Categoria: Interviste

Antonio Loconte: «Cari aspiranti giornalisti, lasciate stare e fate gli idraulici»

Antonio Loconte è un giornalista di 34 anni. Quasi due anni fa è stato messo alla porta dalla redazione per cui lavorava e da allora vive un’esistenza all’insegna del precariato. La sua esperienza, che potrebbe essere quella di molti altri giornalisti freelance, è raccontata in Senza paracadute - diario tragicomico di un giornalista precario (Adda editore, 244 pagine, 15 euro), uscito qualche mese fa. Una storia che, utilizzando le parole di Antonio Caprarica, autore della prefazione, rappresenta «il paradigma di un paese che si nega il futuro. Eppure, non si chiude alla speranza: almeno finché l'istinto di ribellarsi, la feroce determinazione di non chinare la schiena ci costringeranno tutti a interrogarci». Il tutto senza perdere l'ironia: la video sigla di presentazione del libro mostra Loconte (nella foto a qui sotto a sinistra con Alessandro Banfi a un festival letterario) alle prese con il suo funerale, chiara metafora del destino di questa professione. La Repubblica degli Stagisti lo ha incontrato e ha parlato con lui di lavoro, problemi e scenari futuri del giornalismo. Tu sei stato prima freelance sottopagato, poi assunto con tutti i crismi e con il buon stipendio dei giornalisti «garantiti», e poi di nuovo freelance sottopagato dopo il licenziamento. Proprio così. Ho iniziato pagandomi anche il treno per raggiungere il posto di lavoro, una cooperativa di cui negli ultimi dieci mesi di vita ero socio, senza prendere una lira. E ho finito con l'assunzione da praticante, quella che mi ha permesso di prendere il tesserino da professionista. Poi cococo, cocopro, fatture con la partita iva aperta appositamente, un contratto Aeranti-Corallo per la piccola emittenza televisiva e uno Fnsi per la sostituzione di una collega a Leggo Bari, con mazzette di giornali, buoni pasto e parcheggio pagato. Sono passato da pochi spiccioli al mese a 2.500 euro con benefit annessi, tanto da sentirmi per sei mesi parte della casta.E oggi? Grazie a quest'ultimo contratto riesco a vivere con la disoccupazione che garantisce una copertura di 24 mesi, dunque fino a novembre. 1.400 euro al mese, a cui sottraggo di volta in volta le collaborazioni occasionali sempre fatturate; da dicembre ad agosto 2013 percepirò invece una cifra un po' inferiore. Se non avessi questo sussidio farei la fame. Ho delle collaborazioni, che sono soprattutto progetti in cui credo e dei quali spero di riuscire a vivere: per ora, però, le mie entrate sono limitate a qualche ufficio stampa.Come nasce Senza Paracadute?Nel cuore della notte. Prima di tutto ne ho sognato subito il titolo, che ho pensato bene di comunicare a mia moglie alle quattro del mattino. Ci ho messo un paio di mesi a mettere nero su bianco ciò che avevo chiaro in testa. La prima bozza era la vendetta nei confronti dell'azienda che mi ha licenziato senza una giusta causa quasi due anni fa. Poi, però, mi sono detto che volevo altro. Volevo raccontare la vita dei cronisti di strada, quelli spesso precari. Un modo per scuotere le coscienze dei giornalisti - molti dei quali negano di aver letto il libro, forse perché nella mia storia si riconoscono, ma invece di reagire subiscono - e far conoscere ai curiosi un mondo che è ben lontano dai riflettori sempre accesi, dalle paghe da nababbo e dai privilegi incondizionati della casta. Che reazioni ha suscitato nel mondo della stampa?Contrastanti. C'è chi ha deciso di crederci, di starmi accanto in questa battaglia e chi, invece, l'ha presa come una questione personale. Questo non è un libro contro qualcuno. In realtà è la voglia di un reale cambiamento, il sogno di vedere schierati dalla stessa parte garantiti e precari. Al di là della crisi, che tocca più o meno tutti i settori, qual è il più grosso problema del giornalismo?La lista è davvero lunga e prima o poi bisognerà cominciare da qualche parte. Stagisti e tirocinanti messi a svolgere le mansioni di un professionista - non nell'accezione di essere iscritto all'albo dei professionisti, ma in quella di fare da decenni il mestiere. Editori certi di poter fare ciò che gli pare, perché tanto sono ancora loro gli squali nella catena alimentare dell'informazione; super costosissimi master, che non ti danno la benché minima certezza di accedere alla professione in maniera dignitosa - tanti amici dopo l'investimento fanno i camerieri... E ancora, dopolavoristi e hobbisti: insegnanti, medici, sportivi, geometri, giardinieri e opinionisti pronti a essere scaraventati davanti a una telecamera o sulle pagine dei giornali perché tanto si accontentano di poco.. Nel tuo libro «Tonino il tuttofare» prepara gli aperitivi, parla del provolone come dello sfruttamento della prostituzione. La tua immagine è molto realistica e lontana da quella dei famosi mezzibusti. Credi che chi guarda a questo mestiere sia vittima di un’idealizzazione della figura del giornalista?Il giornalista è ormai una figura mitologica. Mi è capitato di sentirne davvero delle belle. «Ah, lavori per quella testata, quindi guadagni un sacco di soldi! Che bella vita fate! ». Non scarichiamo tufi, certo, ma lavoriamo anche 18 ore al giorno per pochi spiccioli, perché se non lo facciamo noi ci sono altre decine di migliaia di ragazzi pronti a farlo. Stiamo quasi abituandoci all'idea che sia una cosa normale, che non sia nemmeno il caso di ribellarci. Paghiamo come tutti le bollette, abbiamo un mutuo e la rata della macchina, valutiamo attentamente prima di avere un bambino e spesso ci occupiamo delle proteste di chi guadagna in un mese il doppio di quanto noi non portiamo a casa in 60 giorni. Questa non è flessibilità, è schiavitù. E guardate, un giornalista affamato è spesso un giornalista non libero. In Italia il 55% dei giornalisti è precario e uno su sei vive sotto la soglia della povertà. Poi c'è la casta, ma questa è un'altra storia.  «Se potessi tornare indietro rifarei le stesse scelte e forse gli stessi identici errori, ma voi che ancora potete, lasciate stare e scegliete di fare gli idraulici». Perché chi vuole affacciarsi al mondo del giornalismo attualmente è meglio che prenda un’altra strada? Rifarei le stesse identiche scelte, compresa quella di scrivere questo libro. L'idraulico perché qualche tempo fa ne ho chiamato uno a sostituire il sifone del lavandino del bagno: mi ha chiesto 200 euro e non ho battuto ciglio. Perché invece noi dobbiamo accontentarci di una mancia? Anche 3,10 euro a pezzo. Il giornalismo è ancora il mestiere più bello del mondo, ma i giornalisti stanno perdendo quella vocazione necessaria per fare questo lavoro. Dico solo che bisogna pensarci tre, quattro, anche 10 volte prima di decidere di buttarsi in questo mondo. I sogni vanno inseguiti, ma bisogna tornare coi piedi per terra quando muore di speranza anche chi ti sta accanto. Mi raccomando, il matrimonio tra giornalisti precari è un incesto. Cosa bisognerebbe cambiare secondo te?Il cambiamento deve essere soprattutto nelle nostre teste e nei nostri cuori. Non ci si può approcciare al giornalismo con l'idea che essere sfruttati, essere schiavi, sia l'unico modo per fare questo mestiere. Nonostante tutto, il tuo è un libro ironico e leggero, che mostra una grande passione e un forte attaccamento alla professione. Forse qualche speranza c’è…La speranza deve essere sempre l'ultima a morire. Nella video sigla del libro esco ed entro da una bara, mi preparo il mio metaforico funerale. Non prendersi troppo sul serio aiuta sempre, anche a rincorrere questo maledetto sogno. La crisi che stiamo attraversando, non solo economica, riguarda tutti: dal più pagato al più precario dei giornalisti. Se guardassimo tutti dalla stessa parte tornerebbe ad avere senso anche l'Ordine.Chiara Del PriorePer approfondire questo argomento, leggi anche:- Giornalisti precari, il problema non è il posto fisso, ma le retribuzioni al di sotto della soglia della dignità - Lo scandalo dei giornalisti pagati 50 centesimi a pezzo. Il presidente degli editori a Firenze: «La Fieg non dà sanzioni. E poi, cos’è un pezzo?» - Giornalisti precari in rivolta: a Napoli reclamano più spazio nella web tv del Comune, a Roma diventano Errori di stampa

