Jobs Act, partite Iva, articolo 18 e molto altro: il ministro Poletti "a domanda risponde"
Si possono dire molte cose dell'attuale ministro del lavoro, tranne una: che si sottragga al confronto. Il passato nella rappresentanza di un settore ad alto tasso di dibattito - quello delle cooperative - certamente aiuta: sta di fatto che Giuliano Poletti affronta tutti i pubblici con energia e non schiva le domande. Ultima prova, l'incontro organizzato ieri a Milano dal circolo 02PD, dal titolo «Il lavoro, la nostra emergenza», strutturato proprio come un botta e risposta tra il pubblico e il ministro, con batterie di domande pre-selezionate e raggruppate secondo argomenti. Niente moderatore, pochi preamboli, una raffica di domande quasi a interrogatorio. E le risposte di Poletti? Eccole qui, a ruota libera, utili per capire meglio il Poletti-pensiero.Politiche industriali, efficienza dei centri per l'impiego, utilizzo dei contratti di solidarietà«Dobbiamo lavorare perché l'Italia riesca a usare al meglio i suoi potenziali» dice subito Poletti, perché «dove diavolo sta dal punto di vista turistico, culturale, artigianale un paese che ha una base di partenza come la nostra? Noi dobbiamo fare in modo di liberarlo da vincoli, pesi e condizionamenti che impediscono oggi di far partire le imprese». Poi il ministro fa un po' di autocoscienza: «La differenza tra me e Matteo Renzi sono un po' più di venti chili e un po' più di vent'anni; e non è certo un confronto facile. Io sono cresciuto in un'altra epoca, invece adesso la logica è “non fare quello che hai fatto fino a ieri”, dunque non fare le cose nel modo che però io fino a ieri pensavo giusto. Certe mattine quando mi sveglio mi pongo la questione: poi mi rispondo che alla fine tanto giusto non doveva essere, basta guardare dove ci ha portati». Così Poletti spiega l'adesione al metodo “cambiaverso” di Renzi, anche per quanto riguarda le politiche industriali: «Questo è un paese che ha sempre ragionato sulla logica degli incentivi, “aiutiamo a fare”: invece dobbiamo rimuovere gli ostacoli. Anziché dare una vitamina a un cavallo per fargli saltare un ostacolo, non è meglio togliere l'ostacolo? Certo. Non è stato fatto prima perché chi ha la vitamina può decidere quanta darne, quando e a chi». Uscendo dalla metafora: «Le politiche industriali non possono voler dire che è il governo a decidere se è meglio che cresca la domotica piuttosto che la robotica: noi dobbiamo togliere gli ostacoli in modo che ciascun settore possa svilupparsi come meglio riesce. Poi ovviamente in certi settori c'è la spesa pubblica che ha un effetto trainante, perché è un importante acquirente di determinati beni. Dunque dobbiamo bilanciare questi due elementi, la spesa pubblica e la rimozione degli ostacoli: insomma meno incentivi, più libertà». Passando al capitolo dei servizi all'impiego: «I servizi per il lavoro nel nostro paese non sono mai stati una priorità. I centri per l'impiego non sono che l'anagrafe della disoccupazione, non aiutano in maniera equa a trovare una opportunità di lavoro: e così la distribuzione del lavoro finora è stata diseguale». Per cambiare le cose bisogna rompere qualche tabù: «Il lavoro è un mercato. Noi invece abbiamo sempre considerato che avesse un valore tale che non poteva essere toccato dal privato: invece dobbiamo entrare in una logica in cui i servizi al lavoro si comprano, si pagano, e lo Stato li controlla. Vogliamo provare a lavorare insieme, Regioni e Stato, per avere una condivisione sui principi minimi. Lo Stato deve poter attuare una tutela dei diritti minimi dei cittadini, poter intervenire quando le regioni sono inadempienti rispetto alla erogazione di un servizio. Per questo serve una struttura nazionale unica». Poletti ricorda l'attuale frammentazione non solo delle competenze ma anche delle informazioni: «L'Inps ha i dati delle pensioni e della disoccupazione, ma non sa se sei