Dove finisce il lavoro e inizia la vita? Due libri raccontano il lavoro “malato”, e come guarirlo (e guarirci)

Eleonora Voltolina

Eleonora Voltolina

Scritto il 13 Mar 2025 in Approfondimenti

buone occasioni cambiare il mondo del lavoro employer branding Gruppo EY lavoro mondo del lavoro silvia zanella

Ormai da tempo ho l’abitudine di leggere più libri in contemporanea. Di solito sul mio comodino ci sono almeno un saggio e un romanzo: il mio modo, forse, di bilanciare quel che è più serio, tangibile, concreto, “da cui si imparano cose”, con una dimensione di lettura più libera, di fantasia, che lascia briglia sciolta ai pensieri, alle associazioni mentali. A volte i due mondi entrano inaspettatamente in collisione e comunione.

stage lavoro homebodiesÈ quel che mi è successo in questi giorni. Sto leggendo un libro uscito l'estate scorsa di cui avevo visto belle recensioni, ma che inaspettatamente trovo più ostico del previsto: “Homebodies, romanzo d'esordio della giovane newyorkese di origine giamaicana Tembe Denton-Hurst.

Ostico perché la protagonista, Mickey, lavora in un ambiente che definire tossico è un eufemismo. Nel suo ufficio – la redazione di una rivista del settore Beauty – le persone vengono sottoposte a ritmi di lavoro forsennati, un numero infinito di rituali lavorativi insensati e pressoché tutti mirati a creare un ambiente ostile in cui ogni dipendente si senta in competizione con gli altri, in soggezione rispetto ai capi, e in generale sempre in uno stato di gratutidine per il solo fatto di avere il privilegio di poter fare quel lavoro in quell'ambiente così glamour.

In particolare la giovane Mickey prova l’ansia perenne di non performare, di non riuscire a dimostrare il suo valore professionale; si mette addirittura un timer con il conto alla rovescia per cronometrare le sue pause pranzo e non sgarrare di un minuto, e quando viene convocata senza preavviso per riunioni impreviste molla tutto quello che stava facendo e si precipita. Vive nel costante timore di essere licenziata, cosa che accade in effetti nelle prime cinquanta pagine del libro prima a una sua collega e poi a lei, e a tutto questo si aggiunge il fatto che lei e l'altra licenziata sono le uniche due persone di colore che lavorano in quel posto. In ufficio il trattamento a lei riservato è venato di razzismo, per cui le colleghe bianche con il suo stesso tipo di contratto possono però gestire in maniera molto più libera il loro tempo e i loro impegni, mentre lei viene caricata di una mole di lavoro insostenibile e trattata come se non fosse mai abbastanza.

Il principale problema che ho con questo romanzo, che sto continuando a leggere a piccole dosi e che sinceramente non so se finirò (da qualche anno mi concedo il lusso di abbandonare i libri che non mi convincono, cosa che prima mi sembrava un sacrilegio), è proprio questa descrizione tossica del mondo editoriale, e in generale dell’esperienza lavorativa della protagonista. Leggere le disavventure di Mickey, il suo continuo flusso di coscienza, tutti i dubbi e le paranoie che le passano per la mente, è disturbante e angosciante.

stage lavoroTutto questo mi porta all’altro libro che ho letto in questi giorni, e in questo caso anche finito. Si intitolaBasta lavorare così”, sottotitolo: “Come trovare un equilibrio felice tra vita e lavoro”, pubblicato poche settimane fa da Bompiani. Per le bizzarre serendipity delle vita, questo saggio scritto da Silvia Zanella (che nella vita professionale, oltre che autrice, è anche Employer Branding and Employee Experience manager in EY) è proprio una disamina di cosa ci fa stare male al lavoro, degli ambienti professionali insalubri in cui a volte ci troviamo ad agire. E di cosa si può fare, sia dal punto di vista dei dipendenti sia da quello dei manager e dei datori di lavoro, per cambiare la situazione.

La tesi di Zanella è che non sia né sano né lungimirante continuare a lavorare secondo vecchi paradigmi che non permettono alle persone di sentirsi serene al lavoro, in situazioni che in alcuni casi sfociano addirittura nel patologico – come quando ci si imbatte in vicende di mobbing, molestie, discriminazioni – ma che anche nella forma più lieve possono portare comunque le persone a soffrire, somatizzare e patire la propria insoddisfazione per l’ambiente lavorativo nel quale si trovano a operare.

