Categoria: Interviste

Post-laurea: le 10 regole per scegliere il master giusto

Scegliere il master giusto è spesso un'impresa. Le proposte sul mercato sono centinaia, gli strumenti a disposizione per orientarsi scarsissimi e il prezzo da pagare decisamente alto. Tanto più se si sbaglia percorso o ente formativo. Per non incorrere in spiacevoli errori La Repubblica degli Stagisti ha messo a punto un piccolo vademecum con 10 semplici consigli di cui tener conto al momento della fatidica scelta. Realizzato grazie anche ai consigli di un esperto del settore: Mauro Meda (nella foto), segretario generale di Asfor - associazione per la formazione manageriale - un ente che si occupa di certificare la qualità dei master attivati  nell'ambito del management aziendale. Classe 1959, in questo campo Meda ha svolto sia attività di docenza universitaria che di consulenza alle imprese, collaborando tra l'altro con l'assessorato alle Attività produttive e Affari generali della Lombardia. Ma cos'è Asfor? Fatta eccezione per alcuni ordini e associazioni professionali che selezionano in prima persona la formazione degli iscritti, si tratta del solo ente a cui può oggi rivolgersi l'organizzazione di un master (in management) per farsi accreditare sulla base di un processo standardizzato e riconosciuto a livello internazionale. Distinguendosi in questo modo da offerte apparentemente simili e dando così agli utenti precise garanzie in termini di affidabilità e di occupabilità. Basti pensare che a sei mesi dalla conclusione del percorso, i master così certificati si impegnano a garantire un contratto di lavoro (attenzione, non basta uno stage) ad almeno l'80% dei frequentanti. Purtroppo la prassi dell'accreditamento non ha sinora trovato altri imitatori in Italia, dove il mercato del post-laurea è lasciato in balia delle leggi della domanda e dell'offerta, affidando l'onere della selezione ai soli utenti finali. Il know how accumulato da Asfor e dal suo segretario generale offre dunque alcuni parametri utili per valutare la qualità di un corso, utilizzabili all'occorrenza come una sorta di test preliminare da porre all'ente formativo prescelto prima di versare la relativa quota di iscrizione: sia esso un'università che un soggetto privato. 1) Precedenti edizioni: può essere un primo parametro di valutazione. Asfor accredita ad esempio master che abbiano alle spalle almeno tre anni di attività, durante i quali «i fruitori hanno già avuto modo di valutare la qualità del prodotto» spiega il segretario. «Ma è anche un tempo congruo per l'ente formativo a sviluppare le necessarie relazioni con il sistema delle imprese».2) Il rapporto con il tessuto produttivo è infatti un aspetto determinante per valutare gli sbocchi occupazionali offerti da un corso. Per questo può essere importante ad esempio capire se la scuola ha alle spalle un'associazione di industriali o un gruppo di imprese che possano facilitare il successivo passaggio al lavoro. In ogni caso l'organizzazione non può limitarsi a stabilire una serie di convenzioni con un certo numero di imprese disposte semplicemente ad "ospitare" tirocinanti. «Nelle migliori esperienze le aziende sono coinvolte nella fase di progettazione del master, spesso anche in interventi in aula e quindi nella definizione del progetto di stage». Occhio anche a verificare che le stesse imprese non abbiano assunto impegni con più master contemporaneamente: in questi casi è infatti possibile che, sotto le molteplici pressioni delle organizzazioni, le aziende finiscano per accettare un numero di tirocinanti superiore a quello che sono effettivamente in grado di formare - ed eventualmente inserire.3) Lo stage, si sa, è una delle spinte principali per quanti decidono di intraprendere un post laurea. Ma anche qui attenzione: perché oltre ad avere alle spalle un solido progetto formativo e un tutoraggio adeguato, «il master non può e non deve esaurirsi nello stage» chiarisce Meda. È invece auspicabile che esista un giusto equilibrio tra attività di insegnamento e di tirocinio, che per i corsi in general management Asfor ha stabilito ad esempio in almeno 600 ore effettive di aula più 600 in azienda. 4) La selezione degli studenti è un'altra garanzia importante, considerato che nella gran parte dei casi il master è un percorso di specializzazione e che, come tale, deve effettuare sugli aspiranti allievi una verifica rispetto formazione preliminare, o quantomeno sondare le potenzialità del candidato. Qualora ciò non sia richiesto, o non adeguatamente accertato, è ben possibile che il vero obiettivo degli organizzatori sia semplicemente quello di fare cassa con le rette degli studenti. Il problema in questo caso è che praticamente tutti i master dichiarano sulla carta di effettuare una selezione: per essere certi bisognerebbe allora riuscire a sapere il numero di candidature pervenute per le precedenti edizioni e confrontarle con il numero effettivo dei frequentanti.5) Chiarezza degli obiettivi: oltre a specificare il tipo di utenti a cui è rivolto, il master deve offrire massima trasparenza sulle finalità, sui contenuti e sulle metodologie di insegnamento adottate, «che in nessun caso possono essere una mera riproposizione dell'esperienza universitaria».   6) Docenti: non solo preparati e capaci di trasferire le proprie competenze. Un'organizzazione seria dovrebbe anche potersi avvalere di un corpo docente stabile nel tempo, intorno al quale è poi auspicabile che ruotino una serie di altri esperti. «È bene non lasciarsi abbagliare dal grande nome che magari interviene solo alla lezione inaugurale» è il consiglio di Meda. Da non sottovalutare anche la presenza di un tutor, ovvero di uno o più coordinatori (7) all'interno del corso: «un'interfaccia importante con la direzione, nonché figure incaricate di  facilitare il processo di apprendimento degli studenti».  8) Costo: se è vero che un buon corso non può scendere al di sotto di una certa soglia di prezzo, un costo elevato non è di per sé garanzia di qualità. Tra i master certificati Asfor si trovano ad esempio offerte che variano dai 5 ai 20mila euro. In tal senso la possibilità di ottenere una borsa di studio o anche un prestito d'onore (9) è non solo un'opportunità di risparmio, ma anche una garanzia ulteriore circa la serietà e l'impegno degli organizzatori. 10) Placement: la percentuale di corsisti che dopo il master ha ottenuto un "vero" contratto di lavoro è una delle domande a cui una scuola deve saper rispondere senza ambiguità. La brutta abitudine di includere nel placement anche i corsisti che hanno ottenuto uno stage, o una proroga dello stesso, può infatti gonfiare a dismisura le aspettative sul post-master. «Un buona direzione metterà il frequentante prima nella condizione di realizzare una valida esperienza di stage e poi di fare dei colloqui di selezione». Per posti di lavoro veri. Fermo restando «che i master non devono essere scambiati per agenzie di collocamento e che il livello di partecipazione del candidato resta sempre un elemento determinate», precisa Meda.Neppure il master più accreditato può insomma garantire a priori la certezza di un posto di lavoro e alla fine del percorso a pesare sarà anche la motivazione che ha spinto il candidato a compiere una determinata scelta formativa. Sul punto il consiglio dell'esperto è chiarissimo: nella decisione di frequentare un master mai lasciarsi guidare semplicemente dalla difficoltà di trovare un'occupazione.  Ilaria Costantini Per saperne di più su questo argomento: - Post-laurea: e se la bolla dei master stesse per sgonfiarsi? - Giornalisti a tutti i costi, il business dei mille corsi - Università come agenzie per il lavoro a costo zero: una deriva da scongiurare

Occupazione femminile, Alessia Mosca: «Buoni spunti nella riforma, ma si può fare di più»

