Giornalisti imprenditori, la nuova frontiera della professione ai tempi della crisi
Raccontare le nuove frontiere del giornalismo: raccontarle oggi, con la crisi, coi giornali che chiudono e i contratti articolo 1 che paiono un miraggio e i pezzi pagati 4 euro ai collaboratori esterni. Raccontare come il giornalismo può assumere la forma della libera professione. Ieri al Circolo della Stampa il Forum permanente sull'informazione di Assisi, di cui faccio parte, ha organizzato un incontro per presentare alcuni modelli imprenditoriali che sono riusciti a emergere negli ultimi anni nel settore della comunicazione - e per raccontare il mondo che ruota intorno a tutti quei giornalisti che non hanno un datore di lavoro alla vecchia maniera, con un contratto di lavoro subordinato e lo stipendio alla fine del mese, ma anziché vivere solo di collaborazioni "standard" si sono inventati qualcosa di speciale.Io ho raccontato la mia esperienza, la nascita della società Ventidue e delle sue testate giornalistiche, concentrandomi sul modello di business della Repubblica degli Stagisti. Un sistema innovativo e unico nel suo genere: una testata giornalistica che da cinque anni basa i suoi introiti non solo sui banner pubblicitari (i cui proventi sarebbero assolutamente insufficienti a garantire una sostenibilità finanziaria del progetto), ma sopratutto sul coinvolgimento attivo di una serie di aziende. Che a fronte di un impegno a comportarsi in maniera "etica" con stagisti e giovani dipendenti e del pagamento di una quota di adesione annuale, hanno uno spazio e alcuni servizi a disposizione sul sito. Un sistema virtuoso, che certamente ha sofferto la crisi - sopratutto nel biennio 2012/2013 - e la conseguente diminuzione delle aziende disponibili a investire in politiche di employer branding e di responsabilità sociale di impresa. Ma che è sempre pronto a intercettare tutto il buono che c'è nell'imprenditoria sana italiana e riversarlo in una attività giornalistica dedicata proprio al tema dell'occupazione giovanile. L'evento di ieri è stata l'occasione per scoprire molti altri modelli eccentrici di giornalismo, lontani dai soliti schemi. Per esempio Maria Chiara Voci ha raccontato di Spazi Inclusi, piccola società torinese nata da «un gruppo di giornalisti che avevano molto lavoro, tanto da non poterlo fare da soli, e che si sono voluti organizzare per evitare che qualcuno venisse travolto dal lavoro e altri stessero senza far niente». Una realtà nata intorno al marchio: «Alcuni di noi avevano già collaborazioni; avevamo inizialmente creato uno studio professionale ma non riusciva a rappresentarci tutti». Così quando è arrivata la possibilità della "srl a un euro" Spazi Inclusi si è trasformata in ssrl: «Non è certamente un percorso finito, tutti i giorni abbiamo problemi e dobbiamo imparare a fare gli imprenditori oltre che i giornalisti, e il service non riesce a sostenersi attraverso la sola fornitura di prodotti giornalistici». Dunque Spazi Inclusi ha da tempo aperto la sua attività anche al fronte aziendale: «Oltre a fornire il pezzo al Sole 24 Ore, ci capitare di produrre anche testi e video destinati al mercato privato». La società conta oggi 10 soci, di cui la metà "lavoratori", intorno a cui gravitano una quindicina di collaboratori. «Adesso per alcuni di noi il service è la maggior fonte di guadagno. Abbiamo un giro d'affari di circa 80mila euro l'anno, chi fra noi prende di più guadagna al mese sui 900-1000 euro: il resto bisogna andare a cercarselo altrove». Anche perché la società ha i suoi costi fissi insopprimibili: «Certo, non abbiamo dovuto versare i 10mila euro di capitale che ci volevano prima, ma comunque una società costa: 1500 euro all'anno per esempio di commercialista, 500 euro di deposito di bilancio». La prossima sfida, «includere dei soci con professionalità diverse dalla nostra», come per esempio dei consulenti di impresa: «Ne abbiamo incontrati alcuni che ci hanno proposto una collaborazione per noi molto interessante. Ci siamo accorti che per fare impresa bisogna avere delle competenze specifiche, mentre noi sappiamo fare bene solo i giornalisti».Il modello cui dichiaratamente guardano i torinesi di Spazi Inclusi è Fps Media, dove FpS sta per "Fuori per servizio", agenzia giornalistica nata nel settembre