Largo ai giovani giornalisti: Napoli ospita gli Youth Media Days

Ha 27 anni, è il presidente di Youth Press Italia ed è addetto stampa di Cittalia – Anci ricerche e uno degli organizzatori dell’evento citato tra i progetti di eccellenza per la valorizzazione della creatività urbana nel corso del World Urban Forum 6. Ma sopratutto Simone d’Antonio è il giornalista che si è inventato il Festival del giornalismo giovane, che debutterà a Napoli venerdì 21 settembre già con un pedigree di tutto rispetto: l'adesione alla campagna “I’m a city changer” e la citazione da parte di UN Habitat, l’agenzia tematica dell’Onu, tra i progetti urbani innovativi di partecipazione e coinvolgimento del territorio. La Repubblica degli Stagisti lo ha intervistato per sentire come è nata questa idea.Il Festival del giornalismo giovane prenderà il via a Napoli il 21 settembre, che obiettivi si pone?Abbiamo voluto realizzare per la prima volta in Italia uno spazio dedicato soltanto ai giovani giornalisti. Negli altri eventi molto spesso c’è poco tempo per temi come l’accesso alla professione e la lotta al precariato e si lascia la scena ai colleghi più esperti. Invece nel nostro caso abbiamo cercato di mettere in campo sia le migliori esperienze, anche di innovazione, realizzate dal basso un po’ in tutta Italia, sia lasciare spazio al dialogo sulle problematiche affrontate dai giovani giornalisti. Avremo anche un dibattito sulle scuole di giornalismo per capire se oggi rappresentano ancora un qualcosa di significativo nonostante la crisi o uno spreco perché formano più giornalisti rispetto a quanti il mercato possa offrire. L’obiettivo è favorire la discussione tra le diverse posizioni su questo argomento. E poi la legge sull’equo compenso: daremo attenzione anche a questo tema.L’evento è organizzato da Youth Press Italia: di che cosa si occupa quest’associazione, nata nel 2008, di cui sei presidente?Di promuovere, anche in Europa, tutte le esperienze di giornalismo giovane italiane. Siamo parte di una rete europea, European Youth Press, che raggruppa più di venti associazioni nazionali di giovani giornalisti molto diverse tra loro: alcune nate negli anni ’50, come quella tedesca, o con diversi milioni di iscritti e un bilancio di vari milioni di euro, come quella svedese. E hanno focus molto diversi: chi si concentra sui giornali scolastici, chi sugli studenti di giornalismo. Noi cerchiamo di abbracciarli tutti e di portare all’attenzione di questo network di oltre 50mila giornalisti in tutta Europa i temi avvertiti in Italia, come il precariato e l’accesso alla professione, e di far sì che ci possa essere anche un’azione di lobbying a livello europeo e che sia possibile confrontare le esperienze tra i diversi paesi. In uno dei panel a Napoli avremo, infatti, sia giovani giornalisti italiani che lavorano all’estero, in testate come Cafebabel, sia giornalisti stranieri che racconteranno come si lavora negli altri Paesi.Quali sono i consigli che l’associazione dà a chi vuole affermarsi nel giornalismo?Specializzarsi quanto più possibile su di un tema e fare esperienza all’estero. Imparare le lingue, bene, in modo da poterci anche lavorare, rappresenta l’unica garanzia in questo momento per ricollegarci a un mercato del lavoro sempre più europeo e sempre meno locale e nazionale. Il giornalismo è una di quelle poche professioni in cui non ci sono cervelli in fuga perché le differenze linguistiche e soprattutto il modo in cui si utilizza una lingua non consente di potersi esprimere in altri paesi con la proprietà che si ha nella propria lingua. Rimanendo in Italia, bisogna però essere quanto più competenti e esperti possibili su un tema, credo sia l’unica garanzia per poter offrire agli editori e ai giornali un contributo unico rispetto ad altri. Qual è la tua ricetta, se ne hai una, per sconfiggere lo sfruttamento nel mondo del giornalismo?Applicare nella maniera più stretta possibile la Carta di Firenze e gli altri strumenti di cui si è dotato negli ultimi anni l’Ordine dei giornalisti. Anche se credo non sia stato fatto ancora abbastanza soprattutto sul fronte delle multe agli editori e quindi della possibilità di rendere veramente operativi questi strumenti. A Napoli raccoglieremo queste denunce: abbiamo aderito alla campagna lanciata dal coordinamento dei precari di Napoli, che consentirà a tanti ragazzi di raccontare le proprie storie di precariato e raccogliere segnalazioni che saranno comunicate agli organismi competenti di categoria. Come mai la scelta di Napoli?Perché per la sua natura di città mediterranea, creativa, vivace rappresenta la cornice più adatta per un evento del genere. Poi perché è da sempre al centro del rapporto letterario e giornalistico del nostro paese e perché in questo momento, nonostante la crisi di parecchie aziende editoriali, continua ad avere tantissime esperienze di innovazione a livello scolastico e universitario, ma non solo. Ci sono i ragazzi di Radio Siani che si impegnano fortemente contro la camorra e hanno la sede a Ercolano in un edificio sottratto ai clan. Grazie alla collaborazione con il Comune di Napoli e con altri soggetti della società civile sarà poi possibile mostrare ai giovani i lati nascosti della città attraverso gli atelier urbani, che sono un elemento di grande novità per questo tipo di eventi in genere monotematici. Noi invece abbiamo voluto aprirci nei confronti della città, mostrando le eccellenze del mondo produttivo, ma anche gastronomico e della società civile: vedremo la Napoli dei migranti, ma anche i progetti di riqualificazione partecipata di alcune piazze come piazza Mercato. Il festival è dedicato ai giornalisti under 35: qual è la loro percentuale oggi in Italia e i loro principali tipi di contratto?Dati precisi non ce ne sono, nemmeno l’Ordine riesce a fornirli perché ha solo il numero di iscritti che rappresentano una fetta parziale del totale dei giovani giornalisti. Si parla di stime dell’80% di giornalisti precari al sud, del 60% al nord, ma è difficile quantificarlo veramente. Le tipologie contrattuali sono le più varie. Anzi molto spesso si lavora in nero o per i famosi 3 o 5 euro a pezzo e per il web ci sono pagamenti che vanno a numero di click o numero di parole. È uno scenario sconfortante a cui va messo un freno: con i meccanismi di controllo da parte degli ordini di categoria nei confronti degli editori, ma soprattutto mettendo dei paletti chiari alle retribuzioni minime e speriamo che la legge sull’equo compenso possa aiutare a rendere più effettivo questo tipo di controllo. Chi finanzia questo festival?In un momento di crisi come questa abbiamo provato a fare tutto low cost. Un piccolo finanziamento di 5mila euro lo abbiamo avuto partecipando a una campagna di micro grant dello European youth forum. Il Comune di Napoli ci ha aiutato per la parte logistica dandoci le sale, la Banca di Credito Popolare, non scelta a caso ma perché è attiva sul territorio, ci ha dato un altro finanziamento e poi abbiamo avuto degli altri supporti come Sorbillo che servirà il catering o l’associazione degli ostelli della gioventù, solo per dirne alcuni. Chi volesse venire a seguire i dibattiti che deve fare?Deve registrarsi nella sezione apposita del sito dedicata all’evento che è festival.youthpressitalia.eu Può venire tranquillamente, saranno tre giorni di conferenze, sarà un evento unico in Italia. Speriamo di poter organizzare anche altre edizioni e che diventi un appuntamento fisso sia della programmazione culturale napoletana sia del dibattito giornalistico italiano. Tu sarai il moderatore di un panel dal titolo “Giornalismi del futuro: oltre la crisi, accesso alla professione e le sfide del settore”: qual è la tua posizione sull’accesso al giornalismo?Per mia esperienza personale posso dire che il modo migliore per imparare questo mestiere è quello di lavorare fin da subito, iniziando a collaborare con testate locali. Ma questo non va in contrasto con il frequentare una scuola di giornalismo. Credo sia un mestiere che dipende anche dalla personale attitudine a mettere in gioco la propria creatività, il modo di proporti. E che si impara facendolo, come gli altri mestieri della comunicazione. Quindi sei contrario alle scuole di giornalismo?Noi come associazione rappresentiamo tutti, anche gli studenti delle scuole. C’è però un problema creato da chi ha concepito le scuole: si creano ogni anno un numero maggiore di professionisti rispetto a quelli che il mercato è in grado di assorbire. Le scuole si sono moltiplicate sul territorio senza dei criteri di qualità omogenei tra loro e questo non ha contribuito a renderle il sistema esclusivo di accesso alla professione. Però, ripeto, non siamo contrari: come per fare il medico devi studiare, hai bisogno di farlo anche per fare il giornalista. Ma non penso debba essere un canale esclusivo. Ci devono essere dei meccanismi di accesso chiari, con regole ben precise: un sistema più moderno ed europeo.Tra i tanti appuntamenti della tre giorni qual è a tua avviso quello da non perdere e perché?Certamente quello sul precariato e sull’accesso alla professione di sabato 22 che si concentra sul forte dibattito delle ultime settimane, sia sui siti dei coordinamenti che su facebook, sulle diverse posizioni in campo sul tema dell’equo compenso. Un altro panel a cui tengo particolarmente è “giornalismi abroad” di sabato 22, sempre nel pomeriggio, che riguarderà le esperienze di giovani giornalisti italiani che lavorano all’estero e anche la storia di cinque fotoreporter napoletani che hanno organizzato una mostra sulle rivoluzioni arabe e daranno dei consigli a chi intraprende questa strada. Marianna Lepore La Repubblica degli Stagisti parteciperà al Festival nel panel "Scuole di giornalismo: inizio del precariato o speranza per il futuro?" Per saperne di più su questo argomento leggi anche:- Le scuole di giornalismo sono ormai solo per i figli dei ricchi? - Equo compenso per i giornalisti, sfuma l'approvazione della legge ma i freelance non demordono- Giornalisti precari, il problema non è il posto fisso ma le restribuzioni sotto la soglia della dignità E anche:- Giornalisti a tutti i costi, il business dei mille corsi- Giornalismo, al Festival i problemi della professione- Enzo Iacopino: «Le scuole strumento essenziale, il problema sono i costi»

Giornalismo, Cotroneo: «Meglio il praticantato nelle scuole che nelle redazioni»