In Italia la percentuale di donne attive  secondo Eurostat è il 46,1% della popolazione in età lavorativa: un dato in costante calo a causa della crisi. Siamo agli ultimi posti nelle classifiche europee che riguardano donne e lavoro: quasi il 48% della popolazione femminile è inattiva. Si tratta di donne uscite dal mercato del lavoro per inconciliabilità con la vita familiare e – soprattutto tra le più giovani - delle cosiddette neet, che un lavoro non l’hanno ancora mai cercato, o hanno smesso di farlo. In attesa della conclusione dell’iter normativo cui è sottoposto il ddl Fornero, la Repubblica degli Stagisti ha chiesto ad Alessia Mosca, 37enne monzese deputata del Partito Democratico e segretario della commissione Lavoro della Camera, esperta di pari opportunità e politiche di genere, quali iniziative siano nell’agenda politica per rilanciare lo sviluppo del paese attraverso un rilancio del lavoro femminile. Onorevole Mosca, secondo l'Istat in Italia ci sono poco più di 900mila donne disoccupate. Il dato è attendibile?Le analisi dell’Istat hanno un valore indiscutibile, ma lasciano fuori da ogni previsione statistica le donne che un lavoro non lo cercano più. I dati si basano sulla rilevazione del numero di disoccupati iscritti ai centri per l'impiego: tuttavia incrociando i risultati di diverse elaborazioni è possibile verificare un trend in decrescita del coinvolgimento delle donne, rispetto agli anni passati in cui si era registrato un leggero miglioramento.Il «decreto salva Italia» prevedeva degli sgravi fiscali consistenti in una maggiore deduzione Irap per l'assunzione a tempo indeterminato di giovani under 35 e donne. Lo sconto Irap é una misura efficace? Sono già disponibili dati che ne misurino la validità? Non ci sono ancora dati né sull'utilizzo di questa misura né sulla valutazione del suo impatto. Penso però che sia stato molto importante come segnale che in quel decreto, che fu giudicato da tutti "lacrime e sangue" perché conteneva  tagli e austerità, le uniche misure di crescita fossero riservate alle donne e ai giovani. In ogni caso lo sconto sull'Irap non può essere sufficiente: è necessario che anche la riforma del lavoro consideri la drammaticità del dato riguardante la disoccupazione delle giovani donne in un approccio più ampio che tenga conto delle loro esigenze reali.E in un approccio più ampio sembra spingersi la proposta che il  disegno di legge Fornero  prevede all’articolo 53 comma 4: forti sgravi contributivi – fino a quasi il 50% - per i datori di lavoro che a partire dal 1° gennaio 2013 decideranno di assumere donne disoccupate da almeno sei mesi. Cosa pensa di questo incentivo? Lo ritengo molto importante perché è rivolto alla categoria di lavoratori più penalizzati dall’attuale stato di crisi. Tuttavia, se devo fare un appunto a questa riforma, avrei sperato che si approfondissero - e mi auguro se ne tenga conto negli emendamenti che saranno proposti - nuove formule di incentivo all’utilizzo del part-time e nuove strategie di organizzazione aziendale come il lavoro per obbiettivi: tutte iniziative a costo zero dirette verso quella flessibilità richiesta dalle donne lavoratrici, spesso impegnate a far fronte agli oneri di cura della famiglia, che in Italia gravano principalmente su di loro. Ogni iniziativa che sia in grado di far superare la disparità uomo-donna non può che essere giudicata e accolta positivamente. Per consentire alle aziende la fruizione di queste riduzioni contributive è necessario che la neo-assunta sia regolarmente iscritta presso un centro per l’impiego che ne abbia certificato lo stato di disoccupazione. Dall’articolo 53 sarebbero escluse, ancora una volta, le tante donne non iscritte al cpi o che hanno smesso di cercare un lavoro. Crede che questi vincoli siano utili? Tali vincoli sono necessari per evitare comportamenti distorsivi e irregolari: gli abusi insomma. C’è bisogno di porre alcune regole per una chiara individuazione della platea cui questi incentivi vogliono essere indirizzati. È evidente che quando si fanno misure di questo genere bisogna valutare le norme nella loro applicazione pratica, monitorarle per capire che impatto e quali effetti hanno avuto anche solo dopo sei mesi, un anno dalla loro attuazione. In Italia purtroppo si fanno le leggi e poi non si segue quale risvolto pratico abbiano sulla vita dei cittadini: e così spesso non ci si accorge che molte norme non produco gli effetti per i quali erano nate. Insomma, se il ddl non richiedesse l'iscrizione da almeno sei mesi al centro per l'impiego, potrebbero svilupparsi comportamenti irregolari nell’accesso all’incentivo? Non dò per scontato che i comportamenti irregolari sarebbero più numerosi di quelli regolari. Però credo che questi vincoli serviranno a individuare una platea di  destinatarie su cui lavorare. Allora, se è corretto che a beneficiare di questa agevolazione siano esclusivamente le donne disoccupate, per le inoccupate e le neet quali misure potrebbero essere attuate? Le donne inattive di solito lasciano il lavoro perché non hanno le condizioni per poterlo mantenere, soprattutto quando hanno bisogno di organizzare il loro tempo in modo più flessibile e favorevole agli impegni familiari. Per evitare che queste ex lavoratrici restino per sempre inattive è importante ristrutturare il mercato del lavoro: queste donne reclamano qualcosa di diverso dal fatto di essere «convenienti» per il datore di lavoro, chiedono di avere delle condizioni per poter lavorare secondo le loro esigenze. Così si recupererebbero molte delle attuali donne inattive, senza dover inventare modalità di iscrizione speciali ai cpi. Un’altra strada percorribile per far entrare nel mondo del lavoro le neet è consentire loro di inventarsi nuove professioni: la legge 215/1992 che regolava le azioni positive per favorire l’imprenditoria femminile risultò molto valida e i dati che emersero risultarono molto incoraggianti. Tornando al ddl Fornero, in particolare all’articolo sul fenomeno delle dimissioni in bianco. Sul portale InGenere la sindacalista ed ex parlamentare Titti Di Salvo ha sottolineato che nella riforma del lavoro si corregge l'eventuale abuso della firma in bianco, ma non lo si previene come invece faceva la legge 188/2007 che vincolava le dimissioni volontarie alla compilazione di un modulo legato a un codice alfanumerico progressivo non retrodatabile. Che ne pensa? Penso che su questo argomento si debba lavorare: ci sono alcuni punti della riforma Fornero che necessitano di revisioni. La procedura descritta nell’articolo 55 deve essere più facile, meno burocratica; le lavoratrici sono la parte più debole in questi casi e i loro diritti vanno tutelati in modo chiaro e inequivocabile. Crede sia riproponibile il modulo d'identificazione non retrodatabile? State lavorando a qualcosa di simile? C’è bisogno di tutelare maggiormente le donne ed è necessario che le garanzie siano chiare. In Parlamento abbiamo lavorato ad una formula via internet, molto semplice, che non lascia spazio ad alcun dubbio interpretativo: l'utilizzo delle nuove tecnologie consente di rendere una pratica amministrativa più facile e immediata. Se si vuole andare verso una deburocratizzazione non si capisce perché, nella revisione della riforma del lavoro, non possano essere contemplati anche ammodernamenti tecnologici di comunicazione con la pubblica amministrazione. Ancora sulle dimissioni in bianco, Di Salvo denuncia che in caso di abuso, nell’ultima formulazione del ddl, la sanzione si è trasformata in una semplice multa. Secondo lei questo è un deterrente sufficiente contro tali pratiche? No, credo si debba essere più rigidi: é importante che ci sia una sanzione chiara e pesante. Anche sull’introduzione obbligatoria di quote rosa nei cda e nelle società a controllo pubblico - la legge su cui ho lavorato di più -  ci siamo molto battuti sulla questione della sanzione perché abbiamo riscontrato che in alcuni casi sembra preferibile, da parte dei datori di lavoro, pagare una multa invece che sostenere gli oneri derivanti da un’assunzione. Se si vuole veramente colpire questo fenomeno, talmente meschino, è necessario che siano le sanzioni a disincentivare tali comportamenti. La bozza di riforma tocca anche la tutela della maternità, prevedendo due misure innovative: l’introduzione del congedo di paternità obbligatoria e i voucher per il pagamento della baby-sitter. Per quanto riguarda il primo punto, lei aveva presentato già nel 2009 una proposta di legge in cui proponeva quattro giorni obbligatori di congedo per i papà, pagati al 100% della retribuzione e altri quindici giorni facoltativi remunerati al 80%. Nel ddl sono previsti solo tre giorni, dei quali due in sostituzione della madre e uno in aggiunta. Basterà? Sì. Anche se sembra poco, sono comunque molto d’accordo con quanto previsto dal disegno di legge Fornero poiché è importante introdurre una misura simbolica di obbligatorietà per il congedo paterno: è un primo passo per modificare un’attitudine culturale sfavorevole alle donne. Guardiamo al Portogallo: lì è stata introdotta una misura del genere già nel 2002. E da allora ad oggi i padri che hanno usufruito del congedo facoltativo, a seguito di quello obbligatorio di pochi giorni, sono passati da una percentuale del 2% al 22%. Sono quindi favorevole e sostengo in pieno anche sono solo due giorni di congedo. Dopo di che è chiaro che bisogna lavorare anche per fare in modo che i padri siano sempre più coinvolti e che quindi l'onere della nascita di un figlio non ricada sempre solo sulla madre. Cosa proporrà il Pd in Parlamento per migliorare il testo del disegno di legge Fornero? Ci concentreremo molto sullo studio di nuove opportunità di organizzazione del lavoro che realizzino una flessibilità, in termini di orari, in grado di andare in contro alle esigenze espresse dalle donne lavoratrici. E vigileremo affinché le nuove disposizioni normative siano supportate da adeguati budget. Eleonora Voltolinacon la collaborazione di Lorenza Margherita[la foto di Alessia Mosca è di @Luca Pradella]Per saperne di più su questo argomento, leggi anche: - Dar voce ai giovani, dar voce alle donne: l'impegno della Repubblica degli Stagisti- Riforma Fornero, nuovi incentivi all’occupazione femminile: ecco chi potrebbe beneficiarne e come - Più spazio in politica alle istanze delle nuove generazioni: ma come?

