia della movida della Capitale. Vederlo di giorno fa un altro effetto: strade pacate, più ordinate. Ma anche di giorno Testaccio è un luogo strategico per i giovani: specialmente da quando la Provincia ha deciso di aprire proprio in via Galvani uno spazio innovativo dedicato a chi cerca lavoro.L'ha chiamato «Porta Futuro», e l'intero impianto è ispirato al progetto «Puerta 22» di Barcellona. Un luogo grande, amichevole, che possa offrire i servizi di un ufficio pubblico senza averne le sembianze - e senza quindi far scattare diffidenza e sfiducia, perfino dotato di un profilo Facebook con quasi 4mila fan. La Provincia guidata da Nicola Zingaretti ci ha investito 800mila euro, con la previsione di ammortizzarne una parte nel corso degli anni di attività. Con un occhio alle economie di scala e alla razionalizzazione delle spese: nella struttura sono stati concentrati servizi e uffici per i quali la provincia già pagava canoni di affitto -  come per esempio Capitale Lavoro, società in house della Provincia che prima aveva sede ai Parioli.Chiunque si presenti per la prima volta a Porta Futuro viene accolto a una reception, dove i consulenti fanno un primo screening che si può riassumere nella semplice domanda: «Perchè questa persona è qui? Di cosa ha bisogno?». Tecnicamente si chiama «analisi del fabbisogno», ed è il primo passo per capire verso quali servizi indirizzare il nuovo arrivato. Sempre alla reception viene compilato un modulo per ottenere immediatamente lo username e la password personali (e da quel momento validi per tutte le visite successive) per accedere al software.La caratteristica di Porta Futuro infatti è un sistema informatico che permette di registrarsi, caricare il proprio cv e visualizzare un gran numero di opportunità sul territorio: offerte di lavoro e di stage, corsi di formazione, bandi di concorso. Attraverso i 25 computer connessi a internet (la navigazione è libera) già oltre 7mila persone - la maggior parte delle quali con un titolo di studio medio alto, il che conferma la capacità di intercettare un target diverso rispetto ai classici centri per l’impiego - hanno caricato il proprio cv. Dopo questa operazione, sulla base delle informazioni che ciascun utente ha inserito il sistema indica le aree professionali coerenti (questa fase viene definita «portafoglio competenze») e poi mette direttamente in evidenza le offerte di lavoro compatibili.Inoltre Porta Futuro è anche un centro per l'impiego, che rende quindi possibile l'iscrizione alle liste di inoccupazione e di disoccupazione e l'attivazione di stage e contratti di lavoro. La rosa degli altri servizi offerti da Porta Futuro prevede bilanci di competenze, sessioni di orientamento individuale («Su appuntamento, e abbiamo una lunga lista d'attesa» spiega alla Repubblica degli Stagisti il responsabile Alessio Pontillo: «Ma stiamo potenziando il servizio»), e di gruppo chiamate «Jobclub», con la proporzione di un orientatore ogni dieci persone. Due risorse si occupano specificamente di autoimprenditorialità, offrendo a chi aspira a mettersi in proprio una prima valutazione dei progetti di start-up e consulenza per la stesura del business plan. Una stanza è attrezzata per la registrazione dei videocurriculum: chi ne vuole fare uno si iscrive e una volta al mese viene chiamato a registrarlo direttamente attraverso la strumentazione di Porta Futuro. Altri eventi frequenti nello spazio sono seminari, presentazioni aziendali, dibattiti su libri (c'è un'aula convegni da 100 posti dove nei mesi scorsi è venuto a parlare anche il famoso sociologo Bauman). Una delle particolarità di Porta Futuro è anche l'orario di apertura, fino alle sette di sera dal lunedì al giovedì e fino alle otto di sera il venerdì e il sabato - anche se in realtà il centro per l'impiego interno fa orari "standard" e alle 17:30 chiude i battenti. «Un segnale di comunicazione per sganciare questo spazio dall'idea di ufficio pubblico, anche se poi le persone a dir la verità non vengono più di tanto in orario serale» dice Pontillo: «I momenti di maggiore affollamento sono il giovedì e venerdì nella prima parte della mattinata». Dentro Porta Futuro lavorano una quindicina di persone, quasi tutti orientatori: alcuni sono dipendenti pubblici, altri di capitale lavoro Spa.Importante l'obiettivo di porsi come interlocutore privilegiato sul territorio per l'incontro domanda-offerta: «Abbiamo coinvolto finora già un centinaio di aziende nelle nostre attività. Organizziamo testimonial day per presentare le singole realtà e anche career day: quello dello scorso 20 novembre ha coinvolto 11 aziende, un migliaio di cittadini, e complessivamente 101 posizioni aperte» racconta Pontillo. Per differenziarsi dai molti eventi simili sul territorio, Porta Futuro ha cercato di portare a contatto con i ragazzi direttamente i capi dei reparti Risorse umane: «Abbiamo chiesto che venisse proprio l'hr manager, il decision maker, ovviamente con colleghi e assistente». Con un occhio particolare al fenomeno degli skill shortages, cioè i posti di lavoro che restano permanentemente scoperti per mancanza di manodopera qualificata: «Con Confartigianato abbiamo organizzato la Città dei mestieri: loro dichiarano un 22% di posizioni vacanti, e si tratta anche di mestieri ben pagati! Bisogna far conoscere queste opportunità, e ridare a questi posti di lavoro la dignità che meritano».Per saperne di più su questo argomento:- Stage attivati dai centri per l'impiego: ecco la radiografia annuale dell'Isfol