È entrato all'Espresso all'inizio degli anni Ottanta, con un contratto di praticantato, restandoci poi per 25 anni e divenendone una delle firme di punta. Roberto Cotroneo, 51 anni, oggi dirige una delle scuole di giornalismo più prestigiose, la Scuola Superiore “Massimo Baldini” della Luiss. La Repubblica degli Stagisti l'ha intervistato per cercare di capire qualcosa in più, stereotipi a parte, sulle scuole di giornalismo.  Direttore, cosa risponde a chi accusa le scuole di giornalismo di essere posti dove i figli di papà si comprano il praticantato e diventano giornalisti?Che è una sciocchezza. Noi abbiamo allievi che non sono figli di papà, che vincono delle borse di studio, diamo esattamente sei esenzioni totali ogni due anni. Le scuole possono essere frequentate anche dalle persone che non ne hanno le possibilità, come tutti i master post laurea. E poi non si compra il praticantato nella scuola di giornalismo, si impara a fare i giornalisti. Si fa per due anni un lavoro durissimo, a tempo pieno otto ore al giorno, facendo tutte le discipline: un lavoro importante che vedono poi le testate quando vanno a fare gli stage.Non è un'imboscata: io e molti collaboratori della Repubblica degli Stagisti, compreso il direttore, siamo giornalisti grazie a una scuola. Ma proprio perché a scuola ci hanno insegnato bene il mestiere, vediamo che la situazione di questo canale di accesso alla professione è critica a causa dei costi sempre più alti. La Luiss per esempio costa 20mila euro a biennio: è accettabile?È inevitabile. E poi tutti i canali di accesso alle professioni sono critici, ormai. C’è una regola dell’Ordine che dice che le scuole non devono avere utili, e infatti noi andiamo esattamente in pari. Non guadagnamo sulla scuola di giornalismo. Quella cifra serve esattamente a pagare attrezzature, tecnologie ad altissimi livelli che rinnoviamo ogni due anni. Se gli editori facessero il loro mestiere e sponsorizzassero le scuole di giornalismo, e ne avrebbero interesse visto che formiamo dei giornalisti per loro, le cose sarebbero diverse. Secondo lei le 12 borse di studio parziali su 30 posti che mettete a disposizione sono sufficienti? Comunque resta il 50% della quota da pagare, 10mila euro, e poi per tutti gli allievi che arrivano da fuori Roma ci sono anche le spese di vitto e alloggio nella capitale, non proprio basse. Per le famiglie resta un gran sacrificio… Tenga conto che c’è una norma che obbliga un 15-20% del fatturato delle scuole in borse di studio, quindi noi diamo quello che l’ordine – che sta facendo un eccellente lavoro da questo punto di vista -  chiede. Se le altre scuole non lo fanno, escono dalla normativa. Le università costano, non è che uno è obbligato a fare il giornalista nella vita. Fare una scuola di giornalismo purtroppo ha dei costi, su questo non c’è dubbio. Il mio sogno è fare una scuola di giornalismo che ha tutte borse di studio e che porta all’esenzione totale di tutti gli allievi, ma non si può. Questo è il problema. Chi paga queste borse?È la Luiss che le paga. Non ci sono aziende esterne, le diamo noi stessi. Prendiamo una parte dei nostri proventi e le trasformiamo in borse di studio.Quali sono, oggi, gli sbocchi occupazionali per i praticanti della scuola?Noi abbiamo 11 giornalisti al Tg1: prepariamo davvero, è per questo che abbiamo bisogno di investimenti e di tutto quello che lei può immaginare.Vista la forte crisi nel settore giornalistico, su cosa la scuola punta maggiormente per aiutare i suoi praticanti a trovare un lavoro?Sull’online, chiaramente, sulla competenza e sulle nuove tecnologie. Come mai le scuole hanno costi tanto differenti, dagli 8mila ai 20mila euro per avere, in linea teorica, gli stessi insegnamenti?Non lo so: so quello che costa la nostra per il tipo di spese che abbiamo, e non possiamo minimamente stare sotto quel tipo di cifra. Se mi chiede come mai ci sono scuole che costano 8mila euro, non glielo so dire. Normalmente sono scuole che hanno sovvenzioni regionali. Certo le posso dire una cosa: una scuola di giornalismo, organizzata nel modo giusto, con tutto quello che serve, non può costare 8mila euro. Perché vuol dire che qualcosa non torna.Come spendete i circa 600mila euro che ricavate ogni due anni dai candidati e dai vostri allievi? Sono 300mila euro all’anno: li spendiamo pagando i docenti, i tutor, comprando le attrezzatture, stampando il giornale, tenendo i domini, facendo le riforme grafiche.Come tutte le scuole, a un certo punto anche per i vostri allievi c'è lo stage: si tratta di vero apprendimento o di sfruttamento nelle redazioni? Lo stage fa parte del percorso formativo della scuola di giornalismo, è obbligatorio perché completa il praticantato. Tutto dipende dalla redazione in cui vanno e come si comportano i capiredattori nei confronti degli stagisti. Da parte nostra non abbiamo mai avuto casi di sfruttamento e lo so perché ho le relazioni degli allievi che vengono poi consegnate all’ordine, è tutto assolutamente scritto. Non posso escludere quello che succede in altre scuole. A noi non sono mai successi casi di sfruttamento:  seguo gli stage dei miei allievi telefonando a uno a uno i direttori e cercando di far capire come sono i miei allievi e come dovrebbero essere in qualche modo utilizzati. Se ci sono scuole che li mandano allo sbaraglio in redazioni che conoscono poco, è un altro discorso. Cerco di stare attento a non far finire i miei allievi in stage che non siano adeguati a un livello di professionalità e di competenza che hanno.È giusto che scuole costose come la vostra mandino i propri allievi in redazioni che prevedono stage gratuiti? Non potreste mettere una clausola per cui ai vostri allievi garantite di mandarli in redazioni "illuminate" che prevedano di erogare un rimborso? Purtroppo non posso modificare il codice civile. Se gli editori di Repubblica non vogliono pagare gli stagisti non è che posso obbligarli attraverso qualunque clausola perché legalmente non avrebbe nessun valore. Lo stage, come si sa, non è detto che debba essere pagato e io non posso obbligare De Benedetti, o il gruppo Rcs, o Sky a pagare gli stagisti. Mi piacerebbe che li pagassero: ma purtroppo è una decisione loro, non mia.Peraltro forse da gennaio 2013 sarà anche obbligatorio il pagamento degli stage….Sì. Dovrebbe diventare obbligatorio, allora a quel punto la legge mi aiuterebbe, ma io posso fare molto poco: se non ribadire che sono d’accordo, ovviamente, che gli stagisti dovrebbero essere pagati.Una volta diventati professionisti, la vostra scuola continua a seguire gli ex praticanti nel loro percorso lavorativo monitorando lo stato occupazionale?Assolutamente sì, abbiamo tutti i dati, monitoriamo e cerchiamo di seguire il più possibile tutto questo. Le statistiche sono buone: abbiamo alcuni articoli 1 e molti hanno dei contratti con cui collaborano con giornali importanti.  Lei quest'anno al festival del giornalismo di Perugia ha lamentato il disinteresse degli editori delle grandi testate, che non chiamano mai lei e gli altri direttori delle scuole per farsi segnalare gli allievi più bravi. Quindi nel nostro mondo si continua ad andare avanti per cooptazione e anzianità? Niente spazio al merito e alle nuove leve?Se mi fa questa domanda così diretta le rispondo che sì, ancora siamo a cooptazione, decisamente. C’è questo problema, non posso negarlo, c’è nei giornali come negli altri posti di lavoro.Oggi consiglierebbe a un giovane che vuole diventare giornalista di frequentare una scuola di giornalismo?Se un giovane vuole diventare giornalista l’unica cosa è frequentare una scuola di giornalismo. In questo momento non conosco altri modi.Il praticantato con l'assunzione, col famoso articolo 35 del contratto di lavoro giornalistico, è praticamente estinto. Perché? Questo deve chiederlo agli editori. Ho fatto il praticantato in un giornale dove poi ho lavorato per 25 anni, l’Espresso. Perché non c’è più? Chi lo sa.Tra il percorso che si faceva una volta nei giornali e quello che si fa oggi nelle scuole, qual è il migliore?Oggi sicuramente il praticantato nelle scuole. La professione è profondamente cambiata, la parte artigianale che c’era un tempo non esiste più. Quindi è molto meglio fare un praticantato nelle scuole e imparare più cose possibile. Perché oggi il livello tecnologico nel mestiere è talmente importante che non si può più imparare a Repubblica, come ho fatto io. Se mi chiede se sia giusto avere delle scuole di giornalismo quasi gratis magari per i meno abbienti con un ingresso ad altissimo livello, con selezioni molto forti, sì, è un problema che dovremmo porci. Però ora le scuole di giornalismo costano perché costa farle davvero: una volta per fare questo mestiere serviva la macchina da scrivere e due fogli. Oggi non è più così. Marianna LeporePer saperne di più su questo argomento leggi anche:- Le scuole di giornalismo sono ormai solo per i figli dei ricchi?- Scuole di giornalismo troppo costose, ma i veri problemi della professione sono altri- Equo compenso per i giornalisti, sfuma l'approvazione della legge, ma i freelance non demordono- Giornalisti a tutti i costi, il business dei mille corsi E anche:- Enzo Carra: «Dal 2013 equo compenso per i giornalisti freelance»- Giornalismo, al Festival i problemi della professione- Giornalisti precari, il problema non è il posto fisso ma le retribuzioni sotto la soglia della dignità- Costi, remunerazione minima, articoli richiesti: tutti i requisiti per diventare pubblicisti, Ordine per Ordine

Enzo Iacopino: «Le scuole strumento essenziale, il problema sono i costi»

La prima è nata alla fine degli anni settanta ed era completamente gratuita: da allora le scuole di giornalismo sono cresciute (fino a essere 21) e diventate molto costose. Negli ultimi anni Enzo Iacopino, dal 2007 segretario e dal 2010 ad oggi presidente dell’Ordine dei giornalisti, le ha monitorate facendo chiudere tutte quelle che non rispettavano il quadro di indirizzi. La Repubblica degli Stagisti lo ha intervistato per avere la sua opinione sui problemi della professione, a cominciare da quello dei canali di accesso.Oggi in Italia esistono 11 scuole di giornalismo, ma ognuna ha requisiti diversi: perché l’Ordine firmando le convenzioni non stabilisce regole comuni su età o numero di allievi?Le regole sono comuni e scaricabili dal sito dell’ordine. Il numero varia perché al momento della convenzione si è stabilito un tetto massimo ma dove non c’era una struttura adeguata per trenta si è fissato un numero inferiore. Il problema però è un altro: ormai il praticantato tradizionale non lo fa più nessuno perché nessun editore lo consente. L’Ordine ha chiuso una decina di scuole: perché?Alcune erano una finzione: mi è capitato di andare a fare ispezioni a sorpresa in una scuola che aveva sede in un garage. Per 30 ragazzi c’erano a disposizione solo tre quotidiani. E i docenti nemmeno sapevano di esserlo. Abbiamo scoperto queste cose solo quando i ragazzi dopo l’esame, liberati dal “ricatto”, ci hanno raccontato cosa succedeva. Credo comunque che le scuole siano diventate uno strumento essenziale, se garantiscono la qualità. Il problema però è che costano una cifra insopportabile. Infatti: dagli 8mila ai 20mila euro a biennio: un business non indifferente… Le rette sono una cosa insopportabile e ci sono molti altri costi da aggiungere. Dobbiamo però decidere se essere ipocriti o concreti. La deperibilità delle attrezzature in una scuola è altissima e bisogna affrontarla. Il discorso che andrebbe fatto è: se l’informazione è patrimonio della società, lo Stato non può guardare dall’altra parte sperando che i privati risolvano il problema. Se i giornalisti devono garantire l’informazione e devono essere preparati a fornirla, i master devono costare come un normale corso post laurea: 3mila, 3.500 euro. L’Ordine non potrebbe almeno controllare che sia effettivamente rispettato il requisito delle borse di studio per garantire l’accesso ai più meritevoli? Ma se i praticanti, quando sono dentro le scuole e sono vittime di quello che accade, non lo dicono, come faccio a sapere che non danno borse di studio? Alcune scuole sono state diffidate, a firma Iacopino abbiamo scritto «se non date le borse di studio e non ci date le prove con la tracciabilità bancaria, vi chiudiamo la scuola». Però gli studenti ce l’hanno detto solo quando sono venuti a fare l’esame.  Nelle analisi fatte dall’Ordine non c’è nessun dato sugli obiettivi occupazionali né le scuole pubblicano dati simili sui loro siti: nessuno fa un monitoraggio sul placement degli ex allievi?L’unico è lo Iulm. Un altro monitoraggio lodevole, lo ha fatto Franco Abruzzo. Né l’Ordine né le università hanno strumenti per obbligare i ragazzi a dire cosa fanno finito il master. Non so come aggirare il problema, chiunque mi dia un suggerimento avrà la mia gratitudine pubblica. Non si può pretendere che un’università insegua i suoi ex allievi né mettere nelle norme l’obbligo deontologico, a carico degli ex studenti, di comunicare cosa fanno!Quindi gli esiti occupazionali non sono presi in considerazione dai vertici dell’Ordine per la conferma delle convenzioni?No. Come segretario dell’ordine ho fatto la prima riforma del quadro di indirizzi e ho ottenuto una norma sulle incompatibilità: prima chi controllava poteva anche insegnare nelle scuole, ora no. Volevo un monitoraggio sul mercato per capire quanti posti nuovi vengono creati in un anno e quanti ne produciamo nelle scuole: mi hanno votato contro. Ho provato molte volte a eliminare i limiti di età per l’accesso alle scuole, ma ci è stato obiettato che non si applicano alle selezioni universitarie le stesse norme dei concorsi pubblici. Ho cercato di far inserire una norma che riducesse il numero di posti assegnati a una scuola in proporzione ai partecipanti alla selezione. Se sono in 30, non puoi avere 30 posti. Mi hanno messo in minoranza. Però con onestà, il numero maggiore di neo professionisti non viene dalle scuole: questa guerra concede solo alibi agli editori. Qual è la percentuale maggiore di partecipanti agli esami?I praticantati di ufficio, i “negri delle redazioni”, sfruttati da tv, radio, giornali: colleghi ai quali l’ordine alla fine riconosce un diritto negato dall’editore. Posso dare i numeri sulle statistiche delle sessioni di esame dal gennaio 2011 all’aprile 2012: su 1519 presenti totali alla prova scritta - non solo esordienti ma anche bocciati delle precedenti sessioni - c’erano 394 riconoscimenti di ufficio e 299 provenienti dalle scuole, una media a sessione di 66 dai giornali e 50 dalle scuole.Ma secondo i dati dell'Ordine, quanti nuovi giornalisti servono ogni anno per assicurare il turn over?Se i giornalisti si comportassero con dignità nel 2011 sarebbero stati 600. Ma i nuovi ingressi nel 2011, dati Inpgi1 non co.co.pro, credo siano 18. Dietro questo sbarramento c’è la vergogna, che denuncio con voce praticamente isolata, di chi va in prepensionamento e per una mancetta continua a fare lo stesso lavoro di prima. Si ha il diritto di continuare a scrivere ma non di occupare lo stesso posto, anche per un principio di solidarietà tra colleghi. A Milano sono state accorpate due scuole, la Statale e l'Ifg, mentre in Campania ci sono due scuole attive, a Napoli e Salerno, ma il mercato editoriale del territorio, lo dimostra l’indagine del Coordinamento dei giornalisti precari della Campania, non riesce ad assorbire tutti i giornalisti, professionisti o pubblicisti: perché lasciarle aperte tutte e due?Fino a quando rispettano i parametri della convenzione non possiamo chiuderle. La Walter Tobagi è stata accorpata perché l’Ordine non aveva più soldi per pagarla. A parte l’antica rivalità tra napoletani e salernitani, non credo ci siano possibilità di moral suasion sui due master. Dovremmo riuscire a parametrare le scuole sulle prospettive concrete di mercato, con un ultimo semestre mirato: per una scuola nella specializzazione economica, per un’altra in quella sportiva. Dovremmo andare verso una riforma che tocca la laurea: il nostro è un mestiere delicato, bisogna essere alfabetizzati. Con l’intervento dello Stato, poi, verrebbero calmierati i prezzi... ma il percorso è lungo. È notizia di questi giorni che il rettore dell’università di Sassari, Attilio Mastino, abbia affidato la delega al professor Virgilio Mura per la riattivazione del master in giornalismo addirittura entro novembre. Che ne pensa? La scuola chiusa di Sassari è una delle esperienze più devastanti che abbia vissuto come presidente dell’Ordine, sono stato presente a tutte le ispezioni dopo che i praticanti mi hanno segnalato che giravano i pollici e avevano un calendario di lezioni mai rispettato. Valuteremo quello che l’università ci fa vedere non quello che promette. Promesse prima della chiusura ne avevamo avute molte, impegni mantenuti direi molto vicino a zero.Dopo il no del ministro Fornero alla legge sull'equo compenso, ci sono speranze perché venga approvata in tempi rapidi?Il ministro Fornero ha un'idea proprietaria delle istituzioni. Oltraggia la Camera che ha approvato all'unanimità la legge con il parere favorevole del governo Monti, ignora gli appelli del Capo dello Stato e dei presidenti del Senato e della Camera, travalica le sue competenza e cerca di impedire ai senatori di procedere nel loro lavoro. È un comportamento senza precedenti. Ritengo che il Senato avrà l'orgoglio di rivendicare le sue prerogative e procederà all'approvazione, ignorando la difesa degli interessi degli editori fatta dal ministro Fornero con le sue affermazioni.Marianna LeporePer saperne di più su questo argomento leggi anche:- Le scuole di giornalismo sono ormai solo per i figli dei ricchi?- Scuole di giornalismo troppo costose, ma i veri problemi della professione sono altri- Equo compenso per i giornalisti, sfuma l'approvazione della legge, ma i freelance non demordono- Giornalismo, le scuole muovono quasi 2 milioni di euro all'anno: tutti i numeri E anche:- Giornalismo, al Festival i problemi della professione- Giornalisti a tutti i costi, il business dei mille corsi- Enzo Carra: «Dal 2013 equo compenso per i giornalisti freelance»- Giornalisti precari, il problema non è il posto fisso ma le retribuzioni sotto la soglia della dignità

