Categoria: Interviste

Unitalk, la parola ai presidi: Mario Morcellini, facoltà di Scienze della comunicazione della Sapienza di Roma

Con la rubrica “Unitalk” la Repubblica degli Stagisti inaugura oggi una collaborazione con Soul - Sistema Orientamento Università Lavoro. Ogni settimana un colloquio con un preside (ma non solo: sentiremo anche professori e ricercatori) per capire le luci e le ombre del sistema universitario italiano, l’offerta formativa e gli sbocchi lavorativi. Una panoramica utile non solo per chi è già laureato ma anche per i tanti giovanissimi che cercano informazioni (non a caso una delle parole-chiave nell’intervista di Morcellini) per orientarsi nella scelta della facoltà.Mario Morcellini, 63 anni, è dal 2005 alla guida della facoltà di Scienze della Comunicazione della Sapienza di Roma. Una facoltà che conta più di 5500 iscritti e oltre 1350 laureati ogni anno, in prevalenza ragazze (60%), e che propone un’offerta formativa che spazia dal corso di laurea in Comunicazione pubblica e d'impresa a quello in Comunicazione istituzionale, pubblicità e marketing sociale, da quello in  Editoria, comunicazione multimediale e giornalismo a quello in Design, comunicazione visiva e multimediale. Tra i suoi libri più noti La tv fa bene ai bambini (Meltemi) e Il mediaevo italiano (Carocci).Professor Morcellini, di cosa parliamo quando diciamo “precarietà”?Si dice “Sento parlar bene del lavoro flessibile, ma tutte quelli che me ne parlano hanno il posto fisso”… La flessibilità diventa precarietà quando la si vive come tale. Non necessariamente per colpa della società: possono entrare in gioco fattori psicologici legati ad un'incapacità di mettersi in movimento, di crearsi un percorso lavorativo. Ma è vero anche che nel tempo che stiamo vivendo la società chiude le porte ai giovani. Questa non è una società per giovani, bisogna ammetterlo con dura fermezza, lo devono ammettere soprattutto quelli che hanno un lavoro stabile e i docenti universitari, perché sono quelli che più crudamente vedono le conseguenze disastrose del rigonfiamento eccessivo della precarietà. C'è una precarietà percepita che è quasi più sconvolgente di quella reale, che si traduce anche in un indebolimento psicologico e morale della formazione universitaria. Quanto effettivamente le conoscenze e il capitale sociale contano per un buon inserimento e una buona realizzazione in ambito professionale?Moltissimo, e questa è la prova di quanto l'università andrebbe fatta seriamente. Quando proviamo a dirlo ai nostri studenti sembra sempre un discorso pedagogico, mentre è un discorso economicamente competitivo. Il modo in cui ti metti in gioco educa la tua performance ed educa la tua capacità di relazione. I governi che si sono alternati hanno quasi sempre affermato che l'università non è in grado di preparare i giovani al mercato del lavoro ma questo è