Legge Controesodo, allarme rientrato: finalmente arriva la circolare

Guglielmo Vaccaro potrà restare in Parlamento. Il parlamentare PD [sotto, in foto], «anima» insieme ad Alessia Mosca della legge cosiddetta «Controesodo» che prevede importanti sgravi fiscali per i giovani residenti all'estero che rientrano in Italia, qualche giorno fa ha lanciato l'allarme attraverso una lettera aperta al Corriere della Sera. Denunciando che la legge trovava grandi difficoltà di applicazione per una serie di intoppi burocratici - primo tra tutti il ritardo dell'Agenzia delle entrate nell'emettere una circolare - e arrivando a minacciare le dimissioni. L'Agenzia, dopo aver rispedito le critiche al mittente attraverso una contro-lettera aperta, lo scorso venerdì ha finalmente emesso la famosa circolare. Dimissioni sventate dunque per il deputato, ma sopratutto finalmente un po' di olio negli ingranaggi di funzionamento del provvedimento Controesodo - che dovrebbe riuscire a lubrificare le pratiche giacenti e sopratutto a convincere i giovani expat che la legge non è una bufala e che se tornano potranno davvero godere dei suoi benefici.«Caro direttore» aveva scritto Vaccaro sabato 27 aprile «con la collega Alessia Mosca abbiamo partecipato alla presentazione della ricerca che l'associazione Italents e l'amministrazione Pisapia hanno realizzato coinvolgendo gli Italians interessati a rientrare nel nostro Paese e a Milano in particolare. Sono emersi risultati davvero interessanti che ci raccontano di migliaia di ragazzi partiti con un desiderio mai sopito di rientrare in Italia (solo il 13% esclude questa possibilità) e, soprattutto, animati da una grande voglia di sostenere il lavoro di chi fa politica per riformare il Paese». Ma l'evento aveva dato spazio anche a qualche lamentela da parte dei giovani rientrati, già presente peraltro in maniera massiccia sul web: «Registriamo oggi tantissimi commenti critici sui blog di Italians e di Controesodo, che lamentano l'impossibilità di accedere agli incentivi a causa di ostacoli di ordine burocratico causati dalla mancata adozione di una circolare attuativa da parte dell'Agenzia delle Entrate. Sono almeno 50mila i giovani laureati italiani andati all'estero potenzialmente interessati alla legge per i quali questo ritardo sta determinando una pressoché totale mancanza di fiducia nel nostro Paese. Chi è stato all’estero, lasciando anche con qualche diffidenza l'Italia, non considererà mai la possibilità di rientrare se l'Agenzia delle Entrate non agirà celermente per quanto di sua competenza». E il passo dalla diffidenza alla disillusione, con conseguente contro-scelta di andarsene di nuovo o di non tornare più, è breve: «La delusione sta, purtroppo, inducendo molti Italians già rientrati a considerare la possibilità di ripartire» scriveva ancora Vaccaro: «Coloro che sono tornati brancolano nel buio e chi aveva pensato di rientrare si guarda bene dal farlo». Da qui la netta presa di posizione del parlamentare: «Avendo ora esaurito le possibilità di intervento connesse al mio ruolo non mi resta che affermare con chiarezza che se un’agenzia del governo di fronte a una legge non adempie, allora è inutile legiferare e conservare la mia carica di parlamentare», con una sorta di ultimatum: «Metto in gioco il mio mandato, augurandomi che questo gesto serva per sbloccare la situazione e far sì che l'Agenzia delle Entrate, al più presto e comunque entro un mese al massimo, si metta in discussione realmente, dando quando deve dare e non soltanto chiedendo quando deve avere», perché «trenta giorni ancora per una circolare che attendiamo da mesi in un Paese normale sono anche troppi». Qualche giorno dopo la difesa d'ufficio di Antonella Gorret, portavoce dell'Agenzia delle entrate, appare nella pagina delle Lettere del Corriere: «Troviamo davvero ingeneroso che l'onorevole Vaccaro imputi all'Agenzia la responsabilità della mancata attuazione della norma sul "rientro dei cervelli", quando è ben consapevole della grande attenzione che abbiamo dedicato al tema, rispetto a una norma che è stata sì emanata nel 2010, ma con una formulazione che avrebbe comportato un'applicazione limitata dell'agevolazione, non rispondente ai benefici che lo stesso onorevole riteneva dovessero essere riconosciuti. È così iniziato un lungo lavoro finalizzato a una modifica normativa, giunto a conclusione solo a fine febbraio 2012, e cioè appena due mesi fa, con la pubblicazione in Gazzetta ufficiale della legge 14/2012, di conversione del decreto "Milleproroghe"». Solo a questo punto e non prima, secondo Gorret, e dopo un «confronto con le competenti strutture del ministero dell'Economia e delle Finanze per verificare che il punto di equilibrio raggiunto non fosse in contrasto con le previsioni di gettito a suo tempo effettuate», è stato possibile emanare la circolare, peraltro «già pronta» secondo la portavoce, «indipendentemente dalle dimissioni paventate dal deputato». Insomma «tutto a tempo di record (altro che ritardo di mesi) e, peraltro, con riferimento a un'agevolazione che si applica dal 2011 e, quindi, in netto anticipo sia rispetto ai termini di versamento, sia a quelli di presentazione della dichiarazione relativi a tale annualità».E il 4 maggio la circolare è arrivata davvero (n. 14/E), chiarendo finalmente i criteri di applicazione della norma anche alla luce delle ultime integrazioni. Immediato il commento di Vaccaro, affidato al Sole 24 Ore: «Meglio tardi che mai». Con poche parole: «Il fattore tempo dovrebbe essere un fattore fondamentale anche per l'Agenzia, così sollecita con i cittadini quando si tratta di far rispettare una scadenza o un adempimento fiscale». Perché l'Agenzia delle entrate può anche affermare di aver agito con la massima celerità, citando anche qualche data per confermare la propria tesi. Ma chi conosce la storia del progetto Controesodo sa bene che la legge è stata licenziata alla fine del 2010 (è infatti la n. 238/2010) e che a giugno 2011 sono arrivati gli ultimi decreti attuativi dei ministeri competenti a renderla pienamente operativa. Pertanto è a giugno 2011 che l'Agenzia delle entrate avrebbe dovuto emettere con tempestività  una prima circolare. Affermare che per emetterla bisognasse attendere le modifiche - e dunque gli emendamenti migliorativi del Milleproroghe - è abbastanza surreale, dato che a giugno 2011 le modifiche erano di là da venire. Semmai, dato che esse sono arrivate a febbraio 2012, si sarebbe resa necessaria una seconda circolare per correggere il tiro alla luce delle nuove disposizioni. Ma di seconda circolare certo non si può parlare, in mancanza di una prima.Anzi a dirla tutta il primo intervento dell'Agenzia delle entrate in merito all'attuazione della legge Controesodo - il protocollo 97156/2011 del 29 luglio 2011, con le "disposizioni di attuazione dell’articolo 3, comma 5, della legge 30 dicembre 2010, n. 238, in ordine alla richiesta dei benefici fiscali da parte dei lavoratori dipendenti rientrati in Italia e agli adempimenti conseguenti del datore di lavoro", firmato dal direttore Attilio Befera  - era sembrato tutto tranne che collaborativo. Tanto da far scaturire immediatamente, in pieno agosto, un'interrogazione parlamentare - a firma dei soliti Mosca e Vaccaro - per riportare l'applicazione nei giusti binari. A seguito delle forti contestazioni dei potenziali beneficiari e dei due parlamentari nell'aula di Montecitorio, peraltro, il 22 dicembre il governo aveva promesso una "nota di prassi" contenente chiarimenti - che però non è mai arrivata, facendo dilatare di ulteriori tre mesi i tempi di attesa.Vaccaro è un galantuomo e tutto questo non lo sottolinea. La Repubblica degli Stagisti invece sì. Ora comunque la cosa importante è che il meccanismo di Controesodo cominci finalmente a funzionare senza intoppi: saranno gli stessi beneficiari, come sempre molto attivi sul web, a dare il "verdetto" nel giro di poche settimane.Eleonora VoltolinaPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Controesodo, istruzioni per l'uso: le FAQ utili ai giovani fuggiti all'estero che desiderano tornare in Italia approfittando della legge sugli incentivi fiscali- Al via Controesodo, lo scudo fiscale per il rientro dei talenti in Italia. La legge spiegata da uno degli ideatori

Riforma Fornero, nuovi incentivi all’occupazione femminile: ecco chi potrebbe beneficiarne e come