iscritto al cpi. Facciamo un sistema informatico unico nazionale, in modo che tutti sappiano quel che c'è da sapere. Il sistema non porta via niente a nessuno ma funziona da infrastruttura per tutti». Infine sui contratti di solidarietà, quelli che nel momento in cui in un'azienda si profila una riduzione di lavoro e dunque di personale anziché procedere a licenziamenti si riducono le ore di tutti i dipendenti, il ministro spende parole positive: «Pensiamo sia una buona modalità quando un'azienda ha poco lavoro, il danno che soffre il lavoratore è minore rispetto al licenziamento». E aggiunge in maniera un po' inaspettata: «Si può usare anche in caso ci sia più lavoro, per permettere a un'azienda di assumere qualcuno in più. È chiaro che però si tratta di un meccanismo volontario, dunque se un'azienda non vuole utilizzarlo, non la si può obbligare». Secondo Poletti bisogna puntare a una «buona ed equa ed equilibrata distribuzione del lavoro tra i lavoratori», anche riprendendo in mano la questione giovani - anziani: «Con l'innalzamento dell'età pensionabile noi abbiamo alzato un muro. Ora dobbiamo costruire un meccanismo per cui qualcuno di quelli più anziani vada in pensione e faccia posto a qualche giorno. Lavorare full time fino a 67 anni e poi da un giorno all'altro non lavorare più per niente a me sembra una cazzata incredibile» si lascia scappare il ministro: «Dobbiamo anche cambiare la dinamica salariale: oggi si guadagna di più a fine carriera, bisognerebbe invece avere il massimo del guadagno quando si inizia, e si ha bisogno di più soldi per andare a vivere per conto proprio, maritarsi, metter su famiglia».Partite Iva utilizzate impropriamente nelle professioni sanitarie e negli studi professionali, illicenziabilità dei dipendenti pubblici anche se inefficienti, connessione tra Jobs Act ed Expo per permettere che i posti di lavoro creati da Expo si possano stabilizzare una volta finito l'evento.Per replicare a questo blocco di domande il ministro sceglie di partire dai lavoratori pubblici: «Dovremmo andare verso una logica unitaria di rapporto di lavoro; la differenza del pubblico è fondamentalmente che si accede al posto attraverso concorso. Ma molte altre cose dovrebbero essere analoghe al settore privato. Noi abbiamo cominciato a mettere mano a questo meccanismo, con la mobilità e i tetti di stipendio. Continueremo a lavorarci». E allarga il ragionamento al macrotema del mercato del lavoro e delle tipologie contrattuali: «L'Italia ha molti vizi storici, molte cose succedono perché le si lascia accadere. Noi abbiamo raccontato che il contratto a tempo indeterminato è quello fondamentale, giusto, su cui puntare. Siamo d'accordo tutti, fatto salvo il banale particolare che negli ultimi anni su 100 contratti, solo 15 sono a tempo indeterminato. Com'è possibile che i contratti che fanno a schifo a tutti quanti valgano l'85% del totale? Noi abbiamo pensato che se vogliamo che il contratto a tempo indeterminato vinca, dobbiamo metterlo in condizione di sbaragliare gli avversari. Dunque abbiamo pensato di dotarlo di una norma chiara e con una riduzione dei costi». Una sorta di antipasto rispetto a quel che dirà dopo, rispondendo alla domanda specifica sul Jobs Act. E per quanto riguarda le partite Iva? «Tutto il problema sulle finte partite iva e i cocopro viene dal fatto che questi contratti sono meno costosi e meno tutelati. É normale che l'imprendistore scelga quelli che costano di meno e sono più flessibili». Il ministro ribadisce la promessa di «cancellare una serie di tipologie contrattuali precarie: lo faremo. Lasceremo il contratto a termine, il contratto a tempo determinato. Lasceremo ovviamente anche la partita Iva, che peraltro dal punto di vista lessicale è una definizione che mi fa incavolare» scherza «perché noi siamo riusciti a far diventare delle persone un regime fiscale». L'orientamento del governo sembra quello