del 2009. Un gruppo di 10 soci, quasi tutti provenienti dall'ultimo biennio della scuola di giornalismo Ifg di Milano in via Filzi. A raccontarla ieri al Circolo della stampa c'era una delle socie, Natascia Gargano: «Ancor prima di finire la scuola ci eravamo resi conto che non ci sarebbero stati giornali ad assumerci. Eravamo tutti under 30, con qualche stage alle spalle in redazioni varie: l'idea era quella di provare a stare sul mercato con le nostre forze, e che in gruppo saremmo stati più forti che da soli». Forma societaria: la cooperativa, per i costi più contenuti: «Non avevamo soldi da investire, a parte i 600 euro versati da ciascuno di noi e serviti per avviare la struttura. Avevamo però da offrire il nostro lavoro». Oggi si definiscono «un network nazionale» perché oltre alla sede a Milano hanno collaboratori sparsi sul territorio, tra i quali per esempio, in Piemonte, gli stessi giornalisti di Spazi Inclusi: «Questo ci permette di prendere lavori in tutta Italia e anche all'estero, gestiamo anche un premio giornalistico cileno». I dieci soci giornalisti sono contenti e fieri del loro lavoro: «Siamo riusciti a sopravvivere perché siamo diventati giornalisti imprenditori. All'inizio prendevano tutto, anche il lavoretto sottopagato, poi quando ci siamo strutturati abbiamo potuto scegliere e dire anche qualche no, mettere qualche paletto. Abbiamo per esempio scelto di non lavorare per partiti politici: non che ci sia qualcosa di male, ma noi abbiamo preferito non farlo». E si sono dotati di un codice etico: «Anche noi come la Repubblica degli Stagisti pensiamo che il lavoro debba essere pagato dignitosamente, puntualmente e adeguatamente: sia il nostro sia quello dei nostri collaboratori. Siamo una cooperativa a tutti gli effetti, le nostre decisioni sono prese collegialmente, ognuno di noi poi ha una precisa responsabilità rispetto a una squadra di lavoro». I dieci soci si sono "autoassunti" come cococo: «un contratto subordinato sarebbe stato troppo costoso. Abbiamo degli stipendi che vanno dai 1200 ai 1500 euro netti mensili; il nostro obiettivo naturalmente é migliorare la nostra condizione contrattuale e i nostri stipendi». Ma tutto deve essere fatto a tempo debito, senza correre: «Per lungo tempo le entrate sono state risicate. Però la nostra curva é stata sempre ascendente, anche nei momenti peggiori, come nel 2011-2012. Abbiamo chiuso il bilancio del 2013 a 400mila euro, e per il 2014 stimiamo che arriveremo quasi al mezzo milione». Risultato, Fps è diventato «una calamita per professionisti che fanno cose diverse da noi, come video reporter o fotografi». Attraverso queste nuove collaborazioni possono «lavorare meglio, offrendo ai nostri committenti, dalla televisione all'azienda, un pacchetto completo: creare un sito, curare l'attività sui social, abbiamo addirittura creato un telegiornale dal nulla». In platea, il giornalista e sindacalista di lungo corso Edmondo Rho è molto colpito: «Passare da 0 a 400mila euro di fatturato in 5 anni, da giornalista economico lo giudico un ottimo risultato. E anche stipendi medi di 1200-1500 euro netti sono molto al di sopra della media di settore».Poi c'è una storia diversa, quella del progetto multimediale Italiani di Frontiera raccontata sopra le righe dal suo ideatore, Roberto Bonzio: «Dopo 30 anni di disonorata carriera giornalistica - cinque al Gazzettino di Venezia, quindici sanguinosi al giorno e dieci a Reuters - nel 2011 ho deciso di licenziarmi. La decisione l'ho presa dopo aver passato sei mesi con tutta la famiglia in Silicon Valley, a conoscere e raccontare le storie straordinarie di chi venendo dall'Italia ha creato impresa dall'altra parte del mondo». Bonzio cita Renzo Piano - «si va sulla frontiera per capire meglio il posto da cui si è partiti» - e si scaglia contro le «macerie culturali che la mia generazione di giornalisti lascia ai giovani, come la convinzione che non ci sia modo di uscire dalla crisi, o la triste abitudine di gioire della sconfitta altrui, che io ho ribattezzato sindrome del palio di Siena». Italiani di Frontiera è basato sull'innovazione, sul web: «Internet mi ha dato un strumento fondamentale, perché dopo soli tre mesi che ero in Silicon Valley tutti vedevano quello che stavo facendo: il progetto si è costruito una reputazione