vero solo in parte. La mancanza di prospettive e l'attuale congiuntura economica  che tipo di cambiamento possono generare nei giovani neolaureati?Alcuni esiti possibili sono la sottovalutazione della propria forza contrattuale che comporta l'accontentasi del primo lavoro che si trova purché si guadagni qualcosa: in momenti di crisi si rischia di pensare che il primo treno sia anche l'unico e quindi ci si accontenta, ma non conviene, è un errore – anche se le esperienze sono sempre educative. Uno degli elementi che indebolisce la trasparenza del mercato del lavoro è l'assenza di corretta informazione. Una parte della crisi è una crisi di comunicazione, questo deficit è legato ai meccanismi provinciali o ultra tradizionali  di acquisizione di informazioni sul mercato del lavoro. I giovani italiani tendono a delegare  alla famiglia: il familismo, quasi mafioso, è un'interdizione allo sviluppo dei ragazzi. A volte mandano i genitori a parlare con il professore: questa è già una prova di debolezza, i genitori non si rendono conto del danno che fanno. Qual è il contributo ed il ruolo che l'università deve assumersi per avvicinare i propri laureati al mondo del lavoro?L'università deve riuscire di più a far capire qual è la capacità di placement dei curricula e su questo è fondamentale la diffusione del manifesto degli studi. Una facoltà che non mette l'analisi degli sbocchi lavorativi nel manifesto degli studi è una facoltà che ha qualcosa di cui vergognarsi. Secondo elemento: durante il corso di studi ci devono essere più possibilità di fare esperienze lavorative. Terzo elemento: devono essere potenziate le politiche di accompagnamento verso il mondo del lavoro, Soul è una di queste, un'iniziativa coraggiosa e anche molto innovativa perché è riuscita a fare rete. In generale la cultura dell'università deve essere più sensibile, abbiamo pensato di fare dei kit di aggiornamento culturale dei laureati ogni due anni, questa è la funzione dell'università. Internet può servire per mettere in contatto i laureati con le aziende?Due patologie rendono il mercato del lavoro difficilmente accessibile: la difficoltà comunicativa e il fatto che è oggettivamente difficile la comunicazione dei lavori strani. Il generalismo non ha la cultura e non ha gli strumenti per raccontare il lavoro che cambia. L'affinamento delle specificità e dell'eccentricità del mercato del lavoro lo può fare solo la Rete, perché è il mezzo più individualistico e quindi ecco dov'è che Internet può fare la differenza, come riduttore di distanze e facilitatore dell'accesso.Eleonora Rossicon la collaborazione di Eleonora VoltolinaIl testo integrale dell’intervista su: www.jobsoul.it Per saperne di più su questo argomento, leggi anche:- Stagisti e figli della riforma universitaria, l'identikit di Almalaurea - Dalla parte dei laureati - lo stage serve per trovare lavoro?