Secondo l’Istat nel quarto trimestre 2011 le donne disoccupate in Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia sono state complessivamente 385mila, su un totale di 902mila in tutta Italia. Il 16% in più rispetto allo stesso periodo del 2010. Nel dettaglio, 132mila sono le donne campane che cercano e non trovano lavoro - a cui si aggiungono 92mila pugliesi, 10mila lucane, 37mila calabresi e 114mila siciliane. La riforma del lavoro, approvata lo scorso 4 aprile dal governo e ora in esame al Senato, ha tra i suoi obiettivi anche quello di intervenire sul problema, puntando a ridurre questo numero. Tra i vari provvedimenti infatti l’articolo 53 del disegno di legge prevede, al quarto comma, agevolazioni per «le assunzioni, a partire dal primo gennaio 2013, di donne di qualsiasi età prive di un impiego regolarmente retribuito da almeno sei mesi» e di «donne di qualsiasi età, prive di un impiego regolarmente retribuito da almeno ventiquattro mesi, ovunque residenti». Nel primo caso, conditio sine qua non per usufruire degli aiuti è risiedere in una delle regioni beneficiarie dei fondi strutturali e comunitari (per il periodo 2007-2013 Basilicata, Calabria, Campania, Puglia e Sicilia) o rientrare nella condizione di lavoratore «svantaggiato», descritta dal regolamento 800/2008 della Commissione Europea, all’articolo due (punto 18, lettera «e»). La disposizione parla di «lavoratori occupati in settori o professioni caratterizzati da un tasso di disparità uomo-donna, che supera almeno del 25% la disparità media uomo-donna in tutti i settori dello Stato membro interessato, se il lavoratore appartiene al genere sottorappresentato». I dati pubblicati dall’Istat nel 2010, relativi all’anno precedente, parlano di un tasso totale di disparità uomo-donna per tutti i settori pari al 19,80%. Gli ambiti in cui la percentuale risulta più elevata sono, ad esempio, quelli dell’industria (59,93%) e, in particolare, dell’industria delle costruzioni, dove il dato raggiunge l’88,80%.Già il cosiddetto «decreto salva Italia» prevedeva degli sgravi per le imprese in caso di assunzione di donne: in generale, per ogni assunta un'azienda può dedurre dal reddito l'intero ammontare del valore dell'Irap (l'imposta regionale sulle attività produttive), relativa alle spese per il nuovo personale dipendente. Inoltre, fino al 31 dicembre 2012, è stabilito uno sconto fiscale che consiste in una maggiore deduzione Irap, nel caso di assunzioni a tempo indeterminato: 10.600 euro per ogni donna. E per alcune regioni del centro-sud è previsto un surplus: la cifra ammonta a 15.200 euro per Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sicilia e Sardegna.Le nuove agevolazioni per le lavoratrici introdotte dalla riforma Fornero sono descritte nei comma 1-3 dell’articolo 53, dove si stabilisce che «per le assunzioni effettuate, a decorrere dal primo gennaio 2013, con contratto di lavoro dipendente, a tempo determinato, in somministrazione, spetta, per la durata di dodici mesi, la riduzione del 50 per cento dei contributi a carico del datore di lavoro». Nel caso di passaggio da un contratto a termine a uno a tempo indeterminato o di assunzione effettuata direttamente con contratto a tempo indeterminato «la riduzione spetta per un periodo di diciotto mesi dalla data di assunzione».Per valutare i vantaggi per un’impresa, si può fare un esempio concreto, che rientra nelle tipologie di contratto descritte dalla legge. Secondo i dati Inps, nel caso di un lavoratore dipendente con un contratto a tempo determinato, per il calcolo dei contributi una ditta applica sulla sua retribuzione lorda mensile un’aliquota del 32,7%. Se si considera uno stipendio mensile lordo di 1.300 euro, il contributo a carico dell’azienda è pari a circa 425 euro, che, prendendo in considerazione un anno, diventano 5.100 euro. Qualora per un’ipotetica lavoratrice donna da assumere con questa tipologia di contratto si verificassero le condizioni descritte dall’articolo 53 del ddl, per l’azienda la cifra si dimezzerebbe per i successivi dodici mesi, addirittura diciotto in caso di passaggio a un contratto a tempo indeterminato. Nel caso del contratto di somministrazione, le agevolazioni si intendono valide se il contratto in questione è della durata di almeno 12 mesi.I vantaggi per un datore di lavoro non sono trascurabili. Ma quante donne attualmente verrebbero a trovarsi nella condizione descritta dal comma? Per stabilirlo, è fondamentale che ci sia uno stato di disoccupazione da almeno sei mesi. La domanda va fatta all’Inps, anche attraverso un Centro per l’impiego, presentando una dichiarazione che attesti l’immediata disponibilità allo svolgimento di un’attività lavorativa (la cosiddetta «did»). Non è facile quantificare il numero delle future lavoratrici che beneficerebbero dei contributi, dal momento che bisogna tenere in considerazione, per lo stato di disoccupazione da almeno sei mesi, anche la regione di residenza e l’esistenza della condizione di «lavoratore svantaggiato», descritta dal regolamento comunitario che chiama in causa, invece, il settore d'impiego. Solo ricomponendo tutti questi elementi sarà possibile capire se di fatto le nuove disposizioni contribuiranno a diminuire i numeri della disoccupazione femminile, soprattutto al Sud, e a riportare un numero significativo di donne al lavoro.Chiara Del PriorePer saperne di più su quest'argomento, leggi anche:- Riforma del lavoro, ecco punto per punto cosa riguarda i giovani- 8 marzo: una festa celebrata da troppe casalinghe?- Per risollevare l'economia bisogna ripartire dalle donne