di definire una serie di mestieri “compatibili” con la partita Iva: «Dobbiamo stabilire delle modalità che permettano di definire i mestieri che si possono e non si possono fare in termini professionali. La segretaria o il muratore non sono mestieri che si possono fare a partita Iva. Una infermiera può lavorare a partita Iva in un ospedale? Non credo proprio. Stiamo valutando se si possa percorrere questa strada, la discussione è ancora in corso, é uno dei temi su cui stiamo ragionando». In generale il ministro afferma che la lotta alle tipologie contrttuali farlocche va combattuta sul frinte della convenienza «Bisogna ridurre l'opportunità, ridurre la differenza di costo, e quando ti becco ti legno»: perché «ci sarà una semplificazione. E quando l'avremo fatta, chi sbaglia pagherà». Le partite Iva sono anche nella legge di stabilità: «La logica della norma, lunga ben dieci pagine, è che una persona che lavora a partita iva con un reddito limitato, può avere una forfettizzazione; così diamo una mano alle partite iva nuove, più giovani, che sono anche una risposta alla disoccupazione. Abbiamo deciso di aiutarle dal punto di vista fiscale e burocratico». Oltre a quelle finte, però, Poletti dice di non voler ignorare quelle vere: «Preoccupandoci di quelle false, le altre le abbiamo un po' dimenticate». Qui dunque bosogna puntare alla «valorizzazione delle vere partite Iva» attraverso «uno di quegli atti di “pulizia” necessari che servono a semplificare e chiarire. Vogliamo pulire il mercato e dare a ognuno ciò che è ragionevole». E il discorso va allargato al «metodo che si usa in Italia per fare le leggi. Noi ci siamo inventati i contratti parasubordinati, creando poi intorno regole incorporate una nell'altra per definire cosa si può fare e cosa no all'interno di questi contratti, e allora anche i controlli diventano impossibili. Non vogliamo fregare quelli che legittimamente fanno i professionisti, ma non vogliamo permettere all'imprenditore di inquadrare come partita Iva il suo lavoratore, facendogli fare una o due fatture al mese».Jobs Act, effetti della semplificazione della licenziabilità sugli stipendi, rapporto tra decreto Poletti e Jobs Act, primi risultati del decreto poletti sull'apprendistato, associazioni sindacali«Non sono convinto che le cose che stiamo facendo indichino una significativa semplificazione della licenziabilità» esordisce Poletti in risposta a questo blocco di domande: «In più oggi il salario è fissato dai contratti di lavoro, dunque un imprenditore non può fissare il salario a seconda di come va il mercato: il contratto rappresenta un elemento di tutela. Ma se in questo Paese vogliamo avere più lavoro abbiamo bisogno che le aziende scommettano sul futuro e decidano di crescere. E l'Italia purtroppo non è particolarmente amica di chi vuole fare l'imprenditore sul serio» e qui il ministro fa l'esempio della lentezza della giustizia civile: «In Italia funziona al rovescio, chi non paga un fornitore lo guarda e gli dice “cosa fai, mi porti in tribunale?”. Questo è un elemento velenoso del sistema. La confusione che abbiamo nel versante del diritto del lavoro, del fisco, del diritto ambientale porta agli stessi nefasti risultati». La ricetta che propone Poletti è quella di mettere in pratica più velocemente e fedelmente le normative europee: «Siamo in Europa: dunque approviamo le normative europee, le applichiamo subito traducendole in maniera letterale, senza ritardi e cambiamenti come finora invece è stato». Sul tema della sovrapposizione tra lavoro a tempo determinato e tempo indeterminato, Poletti ammette: «Non siamo ancora arrivati a risolvere questo problema. Il tema si pone, lo risolveremo in sede di decreto attuativo. Noi dobbiamo sempre prevedere tutti gli effetti che a lato della norma si provocano: insomma di esodati non ne vogliamo più fare, se si può». Il ministro pensa che «tendenzialmente i due contratti