Pratica forense, all'Avvocatura ancora gratis. Per colpa di un comma

Nel 2010 l'Inps era finita nell'occhio del ciclone, con tanto di interrogazione parlamentare, perchè la Repubblica degli Stagisti aveva messo in evidenza che per i praticantati svolti al suo interno da giovani neolaureati in giurisprudenza non prevedeva alcun compenso. E questo in contraddizione con il codice deontologico forense. La pratica del tirocinio professionale non retribuito, in effetti, coinvolgeva e coinvolge non solo l'Inps ma molti enti pubblici: lo stesso istituto di previdenza infatti si era giustificato dicendo di aver ispirato e uniformato la sua policy a quella dell'Avvocatura dello Stato. In questo contesto, all'inizio del 2012 è stato finalmente sancito per legge (nel cosiddetto decreto liberalizzazioni) l'obbligo a erogare, dopo i primi 6 mesi, un compenso forfettariamente concordato a tutti praticanti: la norma non distingue tra avvocature di enti pubblici e studi professionali privati. L'Inps, a tempo di record, ha annunciato di volersi adeguare e di aver già emanato una circolare prevedendo di dare d'ora in poi un rimborso tra i 300 e i 450 euro ai suoi praticanti. E l'Avvocatura? La Repubblica degli Stagisti ha chiesto lumi all'avvocato dello Stato Massimo Salvatorelli. Romano, classe 1956, già coordinatore della V° sezione dell'Avvocatura Generale, Salvatorelli è attualmente componente del comitato consultivo dell’Avvocatura e fa parte della segreteria particolare dell’Avvocato Generale.     Finora l'Avvocatura dello Stato non ha erogato alcun compenso ai giovani praticanti avvocati in forza presso le sue sedi, scegliendo di non ottemperare all'articolo 26 del codice deontologico forense che prevede l'obbligo di corrispondere «un compenso proporzionato all’apporto professionale ricevuto». Perché? Non è una scelta nostra: il punto è che noi non abbiamo nessun rapporto con quel codice deontologico, perché siamo una cosa diversa dal Foro. L'avvocato dello Stato non è un libero professionista, non lavora in un'organizzazione a scopo di lucro, non fattura nulla ai propri clienti. Che sono peraltro clienti molto particolari: le amministrazioni statali. Gli avvocati dello Stato non sono nemmeno iscritti all'albo professionale: chi vince il concorso ed entra qui dentro si deve cancellare. Questo dunque è il motivo per il quale voi non siete sottoposti al Codice deontologico forense…Perché noi facciamo un altro mestiere. Abbiamo un vincolo di patrocinio: non possiamo patrocinare altri soggetti diversi da quelli che sono patrocinati dall'Avvocatura dello Stato. Abbiamo un nostro codice deontologico, ma sono norme statali che regolano la nostra attività e più in generale l'attività dei pubblici funzionari. Rispondiamo alla Corte dei conti della nostra attività, non a un consiglio di disciplina forense. Questa condizione è esclusiva degli avvocati dello Stato o per esempio anche gli avvocati dell'Inps, dell'Inail e di altri enti pubblici hanno questo obbligo di disiscriversi?Un tertium genus. Gli avvocati di alcuni enti sono iscritti a un albo speciale tenuto dal Consiglio dell'Ordine, in cui sono iscritte delle persone che possono patrocinare solo determinati soggetti, e non all'albo generale. Chi è iscritto all'albo speciale è comunque soggetto al Codice deontologico?Direi di sì, perché esso dipende sempre dal Consiglio dell'Ordine.Quindi ecco spiegato perché l'Avvocatura non è tenuta a rispettare l'articolo 26. A questo punto spieghiamo da dove deriva la decisione di non erogare un compenso ai praticanti. Dalla mancanza di denaro? Sì. In passato si è parlato tante volte della possibilità di riconoscere qualcosa ai praticanti, ma il ministero delle Finanze non ha mai reperito i fondi. Sappiamo che esistono enti pubblici che danno un compenso: hanno un loro bilancio autonomo, e hanno inserito una voce apposita. Noi non abbiamo questa possibilità: anzi se facessimo una cosa del genere forse commetteremmo addirittura un reato, perché si tratterebbe di distogliere soldi che in bilancio hanno una certa destinazione per una destinazione diversa.Ma siccome il bilancio si fa ogni anno si può prevedere da un certo punto in poi una voce apposita, no?In astratto è certamente possibile, anzi a titolo personale direi perfino auspicabile. Però non dipende da noi, bensì dalla Ragioneria dello Stato. E non costerebbe poco. Con la conversione in legge del decreto liberalizzazioni è diventato operativo anche l'articolo 9, che al comma 4 prevede che al tirocinante debba essere «riconosciuto un rimborso spese forfettariamente concordato dopo i primi sei mesi di tirocinio». L'Avvocatura intende adeguarsi?No. Perché leggendo tutta la norma, al comma 8 si legge che «dall'attuazione del presente articolo non devono derivare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica». Secondo la vostra interpretazione cioè questa riga vi esonera dal dovere di dar seguito al comma 4?Certamente. Tutte le amministrazioni pubbliche saranno esonerate perché c'è scritto che non ci dovranno essere maggiori oneri?La norma parla che non devono derivare «nuovi» oneri. Chi invece avesse già una voce di bilancio che lo prevede, sarebbe tenuto a seguirla.Quindi per chi ha ad oggi una voce di bilancio che lo prevede, il compenso diventa obbligatorio; chi non ce l'ha, non lo può mettere.Certo. Stiamo parlando sempre di danaro pubblico, quindi con dei vincoli. L'avvocato del libero Foro può fare dei suoi soldi quello che desidera, noi no. Ma l'Avvocatura non potrebbe tagliare su qualcosa per mettere risorse sui rimborsi? Sì, si potrebbero distogliere soldi da una parte e metterli da un'altra. Ma comunque non potremmo farlo noi di nostra iniziativa: è il Parlamento che approva la legge di bilancio. Bisognerebbe introdurre una voce per il «compenso per l'attività dei praticanti», per esempio. Considerando che all'interno dell'Avvocatura in tutta Italia ci sono circa 300 praticanti, se prevedessimo di dare 500 euro al mese per tutti i 18 mesi, la misura costerebbe 2 milioni 700mila euro.Quindi al momento avete 300 praticanti in servizio all'Avvocatura dello Stato?Intanto non bisogna utilizzare mai la parola "in servizio", perché il servizio è quello del dipendente! Queste persone non entrano in nessun ruolo e non hanno nessuna qualifica. Non sono in servizio. Hanno molta libertà rispetto a quella dei praticanti presso gli avvocati del libero Foro, che spesso lavorano come dei dipendenti. Da noi il praticante non viene utilizzato per attività istituzionali, perché ci sono persone che sono pagate per svolgerle. Il praticante studia, segue l'avvocato, va in udienza con lui. Prepara gli atti, i pareri. Certamente vede poi com'è fatta una cancelleria - insomma fa tutto quello serve per soddisfare il requisito della compiuta pratica. Per quanto riguarda i numeri c'è un decreto dell'avvocato generale che fissa per tutte le Avvocature il tetto massimo "tanti avvocati quanti praticanti". Il numero degli avvocati dello Stato in servizio in questo momento è attorno ai 330, di cui una novantina a Roma. Per accogliere i praticanti facciamo una leva più o meno ogni quattro mesi, tre all'anno. In questo momento nella sede di Roma ci sono circa 90 praticanti: nelle altre Avvocature distrettuali non posso saperlo con precisione, perché ciascuna gestisce i suoi autonomamente. Quante candidature ricevete? Nel 2011 abbiamo avuto 210 richieste qui a Roma. Facendo una media degli ultimi anni, siamo intorno alle 200-250; quest'anno alla prima selezione abbiamo avuto 67 risposte. Consideri che qui il praticante fa un tipo di esperienza in parte diversa da quella del libero Foro: l'Avvocatura permette di vedere il funzionamento dell'amministrazione dall'interno. E poi si fa tutto: costituzionale, comunitario, amministrativo, penale, civile - mentre spesso negli studi privati si fa solo quello che fa lo studio. Inoltre la compiuta pratica presso l'Avvocatura, come prevede una norma di legge, costituisce titolo preferenziale a parità nei concorsi in Avvocatura. Ah, questa è una cosa molto importante.Infatti. Non ci sono concorsi riservati, e beninteso il praticante è un concorrente come gli altri. Però a parità di graduatoria in concorso, da noi il primo titolo di preferenza è quello di avere compiuto la pratica qui dentro. Lei dice che degli enti pubblici che danno un rimborso ai propri praticanti alcuni richiedono poi prestazioni lavorative, addirittura con orari di lavoro. Ma lavorano molto anche quando non vengono pagati. L'Inps per esempio, che finora non ha previsto un rimborso, li utilizza come e più di uno studio privato, con l'aperto obiettivo di smaltire le sue centinaia di migliaia di cause pendenti.Quella è patologia però. Usare i praticanti per smaltire il proprio contenzioso è più che sbagliato. In Avvocatura questo non accade mai. Io con i miei praticanti, per esempio, mi vedo più o meno una volta alla settimana. Al momento ne ho solo uno: gli dò del materiale da studiare, lui mi manda il suo lavoro via mail, io gli rispondo con le mie osservazioni, poi ci rivediamo, finiamo di scrivere l'atto e andiamo in udienza. La presenza fisica qui di questo ragazzo è di 2-3 ore a settimana: però lavora per me, anche a casa, in rete. Poi magari capita la volta che dobbiamo scrivere un atto e stiamo qui tutto il giorno fino alle 10 di sera. Vediamo ora quanti sono gli avvocati dello Stato e qual è il bilancio dell'Avvocatura.Gli avvocati dello Stato, compresi anche i procuratori, sulla carta per legge sono 390 in tutta Italia. Naturalmente non siamo mai quel numero, anche perché c'è chi va in pensione e non viene sostituito, sempre per problemi di bilancio. In questo momento dovremmo essere sui 330: non c'è grande ricambio, negli ultimi 4 anni abbiamo assunto 40 procuratori e non più di cinque-sei avvocati.  Quanto guadagnate mediamente?Facendo una media di tutti gli avvocati e procuratori, dagli anziani ai giovani appena entrati, l'importo annuo lordo è 159mila euro. A quanto ammonta il bilancio annuale dell'Avvocatura dello Stato?Dalla legge di bilancio 2012 il nostro bilancio è di 127 milioni di euro, come previsione di spesa. Tanto per dare un'idea dei tagli: al consuntivo 2010 era di oltre 172 milioni di euro. Un taglio di quasi il 30%.E consideriamo anche che sono passati due anni e che il costo di alcune cose è aumentato. La carta, per esempio, aumenta sempre. Noi ne consumiamo una quantità spaventevole, perché per costituirsi in giudizio bisogna presentare tot copie degli atti. Il processo telematico è una cosa molto bella ma ancora futuribile, e quindi noi dobbiamo presentare le copie dei documenti al Tar, al Consiglio di Stato. Tornando al rimborso per i praticanti, se lei considera i 2 milioni 700mila euro calcolati prima su un bilancio di 127, rappresenterebbero una percentuale rilevante. Circa il 2% del bilancio. Una percentuale non altissima, se pensiamo che si buttano tanti soldi per tante cose. Ma nemmeno bassissima. Fermo restando che per me, l'ho detto, se la Ragioneria lo facesse sarebbe anche giusto. Insomma il succo di questa intervista è che, se si vuole che anche i praticanti dell'Avvocatura percepiscano in futuro un rimborso, il Parlamento deve mettere questa voce a bilancio.Dire «il Parlamento» è formalmente corretto, perché è lì che si approva la legge di bilancio. Ma questa viene preparata dal ministero dell'Economia e delle finanze e dalla Ragioneria Generale dello Stato. Quindi per il rimborso dei praticanti in Avvocatura i decisori stanno lì.intervista di Eleonora VoltolinaPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Praticanti, il decreto liberalizzazioni ha introdotto l'obbligo del compenso: e l'Inps si adegua- Equo compenso addio: per Confprofessioni «non cambia molto», ma per i praticanti sì- Sulla gravità della violazione del codice deontologico forense da parte degli enti pubblici- La testimonianza di Francesca Esposito: «Ho interrotto il mio praticantato presso l'Inps perchè non mi davano un euro»E anche:- Tribunali al collasso, sempre più stagisti per coprire i buchi di organico- Urgono nuove regole per proteggere tirocinanti e praticanti: tante idee della Repubblica degli Stagisti nel disegno di legge di Cesare Damiano