in tempo reale». Tornato in Italia, e in redazione, è partito un «percorso di autocoscienza su me stesso e su come si fa giornalismo». Così è arrivata la scelta di abbandonare il contratto sicuro e il giornalismo tradizionale: «Nel 2011 ho scommesso sul fatto che su questa cosa avrei campato, e oggi sono contento di averlo fatto. Non bisogna avere paura della novità, bisogna condividere, senza calcolare in ogni momento il proprio guadagno. Non c'è nessun modo come raccontare le storie delle persone per far volare le idee. Sono uno spacciatore di ottimismo: la materia prima di cui c'è più sempre bisogno». Italiani di Frontiera si differenzia rispetto agli altri progetti presentati nella mattinata di ieri anche perché non è dai contenuti giornalistici che proviene il profitto: «Come dire, "la prima dose è gratis": il guadagno non viene da ciò che scrivo, bensì da chi mi invita a realizzare eventi. Quest'anno ne ho già fatti una trentina, e suscitano sempre un incredibile entusiasmo».Un altro aspetto scandagliato nel corso della mattinata è stato l'utilizzo del crowdfunding in ottica giornalistica. A focalizzare questo tema Emanuela Zuccalà: «Anch'io sono una folle, dopo anni da freelance e dopo essere finalmente arrivata a un'assunzione, nel 2011 ho deciso di licenziarmi: non sono pentita della decisione, ma sconsiglio di farla… perché è un bagno di sangue!». Spiega Zuccalà che fino anche solo a un paio d'anni fa il crowdfunding, cioè la raccolta di finanziamenti per un determinato progetto affidata alla folla («crowd») attraverso piccole o grandi donazioni singole («funding»), era «cosa poco nota». E poco frequente era in particolare l'applicazione di questa particolare modalità al giornalismo. «Adesso invece ci sono esperienze molto interessanti. Per esempio è appena partita la raccolta di fondi per il progetto “Io sto con la sposa”, che si prefigge di raccogliere 200mila euro. In due giorni sono già a 12mila: noi per raccoglierne 13mila un anno fa ci mettemmo due mesi!». Una attenzione molto maggiore dunque per questo tipo di iniziative, che ha avuto un caso eclatante con l'ultima edizione del Festival del giornalismo di Perugia: «Sembrava che l'edizione 2014 non si dovesse fare, poi attraverso il crowdfunding gli organizzatori hanno raccolto oltre 100mila euro». Ma le donazioni dei privati possono essere la modalità del giornalismo del futuro? «No. Quantomeno non una via quotidiana, abituale: ha senso solo su documentari, inchieste, reportage fotografici». Giustamente infatti Zuccalà si chiede: «Perché mai i lettori, oltre al prezzo del giornale che acquistano, dovrebbero finanziare una inchiesta?». E cita una esperienza interessante ma controversa del quotidiano “Il giornale”: «Si chiama «Gli occhi della guerra», i giornalisti - collaboratori storici del giornale, firme conosciute ma non dipendenti della testata - aprono sottoscrizioni per farsi finanziare reportage in zone lontane. Questo apre molti interrogativi: non dovrebbe essere l'editore a finanziare questo tipo di lavoro giornalistico? Perché mai dovrebbe essere il lettore a pagare?». A Zuccalà insomma non piace questo sistema: «Bisogna chiedersi se è etico, perché in effetti assomiglia a una specie di ricatto: il messaggio sembra "siccome siamo in crisi, se volete leggere le notizie di Esteri sulle guerre dovete pagare di più"». E comunque «il crowdfunding si può fare una tantum, non “in serie”, altrimenti si perde in credibilità. E non è facile: bisogna già avere una folta rete di contatti, è un lavoro totalizzante». Insomma, una modalità valida anche in campo giornalistico, ma solo «per eventi spot».Ultimo aspetto, il coworking: cioè l'abitudine - sempre più diffusa tra i liberi professionisti, e anche tra i giornalisti freelance - di condividere uno spazio lavorativo per abbattere le spese e creare sinergie. Antonio Armano ha fatto il quadro della situazione: «A volte i freelance sono come agli arresti domiciliari: lavorare da casa presenta molti aspetti critici. Qui a Milano la modalità del coworking sta prendendo piede: ci sono già cinquecento postazioni di cui 24 riconosciute dal Comune. Di solito si tratta di uno spazio con scrivanie, una cucina per poter pranzare e di solito anche una sala riunioni». L'assessorato al Lavoro del Comune di Milano l'anno