possano essere incrociati. Non totalmente sommabili, ma dovremo trovare un punto di incrocio, dando la possibilità di “traslocare” nel contratto a tutele crescenti dopo qualche periodo di tempo determinato. Costruiremo un meccanismo che sia conveniente sia per il lavoratore sia per l'impresa: non so ancora quale sarà il punto di caduta dell'atto ma la logica sarà questa». Rispetto all'associazionismo, infine, si rammarica: «È un articolo della Costituzione che non è mai stato praticato, per paura che normare questa materia limitasse la libertà. Che ci sia una qualche regola che stabilisca che una organizzazione risponda di quello che fa, a me sembra giusto. ostruire quattro punti cardinali di riferimento»Jobs Act, articolo 18 e pregiudizio ideologico, reintegro, accesso al credito per i precari, confronto con politiche di Francia e altri Paesi europei«Innanzitutto noi non togliamo niente a nessuno» mette le mani avanti il ministro entrando nel vivo della discussione, «dato che chi ha il vecchio contratto se lo tiene. Nel contratto a tutele crescenti che stiamo pensando è vero che c'è un raggio di azione del reintegro effettivamente più ristretto», e questo desta scalpore perché in Italia è piuttosto radicata la convinzione «che solo attraverso il giudizio di un tribunale ci sia la giustizia». Ma il discorso va inquadrato un po' più da lontano, perché se si pensa che una volta perso il lavoro non se ne troverà facilmente un altro, è naturale percepire il diritto al reintegro come fondamentale. Ma se invece cambia l'assetto generale del mercato del lavoro? «Noi in Italia abbiamo una storia di tutele attraverso trasferimenti monetari: se c'è un problema aziendale, stai a casa e io ti dò un po' di soldi per un tot di anni. In Italia gli ammortizzatori sociali costano 24 miliardi di euro, di cui 9 pagati da aziende e lavoratori e 14 pagati dalle tasche degli italiani. Forse é ora di capire che quei 24 miliardi vanno spesi meglio. Dobbiamo uscire dalla logica di pagare la gente per rimanere inattiva, questa situazione è tossica. Noi dobbiamo spingere le persone a uscire fuori, a ricercare una nuova occupazione, rinnovare le proprie competenze. Ci sono persone che restano 8, 10, 12 anni a carico dello Stato. È giusto che ai padri venga garantito questo genere di assistenza, e ai figli no?». Il ministro cita indirettamente la Cgil, facendo riferimento a coloro che chiedono che il sistema resti il medesimo per le vecchie generazioni, e venga esteso anche alle nuove: «Non ci sono fondi per estendere questo sistema; dobbiamo invece riformarlo, secondo criteri di equità ed efficienza». Detto in parole povere, «Se sei disoccupato ti aiuto a campare ma anche a ritrovare una nuova occupazione», oppure un po' meglio: «Dobbiamo fare una operazione di ricostruzione di un meccanismo di ammortizzatori sociali che devono andare verso l'universalizzazione». Scardinando il più possibile il concetto della passività: «Se tu cittadino ricevi qualcosa dalla comunità, devi ridare qualcosa: innanzitutto la disponibilità». Disponibilità a presentarsi al centro per l'impiego, andare a colloqui, corsi di formazione, accettare nuove opportunità di lavoro. E qui il cerchio si chiude: «In un contesto come questo il tema del reintegro perde la sua virulenza, perché chi resta senza lavoro non viene più abbandonato, ha una tutela per quanto riguarda il reddito e una tutela nei termini di ricollocamento al lavoro». Il ministro cita la Germania, un Paese dove il reintegro è previsto: «Lì anche di fronte a una sentenza di reintegro sia l'azienda sia il lavoratore possono rivolgersi a un altro magistrato per far verificare che sussistano le condizioni di fiducia per poter continuare il rapporto di lavoro. Si sono dunque posti il problema della natura del rapporto di collaborazione tra un lavoratore e un datore di lavoro».Poletti passa poi al tema dell'accesso al credito: «Prima