Abolizione del valore legale dei titoli di studio, i pro e i contro

Quali sarebbero gli effetti di un’abolizione del valore legale dei titoli di studi? La tematica riguarda tanto il valore dei diplomi scolastici quanto quello di lauree e master; il dibattito, però, si concentra prevalentemente sugli effetti concreti per il mondo dei laureandi e dei laureati, che siano giovani o meno giovani. Il partito dei Radicali Italiani ha lanciato un appello per procedere alla “liberazione” dell’università italiana. Marco Beltrandi, deputato dei Radicali tra i promotori dell’appello, spiega: «La nostra proposta consiste di due parti. Prima di tutto, l’abolizione del valore legale del titolo di studio, che significa sostanzialmente riconoscere quello che già oggi è sempre più vero nei fatti. Il livello delle università italiane è così diseguale che una laurea presa a Bologna o a Milano non ha lo stesso valore rispetto a una conseguita in altri atenei meno validi. Attribuire lo stesso valore ai due titoli all’interno dei concorsi rappresenta una finzione priva di senso».La seconda parte della proposta dei Radicali è strettamente legata alle conseguenze della prima: «Eliminando il valore legale dei titoli di studio, evidentemente, si crea una vera competizione tra le università per attrarre i migliori professori e studenti. Questa è una ricaduta positiva, perchè siamo convinti che sia proprio la concorrenza l’elemento chiave per il miglioramento degli istituti. Se però si introduce una vera competizione, bisogna anche far sì che le università abbiano maggiore libertà nel reperire i finanziamenti. Da un lato stabilendo con maggiore libertà l’ammontare delle quote di iscrizione; dall’altro attingendo anche ai capitali privati delle imprese per finanziare in parte la ricerca».Beltrandi poi risponde così alle obiezioni di chi afferma che l’abolizione del valore legale causerebbe disparità nel diritto d’accesso allo studio, favorendo di fatto gli studenti ricchi che possono permettersi l’iscrizione alle università migliori: «È chiaro che le due riforme andrebbero accompagnate a un sistema più efficiente di borse di studio pubbliche per gli studenti meritevoli. I dislivelli, in realtà, ci sono già oggi. I ragazzi italiani che vanno all’estero a lavorare si sentono chiedere prima cosa hanno studiato, e poi in quale università si siano laureati. Perchè? Semplice: non tutti gli atenei offrono la stessa formazione. Certo, non mi illudo che il diritto di studio verrà garantito a tutti. Ci sarà sempre chi non potrà permettersi tale o talaltra università. Oggi però l’appiattimento è verso il basso. Paradossalmente uno studente meritevole che si laurei in un’ottima università viene valutato, nei concorsi, quanto uno che ottiene la stessa laurea in un ateneo mediocre».Di tutt’altro avviso, invece, la Flc Cgil, il sindacato dei lavoratori della conoscenza. Secondo il segretario generale Mimmo Pantaleo «viviamo in un Paese in cui non ci sono pari opportunità e il diritto allo studio viene negato a migliaia di giovani. Molte ragazze e ragazzi sono costretti a frequentare l’università nei propri luoghi di residenza o di nascita, perchè le famiglie non possono permettersi di supportarne gli spostamenti fuori sede. L’abolizione del valore legale del titolo di studi porterà a una disparità tra un’università e l’altra, ma purtroppo non tutti potranno permettersi di accedere a quella migliore». Per quanto riguarda la possibilità di colmare il divario con borse di studio, Pantaleo è scettico: «Ma se oggi si sta addirittura tagliando del 60% il fondo per il diritto allo studio! Mancano le risorse ed è qui che bisognerebbe intervenire, non sul valore legale. Che senso ha creare università di serie A e di serie B proprio quando ci sono tagli fortissimi e molti atenei non riescono neanche a coprire il turnover dei docenti?».Anche i benefici di una misura del genere, secondo il segretario generale, sarebbero inesistenti: «Nei concorsi pubblici quale sarebbe lo strumento alternativo di giudizio rispetto al titolo di studi? L’università di provenienza? Già oggi qualsiasi impresa, nel processo di selezione, non va a valutare l’ateneo dal quale provengono i ragazzi, ma le loro competenze concrete. Ecco allora che il problema da affrontare è un altro: garantire che a ogni laurea corrispondano contenuti effettivi di formazione e ricerca, basati su standard realmente condivisi. Non vogliamo introdurre la competizione tra le università, ma fare sì che tutto il sistema universitario nel suo insieme migliori i propri standard qualitativi». La discussione sul valore legale, conclude Pantaleo, «è puramente ideologica e vorrebbe spalancare le porte alla privatizzazione dell’università in Italia.Andrea CuriatPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Quanto vale la laurea nei concorsi? Bandi poco chiari sulle equipollenze tra i titoli, arriva una guida dal ministero- Tutti geni i neolaureati italiani? Nuovi dati Almalaurea: alla specialistica il voto medio è 108, con punte di 111 per le facoltà letterarieE anche:- Università come agenzie per il lavoro a costo zero: una deriva da scongiurare- Riforma del lavoro, ecco punto per punto cosa riguarda i giovani

Riforma Fornero, cosa non va secondo i sindacalisti esperti di precariato

La promessa della vigilia era di ampliare le tutele dei lavoratori meno garantiti, distinguendo tra buona e cattiva flessibilità. Ora che la riforma Fornero è nero su bianco, almeno nelle sue linee guida, la Repubblica degli Stagisti ha chiesto a tre sindacalisti di Cgil, Cisl e Uil di commentare il testo uscito dal tavolo della trattativa, indicando cosa e come può essere migliorato per quanto riguarda i contratti più diffusi tra i giovani italiani. La responsabile delle politiche giovanili della Cgil Ilaria Lani, il segretario generale Ivan Guizzardi della Cisl-Felsa (Federazione lavoratori somministrati, autonomi e atipici) e la segretaria generale di Uil Temp Magda Maurelli hanno idee piuttosto chiare in proposito. «Per la prima volta dopo 10 anni si assiste ad un'inversione di tendenza per quanto riguarda l'attenzione ai giovani» ammette Ilaria Lani, classe 1978 [nella foto]. «Ma la riforma non è così incisiva come speravamo e presenta falle importanti». Sul fronte dei contratti è ormai chiaro che il governo Monti abbia rinunciato all'idea di sfoltire la platea delle tipologie attualmente esistenti; ma le novità in arrivo non sono comunque di poco conto. «È probabile che nei prossimi anni si arrivi ad una sostanziale diminuzione dei contratti atipici» ipotizza il sindacalista della Cisl Ivan Guizzardi, 59 anni. «I vari strumenti contrattuali verranno finalmente utilizzati per la loro valenza propria e non più per ragioni legate all'abbattimento del costo del lavoro». Tra i primi obiettivi del testo Fornero c'è in effetti quello di contrastare il ricorso alle collaborazioni a progetto che in troppi casi le imprese utilizzano oggi in sostituzione del contratto di lavoro dipendente. Adesso il cocopro dovrebbe avere non solo una definizione più stringente (non una «mera riproposizione dell'oggetto sociale dell'impresa committente»), ma si prevede anche una limitazione dell'istituto a mansioni non prettamente esecutive e ripetitive, o comunque non identiche a quelle svolte nella stessa impresa da lavoratori subordinati. «Ho seri dubbi sulla ridefinizione del progetto, che resta incerta come e più di prima» commenta in proposito la sindacalista di Uil Temp Magda Maurelli, 42 anni, sgombrando anche il campo da eventuali equivoci rispetto alla stabilizzazione del falso collaboratore. «Non esiste alcun automatismo: l'onere di provare che si svolge un lavoro dipendente resta in capo al lavoratore», che dovrebbe fare causa all'azienda. A detta di Guizzardi per il datore di lavoro il vero disincentivo a stipulare un contratto atipico consisterà tuttavia nel previsto «innalzamento della quota destinata alla previdenza del lavoratore». Da qui al 2018 infatti le aliquote per gli iscritti alla gestione separata Inps dovrebbero salire progressivamente dall'attuale 28% al 33% e, dato che per i collaboratori i 2/3 della quota sono a carico del datore di lavoro, l'attuale convenienza ad assumere un parasubordinato al posto di un lavoratore subordinato potrebbe in effetti venire meno. L'idea è quella di utilizzare il costo del lavoro come leva per prevenire gli abusi, consentendo al tempo stesso all'atipico di versare una quota di contributi che in futuro potrà garantirgli una pensione più dignitosa. Ma Ilaria Lani è meno ottimista del collega della Cisl, e convinta che la nuova norma potrebbe avere pesanti ripercussioni sulle già leggere buste paga dei parasubordinati. «Per riassorbire la spettanza dei 2/3, il datore di lavoro potrebbe semplicemente ridurre il compenso del collaboratore. Per questo sarebbe necessario fissare una soglia minima di compenso agganciata ai minimi salariali previsti dai contratti per pari professionalità».A fare le spese dell'aumento delle aliquote saranno a maggior ragione le partite Iva che, vere o false che siano, i contributi pensionistici li pagano tutti di tasca propria. Per distinguere l'autentico libero professionista da chi invece potrebbe essere costretto dal datore di lavoro a figurare come collaboratore a partita Iva, il governo intende tuttavia introdurre tre criteri stringenti. Se si accerta infatti che il 75% dei compensi annuali del lavoratore proviene dalla stessa impresa, che la prestazione ha avuto una durata complessiva di più di 6 mesi nell'arco dell'anno e che la persona svolge sempre il suo lavoro presso la stessa sede, allora il committente potrebbe essere costretto ad assumerla. Resta però da capire come e soprattutto chi effettuerà i controlli necessari per rendere efficace la norma. «Credo che l'Inps e gli ispettorati del lavoro siano chiamati a svolgere questa funzione» afferma Guizzardi. «Giocare tutto sui controlli ex post non è una rivoluzione» replica però la Lani, pensando anche alle carenze di organico che scontano oggi i servizi ispettivi. «Anche se l'ispettore dovesse accertare un'irregolarità,  l'assunzione a tempo indeterminato non scatta certo automaticamente, al limite potrebbe esserci una multa per il datore di lavoro. Per questo sarebbe molto meglio prevedere controlli ex ante, ad esempio sulla dichiarazione dei redditi del lavoratore».Grazie a questo approccio sanzionatorio rispetto all'abuso dei contratti atipici, il governo mira anche a valorizzare l'istituto dell'apprendistato come tipologia prevalente di ingresso dei giovani sul mercato del lavoro, ottenendo su questo punto il pieno accordo dei sindacati confederali. «Il destino del lavoratore passa per il destino dell'impresa» osserva Magda Maurelli, «e con l'apprendistato ci sarà sia un significativo vantaggio fiscale per datore di lavoro che la possibilità per il lavoratore di imparare un mestiere spendibile sul mercato». Ma per i futuri apprendisti c'è un vantaggio ulteriore, che la riforma nega invece a tutta la platea degli atipici: ovvero la possibilità di accedere alla nuova assicurazione sociale per l'impiego (Aspi). Sul punto si sono concentrate le critiche più aspre al progetto di riforma da parte dei precari, delusi dalla promessa di introdurre un sistema più universale di ammortizzatori. Fatta eccezione per gli apprendisti e per gli artisti «non c'è stata nessuna estensione, né per quanto riguarda i criteri di accesso, né per quanto riguarda le tipologie contrattuali atipiche» rileva la sindacalista della Cgil. Per accedere all'Aspi bisognerà infatti avere non solo un contratto di lavoro subordinato, ma anche due anni di anzianità contributiva e 52 settimane di lavoro nell'ultimo biennio: esattamente ciò che serve oggi per accedere all'assegno di disoccupazione che, per molti giovani, resta appunto un miraggio. Idem per la mini-Aspi, corrispondente grossomodo all'attuale disoccupazione con requisiti ridotti. «Partiamo da una situazione in cui gli ammortizzatori sono pressoché inesistenti per gli atipici» invita a riflettere Guizzardi, «oggi ci sono margini maggiori per andare a costruire nuove tutele». Per il momento tuttavia l'unico paracadute per i collaboratori è l'impegno a «rafforzare e portare a regime il meccanismo una tantum» introdotto nel 2007 dal ministro Sacconi e riproposto dalle attuali linee guida. Con la speranza che «rafforzare» significhi soprattutto prevedere criteri di accesso meno rigidi rispetto a quelli richiesti sinora: «A fronte di 34.185 domande presentate fino al 2010 dai collaboratori, solo 9mila sono state accolte» fa notare infatti la Maurelli. Che alla riforma Fornero rimprovera anche una carenza di investimenti sulle politiche attive per il lavoro. «Una persona che esce dal mercato ha soprattutto l'esigenza di ricollocarsi rapidamente. Punterei di più sulla creazione di una rete di servizi pubblico-privato in grado di accompagnare il lavoratore fuori dalla disoccupazione». Resta ora da vedere come le norme contenute nella bozza di riforma verranno tradotte nel disegno di legge che a breve approderà in Parlamento, anche per quanto riguarda la parte relativa allo stage. Sul punto, la previsione di future linee guida nazionali contenuta nel testo attuale segna un apparente arretramento rispetto alle intenzioni espresse nei giorni scorsi dal ministro di abolire gli stage post formazione e di contrastare quelli gratuiti. «Il testo di legge non potrà riproporre norme così vaghe sullo stage» conclude Ilaria Lani, «confidiamo che sulla materia si riapra al più presto un tavolo con le Regioni e si arrivi finalmente ad una soluzione definitiva».Ilaria CostantiniPer saperne di più su questo argomento leggi anche:- Riforma del lavoro, ecco punto per punto cosa riguarda i giovani- Riforma del lavoro, il testo apre a nuove linee guida nazionali sugli stage- Riforma del lavoro, rilanciare l'apprendistato non basta- Apprendistato: coinvolge pochissimi laureati e spesso non garantisce vera formazione E anche:- Abolire gli stage post formazione: buona idea ministro, ma a queste condizioni- Riforma del lavoro, inutile senza quella degli stage- Università come agenzie per il lavoro a costo zero: una deriva da scongiurare      