Pasquale Carrozzo, animatore del blog dei praticanti commercialisti: «Per evitare lo sfruttamento servono più controlli»

Pasquale Carrozzo, detto Doc, 30 anni, è un praticante commercialista di Taranto. Circa un anno e mezzo fa ha dato vita a un blog animato dedicato ai praticanti commercialisti. Nel sito si discute di novità utili alla professione, ma anche dei problemi dei praticanti. Doc, che cosa ha dedotto dalla frequentazione virtuale dei praticanti? Qual è l’umore medio dei praticanti commercialisti? L’umore è molto basso, molti praticanti si sentono all’inizio sfruttati. Appena laureati si ha la prospettiva di fare tre anni di gavetta.  Quelli che sono più motivati insistono, ma hanno comunque difficoltà economiche da affrontare. Dopo un anno e mezzo o due l’umore si solleva e cominciano ad avere dei benefici economici. E dopo la pratica? A quel punto bisogna fare una scelta: continuare a fare il lavoro dipendente presso lo studio o mettersi in proprio. Molti decidono di rimanere negli studi, spesso non si mette a frutto fino in fondo quello per cui si è studiato ma si ha la certezza di guadagnare 1.000-1.200 euro al mese. Per chi si mette in proprio, invece, le prospettive di guadagno sono maggiori, visto che il reddito medio è di circa 36mila euro all’anno.  Quanto guadagnano i praticanti? Lei ha anche lanciato un sondaggio sul blog in cui ciascuno ha dato una cifra diversa. Cosa accade in un caso tipo? La prassi dovrebbe essere: all’inizio si fa la pratica gratis o al massimo per 300 euro. Il secondo anno il rimborso sale a 5-600 euro. Alla fine si arriva a mille euro. Suppergiù avviene così in tutta Italia: al nord chiaramente si prende di più, a volte mille euro già alla fine del secondo anno. I praticanti hanno modo di pagarsi i contributi previdenziali? Sì, è possibile iscriversi alla cassa previdenziale e recuperare i tre anni di praticantato versando volontariamente i contributi. In pochi però lo fanno. Cosa fa un praticante commercialista?Svolge attività molto varie. In genere si parte con la registrazione degli eventi contabili più semplici per arrivare alle cose più complesse come redazione dei bilanci, dichiarazioni dei redditi, valutazione di un’azienda, finanza agevolata, cause tributarie ed operazioni da curatore fallimentare. Il dominus fa un inserimento graduale del praticante. Difficilmente a un praticante all’inizio viene data una pratica da seguire. Il rappresentante dell’Unione giovani avvocati ha detto che bisogna evitare che il praticantato sia un modo per avere lavoratori dipendenti sottopagati.  Vede il rischio di abusi da parte dei domimus o le sembra un percorso in genere virtuoso di apprendimento? Percorso virtuoso direi di no. È doloroso dirlo, ma sarebbe necessario che ci fossero più controlli da parte dell’Ordine. Già ora i praticanti devono compilare un libretto e riportare che cosa si è fatto, ma sarebbero auspicabili controlli meno formali. Ci sono situazioni spiacevoli in cui per tre anni si fa solo lavoro dipendente sottopagato e si impara poco. Cosa ne pensa della proposta di poter svolgere la pratica anche presso un dominus iscritto da meno di 5 anni all’albo? Io credo che il vincolo di 5 anni di iscrizione minima per avere praticanti sia giusto. Perché bisogna dimostrare sul campo di essere preparati prima di insegnare agli altri. L’esame. Gli ultimi dati parlano di una estrema differenza tra le sedi. Che tu sappia ci sono casi di turismo professionale? Forme di “turismo” certamente ci sono. Si cerca in tutti i modi di trovare le sedi più “appetibili” in cui svolgere l’esame che, faccio notare, è molto complesso. L’esame si può sostenere in tutte le sedi e non solo in quella in cui si è svolta la pratica [come avviene per gli avvocati, ndr]. Cosa cambierebbe lei nel sistema di praticantato attuale? Innanzitutto maggiori controlli dell’Ordine sulla qualità della pratica. E poi credo che si dovrebbe riconoscere una retribuzione minima ai praticanti. Non dico dal primo anno, ma sicuramente dal secondo, per a quel punto il praticante diventa produttivo per lo studio. Sarebbe anche un incentivo per continuare la professione. In ogni caso lo stato dovrebbe intevenire con aiuti economici, per esempio borse di studio, almeno in favore dei più meritevoli che non hanno la possibilità di completare la loro formazione professionale.   Fabrizio PattiPer saperne di più su questo argomento, vedi anche l'articolo «Commercialisti, l'esame è una scommessa - Pianeta praticanti: inchiesta della Repubblica degli Stagisti / seconda puntata»

«Un ponte tra scuola e lavoro, ma vigili contro gli abusi»: parla Tiziano Treu, il «papà» degli stage

