
Eleonora Voltolina
Scritto il 03 Giu 2025 in Approfondimenti
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In Italia gli stipendi sono bassi. Molto, molto bassi. Anche se siamo un Paese rilevante a livello internazionale, e per esempio facciamo ancora parte del G7 – il forum delle sette nazioni più importanti al mondo per l’industrializzazione, insieme a Canada, Francia, Germania, Giappone, Regno Unito e USA – la verità è che il mercato del lavoro italiano è drammaticamente arretrato, e soprattutto: si guadagna poco.
In Italia c’è scarsa mobilità sociale, scarsa differenziazione nelle retribuzioni rispetto al grado di istruzione o alla complessità delle mansioni. I giovani escono di casa tardi perché non guadagnano abbastanza per mantenersi; e gran parte del benessere e della ricchezza delle famiglie deriva da eredità passate di generazione in generazione e patrimonio immobiliare, il che perpetua le diseguaglianze.
Lavorare in Italia non è molto appagante dal punto di vista retributivo, e infatti molti italiani espatriano verso Paesi con mercati del lavoro più floridi. Non è certo l’unica delle motivazioni, la retribuzione, ma certamente è una delle più rilevanti: si cercano all’estero stipendi più alti, che permettano un tenore di vita migliore.Ma perché in Italia si guadagna così poco? A questa domanda provano a rispondere Andrea Garnero, economista dell’Ocse di stanza a Parigi, e Roberto Mania, giornalista che nella sua carriera si è occupato molto di sindacato e relazioni industriali. I due, diversi per formazione, professione e anche per età – il primo ha 39 anni, il secondo 65 – ma molto in sintonia sui temi di fondo, tratteggiano la risposta in un libricino appena pubblicato dalla casa editrice Egea, La questione salariale, poco più di 100 pagine costruite come un dialogo (con tanto di due font diversi per caratterizzare gli interventi di ciascuno degli autori) che ricostruiscono gli ultimi decenni di storia economica italiana e i molti fattori che hanno contribuito a creare la situazione attuale.
Già dalla prima pagina si capisce che i due non indoreranno la pillola: «I redditi dei lavoratori dipendenti a parità di potere d’acquisto sono scesi del 3,4% rispetto al 1991» si legge nell’introduzione: «Una frenata così non si è vista in nessuna delle altre economie sviluppate». Più avanti nel libro il gap tra l’Italia e gli altri Paesi è definito come «davvero clamoroso». I ragionamenti spaziano da come l’Italia ha gestito (male) le novità della globalizzazione, alle politiche industriali italiane a confronto con quelle di altri Paesi industrializzati, fino alle caratteristiche del capitalismo italiano, da sempre afflitto da nanismo d’impresa, scarsa propensione alla innovazione, e ancor più scarsa capacità di investire in risorse umane.
Un grande errore tutto italiano è stato quello di mettersi a competere non con la fascia alta delle produzioni industriali internazionali, bensì con quella bassa: con il risultato di ritrovarsi ad avere solo il fattore lavoro come leva su cui agire per ridurre i costi di produzione. Ed è questo che progressivamente ha portato l’Italia a sganciarsi dalle altre economie che trainano il mondo occidentale, e a caratterizzarsi sempre di più come un Paese in cui i lavoratori vengono pagati poco.
Un circolo vizioso in cui, come scrive Mania, «da una parte, i salari non crescono perché siamo poco competitivi e la produttività stagna. Ma senza pressione dal lato dei salari, anche gli incentivi a investire in nuove tecnologie, formazione, nuovi prodotti e processi sono pochi. Si prova a vivacchiare». Questa tendenza ad accontentarsi e appunto a «vivacchiare», cercando di arrivare al giorno dopo senza una vera strategia di medio-lungo periodo, è forse la critica più forte che nel libro viene mossa al sistema Paese – aziende private come pubblica amministrazione.
«Siamo sempre sufficientemente benestanti eppure la povertà cresce, anche quando si lavora: circa il 10% di chi ha un impiego si trova in condizioni di povertà. Non era così nel secolo scorso. Era povero chi non lavorava» . Le ricadute di questa povertà perlopiù invisibile si perpetueranno nei decenni a venire: «Non è un problema solo per i lavoratori di oggi ma anche per i pensionati di domani. Un lavoratore povero sarà con buona probabilità un pensionato povero». Inoltre, soltanto «il 9% dei dipendenti era sopra i 40mila euro lordi annui nel 2021» ricorda a un certo punto Andrea Garnero: solo un italiano su dieci guadagna cioè più di 3mila euro al mese.