L'Anci Giovane: «Ci occuperemo degli ex stagisti del Comune di Napoli»

Ancora nessuna notizia del rimborso spese per i 49 brillanti laureati campani che nel 2011 hanno svolto un tirocinio negli uffici del Comune di Napoli. Per capire che fine abbiano fatto i 2mila euro previsti per ogni tirocinante, la Repubblica degli Stagisti ha provato (invano) a intervistare il sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, ha parlato con Marco Vassallo, funzionario incaricato del Servizio Lavoro e formazione professionale, ha riportato le informazioni fornite a due ex stagiste dall’assessore al bilancio Riccardo Realfonzo e ha raccontato l’esperienza di altri due tirocinanti. Ma la situazione ancora non si è sbloccata: quindi ha deciso di chiamare in causa l’Anci Giovane, consulta istituita nel 2007 con l’obiettivo di valorizzare l’attività dei giovani amministratori all’interno dell’Anci – l’associazione che federa tutti i Comuni italiani. Luigi Famiglietti (nella foto a destra), 36 anni, sindaco di Frigento, è il coordinatore di Anci Giovane Campania.Il protocollo d’intesa tra Anci Giovane e Repubblica degli Stagisti prevede un impegno “a monitorare le modalità di utilizzo del tirocinio nelle amministrazioni comunali”. Ed ecco qua il primo caso. Che farete?Facciamo una premessa di fondo: i comuni campani stanno attraversando un periodo molto difficile perché hanno deficit di bilancio. Presumo che il mancato pagamento sia dovuto solo a questo problema. Detto questo, Anci Campania attraverso anche Anci Giovane, cercherà di avere un colloquio con Marco Esposito, l’assessore al lavoro, per capire i reali motivi di questo ritardo e sollecitare il comune ad adempiere quanto prima a quest’obbligazione che ha contratto con questi ragazzi.Anci Campania ha intenzione di fare qualcosa anche per i nuovi stagisti per evitare che fra tre mesi si trovino nella stessa situazione?Premettiamo che questa è un’iniziativa meritoria perché consente a ragazzi laureati con voti molto alti di prestare un tirocinio formativo presso gli uffici del comune. Perciò solleciteremo anche altri comuni campani a portare avanti iniziative simili. È chiaro, però, che questi ragazzi meritano di ottenere quello per cui hanno firmato: il corrispettivo economico.Chi altro si può prendere l’onere di monitorare la qualità dei tirocini negli uffici pubblici?Da poco grazie alla Repubblica degli Stagisti e all’impegno di Eleonora Voltolina abbiamo siglato un accordo sul corretto uso dei tirocini formativi: questo dimostra l’intenzione dell’Anci, che non è destinata a questo, di fare in modo che tutti i comuni seguano delle regole sull’impiego dei giovani durante uno stage. Credo che gli enti che debbano avere la competenza del monitoraggio dei tirocini siano gli assessorati provinciali e l’assessorato regionale alla formazione, anche perché sono loro a fare i bandi e a investire i fondi. Per quanto riguarda i comuni, sarà l’Anci (che è un’associazione di comuni) a farsene carico.L’assessore al Bilancio, Realfonzo, ha detto ai tirocinanti “i soldi non ci sono”, quindi il Comune non sa come pagare. I soldi, però, dovevano essere previsti nel bilancio 2010, non dovevano essere vincolati?Auspico che quello di Realfonzo sia stato uno sfogo umano piuttosto che una risposta tecnica da parte di un assessore. Sarebbe difficile poi dover giustificare se quei fondi siano stati utilizzati per altre voci di bilancio. Spero che il Comune oltre a dare una giusta rilevanza mediatica a questi tirocini, dopo aver impegnato i ragazzi in attività che credo siano andate anche oltre lo stage, adempia i suoi obblighi.Qualcuno dei ragazzi sta pensando di passare alle vie legali e mandare al Comune una lettera di messa in mora minacciando il ricorso al decreto ingiuntivo. Nel caso di un comune con deficit di bilancio come Napoli, un decreto ingiuntivo serve a qualcosa?Sicuramente ci potrebbero essere degli effetti positivi, compatibilmente con i tempi della giustizia ordinaria: nel momento in cui c’è un’ingiunzione da parte del giudice, il Comune dovrebbe pagare questi debiti in via prioritaria rispetto agli altri. Il problema è politico: perciò spero che con l'aiuto dell'Anci si riesca a capire qualcosa in più e a ottenere il rimborso senza passare alle vie giudiziarie anche perché non sarebbe bello nemmeno per il comune. Quindi inviterei ad aspettare ancora un altro poco.Dagli uffici del Comune si è saputo che si sta pensando di estendere questi tirocini ad altri 75 giovani: che senso ha per un ente senza prospettive di assunzione, che ha anche dei vincitori di concorso che non sono stati assunti, fare dei bandi di stage se non ha soldi per pagare?È auspicabile innanzitutto che siano pagati gli stagisti precedenti, poi spero che il Comune abbia trovato delle risorse di bilancio per pagare almeno i tirocini. Capisco meno la domanda “se il Comune non riesce ad assumere perché fa i tirocini”: li fa probabilmente perché non riesce ad avere altro personale, quindi con un minore impiego di risorse avrà comunque dipendenti a disposizione. È chiaro che queste domande andrebbero poste all’assessore competente, io posso solo dare un’interpretazione.Secondo lei perché oggi è richiesto sempre lo stage anche per quei mestieri in cui fino a pochi anni fa la prassi prevedeva un inserimento diretto dei lavoratori solo con qualche giorno o mese di prova?È uno strumento usato in modo distorto sia negli enti pubblici sia nelle aziende private. Finché ci saranno queste normative sul lavoro, soprattutto per quanto riguarda i prelievi fiscali sui contributi dei dipendenti, aziende ed enti pubblici, specie nel mezzogiorno, avranno queste scappatoie nell’impiego precario di ragazzi, molto preparati ma sottopagati e sfruttati. Non è un problema solo del Comune di Napoli, ma dell’Italia intera. L’Anci, soprattutto l’Anci Giovane (amministratori coetanei di questi stagisti che ogni giorno lavorano nei comuni spesso senza ricevere un’indennità), capisce le loro esigenze. Perciò m’impegno a fare da tramite per capire cosa sia successo. Per quanto riguarda le altre città campane, il nostro obiettivo è tenere fede al protocollo firmato. Ci impegneremo anche con il settore giovanile della regione Campania per far mettere a disposizione risorse regionali per aiutare i comuni a utilizzare gli stage e assicurare il loro pagamento.Marianna LeporePer saperne di più su questo argomento leggi anche:- Sindaco De Magistris, perché non risponde alle domande sugli stage al Comune di Napoli?- Stage al Comune di Napoli, ottimo per Carmine e pessimo per Assia: storie a confronto- Comune di Napoli, l'assessore: «I soldi per gli stagisti dell'anno scorso non ci sono»  - Stagisti al Comune di Napoli, due anni di attesa per ricevere il rimborso spese

Equo compenso addio: per Confprofessioni «non cambia molto», ma per i praticanti sì