Giornalismo, al Festival i problemi della professione

Al Festival del Giornalismo, che si è chiuso domenica a Perugia dopo cinque giorni intensi e 50mila visitatori, si è parlato anche - e come poteva essere altrimenti? - dei problemi della professione giornalistica. Due su tutti: il precariato sottopagato e i canali di accesso. A quest'ultima tematica, la prima che ogni aspirante giornalista si trova a dover affrontare, era dedicato il panel «In-formazione - La pratica che fa scuola». Perché «il giornalismo è ormai l'unico mestiere per il quale non serve portare il curriculum», come ha riassunto con disappunto Roberto Cotroneo, direttore della scuola di giornalismo della Luiss. «Si fa ancora riferimento al tempo in cui i caporedattori si crescevano i collaboratori preferiti: ma quel giornalismo non esiste più, oggi è una realtà industriale. Il giorno in cui i giornalisti saranno assunti per quello che sanno, forse cambierà qualcosa». Tra i relatori Monica Maggioni, inviata del Tg1 ed ex allieva della scuola di Perugia, ha provato a smontare la solita visione stereotipata del giornalista che si fa le ossa sul campo, consumandosi la suola delle scarpe, contrapposto al ricco pivello che comodamente svolge il suo praticantato all'interno di una scuola. «Mi fa paura l'impianto di retorica associato alla formazione: la storia delle suole delle scarpe ne è un esempio. C'è chi se le consuma restando alla scrivania e chi torna con le suole integre pur essendo andato dall'altra parte del mondo». Insomma essere sul posto è importantissimo, certo, ma «solo se si è studiato e si conoscono le chiavi di decodifica». Quindi le scuole di giornalismo servono a dare ai futuri giornalisti gli strumenti per potersi poi consumare le suole delle scarpe con cognizione di causa: «L'antica contrapposizione tra scuola e talento, tra studio teorico e suola delle scarpe, non è più attuale». Anzi le scuole dovrebbero essere l'avanguardia: «Il territorio avanzato di ricerca sulla professione» secondo Angelo Agostini del master di giornalismo Iulm. Che ha rievocato: «Ventidue anni fa, al primo anno della scuola dell'università di Bologna, scegliemmo di insegnare agli allievi la videoimpaginazione, che allora era vietata dal contratto nazionale. Nel corso del biennio il contratto venne rinnovato, il divieto decadde e molti di quegli ragazzi non finirono nemmeno la scuola perché vennero immediatamente assunti. Questo insegna che le scuole di giornalismo devono essere un passo avanti, dare gli strumenti per sopravvivere nel mondo del lavoro del futuro».Coro unanime però sui costi troppo alti: secondo Marcello Greco - oggi giornalista del Tg3, ieri allievo della scuola di Perugia - la Rai in primis essendo servizio pubblico dovrebbe «investire nella formazione permanente di chi è già dentro, ma anche dando borse di studio». Quasi un'utopia secondo Cotroneo: «Nessun editore mi ha mai detto "ecco 30mila euro per due borse di studio". Ma io sono ottimista, perché entro un paio d'anni cambierà tutto - volenti o nolenti. Il problema è che nel giornalismo non esiste l'idea che si debba assumere gente che sa fare il giornalista. Per ora gli editori sanno solo dichiarare stati di crisi e prepensionare. Vedremo cosa succederà con la riforma del lavoro».Per chiudere Gianni Riotta, già direttore del Tg1 e del Sole 24 Ore, ha fatto una panoramica delle difficoltà economiche del comparto editoria-giornalismo: «Il mercato sta cambiando negativamente, i dati 2011 dicono che sono usciti dal mercato del lavoro dei media oltre 1100 giornalisti di cui oltre 600 solo dalla carta stampata». Insomma il momento è duro perfino per chi ha un contratto: figurarsi per chi non ce l'ha. «Alla scuola di giornalismo della Columbia un docente insegnava ai futuri freelance anche come contrattare e ottenere il compenso» Rivolgendosi poi direttamente agli allievi delle scuole italiane: «Voi non avete amici: né l'Odg, né la Fnsi, né la Fieg, né i giornalisti assunti. Siete solo voi i vostri amici. Alleatevi con i colleghi, e magari coi prepensionati che sono stati espulsi dal mondo del lavoro prematuramente». Per cercare di lavorare dignitosamente, e di ricavarci uno stipendio decente.E qui si arriva al secondo grande problema della professione. I precari sottopagati, supersfruttati, calpestati. Quei giornalisti che non hanno un contratto di lavoro a proteggerli e si ritrovano alla mercé di testate che pagano un articolo pochi euro - facendo magari attendere anche mesi il saldo del pagamento. Ormai da mesi i collettivi di precari, insieme all'Ordine e alla Fnsi, sono sul piede di guerra. All'inizio di ottobre c'è stata in Toscana la prima "convention", con 400 partecipanti, in cui è stata presentata e discussa la Carta di Firenze: un documento deontologico, poi approvato dall'Ordine dei giornalisti, che dovrebbe disincentivare lo sfruttamento e responsabilizzare gli "insider" ad essere solidali con gli "outsider". A Perugia il primissimo panel, quello che ha inaugurato il Festival, è stato proprio il meeting dei movimenti dei giornalisti precari italiani, moderato da Vittorio Pasteris e Francesca Ferrara con la partecipazione tra gli altri di Viola Giannoli di Errori di Stampa, Nicola Chiarini del coordinamento Refusi del Veneto, Massimo Romano di quello dei giornalisti precari della Campania e di Federico Belprete per quello dell'Emilia Romagna. Per fare il punto sullo stato dell'arte e soprattutto sull'efficacia della Carta di Firenze, a sei mesi dalla sua approvazione e a quattro dall'entrata in vigore. A Chiarini [nell'immagine a fianco insieme a Romano] il compito di tracciare una radiografia della situazione: «Siamo una categoria parcellizzata, perché parcellizzate sono le condizioni contrattuali e di lavoro. Ma finalmente, anche grazie al lavoro dei coordinamenti regionali, la questione del precariato viene affrontata fattivamente - oltre gli slogan, oltre la lamentela sterile da bar, cercando con coscienza di costruire percorsi ed exit strategy per la maggioranza dei giornalisti». La maggioranza? «Su 44mila colleghi attivi, 24mila sono fuori dalla cornice del contratto collettivo nazionale di lavoro, e lavorano in condizioni al di sotto della soglia di dignità: una media di 7.500 euro lordi annui per un parasubordinato, il famoso cococo, 9mila per le partite Iva che in molti casi sono monomandatarie». Secondo Chiarini l'unica soluzione è «ripartire dal dovere di colleganza, la collaborazione solidale tra colleghi: per questo la Carta di Firenze mira a sanzionare quelli che svolgono un odioso ruolo di caporalato, andando ad avallare le politiche miopi di quegli editori che non riconoscono il valore della professione giornalistica». Ma la Carta è solo uno strumento: «Se non arrivano le segnalazioni non potranno arrivare nemmeno le sanzioni».Deluso invece Massimo Romano: «Io c'ero a Firenze, ed ero un grande entusiasta della Carta. Proprio per questo posso dirlo: dopo l'approvazione non è successo quasi niente. Alcuni articoli sono rimasti lettera morta: per esempio gli ordini regionali avrebbero dovuto fissare le soglie di equo compenso per i giornalisti precari, e  Odg e Assostampa istituire un osservatorio per valutare i casi di violazione, ma entrambe le cose non sono state fatte. Allo stesso modo c'è un punto che riguarda i pensionati, per evitare che chi va in pensione venga poi impiegato dalla stessa testata come collaboratore: rimasto lettera morta anche questo. E molte persone questa Carta nemmeno la conoscono». Non distante il parere di Viola Giannoli: «Il problema è proprio la concreta applicazione. Il presidente Iacopino ci ha detto che a Roma ci sono stati gli unici tre casi di ricorso a questo strumento. Solo tre casi in quattro mesi sono un fallimento - o quantomeno una battuta d'arresto rispetto alle aspettative. Ma all'Odg chiediamo: a che livello si impegna ad agire rispetto alle sanzioni? Potrà chiedere all'Inpgi di fare ispezioni, per esempio per controllare la pratica dei neopensionati che tornano subito in redazione, con tanto di scrivania, pagati il doppio o il triplo dei collaboratori giovani? Insomma, va rilanciata da parte nostra e degli organi istituzionali una campagna che dia nuova linfa alla Carta di Firenze. Affinché non resti solo "carta"». Indirizzato a Iacopino anche l'appello di Federico Del Prete: «L'Ordine nazionale porti questa Carta nelle redazioni: andrebbe affissa sui muri delle stanze dei direttori».In attesa che riparta il percorso di approvazione della legge sull'equo compenso giornalistico, stoppata a sorpresa qualche giorno fa dal governo - che ha dichiarato di voler apportare alcune modifiche non meglio precisate. «Noi però puntiamo a riattivare al più presto l'iter» ha assicurato alla Repubblica degli Stagisti Roberto Natale, presidente della Fnsi [nella foto a fianco]: «Per questo saremo al fianco dell'Ordine e dei comitati dei precari, e disponibili anche a scendere in piazza nelle prossime settimane con una grande manifestazione. Entro la fine della legislatura questa legge deve vedere la luce». I giornalisti, specie quelli più giovani, lo sperano fortemente.Eleonora VoltolinaPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Enzo Carra: «Dal 2013 equo compenso per i giornalisti freelance» - Giornalisti precari, il problema non è il posto fisso ma le retribuzioni sotto la soglia della dignità- Lo scandalo dei giornalisti pagati cinquanta centesimi a pezzo. Il presidente degli editori a Firenze: «La Fieg non dà sanzioni. E poi, cos’è un pezzo?»- Giornalisti precari alla riscossa: a Firenze due giorni di dibattito per approvare una Carta deontologica che protegga dallo sfruttamentoE anche:- Disposti a tutto pur di diventare giornalisti pubblicisti: anche a fingere di essere pagati. Ma gli Ordini non vigilano?- Un'aspirante giornalista: «Una testata non voleva pagare i miei articoli: ma grazie alla Repubblica degli Stagisti e a un avvocato ho ottenuto i 165 euro che mi spettavano»- Articoli pagati 2,50 euro e collaborazioni mai retribuite. Ecco i dati della vergogna che emergono da una ricerca dell'Ordine dei giornalisti

Apprendistato, in Campania l'età massima passerà da 29 a 35 anni: la legge regionale è quasi pronta