Start-up in accelerazione al Politecnico di Milano

Da 20 a 100: è quintuplicato in un solo anno il numero di proposte per avvio di start-up che gli studenti del Politecnico di Milano mandano all’Acceleratore d’impresa d’ateneo. «Stiamo osservando una forte tendenza dai giovani nel tornare a considerare la creazione di nuove imprese una strada interessante per il futuro», commenta Matteo Bogana,  da un anno e mezzo coordinatore dell'acceleratore d'impresa gestito dalla Fondazione Politecnico di Milano. Bogana ha 38 anni, una laurea in ingegneria elettronica e un dottorato di ricerca in ingegneria dei materiali al Politecnico. Ha maturato oltre dieci anni di esperienza lavorativa nella gestione di progetti ad alto contenuto tecnologico sia presso importanti gruppi italiani che esteri: Andersen Consulting, Accenture, General Electric e Fondazione Politecnico di Milano.  L'Acceleratore ha tre sedi: Milano, Como e Lecco; a Milano, con Bogana, lavorano altre cinque persone che si occupano dello scouting, della valutazione e del supporto alla nascita ed allo sviluppo dei progetti imprenditoriali, oltre che di gestire progetti di ricerca sia a livello nazionale che internazionale. «Sono ingegneri con esperienze diverse in vari settori: la cosa che accomuna di più le persone che fanno questo mestiere è lo spirito imprenditoriale, tanto è vero che alcuni nostri ex colleghi hanno deciso in primis di mettersi in gioco diventando co-fondatori di start-up: l'ultimo temporalmente è stato l'ingegner Giuseppe De Giorgi che, dopo aver lavorato con noi, ha co-fondato Fubles ed ora ne è chief operating officer», racconta.Per volontà di chi e con che fondi è nato l’Acceleratore? L’Acceleratore d’impresa è nato nel 2001 per volontà del Politecnico di Milano e del Comune di Milano con fondi erogati dal Comune. Da quando è partito ha incubato 65 start-up, che hanno generato 600 nuovi posti di lavoro e 54 milioni di euro di fatturato nei primi tre anni di vita, di cui più del 50 per cento fatte da persone legate al Politecnico di Milano.Come sono cambiati i numeri negli ultimi anni?Negli ultimi tre anni l’Acceleratore ha analizzato circa 600 idee di servizi o prodotti e sono stati affiancati dai tutor oltre 80 progetti imprenditoriali. Questi hanno dato vita a 16 nuove start-up il cui fatturato, insieme a quello delle aziende già presenti all’interno dell’Acceleratore, è stato di circa 24 milioni di euro. Le start-up che hanno avuto più fortuna sono costituite da persone che avevano già lavorato per grandi aziende e poi hanno deciso di tornare in Politecnico per far partire un’impresa loro. Quello che voglio dire è che un minimo di esperienza in grandi realtà è importante se non fondamentale per avere successo.Con quali modalità studenti o esterni possono proporvi start-up?Proposte di idee imprenditoriali o start-up possono essere inviate tramite il nostro sito alla voce «Inviaci la tua idea d'Impresa!». Oltre a questo canale apriamo diverse competizioni ogni anno per la raccolta e la premiazione delle migliori idee imprenditoriali.Come agite nell'avvio e affiancamento di nuovi progetti?Una volta scelte le idee che hanno potenziale aiutiamo a formare un team ben nutrito intorno allo startupper. Le migliori vengono supportate anche dal punto di vista economico, le altre vengono aiutate a cercare partnership e finanziamenti tramite sponsor esterni o business angels. Inoltre aiutiamo nella stesura di business plan, analisi di mercato e business model. Quelle che partono rimangono generalmente all’interno dell’acceleratore per tre anni e poi iniziano a camminare con le loro gambe.Quanto date come supporto economico? E con che frequenza?Direttamente come Acceleratore supportiamo le start-up principalmente tramite tre premi: Start-cup Milano Lombardia, una volta all'anno, assieme a tutte le principali università lombarde, Premio nazionale dell'innovazione, una volta all'anno assieme all'associazione Pni Cube, e infine Switch2Product due volte all'anno. I premi cambiano a seconda di quanto messo a disposizione dagli sponsor; il valore può variare parecchio ma mediamente, per le migliori idee, si tratta di cifre comprese tra i 10 e i 15mila euro. Oltre a questi vi sono i premi dei concorsi legati alla Scuola di imprenditorialità del Mip, school of management del Politecnico. Oltre al nostro supporto economico diretto noi aiutiamo le migliori idee a raccogliere capitali per l'avvio d'impresa anche da soggetti istituzionali con cui collaboriamo continuamente.E in concreto cosa offrite?Forniamo una scrivania, internet ed una sala riunioni in un open-space per i progetti più giovani ed ancora in fase di definizione. Per le aziende vere e proprie un ufficio di 20 metri quadri più tutti i servizi necessari. Ad oggi nella sede di Milano abbiamo a disposizione un open space da circa dieci scrivanie e venti uffici dedicati, ma abbiamo in corso di definizione un progetto mirato ad un significativo ampliamento degli spazi disponibili. Ovviamente gli spazi sono importanti, ma il nostro valore aggiunto sta nel supporto alle persone ed alle start-up, in particolare nelle prime fasi di definizione dell'idea imprenditoriale e di avvio dell'azienda vera e propria, oltre che nel processo di internazionalizzazione del team.Quali sono le difficoltà maggiori che ad oggi vedete per le start-up?In Italia ci sono due tipi di problemi: legati alla burocrazia e alla legge e legati alla mentalità. Ci sono delle necessità a livello politico: è necessaria per esempio la defiscalizzazione degli investimenti a favore di start-up e sarebbe opportuno un sistema di liberalizzazione del lavoro che permettesse alle nuove imprese di assumere collaboratori con maggiore flessibilità. A livello di mentalità in Italia abbiamo due grossi limiti: il primo è la reticenza a lavorare in team e a rischiare insieme, fondamentale per l’avvio di una start-up. Il secondo è la paura ad investire su se stessi che però ora si sta iniziando a superare. E più persone la sorpassano più si innescherà un meccanismo che vedrà la ripresa dell’imprenditoria.In che senso?La chiave di successo di start-up country come la California o Israele sta nello sviluppo di questo ecosistema: bisogna iniziare a incentivare le persone a investire in impresa e non in mattoni. Per questo noi svolgiamo anche un’operazione motivazionale nei confronti dei nuovi imprenditori. Poi, una volta che inizia a salire il numero delle start-up parte il circolo virtuoso: vedendo casi di successo altre persone vorranno emularli e così via.Quali sono invece le difficoltà di cui i vostro start-upper si lamentano più spesso?La prima è certamente la difficoltà di reperimento di finanziatori e quindi di capitali per superare la fase iniziale. La seconda è la difficoltà di market check: per questo noi li aiutiamo a verificare che il prodotto sia vendibile e le esigenze del mercato.Cosa si può o potrebbe fare per eliminarle?Si tratta di un’opera che va oltre il nostro incubatore: bisognerebbe sviluppare in Italia una cultura del rischio condivisa e trasmetterla alle imprese e ai loro dipendenti.In quali settori nascono più start-up o pervengono più proposte?La prevalenza è nella information technology che tocca il 35%. Poi l’elettronica con il 15% e il biomedicale con il 13%. Quindi incubate solamente idee legate alle specializzazioni del Politecnico? Mai start-up in campo umanistico?Se puramente umanistico no. Ma oggi spesso start-up di contenuto socio umanistico hanno una forte componente tecnologica. Un esempio? Nel campo dell’editoria la tecnologia e l’informatica stanno entrando prepotentemente. In tal caso capita di supportarne.In Italia stanno nascendo sempre nuovi incubatori: è un bene o un male?Certamente un bene. Con molti di loro, tra cui, in area milanese Fondazione Filarete, Parco tecnologico padano, ComoNext, The Hub, collaboriamo fattivamente, condividendo progetti o scambiandoceli. A livello nazionale siamo soci fondatori dell'associazione Pni Cube degli incubatori universitari. Anche questo settore però è colpito dal problema italiano della non condivisione: bisognerebbe fare sistema e lavorare molto più insieme. Noi non li vediamo come competitor ma certo siamo, insieme all’incubatore del Politecnico di Torino, quelli con più esperienza.Conta molto l’esperienza in questo campo?Nessuno sa prima chi farà i soldi, ma almeno noi riusciamo a capire preventivamente chi non li farà.E quali sono le caratteristiche attraverso cui riuscite a capire quali progetti sono destinati a fallire?Capiamo che fallirebbero grazie a due caratteristiche fondamentali e strettamente correlate: il team e l’idea. Il team deve essere all’altezza del progetto imprenditoriale: persone brillanti e sveglie che conoscano a fondo il loro progetto. Capitano spesso team che lanciano piani fantasmagorici e quando chiediamo loro se qualcuno sa da dove partire in concreto o sia in grado di fare qualcosa nel settore non sanno da dove cominciare. Infine bocciamo le idee che violano principi scientifici e fisici o che sono già viste e collaudate: non sapete quanti chiedono di lanciare un gruppo d’acquisto online!Come vedete l'azione dei business angels e delle società di venture capital?Collaboriamo in particolare con i primi perché le società di venture capital investono una volta che l’impresa ha già ricavato un utile. Comunque le riteniamo molto importanti per la crescita. I business angels sono fondamentali invece per far partire una start-up e per superare le difficoltà iniziali. In Italia, purtroppo, sono ancora troppo pochi.Giulia CimpanelliPer saperne di più leggi anche:- Brain Calling Fair, chi ha un'idea incontra chi ha voglia di scommetterci: scoccheranno scintille?- Aspiranti imprenditori, una pizza è l'occasione per partire- Startupper, nuova rubrica della Repubblica degli Stagisti dedicata ai giovani che creano impresa