Equo compenso indietro tutta. La norma di legge che, per la prima volta, avrebbe obbligato i professionisti e la pubblica amministrazione a corrispondere ai giovani praticanti un emolumento commisurato al lavoro svolto durante il praticantato scompare dal decreto sulle liberalizzazioni. Al suo posto, nel testo approvato definitivamente ieri sera dalla Camera, compare ora un «rimborso spese forfettariamente concordato dopo i primi sei mesi di tirocinio» (art. 9 comma 4). Per gli aspiranti professionisti italiani «nella sostanza non cambia molto» assicura alla Repubblica degli Stagisti il presidente nazionale di Confprofessioni Gaetano Stella, intervistato a margine dell'incontro "Libere professioni: lavoro e prospettive" che la settimana scorsa ha riunito a Roma, nella sala Promoteca del Campidoglio, avvocati, notai, commercialisti, architetti e altre figure appartenenti alle professioni regolamentate. In effetti tanto l'equo compenso quanto il rimborso spese non prevedono una soglia economica minima da corrispondere al praticante, lasciando così la questione alla discrezionalità dei titolari degli studi professionali, di norma non proprio generosi con i giovani in formazione. Ma tra le due versioni della norma una differenza c’è, e non è di poco conto: con il rimborso spese il legislatore rinuncia infatti a riconoscere l'apporto lavorativo che ogni anno migliaia di praticanti danno alle strutture in cui sono inseriti.Perché e per mano di chi l'aggettivo «equo» è dunque scomparso? In proposito Gaetano Stella assolve i professionisti dall'accusa di lobbismo, segnalando che nel contratto collettivo dei dipendenti degli studi professionali firmato a fine novembre è stata tra l'altro prevista la possibilità di svolgere il praticantato all'interno di un contratto di apprendistato. Dottor Stella, quali sono le lauree attualmente più spendibili sul mercato del lavoro, quelle che consiglierebbe a chi oggi deve ancora scegliere il proprio percorso professionale?Sicuramente le lauree tecniche. Direi che vanno ancora molto bene gli ingegneri, da quelli classici, a quelli informatici, gestionali, le figure che hanno cioè un contatto diretto con le imprese. Probabilmente ingegneria è l'unica facoltà che ancora oggi dà quasi la certezza di uno spazio occupazionale. Un'altra laurea che può dare buoni sbocchi è medicina. In questo momento c'è una carenza soprattutto di laureati in medicina generale. Dopo l'esodo dovuto ai prepensionamenti ci sono buone prospettive anche per gli infermieri. E poi lauree come fisioterapia e più generale tutto ciò che ha a che fare con la cura della persona.Le più inflazionate invece? Oltre ovviamente agli avvocati, una figura di cui c'è un'enorme offerta sono gli psicologi, per i quali non ci sono evidentemente grandi spazi. Anche se poi bisogna distinguere e soprattutto sapersi riposizionare: guardare non alla laurea classica, ma magari individuare all'interno del percorso universitario delle nicchie di formazione o di specializzazione più precise. Ci sono ad esempio lauree brevi per professioni tecniche, penso all'ambito della sicurezza sui luoghi di lavoro, che possono offrire degli sbocchi interessanti.  Per quanto riguarda invece il così detto decreto Cresci Italia: con la scomparsa dell'equo compenso a favore del rimborso spese, cosa cambia concretamente? Nella sostanza cambia poco. In entrambi i casi si tratta di parametri generici e discrezionali, anche se l'equo compenso avrebbe magari potuto fare riferimento alle tabelle retributive previste per i praticanti inquadrati come apprendisti dal contratto collettivo per i dipendenti degli studi professionali. Per la prima volta è stata infatti introdotta la possibilità di svolgere il praticantato nell'ambito di un contratto di apprendistato, con tabelle retributive ovviamente più basse, tenuto conto del fatto che l'impegno del praticante non è a tempo pieno. Molto spesso al termine del percorso formativo è infatti previsto un esame di Stato.Come è stata recepita questa nuova figura del praticante apprendista all'interno degli studi professionali?Il praticantato nell'apprendistato non è ancora operativo, ma su questo inquadramento contrattuale si investirà sicuramente. Bisogna fare un passaggio tecnico con i vari ordini professionali, perché non tutti hanno il praticantato obbligatorio.Nel suo Decalogo per la crescita Confprofessioni sostiene che «è corretta la previsione di un equo compenso al praticante» e che «va anche stabilita la misura equa di tale compenso». Come mai allora la norma è scomparsa dal testo? Probabilmente c'è stata una lobby forte che evidentemente non lo ha voluto. C'è però un passaggio intermedio di cui tenere conto: se prima il praticantato in avvocatura durava ad esempio due anni, adesso il periodo è stato portato per tutti a 18 mesi [con l'unica eccezione delle professioni sanitarie ndr]. In qualche modo si è voluto ricompensare il mancato riconoscimento dell'equo compenso con la riduzione temporale del praticantato. Mi scusi, ma siete proprio voi la lobby accusata di essere contraria a stabilire per legge un compenso minimo per i vostri praticanti..Sì lo so. Ma in realtà abbiamo fatto un emendamento proprio per presentare l'equo compenso, perché ci sembrava un atto di giustizia civile. Mi rendo conto che il rimborso spese può apparire poca cosa, ma meglio poco che niente. E poi credo che se tra il praticante e il dominus si instaura un rapporto di un certo tipo, il praticante potrà anche vedersi riconoscere un compenso ulteriore.Il vero nodo resta comunque quello di fissare una soglia minima anche per il rimborso spese. Non si potrebbe inserirla almeno all'interno nei codici deontologici? Con la manovra che ci sarà entro agosto, gli ordini dovranno disciplinare anche questo aspetto, prevedendo all'interno degli ordinamenti un passaggio che obblighi i professionisti a riconoscere il rimborso spese. Anche se non c'è una soglia fissata, io penso che il contratto collettivo possa costituire un utile parametro di riferimento.Aspettiamo con fiducia il 13 agosto allora. Qualche novità interessante potrebbe arrivare, sì.Ilaria CostantiniPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Aspiranti professionisti, con le liberalizzazioni si riduce la durata del praticantato. Ma scompare l'equo compenso- Alle nuove norme sui praticanti manca l'equo compenso, lo dice anche la commissione giustizia del Senato- Sulla gravità della violazione del codice deontologico forense da parte degli enti pubbliciE anche:- Il neopresidente del consiglio Mario Monti in Senato: «Risolvere il problema dei giovani è il fine di questo governo»- Anche gli stage finiscono nella manovra del Governo: da oggi solo per neodiplomati e neolaureati, e per un massimo di sei mesi

Tirocini, il costituzionalista: «Lo Stato potrebbe fare una legge quadro»

Gli stage sono una materia di competenza statale o regionale? Stando alla riforma del titolo V° della Costituzione, la formazione professionale attiene alla sfera di intervento legislativo delle Regioni. Tanto che nel 2005 una sentenza della Corte costituzionale ha ordinato di sopprimere un articolo della legge Biagi, il numero 60, che normava in maniera precisa la materia dei tirocini estivi, riconoscendo che in quel caso il governo aveva sconfinato nell'area di competenza delle singole regioni. E anche sulla base di questa sentenza, nonchè dell'intervento normativo "spot" realizzato dal governo Berlusconi a Ferragosto con l'articolo 11 del decreto legge 138, alcune regioni (prima tra tutte la Toscana) si sono mosse legiferando per conto proprio. Ma in realtà gli stage sono una categoria ibrida, a cavallo tra formazione e lavoro, e non vengono svolti solo d'estate, nei periodi di vacanza dalla scuola o dall'università. Per fare chiarezza sul tema la Repubblica degli Stagisti ha intervistato Francesco Clementi, 37enne professore associato di Diritto pubblico comparato alla facoltà di Scienze politiche dell'università di Perugia e di diritto costituzionale italiano e comparato nel master dell'Istituto Alti Studi per la Difesa, nonché editorialista del Sole 24 Ore.Professore, si dice oggi che l'istruzione, la formazione e lo sbocco verso il lavoro dovrebbero essere un tutt'uno. Però a livello tecnico le competenze sono diverse, possiamo riassumerle? La riforma del titolo V° all’art. 117 introduce un nuovo riparto di competenze tra Stato e Regioni. Possiamo fare la metafora di una cassettiera: nel primo cassetto troviamo la competenza legislativa esclusiva dello Stato, nel secondo cassetto la competenza concorrente tra Stato e Regioni. Nel terzo c'è tutto quello che avanza: cioè la potestà legislativa residuale. Per quanto ci riguarda, il sistema è abbastanza articolato. Infatti nel primo cassetto vi sono le norme generali relative all’istruzione, alla lettera n; mentre nel secondo cassetto, la legislazione concorrente delle Regioni, va «l’istruzione, salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione della istruzione e della formazione professionale». Il quadro quindi è particolarmente complesso e l’esigenza di delimitare le sfere di azione dei soggetti istituzionali deputati all’assolvimento della funzione è il primo punto di ogni ragionamento. Si pensi, ad esempio alla materia del lavoro che  travalica la cassettiera, e rompe l'ordine e la rigidità dei cassetti. Perché un conto è il lavoro in senso stretto, che è competenza dello Stato, un altro è l'insieme delle  materie che si intrecciano ad esso: stage, tirocini, istruzione, formazione. Un coacervo di normative che non si può ricondurre al lavoro in senso stretto, ma che non si può nemmeno separare nettamente. È assurdo questo.Più che altro determina a cascata un altro problema: la costante necessità che intervenga la Corte costituzionale a dipanare ogni conflitto di competenza. La giurisprudenza costituzionale, sopratutto riguardo alla formazione professionale e all'apprendistato, prevede una certa strada: di volta in volta attribuire la competenza o allo Stato o alle Regioni, a seconda del caso. Il nostro sistema da questo punto di vista è in qualche modo incerto: la certezza ce la può dare solo ogni volta la Corte quando si esaurisce il procedimento giurisdizionale.Infatti è proprio sulla sentenza n. 50/2005 che si basano le Regioni per rivendicare la competenza esclusiva in materia di tirocini, perché questa sentenza ha stabilito che la disciplina sui tirocini estivi di orientamento, «dettata senza alcun collegamento con rapporti di lavoro, e non preordinata in via immediata ad eventuali assunzioni, attiene alla formazione professionale di competenza esclusiva delle Regioni». Nel dirimere questi conflitti, cioè attribuire o alle Regioni, la Corte delimita le cose che si possono fare. E nel ginepraio delle competenze decide secondo dei principi. Un principio è la classica «leale collaborazione tra soggetti istituzionali». Un altro principio che dovrebbe essere privilegiato è il  principio di prevalenza. Che nella sentenza 50/2005 viene infatti utilizzato, facendo prevalere il diritto delle regioni a legiferare su questa materia, ma al contempo restringendolo a capi specifici e ben individuati. Perché? Perché la Corte costituzionale, in questa operazione di dipanamento dei nodi, opera un doppio intervento: da una parte attribuisce la ragione a uno dei due soggetti, dall'altro però delimita anche il campo di intervento. Dunque la situazione in questo caso è che le Regioni hanno ricevuto dalla Corte la possibilità di legiferare su una certa materia, quindi si sono sentite dare ragione, ma al tempo stesso quella possibilità è stata definita molto precisamente. In effetti la sentenza parla solo di tirocini estivi di orientamento, anche perché si basava sul ricorso a un articolo della legge Biagi, il 60 - poi soppresso - che normava proprio esclusivamente i tirocini estivi. Ma dunque non si può effettuare un'azione "sineddotica" e considerare che la Corte volesse intendere che l'intera materia dei tirocini - e non solo quella dei tirocini svolti durante i mesi estivi slegati da ogni finalità occupazionale - sia da considerarsi di competenza esclusivamente regionale?No. Non si può estendere la sentenza della Corte a tutti i tirocini. L’estensione a tutti non sarebbe un’interpretazione giuridicamente corretta. Per questo la Corte sta molto attenta a disciplinare il singolo aspetto che è chiamata a discutere. In questo caso nel 2005 si è espressa sui «tirocini estivi». Quindi intendeva proprio i «tirocini estivi», e nient'altro. Se avesse voluto intendere tutti i tirocini, avrebbe omesso di scrivere la parola «estivi». Nelle sentenze ogni parola viene pesata, a maggior ragione nelle tematiche, come questa, ove i confini sono incerti. In queste situazioni la Corte opera col bisturi e non con l'accetta. E il bisturi è stato proprio dire «tirocini estivi» e non altro.Non c'è modo di sapere prima cosa è di competenza regionale e cosa è di competenza statale? Bisogna per forza scomodare ogni volta la Corte?Si potrebbe partire da una domanda: quando parliamo di formazione che intendiamo? Qualcosa che riguarda il mercato del lavoro? Oppure l'istruzione intesa come trasferimento di competenze per permettere a una persona di svolgere un determinato mestiere? Oppure la disciplina dei rapporti di lavoro? E questa formazione è pubblica? È privata? È interna o esterna all'azienda? La tematica del lavoro e dunque della formazione al lavoro ha una serie di differenti varianti. Il problema  ricade sul legislatore solo ex post, non ex ante. Cioè una Regione o lo Stato prima fanno la legge, e poi eventualmente vanno a discuterne davanti alla Corte se qualcuno fa opposizione. Il presidente della Regione Toscana ha recentemente deciso di fare una legge su stage e tirocini, e l'ha fatta. Poi magari lo Stato dirà «Caro mio, tu ti sei allargato troppo scrivendo le norme, quella è roba mia, andiamo davanti alla Corte». E la Corte dirà chi ha ragione e chi ha torto. La differenza di base che ci permette di dire se i processi di formazione attengono alla competenza propriamente regionale oppure a quella propriamente statale non si basa sull'etichetta («formazione») o sul soggetto che la emana («legge regionale» o «legge statale») bensì sulla natura delle norme poste in essere e sull'area di intervento delle norme stesse. Quindi per sapere a chi spetta davvero e fino in fondo la disciplina di una certa cosa non ci si basa sul principio di gerarchia, ma sull'area dell'intervento normativo posto in essere da chi ha promosso la norma. È il bello e il brutto di materie vaste e articolate non delimitabili esattamente nelle competenze previste dall’articolo 117.Si rischia di sconfinare.Esatto. Dunque il problema vero non è il contenuto della norma, è il confine della stessa. Confine che non si trova nella Costituzione, perché la Costituzione non lo dà. Quindi è impossibile definire la competenza. Infatti noi le chiamiamo «materie trasversali». Come la torta marmorizzata che ha una serie di strati autonomi e a sè stanti. L'unica soluzione è la giurisprudenza: solo lei ci può dire di che stiamo parlando. Sostanzialmente quindi lo Stato e le Regioni continuano a legiferare, e poi qualora uno dei due rivendichi un'invasione di campo, si va davanti alla Corte costituzionale che di volta in volta decide chi ha ragione. Questo sistema però ha un difetto. Il giovane lettore della Repubblica degli Stagisti si sentirà nell'incertezza più totale: lo stage che sta facendo potrebbe essere messo in questione dal punto di vista giuridico. In ogni caso, per tranquillizzare gli animi, possiamo dire che tutte le decisioni della Corte non hanno valore retroattivo: dunque se un ragazzo fiorentino oggi fa uno stage secondo la nuova legge regionale toscana, e tra un anno la Corte deciderà che quella legge non può essere valida, la validità dello stage - ormai concluso, o ancora in essere - non potrà essere messa in discussione. Il problema in realtà sorge quando le Regioni o per paura di non avere le competenze o perché rigettano la legge statale ma non ne approntano una regionale finiscono per bloccare tutto.Ma questo non è un problema giuridico, è un problema politico.Abbiamo fatto riferimento alla Regione Toscana, che ha pochi mesi approvato una legge regionale sugli stage, molto innovativa, che per la prima volta impone di erogare un rimborso spese agli stagisti - quantomeno in caso di tirocini extracurriculari. Altre regioni si apprestano a fare altrettanto. Tra poco allora avremo 20 regolamentazioni diverse sullo stage, una per regione? È una prospettiva realistica?In effetti potenzialmente sì. Si potrebbe avere una disciplina patchwork. Per scongiurare quella deriva, la prospettiva che voi proponete di una legge quadro che vincoli le regioni a rispettare una serie di paletti, ma lasciandole libere di definire poi i dettagli, è non solo praticabile, ma assolutamente auspicabile. Se si vuole occupare dei giovani, il governo Monti potrebbe ben cominciare anche da qui. Perché bisogna dare certezze ai giovani che fanno stage e dare alla Corte uno strumento di garanzia - una legge quadro - che le consenta di disciplinare con certezza, avendo ben definiti i livelli essenziali delle prestazioni diritti civili e sociali cioè il 117 comma 2 lettera m. La lettera m legittima insomma, anche in una materia di competenza regionale, un intervento statale per garantire un'uniformità standard su tutto il territorio nazionale. Insomma: noi abbiamo una frammentarietà e incertezza giuridica che rischia di crescere nel tempo. Ciò può essere sanato in due modi: o ex post dalla Corte, che nei prossimi anni giudicherà tutte le cause emerse, oppure ex ante dal governo, che fa una norma quadro e dà certezza costruendo un minimo standard comune. Dando modo ai giovani che fanno stage in Puglia, nel Lazio, in Lombardia o in Sicilia, di avere le stesse garanzie. E coordinando i vari interventi legislativi regionali. Mi auguro proprio che il governo Monti abbia modo di intervenire anche in questo senso.Intervista di Eleonora VoltolinaPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- L'assessore al lavoro della Regione Toscana: «La Corte costituzionale confermerà che i tirocini sono competenza nostra». E sulla circolare del ministero: «Non vale quanto la legge»- La Toscana approva la nuova legge sugli stage: per la prima volta in Italia il rimborso spese diventa obbligatorio- Riforma del lavoro, inutile senza quella degli stage E anche:- Ventenni e riforma del lavoro, parla l'ideatore della lettera a Monti- Riforma del lavoro, il ministro Fornero: «Non andrà in vigore prima del 2013»