Un mese, massimo due, e la Campania avrà la sua legge sull’apprendistato. Il 10 aprile, infatti, è stata pubblicata sul Bollettino ufficiale della regione la delibera della giunta n.158 con cui si è approvato il testo unico dell’apprendistato. La prima fase è quindi terminata e ora si aspetta la seconda approvazione, quella del consiglio regionale, che l’assessore al lavoro Severino Nappi (nella foto) spera arrivi in tempi rapidi «consentendoci così di essere la prima realtà italiana ad avere un simile strumento». Un testo che vorrebbe far ripartire l’occupazione in un territorio in cui sono andati in fumo, solo nel 2011, 17mila posti di lavoro, e con un tasso di occupazione che è all’ultimo posto in Italia - gli indicatori statistici diffusi dall’Istat a inizio mese certificano che nel IV trimestre 2011 in Campania la disoccupazione è arrivata al 16,8%: praticamente il doppio della media nazionale.La politica regionale ha deciso quindi di puntare proprio sull’apprendistato, fino a oggi utilizzato poco e male (con un totale di apprendisti assunti in Campania nel biennio 2008-2010 di 21.480 contro i 592.767 nazionali e 1.196 formati contro i 147.246 nazionali) per cercare di arginare la disoccupazione giovanile e provare a reinserire nel mondo occupazionale i lavoratori in mobilità.Il testo, composto da tre titoli e sette articoli, identifica quattro tipologie di apprendistato: per la qualifica e per il diploma professionale, professionalizzante o contratto di mestiere, di alta formazione e ricerca e per i lavoratori in mobilità.  Il contratto di apprendistato per la qualifica e per il diploma professionale può essere stipulato con i soggetti tra i 15 e i 25 anni (non compiuti), anche con il fine del recupero della dispersione scolastica. Il monte ore annuo di formazione non potrà essere inferiore a 400 ore, ma per gli apprendisti di età superiore a 18 anni potrà essere ridotto nel caso di riconoscimento del possesso dei crediti formativi. Sarà la Regione, con un proprio atto amministrativo - ancora da approvare - a individuare le modalità per questo riconoscimento. Il contratto di apprendistato professionalizzante o di mestiere riguarda invece soggetti dai 18 ai 29 anni, e l’età è innalzata in via sperimentale fino ai 32 anni anche per i disoccupati di lunga durata che hanno accesso ai benefici all’assunzione previsti dalla legge. Attraverso questo tipo di apprendistato, poi, si riconosce il titolo di maestro artigiano o di mestiere «finalizzato all’istituzione della Bottega Scuola per diffondere e per sostenere l’interesse dei giovani che hanno adempiuto alla scuola dell’obbligo all’esercizio delle attività artigianali.»  Il contratto di apprendistato di alta formazione e ricerca «può essere stipulato per tutti i settori di attività, pubblici e privati, per attività di ricerca, per il conseguimento di un diploma di istruzione secondaria superiore, di titoli di studio universitari e dell’alta formazione, compresi i dottorati di ricerca, per la specializzazione tecnica superiore», nonché per il praticantato per l’accesso alle professioni ordinistiche. Con questa forma contrattuale possono essere assunti i soggetti tra i 18 e i 29 anni, ma in via sperimentale la Campania ha deciso di ampliare l'accesso a tutti giovani, anche disoccupati di lunga durata, che non abbiano compiuto i 35 anni. Ultima tipologia di apprendistato contemplata dalla legislazione regionale è quella per i lavoratori in mobilità per cui non c’è alcun limite di età. La Regione, in questo caso, si impegna a stanziare specifici incentivi all’assunzione con contratti di apprendistato anche attraverso intese con le associazioni datoriali.La prima e più evidente novità della legge è l’estensione del contratto dai 29 ai 32 anni (in alcuni casi 35). Una scelta che l’assessore Nappi e il presidente della regione Stefano Caldoro hanno motivato ricordando l’età media d’ingresso nel mercato del lavoro per i giovani campani, spesso oltre i 30 anni. Lo scopo del testo è integrare il decreto legislativo 167/2011 e favorire l’incremento dell’occupazione di qualità rendendo l’apprendistato uno strumento privilegiato per l’accesso al mondo del lavoro da parte dei giovani e dei disoccupati. Così, oltre a richiamare tre forme di apprendistato già conosciute, si identifica una tipologia totalmente nuova: quella per i lavoratori in mobilità. C’è poi un’altra novità: al titolo III, articolo 7, è infatti istituito presso l’Agenzia per il lavoro e l’istruzione (Arlas) un Osservatorio sull’apprendistato della regione Campania, presieduto dall’assessore al lavoro, con funzioni di informazione, gestione delle banche dati, monitoraggio, valutazione, promozione dell’istituto dell’apprendistato e delle attività connesse.Il testo ha ottenuto fino a questo momento il sostegno di Mario Guida, direttore dell’associazione imprenditoriale regionale Piccole e medie imprese (Pmi Campania), soprattutto per l’estensione del contratto ai lavoratori in mobilità, e quella della Cisl Campania che attraverso una dichiarazione congiunta del segretario regionale Lina Nucci (nella foto a destra) e di quello della provincia di Avellino, Mario Melchionna, hanno definito il testo «un risultato straordinario che anticipa i contenuti della discussione in atto a livello nazionale sulla riforma del mercato del lavoro, costituendo un’esperienza pilota su come affrontare in maniera strutturata le carenze del sistema produttivo della Campania».L’ultimo passaggio spetta quindi ora al consiglio regionale che dovrà dare il suo ultimo sì alla legge. Il primo incontro per la discussione era previsto per venerdì 20 aprile, ma la commissione Attività produttive ha rinviato l’esame del testo, facendo sfumare la possibilità che il testo venisse approvato entro il 25 aprile 2012, in attuazione della riforma Sacconi, come auspicato dall'assessore Nappi. La discussione in Commissione Lavoro è quindi slittata al pomeriggio di oggi, giovedì 26 aprile. La Campania dunque per poco non è riuscita a rispettare la data ultima prevista dal vecchio governo: ma cosa stanno facendo le altre regioni su questa materia? Sembrava che nessuna fosse in grado di rispettare questa deadline, ma poi a cavallo di Pasqua le parti sociali hanno risposto alle sollecitazioni del ministero e hanno sottoscritto accordi o intese per recepire la riforma dell’anno scorso.Il Piemonte ha sottoscritto un accordo con i sindacati sull’apprendistato per la qualifica e il diploma professionale a inizio aprile e qualche giorno dopo ha siglato un protocollo d’intesa per l’apprendistato in alta formazione per far conseguire all’interno delle aziende una laurea o master a 734 giovani. Anche il Veneto è riuscito a siglare un accordo sia per la qualifica e il diploma professionale sia per l’apprendistato professionalizzante così come ha fatto il Trentino Alto Adige. La giunta regionale dell’Abruzzo ha approvato, invece, a metà aprile i documenti attuativi del Testo unico dell’apprendistato dando quindi il via alle tre tipologie di apprendistato: per la qualifica e il diploma professionale, professionalizzante e di alta formazione e ricerca. Anche il Friuli Venezia Giulia, (dove sono anche in corso incontri per modificare il regolamento regionale), la Toscana e l’Umbria recepiscono il testo unico 167/2011. Così come hanno fatto il Molise con la legge regionale 2/2012, la Liguria, con l’approvazione da parte del consiglio regionale del disegno di legge che modifica la legge regionale 30/2008 (che affronta anche il tema dell’apprendistato) e le Marche, con il via libera alla proposta di modifica  della legge regionale 2/2005 sulle norme per l’occupazione. La Valle d’Aosta è stata, invece, tra le prime regioni a sottoscrivere a dicembre 2011 un’intesa per l’apprendistato professionalizzante, mentre il Lazio con deliberazione n. 41 del 3 febbraio 2012 si è occupata del problema con le “Disposizioni in materia di formazione nell’ambito del contratto di apprendistato professionalizzante o contratto di mestiere” ma nel testo manca la parte procedurale che serve per attivare un contratto di apprendistato.  La Regione aveva peraltro abrogato la legislazione in materia di apprendistato con la conseguenza che dal 26 aprile, salvo proroghe, non si potranno stipulare altri contratti - eccetto per i mestieri a vocazione artigianale per cui l’assessore al lavoro Mariella Zezza ha firmato un accordo con ItaliaLavoro. La Sicilia ha pubblicato il ddg n. 46  e anche il primo avviso pubblico per il finanziamento di voucher formativi apprendistato professionalizzante. La Lombardia, invece, ha approvato a inizio aprile la legge “Misure per la crescita, lo sviluppo, l’occupazione”  che all’articolo 20 parla di apprendistato - ma in modo generico e senza individuare le diverse tipologie.L’Emilia Romagna ha varato un piano straordinario per l'occupazione giovanile, destinando 20 milioni di euro al Fondo per l’apprendistato per promuovere questo tipo di contratto e la Puglia ha siglato un’intesa per la disciplina dell’apprendistato per le professioni turistiche e ha presentato una proposta di legge per promuovere l’apprendistato nelle botteghe scuola. La giunta regionale della Basilicata ha, invece, firmato un Protocollo d'intesa con le associazioni di categoria per i primi provvedimenti attuativi del testo unico dell'apprendistato. Calabria e Sardegna non hanno ancora approvato i regolamenti relativi all’apprendistato nonostante l’assessore calabrese Francescantonio Stillitani abbia annunciato di essere pronto anche per un testo di legge regionale. Le regioni si avviano, quindi, ad avere provvedimenti molto diversi tra loro. Il che ribadisce ancora una volta la necessità di avere una legge quadro nazionale, un «testo unico del welfare in materia di lavoro, istruzione e politiche sociali», come ha detto l’assessore abruzzese Paolo Gatti. L’obiettivo dovrebbe essere quello di trovare una sintesi tra le diverse politiche regionali in materia di lavoro che riesca a considerare le competenze e l’età dei soggetti allo stesso modo evitando di avere situazioni, come nel caso della legge regionale campana, in cui un contratto di apprendistato può essere esteso fino ai 35 anni. Perchè alla fine la domanda è una: l'apprendistato è un contratto per tutti, o dev'essere limitato a chi non ha esperienza e deve appunto «apprendere»?  Marianna Lepore Per saperne di più su questo argomento leggi anche:- Apprendistato: contratto a tempo indeterminato oppure no?- Regioni e riforma del lavoro, è guerra al governo sull'articolo sui tirocini - Apprendistato: coinvolge pochissimi laureati e spesso non garantisce vera formazione