L'autrice peraltro sottolinea quanto i luoghi di lavoro tossici siano anche quelli dove la produttività è minore, e quindi dove l'attività delle persone produce meno valore – e meno denaro – per chi li ha assunti. Quindi gli uffici gestiti male, secondo schemi valoriali ormai obsoleti, con capi che vogliono controllare ogni azione dei loro dipendenti, restii a delegare, incapaci di valorizzare i talenti del loro team, sordi e ciechi di fronte alle persone che hanno di fronte, sono anche i peggiori dal punto di vista del business.

L’incrocio tra la storia raccontata da Denton-Hurst nel suo romanzo e le tante situazioni tratteggiate da Zanella, che da vent’anni lavora nella comunicazione a stretto contatto con la funzione delle risorse umane, ha avuto su di me un impatto imprevisto. Ho pensato: a Mickey farebbe molto bene questo libro; magari grazie a questa lettura troverebbe dentro di sé gli strumenti per reagire di fronte a quel suo posto di lavoro tossico, e gestire meglio il momento sconcertante del suo licenziamento.

Mickey, certo, è un personaggio fittizio, il frutto dell’immaginazione di un'autrice. Non può leggere altri libri oltre a quello di cui è protagonista, né io posso suggerirgliene. Ma le sue disavventure professionali sono assolutamente realistiche, e tragiche. Nel suo saggio Zanella racconta le storie, stavolta vere, di molte altre Mickey, e delle trappole che si trovano ad affrontare nel mondo del lavoro.

Un'interessante riflessione è quella dedicata al tema della differenza tra azienda e famiglia. Troppo spesso si sente dire “Noi qui in azienda siamo come una grande famiglia“, ma si tratta di una frase inadeguata, anche quando viene pronunciata in buona fede, perché porta dentro di sé un seme di pericolo: quello di spingere a gestire i rapporti lavorativi come se fossero rapporti familiari, applicandovi gli stessi schemi strategici e la stessa griglia valoriale – quando in realtà si tratta di due ambienti molto distinti, per i quali vigono regole diverse. Lealtà, fedeltà, tradimento, sincerità, sacrificio si declinano – o quantomeno dovrebbero essere declinati – diversamente se si parla di un partner amoroso o di un partner professionale.

stage lavoro silvia ZanellaUn altro aspetto centrale indagato da Silvia Zanella nel suo saggio è quello che nel romanzo di Tembe Denton-Hurst viene simboleggiato dal cronometro che Mickey imposta per non utilizzare un minuto più dei trenta che si è autoconcessa per le sue pause pranzo – e cioè il tema dei confini tra la vita professionale e quella privata. Confini che sono stati messi a dura prova, specialmente negli anni post-Covid, dall’irrompere delle nuove tecnologie nelle nostre vite.

Il telefono, il computer, le videochiamate, i documenti condivisi, sono tutti strumenti che in un certo senso hanno semplificato e accelerato la nostra routine di lavoro, ma nell’altro hanno anche permesso che sconfinasse nel nostro tempo più privato. Quindi dove sta il giusto limite? Dove dobbiamo mettere il confine? Sono domande su cui  Zanella ragiona in maniera approfondita, focalizzando le sfaccettature di quello che è diventato il tema forse più complesso del mondo del lavoro negli ultimi anni: lo smart working (ho amato l'affondo etimologico sulla differenza tra limen e limes: il primo «frontiera fortificata», il secondo «soglia che è contemporaneamente ingresso e uscita»).

Probabilmente avrei apprezzato il libro di Silvia Zanella anche in un altro momento, ma questa casualità che me lo ha fatto leggere proprio mentre ero alle prese con le disavventure di Mickey in “Homebodies” ha fatto sì che mi toccasse ancora di più. Il lavoro in effetti occupa una parte enorme della nostra vita adulta, specialmente se togliamo le ore dedicate al sonno e consideriamo solo quelle in cui siamo svegli. E allora cercare di non stare male – anzi, di stare il meglio possibile – sul posto di lavoro diventa davvero una priorità assoluta.

Eleonora Voltolina

Community