scorso ha messo a disposizione 300mila euro, di cui 100mila della Camera di commercio, attraverso un bando che é «agli sgoccioli ma ancora aperto», rivolto a liberi professionisti o a startupper. «Sono state ricevute 147 domande, il fondo che riguarda le imprese dispone ancora di qualche fondo perché sono arrivate meno richieste, mentre da parte di liberi professionisti ne sono arrivate 132». Requisiti molto ampi: «Il Comune ha cercato di non mettere troppi paletti, e questo è encomiabile, perché il tentativo è quello di intercettare una realtà per sua stessa natura molto fluida». Per esempio, per accedere al bando bisognerebbe avere una partita Iva, «ma in realtà basta almeno avere l'obiettivo di aprirne una». Vantaggi? «Il coworker riceve fino a 1500 euro all'anno per l'affitto. Il che copre mediamente la metà dei costi, dato che una postazione costa circa 200 euro al mese». Due gli esempi portati da Armano durante il dibattito: «C'è innanzitutto l'esperienza di Avanzi in via Ampere, in zona Città studi: un centinaio di postazioni che costano circa 2700 euro l'anno in una ex fabbrica di televisori. Il gruppo più numeroso è quello degli architetti / designer ma al secondo posto, con il 26%, ci sono i coworkers che si occupano di comunicazione». Il che non vuol dire solo giornalismo ma anche molte altre cose, come la pubblicità: «Per esempio in Avanzi c'è Babel, una piccola società di pr specializzata nell'editoria di libri che ha anche curato per Rcs la promozione delle "Cinquanta sfumature di grigio"». L'altro coworking space milanese citato è quello di via Meda: «Qui ci sono una decina di postazioni. Meda36 parte come società, poi decide di fare il coworking, non per occupare sedie vuote ma per attrarre nuove competenze e metterle in collaborazione e rete». L'invito insomma è quello di candidarsi, se interessati: «Ci sono ancora fondi per questo bando: i giovani, le società piccole, le startup possono ancora fare richiesta».Tra i tanti altri interventi che sono seguiti - da Massimo Zennaro, a capo del sindacato dei giornalisti veneti a Fabio Soffientini, responsabile del settore finanza e del neonato Centro studi dell'Inpgi, fino a Giovanni Matteoli della Casagit - quello che mi ha colpito di più è certamente quello del presidente Fnsi Giovanni Rossi. Perché dopo aver ricordato che vent'anni fa «a Bologna, alla presenza di tutti gli organismi di categoria, facemmo un convegno che aveva come titolo “Giornalista, imprenditore di se stesso”: dunque il tema è presente e discusso da tempo nel sindacato, anche se la verità é che l'attenzione non è stata sempre a livello necessario», Rossi ha dato un aggiornamento sulla collaborazione tra Fnsi e governo Renzi. «Abbiamo avviato una interlocuzione col governo, i nostri referenti sono il ministro del Lavoro Poletti e il sottosegretario con delega all'editoria Lotti. Ci sono 110 milioni di euro, di cui 50 per il 2014, previsti per interventi che dovrebbero servire a creare nuova occupazione dipendente in campo giornalistico». Rossi ha spiegato che c'è una novità rispetto al governo Letta: «Il sottosegretario ha cominciato a pensare a destinare una quota di questo fondo per sostenere le startup attive nel mondo del giornalismo web: i tempi però sono molto stretti per permettere una nostra interlocuzione, perché entro il 6 giugno dovrebbe uscire il decreto coi criteri». La novità nasce «dalla considerazione che il piattaforma tecnologica ha problema dal punto di vista degli introiti pubblicitari, dunque almeno in fase di avvio c'è bisogno di un sostegno». Al termine del suo intervento, ho chiesto pubblicamente a Rossi di far presente al sottosegretario Lotti che l'errore peggiore, se davvero questo decreto dovesse prevedere dei fondi per il sostegno alle testate online, sarebbe quello di limitare tali aiuti alle «startup», cioè a realtà giornalistiche ancora inesistenti o nate da poco, escludendo invece tutte quelle che da anni - come la Repubblica degli Stagisti e Articolo 36 - si fanno in quattro per offrire al pubblico una informazione seria e di qualità, riuscendo contemporaneamente a pagare dignitosamente chi quella informazione la produce con professionalità ed esperienza. Il presidente Fnsi ha preso nota e promesso che lo farà presente a Lotti. Speriamo.Eleonora Voltolina