Italia, abbandonarla o resistere? Al Festival del Giornalismo di Perugia «Italy: love it or leave it»

L'Italia è bellissima. Chi può dubitarne? Mille comuni, paesaggi straordinari, città d'arte senza eguali nel mondo, tradizione enogastronomica insuperabile. Ma l'Italia non funziona. È un concentrato di ingiustizie, inefficienze, arretratezze, corruzione, gerontocrazia, bigottismo. Per chi ci vive, specie se giovane, può essere peggio di una gabbia - perché è un Paese che non garantisce protezione ai più deboli, giustizia a chi non vuole piegarsi alla malavita o anche semplicemente al malcostume, meritocrazia ai tanti che studiano e che vorrebbero vedere riconosciuto e valorizzato il proprio talento.E allora vale ancora la pena restare a vivere in Italia, oggi, e magari cercare di cambiarla? A questa domanda cerca di rispondere il documentario Italy: love it or leave it, che verrà proiettato mercoledì 25 aprile a Perugia nel giorno inaugurale del Festival del Giornalismo, dopo un dibattito che coinvolgerà i due autori - Gustav Hofer e Luca Ragazzi, registi e sceneggiatori oltre che protagonisti - insieme alle giornaliste Eleonora Voltolina e Caterina Soffici (la prima direttore della Repubblica degli Stagisti e autrice del libro Se potessi avere mille euro al mese - L'Italia sottopagata oltre che vicepresidente dell'associazione Italents, la seconda già responsabile delle pagine culturali de Il Giornale, oggi collaboratrice di Vanity Fair e del Fatto Quotidiano e autrice di Ma le donne no - Come si vive nel paese più maschilista d'Europa) e a John Peter Sloan, attore e autore di Instant English che ha calcato i palcoscenici di Zelig Off e partecipato con una rubrica al programma Report su RaiTre.Gustav e Luca sono, nel documentario come nella realtà, una coppia di trentenni. Vivono insieme a Roma e alle spalle hanno un altro film, Improvvisamente l'inverno scorso, dedicato al tema dei diritti delle famiglie omosessuali, che nel 2009 è valso loro il Nastro d'Argento al Festival di Berlino. Due anni dopo hanno deciso di fare una radiografia dell'Italia e si sono imbarcati in un viaggio da nord a sud, dalle città ai paesini più sperduti, per capire se in questo Paese c'è ancora qualcosa da salvare, qualche motivo per restare. Nel documentario Gustav, che è altoatesino dunque italiano "atipico" con accento tedesco e sprovvisto di cordone ombelicale, rappresenta la voce critica. Porta all'attenzione del suo compagno e degli spettatori i problemi, le storture, le iniquità, e fa impietosi confronti con l'estero. Luca invece, romano e più "mammone", è quello che resiste, che si impegna a trovare e dare visibilità al buono dell'Italia di oggi, a dimostrare che non tutto è perduto e che la soluzione non può essere quella di fuggire lontano lasciando il Paese a marcire. Il docu-trip è costellato di incontri, per la maggior parte volti sconosciuti di giovani e meno giovani che si impegnano e lottano per la legalità, i diritti, la salvaguardia dell'ambiente, intrecciati a quelli di alcuni personaggi famosi - Andrea Camilleri, Carlin Petrini e Nichi Vendola. Presentato per la prima volta nel settembre 2011 al Milano Film Festival, ha sbancato portandosi a casa il premio per il miglior film e quello del pubblico; poi è stato selezionato per una dozzina di altri festival - da Rio de Janeiro a Zurigo, da Cape Town a Goteborg - vincendo anche il premio della giuria dei giovani al  Festival di Annecy.Dopo Perugia, Italy love it or leave it verrà proiettato nelle prossime settimane anche a Bologna (al Cinema Lumière dal 27 al 29 aprile), e a Soliera in provincia di Modena (al Cinemateatro Italia il 1° maggio). Dallo scorso dicembre è anche scaricabile su iTunes.Per saperne di più su questo argomento:- Partire è un po' morire? Qualche volta, per i giovani italiani invece è l'unico modo per vivere- Fuggi-fuggi dall'Italia: sono almeno 2 milioni i giovani all'estero- E se Steve Jobs fosse nato a Napoli? Essere «affamati e folli» a volte non bastaE anche:- Laureati in fuga: i giovani italiani vogliono partire. Però sognando di riuscire a tornare- Sulla Rete i giovani italiani scalpitano per fare rete: ITalents sbarca su Facebook, ed è boom

Milano, i bamboccioni non abitano qui

Nella capitale lombarda la maggior parte dei giovani tra i 18 e i 30 anni lavora mentre studia e solamente 33 ragazzi su 100 affermano di dedicarsi esclusivamente all’università. E i famosi Neet? Solo il 3% degli intervistati rientra nella categoria, secondo la ricerca svolta da Francesco Marcaletti, professore dell'università Cattolica [nella foto a destra], presentata venerdì scorso al convegno «Bamboccioni: giovani e lavoro nell'era della flessibilità».L’indagine svolta dai volontari dell'Azione Cattolica ambrosiana si basa sulla diocesi di Milano (comprese anche Varese, Lecco e Monza). Il campione di quasi 600 ragazzi non è rappresentativo di tutta la realtà cittadina (le donne sono leggermente più degli uomini, tutti sono italiani e 1 su 2 ha almeno una laurea triennale), ma i risultati sono comunque interessanti.È vero che il 33% del campione decide di non avere alcuna esperienza lavorativa per potersi concentrare sullo studio. È vero che quasi tutti gli intervistati tra i 18 e i 24 anni vivono ancora in famiglia ma la percentuale scende tra i 25 e i 30, quando le ragazze tendono ad andare a vivere da sole mentre i maschi, se escono di casa, vanno a convivere con amici. È vero anche solo un giovane milanese su venti aiuta in casa, e la percentuale scende ancora tra chi ha un impiego. Però il 42% lavora oltre a frequentare l’università, soprattutto le ragazze. Una volta finiti gli studi, però, a fronte di questo impegno maggiore da parte delle donne sono invece gli uomini a trovare più facilmente un’occupazione, contratti migliori (il 53% ottiene il tempo indeterminato contro il 22% delle ragazze) e salari più alti (quasi uno su cinque guadagna più di 1500 a superare questa soglia è invece solo una donna su venti). Come sottolinea Ida Regalia, professoressa della Statale: «Si è socializzati alla vita in modo diverso a seconda che si nasca uomini o donne».Sfatato invece il mito dell’importanza delle conoscenze per trovare lavoro dato che in tre casi su cinque la raccomandazione porta sì a un impiego, ma senza contratto. Frutta di più autocandidarsi presso un’impresa, in questo modo infatti un neoassunto su quattro ottiene un posto a tempo determinato. Nell’area milanese per fortuna questo non è un caso raro: l’ha ottenuto il 14% degli intervistati, mentre addirittura il 37% è impiegato a tempo indeterminato. Ma in un campione che va dai 18 ai 30 anni non è specificato quanto tempo ci è voluto per arrivare a un buon contratto.L’indagine si occupa anche di chi un lavoro proprio non ce l’ha e scopre come i milanesi disoccupati siano abbastanza schizzinosi, tanto da rifiutare un posto che li porti in un’altra città o in un altro paese. Mammoni o abbastanza realisti da non voler traslocare per un contratto a progetto? Secondo Marcaletti ed Emiliano Novelli, vicepresidente del Gruppo Giovani imprenditori Assolombarda, molti ragazzi preferiscono stare a casa piuttosto che fare lavori considerati umili, mentre all’estero pur di non vivere con mamma e papà gli studenti fanno le pulizie negli uffici, raccolgono frutta nei campi o servono hamburger nei fast-food. Eppure, nonostante stiano attenti a scegliersi l’occupazione, solo il 7% degli intervistati ha risposto di fare qualcosa che gli piace.  Quindi sono bamboccioni o no i giovani lombardi? In definitiva, dalla ricerca dell’Azione Cattolica emerge il ritratto di una generazione molto legata al nido, ma più per necessità che per scelta: spesso questi ragazzi hanno stipendi così bassi che senza il supporto dei genitori non riuscirebbero a sopravvivere.Valentina NavonePer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- «Non solo bamboccioni: i giovani hanno voglia di riscatto». La testimonianza di un'ex stagista di Chiesi.- E se Steve Jobs fosse nato a Napoli? Essere «affamati e folli» a volte non basta- «Non è un paese per bamboccioni», un libro per chi è stufo di piangersi addosso