o poi bisognerà che le banche si sveglino: se l'80% dei contratti oggi è precario dovranno adeguarsi, o nuovi soggetti arriveranno a soddisfare quella domanda di credito da parte di chi non ha molte garanzie da offrire. Già sono arrivate le banche virtuali, con il conto che non costa. L'innovazione distrugge il vecchio, bisogna inventarsi il nuovo: nel caso delle banche bisognerà che ricostruiscano il sistema finanziario».Garanzia Giovani, riforma del titolo V«Francia e Italia sono i due paesi europei che hanno visto approvato il loro programma a luglio, di solito arriviamo ultimi, invece stavolta siamo stati tra i primi» esordisce Poletti parlando della Garanzia Giovani, il grande programma di matrice europea per l'occupabilità dei giovani senza lavoro che considera molto importante come segnale di attenzione alle nuove generazioni: «Fino a Garanzia Giovani dei ragazzi italiani nessuno si era occupato». E però «noi siamo partiti da una situazione molto complicata perché non abbiamo servizi per l'impiego che funzionano. Siamo partiti facendo una scommessa che ora proviamo a vincere: facciamo il progetto e contemporaneamente costruiamo la macchina per gestirlo. Perché noi la macchina» cioè la rete di servizi all'impiego funzionante su tutto il territorio nazionale «non ce l'avevamo. Ma abbiamo scommesso insieme alle regioni di far partire lo stesso l'iniziativa lo scorso maggio». La Garanzia Giovani stenta però a decollare: «Siamo a 250mila giovani iscritti. C'è chi dice che sono pochi, ma quanti stadi servirebbero per contenerli tutti? Ci accusano di non aver fatto un clicday, e meno male perché poi succedono i disastri coi server. La verità è che Garanzia Giovani oggi ha un problema naturale: abbiamo più iscrizioni nei posti dove abbiamo più disoccupati, che sono proprio i posti dove ci sono meno opportunità. A Milano ci sono più aziende disponibili a far fare uno stage piuttosto che a Catanzaro o a Enna». La sfida insomma è mettere in funzione un sistema funzionante di politiche attive per il lavoro: «Dobbiamo costruire da zero il servizio e le opportunità. Siamo convinti che se riusciamo a far andare in porto questa operazione, stiamo costruendo i nostri nuovi servizi all'impiego». Poletti non nasconde che ci siano Regioni molto indietro con l'implementazione dei servizi di Garanzia Giovani: «Ci stiamo interrogando su cosa fare con lquelle che non stanno facendo quello che dovrebbero, per garantire ai giovani di quei territori lo stesso diritto di “garanzia”». Il problema sono le competenze, che per quanto riguarda la formazione professionale e i servizi all'impiego dalla fine degli anni Novanta sono in capo alle singole Regioni: «Il problema oggi è che a normativa data il potere di intervento è limitato a casi di eclatante gravità. Fino ad ora siamo andati avanti con accordi con le Regioni, ora stiamo pensando a come mettere in atto operazioni di sostituzione. Il primo round ci dice che rischiamo di aprire un conflitto di competenze di fronte alla Corte costituzionale e se ne riparla tra cinque anni. Praticamente la metà del lavoro della Corte costituzionale» aggiunge sconsolato il ministro «è focalizzata sul dirimere contrasti tra stato e regioni». Qualcosa però in futuro potrebbe cambiare: «Sicuramente con il nuovo assetto del titolo V questo aspetto è affrontato, perché ci sono meccanismi molto più dinamici di sostituzione». Per chiudere il ministro snocciola alcuni dati numerici: «Dei 250mila giovani registrati già 60mila hanno fatto i colloqui» ammette che il problema da affrontare di petto adesso «è quello delle opportunità» e si toglie anche qualche saassolino dalla scarpa: «Abbiamo anche il problema di gestire questi progetti in maniera coerente con un impianto burocratico europeo che chiede cose spropositate».La modalità della raffica di domande sembra aver soddisfatto tutti. È quasi mezzanotte, un applauso e tutti a casa.