Il 16 maggio tutti a Bruxelles per la prima manifestazione degli stagisti europei

Lo scorso dicembre all'Oecd di Parigi è stata ufficialmente presentata  la Quality Charter of Internships and Apprenticeships, la Carta europea per la qualità  di stage e praticantati promossa dall'European Youth Forum e insieme ad alcuni partner tra cui, per l'Italia, la Repubblica degli Stagisti. Per farsi dare gli ultimi aggiornamenti sull'avanzamento dei lavori la testata ha intervistato il segretario generale del Forum, il 32enne Giuseppe Porcaro. Che dà appuntamento a tutti per maggio a Bruxelles: «Stagisti di tutta Europa, unitevi!».Allora segretario, cosa è successo dopo il lancio ufficiale della Carta? Continuiamo a raccogliere adesioni e a consolidare la nostra posizione a livello istituzionale. A fine gennaio ad esempio abbiamo incontrato il Consiglio europeo per discutere di come impiegare a favore della disoccupazione giovanile i fondi europei inutilizzati. È stato proposto di usare quei soldi per finanziare tirocini e apprendistato ma il Forum, pur manifestando soddisfazione, ha  puntualizzato che investire tout court sulla quantità non è una soluzione. Bisogna stabilire innanzitutto di criteri di qualità, come fa appunto la Carta.Quale è stata la difficoltà maggiore nell'elaborare questi criteri?Coinvolgere il mondo dell'imprenditoria. Sono le aziende del resto che devono poi assumere i tirocinanti. Nella fase iniziale non ci siamo riusciti e ne è derivato un documento promosso sostanzialmente dalla società civile - associazioni, sindacati, cittadini. Non ci siamo arresi però, il dialogo con le imprese è ancora aperto, ormai è una sfida. E con una posizione istituzionale più forte, abbiamo più possibilità.Adesso qual è il prossimo passo? Aspettiamo con ansia l'employment package, il pacchetto di misure anti disoccupazione che la Commissione europea emanerà a fine aprile, di cui dovrebbe far parte anche il quality frame sugli stage. A quel punto la Commissione lancerà un processo di consultazione e lì inizierà la nostra lotta per vederci riconosciuti i principi della Carta. Ci aspetta una primavera di attivismo. Anche per questo stiamo organizzando la prima grande manifestazione degli stagisti europei. Qualche anticipazione? L'idea è quella di occupare pacificamente l'esplanade del Parlamento europeo a Bruxelles. Sarà un'occasione per avanzare nel dibattito ma anche per festeggiare il grande esercito europeo di stagisti. Avremo anche diverse testimonianze.  È tutto in fieri, ma come data abbiamo già scelto il 16 maggio, in occasione dello Youth Fest, il festival che trae nome dal nostro magazine «Youth opinion» e che quest'anno sarà dedicato proprio alla Carta. Speriamo di avere grande partecipazione. Ma lei ha mai fatto uno stage? Sì, uno. Mentre ero in Erasmus a Parigi, nel lontano 2001. Seguivo i corsi e contemporaneamente ero stagiaire presso il CCIVS - Coordinating Committee for International Voluntary Service, una ong dell'Unesco. Collaboravo alle preparazioni per il 2001 come anno internazionale del volontariato. E però... non ero pagato. Il Forum prevede un programma di internship? Sì, offre stage semestrali pagati 1500 euro lordi - circa 1200 netti - aperti a laureati e studenti. Ci sono poi percorsi di massimo tre mesi, a cui accedono solo gli studenti più giovani, e che vengono riconosciuti all'interno dei loro percorsi universitari. Al momento il Forum ospita tre stagisti.E quanti sono i dipendenti del Forum? Chi paga i vostri stipendi?Siamo 26 ragazzi e ragazze da tutta Europa [a fianco, una foto del team]. Il Forum è un'entità indipendente registrata secondo la legge belga come Aisbl, Association Internationale San But Lucratif - l'equivalente di una onlus - e ha un budget annuale di tre milioni di euro, dal quale si attinge per il pagamento degli stipendi [l'80% di questa cifra proviene dalla direzione Istruzione e cultura della Commissione europea; la restante parte arriva dalle quote associative delle organizzazioni membre e dal Consiglio d'Europa, ndr]. E il segretario generale esattamente che funzione ha?È il rappresentante legale dell'associazione e dirige la parte operativa del Forum: il board elabora le direttive strategiche e il segretariato lavora per realizzarle. È un ruolo trasversale: servono doti di leadership, capacità di analisi strategica e politica, di relazione con le istituzioni, di mediazione.Come è arrivato a ricoprire questo ruolo?Sono laureato in Scienze internazionali e diplomatiche all'Orientale di Napoli - vengo da un paese della provincia campana, Marigliano - e nel 2006 ho finito un dottorato in Geografia dello sviluppo. Sono entrato nel Forum nel 2007 come coordinatore delle politiche giovanili e finito quel mandato ho risposto all'open call per la posizione di segretario generale. Ho intrapreso le selezioni, gestite in parte da un'agenzia di reclutamento belga. Dopo la prima fase eravamo rimasti in tre ad aver superato tutti i test e la parola finale è spettata all'assemblea generale.Buon lavoro allora. Segniamo l'appuntamento per il 16 maggio a Bruxelles?Sì, a breve manderemo a tutti i nostri partner un Save the date con dettagli più precisi. Lettori della Repubblica degli Stagisti, se vi è possibile partecipate! intervista di Annalisa Di PaloPer saperne di più su questo argomento, leggi anche: - Lanciata a Parigi la European Quality Charter of Internships. Melandri, Ichino, Mosca, Vaccaro e Simoncini i primi politici italiani a sostenerla- Conferenza internazionale sull'occupazione giovanile promossa dallo European Youth Forum: l'intervista al vicepresidente Luca Scarpiello- Un sondaggio dello European Youth Forum svela il prototipo dello stagista europeo: giovane, fiducioso e squattrinatoE anche: - Emilie Turunen, pasionaria dei diritti degli stagisti al Parlamento europeo: «L'Italia è fra i Paesi messi peggio»- Parlamento europeo, risoluzione contro i tirocini gratis e le aziende che sfruttano gli stagisti- Stagisti a zero euro, no grazie: ecco perchè vietare il rimborso spese per legge sarebbe ingiusto e controproducente