Ottanta tirocini alla Nato pagati 800 euro al mese, bando aperto fino al 30 aprile

Un tirocinio pagato 800 euro (lordi) al mese in una delle organizzazioni internazionali più importanti al mondo. Si tratta del programma di traineeship offerto dalla Nato, ente con circa 1.300 dipendenti che ogni anno recluta decine di giovani laureati di diverse nazionalità desiderosi di farsi le ossa in uno dei suoi dipartimenti. Dalla sicurezza agli affari politici, passando per il settore legale e la difesa (la scelta può cadere al massimo su tre opzioni). La deadline per partecipare a questa edizione, che si svilupperà in due fasi con inizio a marzo e settembre 2013, è fissata al 30 aprile entro la mezzanotte. Superata questa data occorrerà aspettare l'anno prossimo per candidarsi perchè viene pubblicato un solo bando all'anno. La buona notizia è che, oltre a un emolumento più che dignitoso, i tirocinanti possono anche percepire rimborsi per borse di studio e per spese di viaggio fino a 1.200 euro. Inoltre, il numero indicativo di candidati ammessi al progetto è di circa 40 per ogni semestre, ma la cifra totale può variare anche per il flusso di stagisti provenienti da altri programmi di internship nazionali o scolastici. Per il 2012, come spiega alla Repubblica degli Stagisti Céline Shakouri-Dias del dipartimento risorse umane Nato, «sono stati scelti circa 80 interns su 3.200 candidati», lo stesso numero del 2010. Età media: attorno ai 23 anni. Peraltro gli italiani rappresentano una fetta consistente delle candidature: l'anno scorso sono stati ben 800 i connazionali che si sono fatti avanti, circa un quarto del totale.La notizia meno incoraggiante è invece che non ci sono possibilità di assunzione: «Non c'è un metodo per convertire lo stage in un lavoro vero e proprio» specifica Shakouri-Dias, «esistono dei casi in cui si fanno dei contratti bimestrali per permettere al candidato di terminare il suo progetto, così come altri in cui è possibile che i nostri interns si candidino a nostri concorsi pubblici, ma sta a loro riuscire a superarli. Per quanto ci compete, il programma di traineeship termina dopo i 6 mesi». Ma sulle faq del sito la situazione è descritta in maniera un po' più ottimista e viene spiegato che, pur non essendovi un collegamento diretto tra lo stage e l'assunzione, «questa possibilità può essere vagliata una volta terminato il programma di tirocinio e sempre che si siano rispettate tutte le regole previste per le selezioni di un determinato impiego». I requisiti. Per candidarsi bisogna avere più di 21 anni, essere originario di un paese Nato o suo partner, conoscere bene il francese o l'inglese e infine essere uno studente universitario al terzo anno o con una laurea conseguita da non più di 12 mesi. Non c'è un filtro per le tipologie di laurea, anche se sul sito si fa riferimento ad alcune facoltà come scienze politiche, relazioni internazionali, giornalismo, ma anche ingegneria o grafica.Application form: per compilarlo è necessario registrarsi al sito e inviare il curriculum più una lettera motivazionale di 500 parole sul perchè della propria candidatura.Il processo di selezione. Per questa tornata inizierà a luglio, mentre i traineeship avranno inizio a marzo o a settembre del 2013, per una durata di sei mesi (tranne eccezioni per motivi accademici che consentono un impegno più breve, ma mai sotto i tre mesi). Tutti i candidati saranno comunque avvisati dell'esito tramite una mail che arriverà tra settembre e ottobre. Per i vincitori sarà inoltre obbligatoria la sottoscrizione di una security clearance, ovvero un nulla osta per la sicurezza rilasciato dal paese d'origine e dall'ufficio di sicurezza della Nato.Criteri di selezione, la short list si costruisce in base al curriculum in relazione alla compatibilità con il dipartimento prescelto dal candidato. Ma contribuisce anche il nationality and gender balance, ovvero un sistema di riequilibrio dei vincitori in base alla provenienza geografica e al genere.Ilaria MariottiPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Cento tirocini ben pagati all’Agenzia per i diritti fondamentali, alla Nato e all’Agenzia per i medicinali- Erasmus Placement: per gli studenti universitari tirocini da 600 euro al mese in tutta Europa. Ecco come funzionano i bandiE anche:- Fuggi-fuggi dall'Italia: sono almeno 2 milioni i giovani all'estero

Medici specializzandi, allarme rientrato: sparisce l'emendamento sull'Irpef per le borse di studio

Allarme rientrato per i 22mila medici specializzandi a rischio tassazione Irpef. Mentre i camici bianchi "scioperavano" in tutta Italia astenendosi dal lavoro in corsia, la commissione Finanze della Camera ha approvato un emendamento abrogativo della norma che mirava ad introdurre sul reddito dei medici in formazione l'imposta sulle persone fisiche per la parte eccedente gli 11.500 euro di retribuzione lorda annuale. «È stata una vittoria di tutti» è il commento a caldo di Carmine Cerullo, delegato del comitato nazionale che questa mattina ha incontrato i vertici della commissione parlamentare. Presente anche il sottosegretario alle Finanze Vieri Ceriani «che ha dato parere positivo perché l'emendamento sia tolto e ridiscusso in seguito in sede di delega fiscale» spiega Cerullo. Approvati il 4 aprile scorso al Senato, i commi incriminati sono il 16 ter e quarter dell'articolo 3 della legge di conversione del decreto "crescitalia" che minacciavano di colpire, insieme ai camici bianchi, tutti i titolari «di borsa di studio o di assegno, premio o sussidio per fini di studio o di addestramento professionale». In parole povere la stragrande maggioranza dei giovani precari che fanno ricerca all'interno di università e istituti pubblici o privati, in tutti i settori disciplinari. «La ratio dell'emendamento era quella di fare un po' di cassa, non c'è dubbio» osserva l'onorevole Tea Albini (Pd), una delle promotrici della correzione che ha assicurato il ritorno allo status quo. «La situazione dei dottorandi e dei borsisti è probabilmente anche peggiore della nostra» ammette Demo Dugoni (nella foto insieme a Valentina Romeo), membro del direttivo di Federspecializzandi che, insieme al Segretariato italiano dei giovani medici (SIGM), ha lanciato nei giorni scorsi l'allarme. Per gli specializzandi il salasso sarebbe stato di circa 300 euro mensili, su una busta paga di 1.750 euro. Una retribuzione che pone la categoria altamente al di sopra della media dei titolari di borse e assegni di ricerca. Ma il vantaggio appare comunque molto relativo considerate le responsabilità e l'impegno richiesto agli specializzandi, che possono arrivare a lavorare anche 70 ore settimanali. Per non parlare del faticoso cursus honorum che si deve affrontare per arrivare in reparto. «Ci sono scuole di specializzazione che hanno attese di 4 o 5 anni» racconta ancora Dugoni che fortunatamente è riuscito a vincere al primo tentativo il concorso per la scuola di specializzazione in neurochirurgia all'Umberto I di Roma. «Non siamo lavoratori dipendenti e non ha alcun senso tassarci come tali» spiega Valentina Romeo, anche lei specializzanda al policlinico romano ma in chirurgia generale. «Per la scuola di specializzazione paghiamo già le tasse universitarie (circa 3.000 euro annuali ndr); poi ci sono l'assicurazione e i contributi Inps ed Enpam. Il 70% degli specializzandi sono inoltre dei fuorisede e devono affrontare ingenti spese aggiuntive per completare la propria formazione».Ovvio che dinanzi alla prospettiva di un'ulteriore decurtazione dello stipendio i futuri specialisti siano insorti in massa. Lo sciopero indetto per oggi «ha avuto un'adesione altissima in tutte le cliniche universitarie del paese: siamo intorno all'80%» racconta Dugoni «non era mai accaduto prima». E considerato il fattivo apporto dato dagli specializzandi ai vari reparti si può essere certi che il disagio sia stato avvertito nitidamente in moltissimi ospedali. Nonostante che per medici e borsisti l'allarme sia ufficialmente rientrato, «la manifestazione nazionale prevista per domani davanti a Montecitorio resta confermata», assicura Carmine Cerullo, «per chiarire che siamo pronti alla mobilitazione qualora un testo del genere venga ripresentato in futuro». In corsia si torna solo mercoledì.Ilaria CostantiniPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Medici specializzandi e tirocinanti psicologi, la lunga gavetta delle professioni sanitarie