Annibale D'Elia: «Principi attivi non è X Factor, la sua forza è la dimensione collettiva»

Dal 25 giugno scorso sono aperte le candidature alla terza edizione di Principi attivi, la linea d'azione di Bollenti Spiriti con cui fino al prossimo 19 ottobre la Regione Puglia sostiene l'innovazione under 32 con finanziamenti fino a 25mila euro. Annibale D'Elia, sociologo, 42 anni, da cinque è a capo dello "Staff Bs" e alla Repubblica degli Stagisti spiega i principi e i numeri dietro l'iniziativa.Chi sono le persone che lavorano a Bollenti Spiriti?Lo staff è composto da dieci persone, ugualmente distribuite nelle tre principali attività del programma: Laboratori urbani, Principi attivi e le azioni a sostegno della legalità. Sette - me compreso - sono dipendenti a tempo determinato, con un contratto di tre anni; in tre invece hanno un contratto a progetto. E tutti hanno più o meno trent'anni.Nessuno stagista?No, nessuno. In tutta la sua storia [dal 2006, ndr] l'ufficio non ha mai ospitato stagisti. Cerchiamo di mantenere coerenza tra le cose che diciamo e quelle che facciamo [i tirocinanti della Regione Puglia non sono quasi mai retribuiti, almeno non con i fondi dell'ente]: la migliore forma di comunicazione sono i comportamenti. La prima edizione di Principi attivi è stata finanziata con dieci milioni e mezzo di euro, di cui 7,5 statali; la seconda con meno della metà, e tutti regionali. Cosa è successo tra il 2008 e il 2010?È cambiato il governo, semplicemente. Gran parte delle risorse del primo bando veniva dal Fondo nazionale per le Politiche giovanili, istituito dall'allora ministro Melandri. Era stato firmato un accordo quadro di tre anni, a partire dal 2008, e per ogni annualità erano previsti circa 4 milioni: le prime due hanno finanziato il primo Principi attivi, che si è dispiegato nell'arco di un biennio. Quello è stato un momento di particolare effervescenza per le politiche giovanili territoriali, anche se crediamo di essere, insieme alla Toscana, una delle poche Regioni che ha dato continuità a quelle azioni. Per la seconda edizione del bando non è stato utilizzato un soldo di contributo esterno: 4,8 milioni di euro e tutti regionali.Quest'anno ricompaiono i finanziamenti statali: oltre 4 milioni dal Fondo nazionale, che costituiscono il 100% delle risorse a disposizione.Sì. Perché, con "soli" due anni di ritardo, è arrivata la terza annualità dell’accordo quadro, riferita al 2010. E abbiamo pensato di finanziare Principi attivi solo con quelli. È anche un modo per alzare l'asticella: vorremmo dare sempre meno soldi, nel senso che renderci inutili è la nostra più sfacciata ambizione. La cosa migliore che può succedere a Principi attivi è che non serva più. È mai capitato che dei progetti vincitori siano tornati a chiedervi aiuto perché non riuscivano ad andare avanti? Sono venuti a chiederci dei pareri, non altri soldi. Volendo le organizzazioni nate con Principi attivi possono partecipare al bando Start up – stiamo cercando di omogeneizzare le logiche dei due bandi. Ma noi siamo una cosa diversa, non facciamo start up [D'Elia comunque è stato recentemente chiamato a far parte della task force nazionale costituita dal ministro dello Sviluppo economico per incentivare le start up innovative, ndr].Cosa fate allora?Non molto tempo fa è uscito un libro, Rain Forest, “foresta pluviale”, secondo cui l’innovazione non avviene attraverso ordinate dinamiche di selezione e avanzamento delle opzioni migliori. La società non funziona a mercati aperti bensì a reti chiuse, con alte barriere di ingresso, alti livelli di sfiducia. Per cui chi c'è ci sarà. I giovani sono tradizionalmente vittime della trappola dell'esperienza: si pretende da loro esperienza ma nessuno è disposto a farla fare. Questo è vero nel lavoro e tanto più vero nell’impresa. La metafora tradizionale del campo coltivato - ara, semina, innaffia - non funziona se cerchi innovazione: il nuovo nasce dove non te lo aspetti. Generando energie non sotto il tuo diretto controllo, costruendo fiducia reciproca, senza puntare all'immediato controvalore. Questo fa Principi attivi.E in merito al come?Il principio è abbastanza elementare: le risorse destinate ai giovani è bene che vadano direttamente a loro, senza quella diabolica filiera lunga per cui alla fine ai ragazzi arriva poco e male. Le politiche giovanili oggi hanno un grande limite: emulano lo stile tipico delle politiche sociali, old school aggiungerei. Lo Stato prende i soldi e li dà a degli specialisti di cura del disagio affinché risolvano il problema. Questo schema non può essere applicato ai giovani, che non sono un problema: sono la più grande risorsa di questo Paese, un gigantesco giacimento di petrolio ecologico e abbandonato. L'approccio "Cosa possiamo fare per questi poveretti?" è sbagliato. Tra tante buone idee e talenti però ci potrebbe essere qualcuno che utilizza male questi soldi. In alcuni casi la fiducia può essere mal riposta.La fiducia può essere sempre mal riposta. Altrimenti non sarebbe fiducia, sarebbe certezza. Ma il punto è un altro: il valore aggiunto di Principi attivi è nella dimensione collettiva del processo, nel far partire 400 progetti in contemporanea. Qua sta la forza del cambiamento. Non ci interessa né eleggere vincitori né inseguire i furbi. Che ci sia qualcuno che usa male l’opportunità è da mettere in conto. Ma utilizzate strumenti di controllo? In Inghilterra per sconfiggere gli hooligans hanno abbassato le gabbie, non le hanno alzate. Per quanto possibile cerchiamo di fare il contrario di quello che in genere la pubblica amministrazione fa quando dà dei soldi, elaborando strumenti rigidi ed astratti per arginare gli abusi. Meccanismi molto rigidi conducono alla clandestinità; i nostri invece sono basati sulle relazioni, non solo virtuali. Fiducia chiama fiducia: se i ragazzi sentono di riceverne, è più facile che ne diano. È persino successo che qualcuno abbia restituito i soldi. E finora, con 15 milioni di euro distribuiti, abbiamo avuto un solo contenzioso.Com'è costituita la commissione che dichiara i progetti vincitori? Il sito BS pubblica la composizione di quella 2010, ma al momento il file non è scaricabile.Sì, siamo passati a un nuovo sistema di gestione del sito e alcuni link non funzionano. Sistemeremo subito... Il primo anno la commissione era composta da tre persone dello staff Bs, me compreso, e da un gruppo di esperti nelle più varie materie, suggeriti dall’Arti. Per la seconda abbiamo affidato la valutazione interamente ai membri Arti [mostra il file e presenta singolarmente i componenti]. Pur essendo una commissione collegiale - tutti valutano tutto - si tende a costituire delle sottocommissioni, in base alle competenze. La nuova composizione non è ancora definita, ma replicheremo lo schema del 2010.C’è un miglioramento che vorrebbe applicare al bando?Sarebbe bello individuare le idee vincenti tramite colloqui personali, faccia a faccia. E ancora meglio se potesse essere un processo pubblico, tipo presentazione pitch, in cui esporre davanti a tutti le proprie idee, rischiando magari anche dei processi di miglioramento collettivo. Ma applicare questa logica a più di 2mila candidature è troppo complicato! intervista di Annalisa Di PaloPer saperne di più su questo argomento, leggi anche: - Quattro milioni di euro per le idee giovani dei "bollenti spiriti": riparte in Puglia il bando Principi attivi - Startupper, nuova rubrica della Repubblica degli Stagisti dedicata ai giovani che creano impresa