Riforma dell'Ordine dei giornalisti: verso un ponte di due anni per salvare i pubblicisti

Una norma "salva pubblicisti", ovvero un periodo ponte di almeno due anni che consenta a quanti hanno già iniziato i 24 mesi di collaborazione retribuita con una testata di concludere il percorso per l'iscrizione all'albo dei giornalisti pubblicisti secondo le vecchie regole. È la soluzione prospettata alla Repubblica degli Stagisti dal presidente dell'Ordine nazionale dei Giornalisti Enzo Iacopino [nella foto] per tutelare il percorso attualmente avviato dagli aspiranti pubblicisti. Che dal prossimo 13 agosto, con l'entrata in vigore dell'obbligo dell'esame di Stato per tutte le professioni regolamentate, si vedrebbero altrimenti costretti a sostenere una prova d'esame analoga a quella prevista oggi per i professionisti. «Penso che sia una norma di generale civiltà non penalizzare quelli che hanno già avviato il percorso», rassicura Iacopino.  «Non mi riferisco a coloro che hanno già concluso e acquisito il titolo, per i quali varranno ovviamente le vecchie regole» precisa, «nè tantomeno a chi il 13 agosto avrà scritto due articoli. Ma a quanti a quella data avranno compiutamente avviato il percorso per diventare pubblicisti. In tutte le norme generali c'è un articolo che tutela alcune posizioni. Prendiamo il caso limite di una persona che finisce i due anni il 13 agosto: cosa facciamo, la cacciamo?». L'introduzione della norma non è ovviamente automatica e sarà oggetto di discussione nel tavolo tecnico istituito presso il ministero della Giustizia dove, nelle prossime settimane, si deciderà il futuro assetto della categoria, nel quadro della più generale riforma degli Ordini professionali imposta dal "decreto salva Italia", oggi legge 214 del 22 dicembre 2011. Quanto potrebbe essere lungo questo periodo ponte presidente?Credo almeno due anni dall'entrata in vigore della nuova normativa. Penso che non dovremmo avere difficoltà ad argomentare e a far recepire la norma, che è una norma di banale buon senso. Qui stiamo parlando della vita delle persone: c'è gente che fa il pubblicista perché non ha le opportunità per diventare professionista. Con l'introduzione dell'esame di Stato c'è da aspettarsi una sensibile riduzione del numero dei pubblicisti? L'esame imporrà certamente una riflessione da parte di chi avvia il percorso. Con la legge attuale, diciamo la verità, non è certo proibitivo diventare pubblicista. Detto questo, dobbiamo anche prevedere qualcosa che consenta ad esempio al professor Monti di continuare a fare il commentatore per il Corriere della Sera e, se lo desidera, di poter avere una qualificazione. La figura del pubblicista all'inizio era esattamente questa: il professore, il corrispondente dal grande paese o dal piccolo centro che, pur avendo un'altra attività, costituisce una fonte di notizie. Queste persone devono rimanere senza alcuna tutela? Io credo di no. Tra l'altro si incorrerebbe in un'altra norma di legge vigente che è l'esercizio abusivo della professione. Ma i pubblicisti  di oggi hanno ben altro profilo. Sono anche frequenti casi in cui l'aspirante è costretto a pagare di tasca propria i contributi, falsificando la documentazione fiscale pur di dimostrare una collaborazione retribuita con una testata.Quando pizzico casi simili faccio la denuncia alla Procura della Repubblica. Sono stato ascoltato dalla Procura di Isernia e da quella di Santa Maria Capua Vetere, attivata da quella di Catania e abbiamo mandato a tutte le Procure la segnalazione. C'è chi se n'è fregato e c'è chi invece chi si è attivato.Rispetto all'esame per diventare professionisti, la maggioranza dei candidati che si presentano oggi all'esame di Stato proviene da praticantati d'ufficio. La riforma cercherà di ridurre il ricorso a questo strumento?Non sono in grado di affermare che siano la maggior parte. In linea di massima i praticanti d'ufficio sono colleghi che vengono angariati e sfruttati da radio, tv e giornali medio piccoli, perché i grandi non lo fanno. Negare loro anche il diritto ad un riconoscimento mi pare onestamente ingiusto. Che ci voglia maggior rigore sì, ma questo per tutto, per i praticantati d'ufficio come per i praticantati freelance. Ci vuole lo stesso rigore  che ci ha portato a ridurre le scuole di giornalismo da 21 a 12. Rispetto alle scuole, c'è appunto chi sostiene che siano un modo per "comprare il praticantato".All'inizio anch'io ero contrario alle scuole. Poi mi sono convinto che in mancanza dell'opportunità di fare il praticantato tradizionale, le scuole costituiscano spesso l'unica opportunità per chi vuole intraprendere questa strada. L'idea era sana, purtroppo in molti casi è stata vanificata da costi insopportabili e talvolta sporcata dal comportamento di alcuni accademici. Comunque la mia firma sotto un provvedimento di apertura di una nuova scuola non c'è. C'è semmai sotto provvedimenti di chiusura. L'ultima scuola che non è partita, perché non l'abbiamo autorizzata è Bologna - che adesso è sospesa. Le scuole convenzionate con l'Ordine rendono disponibili le loro percentuali di placement? L'unica scuola che lo fa stabilmente è lo Iulm, qualche dato è disponibile anche per la Luiss. I numeri sono sconfortanti, anche se bisogna chiarire a che cosa ci riferiamo: se parliamo di giornalisti assunti a tempo indeterminato siamo al di sotto il 10 per cento; se invece parliamo di persone che hanno un contratto dopo l'altro siamo sicuramente al di sopra. Ma non è comunque quello che volevamo. Non ambivamo al 100%, ma neppure al 20-25% attuale. A molti non resta che lavorare come collaboratori freelance, con remunerazioni spesso al di sotto della soglia di povertà. La legge sull'equo compenso migliorerà la situazione? Secondo me sì, perché gli editori rischiano i soldi del finanziamento pubblico, che sono tanti. Purtroppo con l'avvicendamento alla presidenza della Fieg abbiamo improvvisamente avuto delle difficoltà. Diciamo che gli editori stanno facendo lobbying. Lei ha più volte invitato i collaboratori a denunciare le situazioni di sfruttamento. Ma che cosa può fare concretamente l'Ordine contro gli abusi degli editori?Contro l'editore nulla, ma contro il direttore ci può essere la sospensione dall'attività professionale. La prima volta di due mesi, la seconda di sei. Non solo nei confronti del direttore, ma anche del caporedattore e del caposervizio. Dinanzi a queste situazioni io mi chiedo comunque: che cosa fanno i comitati di redazione?. Perché se un membro del cdr, che ha una tutela di legge oltre che contrattuale, denuncia che l'editore paga 2 euro a pezzo lordi i colleghi, il caporedattore e il caposervizio non potranno più far finta di non sapere. Non vuole essere uno scaricabarile, ma la Federazione nazionale della stampa non ha voluto sottoscrivere la Carta di Firenze dopo averla costruita perché ha  realizzato che chiamava pesantemente in causa la responsabilità dei cdr. Poi non ci si può stupire se il sindacato non è tanto popolare.Tornando all'imminente riforma dell'Ordine, è già stata fissata una data per l'avvio del tavolo tecnico con il ministero della Giustizia?Non ancora. C'è però una determinazione del ministero a fare dei  singoli dpr [decreti del Presidente della Repubblica, ndr], e non un provvedimento omnibus che inevitabilmente avrebbe finito per scontentare tutti gli ordini. Il 29 febbraio abbiamo avuto un secondo incontro con il ministro Severino durante il quale sono intervenuto per segnalare la specificità della nostra struttura ordinistica e la necessità di procedere non più per incontri collegiali ma per tavoli tecnici separati, o comunque con ordini accorpati. Mi è stato risposto che il ministero conosce bene l'aspetto che riguarda i pubblicisti e che questo problema sarà affrontato in un tavolo tecnico dedicato. Si tratta di un grande risultato. L'obiettivo a cui noi punteremo in sede tecnica è di cogliere l'opportunità che ci viene del 13 agosto per concordare una riforma generale dell'ordine, le cui linee guida sono state approvate dal Consiglio nazionale lo scorso 19 gennaio. Da lì pertiremo per una discussione aperta non solo al contributo dei tecnici del ministero, ma di tutti. Mi rendo conto che qualcuno vede nell'obbligo dell'esame di Stato per i pubblicisti un appesantimento. Ma io invito a dare un'altra lettura: a riflettere cioè sul fatto che le professioni che prevedono un esame di Stato obbligatorio hanno anche maggiori tutele.Intervista di Ilaria CostantiniPer saperne di più su questo argomento leggi anche:- Approvate le linee guida per la riforma dell'Ordine dei giornalisti: fino al 13 agosto si continua a diventare pubblicisti senza esame (e senza intoppi)- Che fine faranno i pubblicisti? Ordine dei giornalisti in subbuglio per la riforma delle professioni- Giornalisti precari alla riscossa: a Firenze due giorni di dibattito per approvare una Carta deontologica che protegga dallo sfruttamento- Lo scandalo dei giornalisti pagati cinquanta centesimi a pezzo. Il presidente degli editori a Firenze: «La Fieg non dà sanzioni. E poi, cos’è un pezzo?»- Giornalisti precari, il problema non è il posto fisso ma le retribuzioni sotto la soglia della dignità E anche: - Enzo Carra: «Dal 2013 equo compenso per i giornalisti freelance»- Alle nuove norme sui praticanti manca l'equo compenso, lo dice anche la commissione giustizia del Senato- Disposti a tutto pur di diventare giornalisti pubblicisti: anche a fingere di essere pagati. Ma gli Ordini non vigilano?- Il Fortino, una riflessione di Roberto Bonzio sui giornalisti di domani: «Oggi chi è dentro le redazioni è tutelato, ma fuori ci sono troppi sottopagati»