Congedo di paternità obbligatorio, passo in avanti verso l’Europa

La riforma del lavoro, approvata dal governo lo scorso 23 marzo, introduce tra le varie novità per la prima volta nel nostro Paese il congedo di paternità obbligatorio. Il testo del provvedimento presentato due settimane dopo stabilisce infatti, all'articolo 56, che «il padre lavoratore dipendente, entro i cinque mesi dalla nascita del figlio, ha l’obbligo di astenersi dal lavoro per un periodo di tre giorni, anche continuativi». Cosa significa? Se la riforma dovesse passare, tutti i lavoratori dipendenti avrebbero diritto a tre giorni continuativi di assenza dal lavoro nei cinque mesi successivi alla nascita del proprio figlio, regolarmente retribuiti. Ma,  chiarisce il provvedimento, di questi tre giorni, due sono «in sostituzione della madre e con un riconoscimento di un’indennità giornaliera a carico dell’Inps pari al cento per cento della retribuzione e il restante giorno in aggiunta all’obbligo di astensione della madre con un riconoscimento di un’indennità giornaliera pari al cento per cento della retribuzione». Inoltre, «il padre lavoratore è tenuto a fornire preventiva comunicazione in forma scritta al datore di lavoro dei giorni prescelti per astenersi dal lavoro, almeno quindici giorni prima dei medesimi».Questo significa che due dei tre giorni obbligatori per i padri vengono sottratti a quelli a disposizione per la madre. È utile ricordare che le madri italiane possono già avere cinque mesi di congedo retribuito all'80% e un numero indefinito opzionale di mesi al 30% dello stipendio, fino al compimento del primo anno di età del bambino. Il congedo di paternità va distinto da quello parentale, che già esiste in Italia, anche se facoltativo. Fino all’ottavo anno di età del bambino il padre può assentarsi dal lavoro per un periodo di tempo, continuativo o frazionato, pari a cinque mesi, percependo una retribuzione pari al 30% di quella normale. Tuttavia le astensioni dal lavoro, se utilizzate da entrambi i genitori, non possono superare il limite massimo complessivo di 11 mesi.L'introduzione del congedo di paternità comporta un cambiamento significativo: oggi esso esiste ma è una (rara) agevolazione che le aziende possono concedere ai propri dipendenti, sulla base di specifici accordi contrattuali o come una specie di «benefit» individuale. Rendendolo universale il governo allinea finalmente il nostro Paese al panorama europeo, dove invece è già ampiamente diffuso e dove già esistono benefici significativi sia per il padre che per la madre.In ambito istituzionale è tuttora in corso un dibattito: un anno e mezzo fa il Parlamento europeo ha adottato in prima lettura le revisione della direttiva sul congedo parentale che prevede l’estensione nei paesi Ue del congedo di maternità a 20 settimane totalmente retribuite e un congedo di paternità di due settimane. Oggi il provvedimento è in attesa della reazione del Consiglio prima di passare alla seconda lettura. Qual è la situazione attuale in Europa? A portare il buon esempio sono, come spesso accade in materia di welfare, i paesi scandinavi. Secondo le rilevazioni dell’Eiro (European industrial relations observatory online), osservatorio europeo del lavoro, in Norvegia i neopapà possono godere di sei settimane di congedo retribuito al 100% e di 45 settimane, da dividere con la madre, all’80%. In Finlandia i padri hanno diritto a un congedo retribuito di quattro settimane, in Danimarca a due. Tutti e tre i paesi presentano tassi di natalità più elevati rispetto all’Italia: nel primo caso è 12 ogni mille abitanti; nel secondo e nel terzo 11,2 (dati Onu 2010). Il nostro Paese, secondo le ultime rilevazioni Istat, si attesta su 9,1 ogni mille abitanti.  La differenza è evidente. Ma è sufficiente anche solo spostarsi oltralpe per trovare una situazione migliore della nostra: in Francia i papà beneficiano di un congedo retribuito di due settimane, di cui undici giorni di paternità e tre per «motivi familiari». Lo stesso per il Regno Unito: il periodo di assenza dal lavoro, completamente pagato, è pari a due settimane, da sfruttare in qualsiasi momento fino a otto settimane dopo la nascita. Nei due paesi il tasso di natalità registrato è pari, rispettivamente, al 12,2 e al 12%. Anche in stati con un tasso di natalità appena poco più alto del nostro, come nel caso del Portogallo (10,5 nati ogni mille abitanti) è in vigore il congedo di paternità: l’astensione dal lavoro può arrivare fino a cinque giorni, con una retribuzione al 100%.Si passa invece da cinque a due giorni di astensione retribuita dal lavoro in Spagna (tasso di natalità di 10,8 su mille abitanti), Paesi Bassi (11,1 nati ogni mille abitanti), e Grecia (9,3 ogni mille abitanti).Ma l'Italia non è sola: anche in altri paesi Ue invece non esiste ancora un congedo di paternità obbligatorio. È il caso di Austria, Germania (dove il padre però può dividere con la madre fino a 12 mesi di astensione dal lavoro,al 67% della retribuzione) e Irlanda, dove a marzo 2007 è stato stabilito un congedo retribuito per le madri di 26 settimane, al 75% dello stipendio, mentre per i papà non esiste alcuna formula che consenta di usufruire della retribuzione piena (o quasi piena) per accudire per un periodo i propri figli.Recenti anche le decisioni in materia di tutela dei padri lavoratori adottate oltreoceano: negli Stati Uniti parlare di congedo di paternità retribuito è quasi un’utopia. Attualmente non esiste neppure un congedo di maternità completamente pagato; dal 2003 neomamme e neopapà possono richiedere 12 settimane tra congedi per malattia e parentali. Per beneficiarne però è indispensabile aver lavorato almeno 1.250 ore nel corso dell’ultimo anno per un datore di lavoro con più di 50 dipendenti. Negli anni successivi, le legislazioni di alcuni stati hanno iniziato ad adottare provvedimenti che vanno incontro alle esigenze del lavoratore: dal 2004 in California è possibile ottenere sei settimane di congedo parentale parzialmente retribuito. Anche negli stati di Washington e del New Jersey si stanno seguendo politiche simili, ma tuttora la maggior parte dei neopapà americani continua a prendere giorni di permesso non pagati o di malattia per stare con i propri figli nei primi mesi di vita.In ogni caso, per arrivare anche in Italia a una «maggiore condivisione nella gestione dei figli da parte di entrambi i genitori e una maggiore conciliazione tra i tempi del lavoro e quelli della famiglia», così come auspicato dal ministro del Lavoro Elsa Fornero, bisognerebbe fermarsi e pensare ad alcune integrazioni. Innanzitutto, sarebbe opportuno che nel passaggio in Parlamento il testo della riforma cambiasse, e venisse sensibilmente aumentato il numero – finora francamente aneddotico – di giorni di congedo per i neopapà. E soprattutto che il congedo di paternità non sia considerato un beneficio da concedere al padre, privando le madri del tempo per stare con i propri figli, ma come un pieno diritto per entrambi i genitori, in modo da stare vicino al bambino nelle fasi iniziali della crescita.Chiara Del PriorePer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Donne e libere professioni, un binomio ancora difficile- Riforma del lavoro, ecco punto per punto cosa riguarda i giovani- Riforma del lavoro, il ministro Fornero: «Non andrà in vigore prima del 2013»