O meglio: solo un italiano su dieci tra coloro che hanno un lavoro dipendente guadagna più di 3mila euro al mese. Perché quando si parla di retribuzioni c’è sempre da considerare il divario tra quelle dei dipendenti, cioè dei lavoratori assunti con contratto subordinato o parasubordinato, che difficilmente riescono a celare il loro guadagno (tranne chiaramente le somme “fuori busta” quando il datore vuole pagare una quota contributiva più bassa e il lavoratore accetta di ricevere una parte dello stipendio in nero), e quelle dei lavoratori autonomi – cioè tutti coloro che non hanno una busta paga fissa e che possono decidere se e quanto fatturare, “dichiarando” e rendendo quindi tassabili i loro redditi.
E i sindacati, cos'hanno cercato di preservare nel corso degli ultimi decenni? E sopratutto, come lo hanno fatto? Spesso, riflettono gli autori, hanno semplicemente scaricato sui nuovi entranti le condizioni contrattuali e retributive più precarie e insoddisfacenti, pur di mantenere i livelli contrattuali e salariali per chi era già nel mondo del lavoro. Ma attenzione, non si pensi che il libro sia un pamphlet dedicato esclusivamente ai dolori dei giovani precari. «La questione salariale non riguarda solo chi guadagna poco con un contratto part-time o di poche settimane. Riguarda anche chi nel nostro Paese ricopre posizioni di livello medio e alto. E questo ne fa davvero una questione nazionale e in parte spiega la fuga di cervelli in altri paesi» scrive Mania. La situazione è aggravata anche dal calo della natalità, presente ovunque ma particolarmente spiccato in Italia, perché meno nascite vuol dire meno giovani, e meno giovani vuol dire meno persone che anno dopo anno si riversano nel mercato del lavoro, fornendo nuova linfa e contribuendo anche alla tenuta del sistema previdenziale.
Inevitabile che l’ultimo capitolo sia dedicato al tema del salario minimo, del quale Andrea Garnero si occupa da oltre un decennio – qui le interviste che la Repubblica degli Stagisti gli ha fatto proprio a questo proposito nel 2014 (“Salario minimo, non è la bacchetta magica ma evita gli stipendi da fame”) e nel 2019 (“Il Cnel cancella il salario minimo dal suo rapporto: perché fa così paura?”). Il pensiero di Garnero è rimasto coerente negli anni: pur non essendo la panacea né la soluzione a tutti mali, il salario minimo sarebbe comunque più che utile anche in Italia.
I numerosi timori dei detrattori del salario minimo vengono presi in considerazione e smontati nelle ultime pagine del libro, anche se gli autori non negano che portare in Italia una misura come questa sia particolarmente complesso. Bisognerebbe trovare un minimo di consenso politico al di fuori delle boutade populiste ormai pressoché permanenti, e istituire una commissione ad hoc per determinare il valore orario del salario minimo in modo che non depotenzi i contratti nazionali e non si trasformi in un boomerang per i potenziali beneficiari.
«La previsione che mi sento di fare è che il salario minimo arriverà anche in Italia, è solo una questione – ed è giusto che sia così – di far maturare adeguatamente il processo» chiude Garnero, citando le esperienze positive di Germania e Regno Unito, con la proposta di cominciare magari da una forma sperimentale di salario minimo «in un numero limitato di settori, caratterizzati da maggiore criticità», anziché entrare a gamba tesa subito con una misura che riguarderebbe universalmente il mercato del lavoro italiano.
Il fatto che l’Italia occupi una posizione così di retroguardia tra i grandi Paesi industrializzati del mondo, e che sembri da decenni paralizzata e incapace di rendere più florido il suo mercato del lavoro e più generose le condizioni retributive dei suoi lavoratori, è un problema che non si può più tardare ad affrontare di petto.
Qui su Radio Radicale la registrazione integrale di una presentazione del libro avvenuta poche settimane fa a Roma, organizzata dall'Arel, con la presenza tra gli altri dell'ex premier Enrico Letta, dell'ex ministra del Lavoro Elsa Fornero e dell'ex viceministro del Lavoro Michel Martone
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