Tra web e cinema, i precari non ballano più da soli

Silvia Lombardo oggi ha 34 anni. Quando era disoccupata ha aperto un blog e ha iniziato a lavorare alla sceneggiatura di un film insieme a un amico architetto precario, Giordano Cioccolini. Mentre la pellicola prendeva vita, ha scritto il libro La ballata dei Precari, Guida di sopravvivenza per trentenni. Dopo tre anni di lavorazione, nel 2012 è uscito anche il film, diviso in sei episodi con la partecipazione di attori volontari e la guest star (anche lei non pagata), Geppy Cucciari. La prima nazionale del film indipendente è stata a fine aprile al Teatro Valle a Roma. Oggi, dopo 15 anni di precariato, Silvia Lombardo ha un contratto a tempo determinato per «cui mi son trovata a baciar per terra». Racconta la generazione messa ai margini e si chiede perché «chi aveva un sogno» non si ribelli in maniera rivoluzionaria per i contratti da 300 euro al mese. La Repubblica degli Stagisti l’ha intervistata, in vista del dibattito "Generazione a quanti euro?" previsto per giovedì 21 giugno al Festival del lavoro 2012 cui parteciperà anche Eleonora Voltolina - direttore di RdS e autrice del libro Se potessi avere mille euro al mese - per capire come fare a sopravvivere a questa condizione. Com’è nata l’idea?Il blog risale ormai a tanti anni fa: rimasi per 7-8 mesi senza lavoro e diventai un'esperta di annunci. Così pensai di condividere queste informazioni. L’idea di fare un blog serio sarà durata un mese: poi di fronte ad annunci veramente demenziali, tipo stage come bagnino per aprire gli ombrelloni, cominciai a commentarli in maniera ironica. Da lì nacque Almost 30, il diario ignifugo di una quasi trentenne,  cronaca della mia quotidianità di disoccupata prima, precaria poi. Raccontavo una vita simile a quella di molti altri in un momento in cui di precariato non si parlava. Una parte del blog si chiamava Guida di sopravvivenza per trentenni: lo mandai come pdf regalo ai miei amici a Natale, non avendo soldi per altro, e qualcuno mi disse «perché non lo pubblichi? è divertente». Così l’ho ampliato, abbiamo iniziato a fare il film, ho conosciuto i ragazzi della Miraggi edizioni ed è nato il libro.Che è crudelmente comico: l’unico modo per sopravvivere a questa condizione è farsi una risata e andare avanti?Ognuno affila le armi che ha con la propria indole: la mia è il tragicomico. Un’ironia cattiva può essere una buona arma: mentre ci rido sopra mi pare perfino di trovare nuove soluzioni... ma sono illusioni, perché una soluzione vera per ora non c’è. Forse solo l’espatrio, come fanno tanti miei amici. Ma io purtroppo lavorando con le parole sono in un certo senso attaccata al mio Paese, alla mia lingua. Blog, social network, internet possono aiutare nel superare la condizione di “precari”?Possono essere un ottimo strumento. Unito al coraggio, ovviamente. Prima pensavo che la risposta dovesse arrivare dall’alto, che le istituzioni si dovessero far carico di un monitoraggio del precariato. Ora ho capito che probabilmente questo non avverrà mai. La soluzione arriva dal basso e i social network aiutano a fare rete e a creare nuove realtà lavorative mettendo a disposizione del pubblico, senza intermediari, i propri talenti. E ad avere un certo tipo di consapevolezza e coscienza di classe.   Nello scrivere il libro e la sceneggiatura del film ti sei ispirata ad altri? Il precariato è un nuovo genere letterario / cinematografico? Mi sono ispirata a storie vere di amici che a volte andavano oltre il demenziale e a qualche piccolo timido articolo, come quelli di Federico Pace su Repubblica, tra i primi a parlare di precariato. Si capiva già che erano grandi storie: quando arrivi al decimo cocopro e vedi che i tuoi amici sono nelle stesse condizioni, è evidente che qualcosa non va. Quanto al nuovo genere, credo si stia verificando lo stesso fenomeno cinematografico della commedia italiana anni 70: i film raccontavano la condizione della donna, la classe operaia, i fenomeni sociali più importanti che colpivano la vita privata del singolo. La maggior parte delle persone ha bisogno di fare massa e vedersi riflessa nel cinema: è un modo per non sentirsi soli e capire che non è un problema solo tuo.Cosa pensi di chi lavora gratis o con salari da fame, specialmente nel mondo dello spettacolo?L’ambito cinematografico è da sempre precario: la produzione di un film è di fatto un lavoro temporaneo. Ma il precariato si è declinato come diminuzione delle retribuzioni. Nell’ambito letterario, invece, c’è addirittura gente che paga per farsi pubblicare. La Miraggi edizioni, che ho scelto come casa editrice, è stata fondata da un gruppo di ragazzi precari che lavorava per l’editoria e dopo 10-15 anni ha pensato «forse sappiamo fare il mestiere, vale la pena investire». In questo settore cominciare da piccole realtà è probabilmente una mossa intelligente, ma sono sempre convinta che il lavoro, anche all’inizio, debba essere rimborsato. Capisco la tentazione di lavorare gratis, ma dopo un po’ si è professionisti e bisogna pretendere un compenso per la propria prestazione. In un altro Paese sarebbe impensabile: per esempio, il mio libro e il film sono finiti dentro la tesi di laurea di una ragazza olandese che ha fatto un parallelo sulla precarietà dei ragazzi italiani e olandesi. Leggendo una delle considerazioni finali nella tesi mi è venuta voglia di dar le capocciate al muro: «In fondo se una situazione del genere si fosse verificata in Olanda, ci saremmo ribellati, no?».  Nel libro citi Bridget Jones, sostenendo che vivere come lei sarebbe la realizzazione di un sogno, e definisci “coraggiosa” la scelta di fare un figlio. La precarietà lavorativa incide sulla vita affettiva? Tantissimo: Bridget Jones c’ha un grifone di pietre in terrazzo, io potevo avere giusto il terrazzo con il letto e l’angolo cottura! Questo senso di tenersi sospesi si trasmette a tutto il resto e incide tanto sulla vita affettiva. È una sorta di limbo, soprattutto nella scelta di fare un figlio. Io ho 34 anni e mi chiedo: se domani mi salta il contratto, cosa faccio? Sono convinta che me la caverò sempre, ma fare la pazza sulle spalle degli altri non mi entusiasma. Ci dicono che siamo bamboccioni e abbiamo paura: ma credo che sia una mossa molto responsabile pensarci bene prima di mettere al mondo un figlio in queste condizioni. Quindi la famiglia diventa l’unico ammortizzatore sociale?Un episodio del film La ballata dei precari si apre con il funerale di due genitori che lasciano una lettera al figlio precario in cui spiegano di essersi fatti ammazzare per lasciargli i soldi di una multimilionaria polizza sulla vita. E pensare che una volta erano i figli che, una volta cresciuti, aiutavano la famiglia... adesso a metà anno ti trovi strozzato dai debiti, non sai cosa fare e ribussi a casa: “mamma, scusa, la stanza l’hai usata diversamente, o posso tornare?” Lo fai per pagare i costi connessi al lavoro a falsa partita Iva per cui devi pagare le tasse. Soldi che non sai se ti torneranno mai indietro in servizi o previdenza, ammesso che un esaurimento nervoso non ti ammazzi prima.Marianna LeporePer saperne di più su questo argomento leggi anche:- Presidente Napolitano, la dignitosa retribuzione è un diritto costituzionale anche per i giovani- False partite Iva, con la riforma 350mila sono a rischio assunzione... o estinzioneE anche:- Se potessi avere mille euro al mese, il libro che racconta l'Italia sottopagata- Non più bambini, oggi le Cicogne portano babysitter

Commercialisti: «Governo maldestro sul praticantato, durata e compenso normati male»

Il decreto liberalizzazioni all'articolo 9 ha previsto alcune modifiche rispetto al tirocinio per l'accesso alle professioni regolamentate: l'introduzione di un obbligo di compenso e un significativo cambiamento rispetto alla durata massima, ridotta a 18 mesi - letteralmente dimezzando il praticantato per i commercialisti che fino a ieri ne durava ben 36. La polemica più recente è divampata proprio rispetto alla interpretazione della retroattività di questa riduzione: i praticanti attuali (in prima linea commercialisti e avvocati) speravano di venir ricompresi, invece un parere del ministero della Giustizia - riconfermato anche da una lettera del ministero dell'Istruzione - ha dato indicazione contraria. Tutti i percorsi avviati prima del 24 gennaio 2012 dovranno avere la durata precedentemente stabilita. La Repubblica degli Stagisti ha chiesto ad Andrea Bonechi, delegato alla riforma della professioni per il Consiglio nazionale dei commercialisti, un commento sulle novità dal punto di vista dei 113mila commercialisti italiani. Bonechi, classe 1968, iscritto all'Ordine dal 1994, è stato presidente dell'Unione giovani dottori commercialisti di Pistoia e componente della giunta nazionale dell'Unione nazionale giovani dottori commercialisti. Conosce dunque molto da vicino i problemi e le istanze dei praticanti, che ad oggi sono 24mila.L'articolo 9 comma 4 della legge 27/2012 recita: «Al tirocinante è riconosciuto un rimborso spese forfettariamente concordato dopo i primi sei mesi di tirocinio». Come valutate questa novità?Non positivamente, perché il decreto interviene sulla pratica professionale a dir poco maldestramente. Innanzitutto esso non corregge la norma del decreto legge 138/2011, la manovra di Ferragosto, bensì ne introduce una nuova: il che ha creato solo confusione. Rispetto al tirocinio il decreto 138 già aveva disposto che dovesse essere integrato con l'università ed essere equamente compensato. Ora mi chiedo a cosa è servito rimuovere la dicitura «equo compenso» e inserire «rimborso spese»: il cambiamento di termine penalizza il giovane, che da un auspicato compenso passa a vedersi solamente rimborsate le spese. Ma «compenso» e «rimborso spese forfettariamente concordato» sono due concetti praticamente identici, perché qui non si parla di un rimborso «a pié di lista»: quindi non si parla solo delle spese concretamente sostenute.Se fosse stato uguale, perché cambiare? Si modifica una norma di legge quando si vuole dire una cosa diversa. È vero che rimborso spese non è «a pié di lista» bensì «forfettario», ma comunque si presuppone a copertura di spese. Un esempio: un mio tirocinante sta a 20 chilometri dallo studio e un altro abita qui dietro. Io con la vecchia formulazione avrei dotato i due di un compenso proporzionato alla utilità portata da ciascuno allo studio. Con la nuova norma invece dovrei fissare un rimborso spese forfettario, e a quello che sta dietro lo studio sostanzialmente non dovrei niente. Perché il compenso va parametrato al lavoro, ancorché svolto nella fase di tirocinio; mentre il rimborso spese va parametrato su quanto si spende per andarci, a lavorare. Peraltro già il vostro Codice deontologico conteneva una prescrizione di questo tipo: «il dottore commercialista non mancherà di attribuire al praticante somme, a titolo di borsa di studio, per favorire ed incentivare l’impegno e l’assiduità dell’attività svolta». In passato avevate mai svolto ricognizioni per scoprire quanti vostri iscritti ottemperavano a questo articolo? Statistiche non ne abbiamo fatte. Però non abbiamo praticamente mai ricevuto lamentele da parte dei tirocinanti. Non escludo che qualche collega possa essere stato inadempiente, ma si tratta di un fenomeno marginale. Laddove fosse diffuso il malcostume di non pagare ci sarebbero segnalazioni agli Ordini, questo è poco ma certo. Molti Ordini verificano con colloqui periodici l'effettivo svolgimento del tirocinio: in quei contesti spesso viene chiesto se c'è una corresponsione economica. È in altre professioni che questo fenomeno è dilagante. Ora che l'obbligo del compenso è contenuto in una legge dello Stato, ritenete immediatamente operativa questa prescrizione?Sì.Avete già effettuato azioni specifiche - per esempio una circolare - per assicurarvi che i vostri iscritti si adeguino?No, perché la legge è legge. Sulle liberalizzazioni e sulla riforma degli ordinamenti ci sono  circolari, interventi informativi, pubblicazioni, se ne parla ad ogni evento pubblico. Mandare una circolare per rammentarlo sarebbe quasi offensivo.Suggerirete una cifra standard da erogare ai praticanti?Assolutamente no. Non è stato fatto in passato sulla norma deontologica, e neppure sarebbe stato fatto sull'equo compenso. Ciascun nostro iscritto deve sapersi regolare in maniera autonoma.In caso vi arrivassero segnalazioni di commercialisti ancora restii a erogare un compenso ai praticanti - quelle segnalazioni che lei mi ha detto fino ad oggi essere state rarissime - adesso come vi muovereste? Queste segnalazioni devono arrivare all'Ordine competente, che ha la vigilanza disciplinare sull'iscritto e che quindi dovrebbe convocarlo e chiedere riscontro di quanto denunciato. Laddove fosse verificata l'inadempienza a una norma di legge, si aprirebbe un procedimento disciplinare. Comunque l'interlocutore non è il consiglio nazionale: sono i singoli ordini territoriali, 142 in tutta Italia.Quali sono le sanzioni che ogni ordine può comminare ai suoi iscritti?Ve ne sono di tre tipi: censura, sospensione e radiazione. La censura è un'ammonizione che viene registrata nella fedina professionale del collega. La sospensione può andare da un giorno a due anni: apparentemente è una sanzione blanda, in realtà invece è devastante perché fa decadere ope legis tutti gli incarichi professionali. Poi c'è la radiazione. Nel caso specifico, in un ipotetico procedimento disciplinare contro un iscritto che non paga i praticanti, si comincerebbe con un'ammonizione?Non è detto, perché la graduazione è sulla gravità della violazione: dipende dalla sensibilità del singolo Ordine.Tornando al decreto liberalizzazioni, sempre nell'articolo 9 ma al comma 6 la durata massima del tirocinio viene ridotta a 18 mesi. Come valutate questa riduzione?Sulla questione della durata non avevamo posto nessun problema. L'unica cosa che avevamo chiesto, ma che la legge riporta, è che comunque un anno di tirocinio fosse svolto sempre e comunque dopo la laurea. Noi siamo stati il primo e unico Ordine a realizzare, ben prima che il governo lo imponesse, l'integrazione con i corsi universitari e ad attuarla con i decreti ministeriali e i regolamenti. Già l'anno accademico 2011-2012 in tante università ha visto un corso di laurea specialistico convenzionato con l'Ordine, che consentiva di sfruttare i due anni di corso come 24 mesi di tirocinio e ridurre una prova di esame di abilitazione. Dopodiché tra la laurea e l'esame di abilitazione occorreva soltanto un anno di tirocinio. Dunque per noi il tirocinio vero e proprio, quello fatto a tempo pieno, è comunque di 12 mesi. Che siano integrati con 24 o 6 mesi non ci cambia granché. Ma la riduzione a 18 mesi operata quest'anno tramite decreto ha creato grande confusione, non si è capito se fosse immediatamente vigente, come e per chi. Tant'è che è uscito recentemente un parere del ministero della Giustizia che dice che chi ha iniziato il tirocinio prima di una tale data, il tirocinio lo deve svolgere per 36 mesi.Infatti a fine maggio il ministero ha risposto a un quesito del Consiglio nazionale forense sostenendo che tutti i percorsi di tirocinio professionale avviati «in epoca anteriore al 24 gennaio 2012» debbano mantenere la vecchia durata e che «le nuove norme sono destinate a trovare applicazione solo quanto il tirocinio è iniziato successivamente» a quella data.Onestamente a me sembra inaccettabile. Sotto il profilo di tecnica legislativa il ministero ha ragione: però non mi si venga a dire che si agevolano i giovani facendo il taglio del tirocinio in quel modo. Perché chi ha iniziato il tirocinio a gennaio si deve fare 36 mesi e chi l'ha iniziato a maggio ne fa 18?I praticanti sono sul piede di guerra.Il ministero adempie alla sua funzione di interprete della legge: il problema è che la legge è scritta male. Però per fortuna il problema è abbastanza relativo, perché il numero di giovani che sono riusciti a fare la prima parte del praticantato durante l'università è elevatissimo rispetto a quelli che lo devono fare tutto dopo.Avete dei dati statistici su questo?No, ma lo vediamo dai riscontri delle commissioni di esame, dai risultati dell'esame stesso, dall'età media dell'accesso all'albo. Chi va all'esame si è laureato poco più di un anno prima, e oggi l'età media dell'accesso  è 26 anni.A questo punto le avrei chiesto della convenzione quadro da stipulare tra consigli degli ordini e Ministro dell'istruzione per svolgere i primi 6 mesi di tirocinio prima della laurea. Ma lei mi ha preceduta, spiegando che voi questa convenzione l'avete già fatta.Già. Adesso il tutto andrà rivisto perché attualmente prevede i 24 mesi, mentre si dovrà raccordare ai 6. Se però penso che per scrivere questa convenzione il ministero ci ha messo due anni… Ma il problema reale del tirocinio nostro è un altro: quello per l'attività di revisore legale, per la quale ci si deve iscrivere ad un registro. La revisione è normata da una direttiva comunitaria che prevede un tirocinio di 36 mesi: cosicché oggi si assiste alla situazione paradossale per cui il giovane laureato deve fare 18 mesi di tirocinio e l'esame di abilitazione per dottore commercialista, ma ne deve fare 36 per iscriversi al registro dei revisori legali.Si dovranno dunque fare 18 mesi aggiuntivi?Non si sa. Ma ha senso che se io ho l'abilitazione alla funzione di dottore commercialista, di cui la funzione di revisore non è che un pezzetto, non possa iscrivermi al registro dei revisori? Vorrei che qualcuno si prendesse la responsabilità di dire che è escluso poi che si debba anche fare un esame per iscriversi al registro dei revisori, ma nessuno ancora se l'è presa. Non potreste sottoporre al governo il problema?L'abbiamo già fatto, proponendo al ministero alcune soluzioni; avevamo anche scritto un emendamento al decreto liberalizzazioni che tutta la commissione Industria del Senato aveva sottoscritto. Ma all'ultimo minuto è sfumato.E quindi adesso?Il ministero deve emanare i decreti di attuazione della direttiva sulla revisione legale, ed ha la possibilità di tornare anche sul tirocinio raccordando quello della professione con quello necessario per iscriversi al registro dei revisori. Prima lo fa, meno incertezze genera: di questi tempi, un ragazzo che decide di fare la professione è in cerca di risposte certe. Io sono stato 15 anni nell'Unione giovani, per cui questi problemi li ho ben presenti.È corretto dire che oggi in un qualsiasi studio di commercialisti di tutta Italia, se un giovane è entrato e si è iscritto come praticante il 23 gennaio del 2012 dovrà fare 36 mesi di praticantato, e se si è iscritto il 25 gennaio dovrà farne solo 18?Sì, è così. Però entrambi dovranno farne obbligatoriamente 12 successivamente alla laurea specialistica. Durate diverse, ma entrambi questi giovani avranno diritto a ricevere un rimborso spese.Sì. Intervista di Eleonora VoltolinaPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Equo compenso addio: per Confprofessioni «non cambia molto», ma per i praticanti sìE anche:- Aspiranti professionisti, con le liberalizzazioni si riduce la durata del praticantato. Ma scompare l'equo compenso- Commercialisti, l'esame è una scommessa - Pianeta praticanti: inchiesta della Repubblica degli Stagisti  

Matteo Achilli e Davide Cattaneo, due giovani imprenditori si raccontano

Tra i dieci vincitori della prima edizione della «Notte dei Talenti» organizzata alcune settimane fa a Milano dal Forum della meritocrazia la Repubblica degli Stagisti ha raccolto le storie dei più giovani premiati con un simbolico «oscar del merito». Matteo Achilli, 20 anni, romano [nella foto a destra], studia economia aziendale e management all’università Bocconi di Milano. È l’ideatore di Egomnia, social network che ha l’obiettivo di mettere in contatto laureati e laureandi con le aziende in cerca di nuove risorse. «Tutto è nato guardando i siti di annunci di lavoro» spiega Achilli: «Mi sono chiesto se ci poteva essere un modo più efficace per mettere in relazione le richieste provenienti dalle aziende con le offerte dei candidati. Ho cercato un algoritmo in grado di classificare i curricula degli iscritti e grazie ad alcune  nozioni di programmazione ho tracciato una struttura dell’idea, poi sono passato a fare l’imprenditore e ho costituito una srl composta da un team di dieci sviluppatori, ingegneri informatici ed elettronici, tutti ragazzi: il più anziano ha 27 anni. Per ora si tratta di collaboratori occasionali, ma non escludo che in futuro possa assumerli con un contratto di lavoro subordinato». Ma come nasce una start-up? Quando si ha un’idea il primo passo da compiere è trovare il modo per finanziarla. Achilli ha avuto la fortuna di ricevere un aiuto economico dalla famiglia, circa 10 mila euro, investiti per avviare la prima fase di progettazione del sito. «In Italia le start up sono inizialmente finanziate da business angels che investono cifre intorno ai 40mila euro ma considerano le imprese nascenti come dei “seeds”, semi da coltivare per almeno tre anni: un’eternità per aziende come la mia nata e pensata per esistere nella dimensione di internet. Dopo questa fase si può bussare alla porta delle grandi venture capitalist: ma si stima che nel nostro paese ogni mille nuove imprese, solo quattro ogni anno riescono ad accedere ai consistenti aiuti economici messi a disposizione da questi investitori. Negli Stati Uniti una start up riceve finanziamenti generosi già dalla fase embrionale». E allora se internet e le nuove tecnologie sembrano essere ancora una strada troppo tortuosa per decidere di mettersi in proprio, la Rete si conferma catalizzatore di incontri tra domanda e offerta di lavoro. I social-professional media, novità dell’e-recruitment, poco per volta prenderanno il posto dei siti di annunci. «All’inizio pensavo di creare un servizio che fosse utile alle piccole realtà imprenditoriali della nostra economia, ma anche alle università prive di un sistema di collocamento per i propri studenti. Ho voluto creare un servizio per i neolaureati al loro primo ingresso nel mondo del lavoro. Oggi, a soli due mesi dal lancio, abbiamo raggiunto quasi 50 mila iscritti e circa duecento aziende, anche molto grandi e con sedi in quasi  tutte le regioni, hanno aderito al nostro network. Un successo inaspettato». Cosa c’è di innovativo in Egomnia? «Tra tutti i social media che si occupano di lavoro il più conosciuto è Linkedin, molto utilizzato per profili professionali avanzati ma tecnologicamente quasi superato. I dati inseriti sul nostro sito ricevono un punteggio sulla base di precisi criteri: età, titolo di studio, esperienze lavorative o di stage già maturate, lingue conosciute e provenienza geografica. Il sistema assegna un valore ad ogni caratteristica descritta, elaborando un ranking che permette alle aziende di trovare il candidato che cercano». Il rischio che questo tipo di selezione parametrizzata su profili medio-alti non consenta parità di accesso agli annunci delle aziende è stata presa in considerazione dal team di Egomnia. Infatti Achilli assicura: «Vogliamo ampliare il target per collocare al meglio anche chi ha solo un diploma». Dall’imprenditoria 2.0  a quella materiale delle pmi, il secondo talento incontrato da RdS è Davide Cattaneo [foto qui sotto a sinistra], 36 anni, nato in provincia di Lecco, appassionato di arti circensi e titolare di Play Juggling, azienda che produce strumenti per la giocoleria. Cattaneo è riuscito nella non facile impresa di conciliare due mondi apparentemente molto lontani, quello del circo e quello del business. «A 21 anni studiavo giurisprudenza. Sentivo però che quella non era la mia strada, così lasciai l’università. All’epoca mio padre era il titolare di una piccola azienda di stampaggio di materie plastiche, gli proposi di convertire la produzione e lui scelse di credere in me. Così è nata Play Juggling: abbiamo iniziato a produrre articoli per la giocoleria, molti dei quali li progetto io stesso. Oggi l’azienda ha in forza quattro dipendenti a tempo indeterminato, tre donne e un uomo, con un’età media di trent’anni. Siamo un marchio di riferimento per il settore, conosciuto e apprezzato in tutto il mondo». La vocazione familiare dell’imprenditoria italiana trova conferma anche nella storia di Cattaneo, che ammette: «Sono partito con il sostegno economico dei miei genitori, ma ogni tappa che ho raggiunto l’ho guadagnata poco per volta reinvestendo gli utili che l’azienda produceva. Le banche non mi sono mai state d’aiuto e le esperienze con la grande distribuzione mi hanno portato a grossi rischi. Anche i bandi per i finanziamenti, o le agevolazioni che vari istituti pubblici mettono a disposizione periodicamente, sembrano  pensati per realtà grandi: che in Italia poi sono sempre le stesse. Tuttavia non ho rinunciato a nessuno dei miei sogni, ho deciso di costruire sul campo le mie esperienze, pur commettendo errori. Ci vuole fatica e impegno ma bisogna crederci e non lasciarsi scoraggiare dai momenti più difficili».Secondo Cattaneo «dopo un decennio in cui il numero di laureati nel nostro paese è molto incrementato, credo che si sia alzato il tiro delle aspettative che si nutrono. Trovo assurdo però, che ad un aumento del livello culturale delle generazioni più giovani – e non tolgo nulla a chi ha scelto di laurearsi – non sia corrisposta una maggiore capacità ad affrontare e accettare i cambiamenti. Negli altri paesi, anche i neo comunitari dell’Europa dell’Est, i ragazzi tra i venti e i trent’anni conoscono bene più di una lingua e ciò permette loro di cogliere le opportunità e le sfide che la globalizzazione lancia. Se l’Italia vuole tornare a crescere deve dare più spazio ai giovani, ma quest’ultimi, a loro volta, devono dimostrarsi pronti ad accettare nuove sfide. È necessario un ricambio generazionale in grado di disinnescare i circoli viziosi in cui è caduta la politica e l’economia, per lasciare spazio a circoli virtuosi».  Lorenza MargheritaPer saperne di più leggi anche:- Meritocrazia, una notte per convincere i giovani a crederci (e le aziende a metterla in pratica)- Più spazio in politica alle istanze delle nuove generazioni: ma come?-«Non è un paese per giovani», fotografia di una generazione (e appello all'audacia)

Campania, l'ex assessore al lavoro: «A 16 anni si è troppo giovani per fare stage»

La Regione Campania a fine aprile ha presentato il progetto “Tirocini in azienda”: un'iniziativa che prevede lo stanziamento di diversi milioni di euro per finanziare brevi periodi di stage per gli studenti degli ultimi anni delle scuole superiori, con l'obiettivo di aiutarli a scegliere se proseguire gli studi o entrare direttamente nel mondo del lavoro. Unica voce contraria al provvedimento, che in effetti presenta alcuni aspetti poco chiari, è stata quella di Corrado Gabriele, ex assessore al lavoro, oggi consigliere regionale e componente delle Commissioni lavoro e istruzione.   Quali sono i punti deboli del progetto?La Giunta si sta caratterizzando per interventi sul mercato del lavoro assai anomali. Mentre si propone a ragazzi di 16 anni di andare a fare un’esperienza in azienda, poi si presenta una legge sull’apprendistato che aumenta l’età a 32 anni. Due interventi - uno sulla fascia di obbligo scolastico, l’altro in una fascia forse universitaria - che sono una presa in giro per l’inserimento lavorativo. A 16 anni i ragazzi devono maturare e migliorare le competenze a scuola.E a 32 forse dovrebbero avere un contratto di lavoro vero, non un apprendistato. Tornando a Tirocini in Azienda, è vero che la giunta regionale ha approvato il progetto senza un decreto di impegno di spesa?Questo è davvero un mistero. Non abbiamo rintracciato nessun atto di impegno di spesa che potesse far risalire a una delibera di giunta. E in genere - lo impone il manuale del Fondo sociale europeo - c’è sempre bisogno di indicare a quale impegno di spesa fa riferimento il bando, e specificare l’entità di base che è quella alla base dei calcoli di imputazione dei capitoli. Noi abbiamo guardato in tutti i bollettini ufficiali della Campania e non c’è nessun impegno di spesa preso dalla Regione né tra i decreti né tra le delibere. Se poi è stato fatto ma non è stato pubblicato, sarebbe assai grave: e comunque nel bando non viene indicata la delibera né tantomeno il decreto.Lei aveva annunciato un’interrogazione urgente al governatore Caldoro per il mancato rispetto dei termini relativi all’evidenza pubblica del bando e alle regole del manuale del Fse: l’ha già fatta?Sì, abbiamo già inoltrato l’interrogazione a risposta scritta al presidente Caldoro, ma i tempi medi di risposta della giunta sono di quattro mesi. A volte arriva quando i casi sono risolti.Quindi al momento non è arrivata ancora nessuna risposta?No, al momento no.Lei si è dichiarato contrario allo stanziamento di questi finanziamenti per le aziende. Poi però ha detto anche che le imprese hanno avuto, prima che venissero prolungate le scadenze, troppi pochi giorni per dare la propria adesione. Ma quindi lei è favorevole o contrario al fatto che le imprese possano ricevere somme ingenti semplicemente ospitando dei tirocinanti?Dall’avviso risulta che alle aziende verrà riconosciuta una somma per i tutor, e lo stesso a favore delle scuole che invieranno i propri allievi in tirocinio. Entrambe, scuole e imprese, sceglieranno i tutor con un’alta discrezionalità. Quella per i tutor è insomma l'unica voce di costo, ma in effetti è abbastanza alta. Io non penso sia giusto che alle aziende vadano risorse per ospitare stagisti, anche perché il tirocinio è già troppo spesso utilizzato per mascherare un contratto di lavoro parasubordinato. E comunque ripeto, sono contrario a che si usino i tirocini formativi per ragazzi così giovani: l’idea che siano dei bamboccioni fino a trent’anni è sbagliata, ma poi abbassare la soglia di ingresso nel mondo del lavoro a 16 anni mi sembra davvero assurdo.Pensa sia congruo che un dipendente di un’azienda, già retribuito, riceva dalla Regione oltre 3mila euro per seguire 4/5 ragazzi per tre settimane e quasi 10mila euro per seguirli per due mesi?Certo monitorare l’attività di ragazzi così giovani non è cosa secondaria. Bisogna essere preparati dal punto di vista dell’approccio sociologico e psicologico, non è che un operaio qualunque può spiegare, per esempio nei processi formativi che riguardano anche la sicurezza nei luoghi di lavoro, le tecniche a un ragazzo di 16 anni. Ma credo sia una sovrapposizione retributiva che non fa giustizia dei salari bassi che ci sono in circolazione e del mondo del precariato che gira intorno alle aziende, specie in Campania, dove per precariato si intende il lavoro nero diffuso e quasi istituzionalizzato. Tirocini e apprendistato diventano un sistema “furbo” per non affrontare il lavoro come si deve: cioè con un contratto. Ci sono tante formule contrattuali a disposizione delle imprese, non vedo perché dobbiamo tutti diventare o tirocinanti o apprendisti e poi tornare tutti quanti a essere disoccupati. Questa è la dinamica che ho osservato nel corso degli anni nel mercato del lavoro in Campania.Che cosa ne pensa dell’uso, spesso smodato, fatto in Italia dei tirocini?Credo sia un modo non per avvicinare i ragazzi al mondo occupazionale ma per permettere al datore di lavoro di avere costi più bassi e di utilizzare forme di lavoro non retribuite. Il tirocinio è qualcosa di nobile, ma solo se usato in circostanze precise e dopo un percorso formativo che porti alle soglie del mondo del lavoro. Quando avviene a 16 anni penso sia un abuso. Se poi, come si è difeso l’attuale assessore, è solo un modo per spendere soldi che comunque sarebbero stati indirizzati ad altre regioni - e così invece sono stati girati alla Campania - allora non mi pare un buon modo di affrontare le tematiche del mondo del lavoro.In Campania nel 2010 sono stati attivati quasi 12mila stage solo nelle imprese private: ma secondo il rapporto Unioncamere Excelsior la percentuale di successiva assunzione è pari solo al 13,2%: il tirocinio è un metodo valido per l’accesso al mondo del lavoro?I numeri evidenziano che il sistema non funziona. Sono stato per cinque anni assessore al lavoro e ho proposto delle attività di stage, ma attraverso il mondo universitario e nelle professioni, non certamente in botteghe artigiane o aziende qualsiasi. Lo stage può essere uno strumento per rinforzare le competenze, ma non per accedere più facilmente al mondo del lavoro. Le imprese, da questo punto di vista, non rispondono.In che modo ritiene che i 100 milioni di euro disponibili per il progetto sarebbero dovuti essere investiti?Bisogna innanzitutto vedere la natura di questi finanziamenti: è inutile ragionare in astratto su come utilizzare al meglio le risorse se non si sa da dove provengono. Se sono risorse destinate al potenziamento dell’offerta formativa, credo che sarebbe stato più opportuno utilizzarle per potenziare l’offerta scolastica anziché mandare dei 16enni in giro a fare un tour delle aziende. Proprio in Campania, poi, dove vi è il più alto tasso di mortalità delle imprese degli ultimi 10 anni. La Regione ha già un piano che ha messo a disposizione delle aziende circa 60 milioni di euro per l’incentivo alle assunzioni, in qualunque formula, quindi un nuovo sostegno non serve. Marianna LeporePer saperne di più su questo argomento leggi anche:- 100 milioni di euro per finanziare stage in Campania: ma a guadagnarci sono i tutor aziendali- Apprendistato, in Campania l'età massima passerà da 29 a 35 anni: la legge regionale è quasi pronta- Tirocini, in Campania i centri per l'impiego ignorano la circolare e li attivano solo entro 12 mesi dal diploma o dalla laureaE anche:- Tirocinio: una parola, tanti significati- In Italia un giovane su tre è senza lavoro. Ma è davvero così?