Nel 1997 Tiziano Treu, all'epoca ministro del Lavoro, firma la legge 196 dando vita a un corpo di Norme in materia di promozione dell’occupazione. Tra queste, contenute in quello che ancora oggi chiamiamo «pacchetto Treu», ci sono anche le linee di indirizzo per la nascita degli stage. Oggi Treu [foto] è senatore nelle fila del Partito Democratico e presidente della Commissione permanente che si occupa di lavoro e previdenza sociale. Senatore, lei è un po' il «papà» degli stage: a dodici anni dalla legge che porta il suo nome, che bilancio può fare?Quando è usato nel modo corretto, lo stage risulta una buona formula. Ma si deve fare di più e meglio, seguendo l’obiettivo indicato dall’Europa: rendere queste esperienze lo strumento ponte tra scuola e lavoro, una sorta di passaggio obbligato per gli studenti.Ogni anno sono almeno trecentomila gli stagisti italiani. Dalle loro esperienze emerge che lo stage è usato sempre meno come pura formazione e sempre più come espediente per avere manodopera a basso costo. Cosa ne pensa?È vero: spesso si fa un uso abnorme di questo strumento, sia in termini di orientamento professionale sia in termini di formazione, dimenticando il fatto che non si tratta di rapporti di lavoro subordinato. E’ chiaramente un utilizzo distorto dello stage, che invece deve servire agli studenti per prepararsi ad entrare nel mondo del lavoro.E gli stagisti trenta-quarantenni?Purtroppo rientrano in quello che ho definito un uso distorto di questo strumento.Come mai per le aziende poco virtuose la legge non ha previsto sanzioni? Non crede che oggi ce ne sarebbe bisogno? Qualcuno a questo proposito propone di multare le aziende, o almeno impedire di ospitare stagisti per un certo periodo.Non è vero che le sanzioni non ci sono. Se lo stage maschera un rapporto di lavoro subordinato automaticamente si trasforma in lavoro nero, e come tale viene punito. Il vero problema semmai è quello dei controlli, che mancano e che dovrebbero essere fatti prima di tutto dalle scuole e dalle università. Anche perché in un Paese che soffre un tasso così alto di lavoro sommerso è difficile che i controlli di tipo ispettivo vengano fatti anche sugli stage. Per quanto riguarda multe o divieti temporanei per le aziende se ne può discutere, ma il problema è diffondere di più e meglio lo stage, non bloccarlo. Pensiamo invece a dare incentivi o premi a chi fa bene. Voglio citare l’esempio di un gruppo di istituti tecnici di Treviso, che ha costruito un percorso virtuoso per gli studenti dell’ultimo anno. I ragazzi si avvicinano alle aziende prima con sei mesi di stage orientativo, poi fanno quattro mesi in formazione e infine un anno di apprendistato. Alla fine del percorso la maggior parte di questi ragazzi resta in azienda a lavorare.Lo stage deve avere finalità esclusivamente formative o può essere usato come prima fase di un processo di recruiting e di inserimento lavorativo?Le due cose non sono incompatibili. Lo stage è un tirocinio, ma può essere collegato con l’inizio di un percorso professionale.In quanto «formazione», lo stage può essere normato dalle Regioni. Questo genera casi discutibili, come quello del «Programma stages» avviato dal consiglio regionale della Calabria emerso proprio grazie a un'inchiesta della Repubblica degli Stagisti. Lì sono stati avviati e sono tuttora in corso tirocini di addirittura 24 mesi, destinati a laureati anche occupati. È accettabile?Non molto: è chiaro che la competenza regionale in materia di formazione non può violare o tradire i principi del diritto del lavoro, la cui regolamentazione spetta esclusivamente allo Stato. Per quanto riguarda la Calabria, credo che sia un caso estremo. E non è certo l’unico esempio di cattivo utilizzo dei fondi europei destinati alla formazione professionale.La Repubblica degli Stagisti ha definito di recente nove punti fondamentali per definire un buono stage, riassunti nella Carta dei diritti dello stagista. Suggerendo per esempio che gli stage non debbano durare più di sei mesi e che gli stagisti ricevano un minimo di rimborso spese. Che ne pensa?Per quanto riguarda la durata massima dello stage direi che va bene quella attualmente prevista. Sui rimborsi bisogna stare attenti: secondo me dovrebbero essere riconosciuti solo sulla base delle effettive spese sostenute dallo stagista, e non stabiliti invece in modo forfettario, perché rischierebbero di avallare gli abusi.Giuseppe Vespo

«Praticanti, ora la retribuzione è obbligatoria: ma è giusto non fissare un minimo» - Intervista al presidente dei giovani avvocati

Tra i problemi dei praticanti avvocati ci sono la retribuzione ridotta, se non nulla, e la lotteria dell’esame di abilitazione alla professione, con percentuali di superamento estremamente variabili da provincia a provincia. Ne parliamo con Giuseppe Sileci, 41 anni, presidente nazionale di Aiga, Associazione italiana giovani avvocati. Presidente, la proposta di riforma della professione elaborata dalle associazioni dell’avvocatura e ora in discussione al Senato prevede l’obbligo della retribuzione per i praticanti. Non è però fissato un salario minimo. Come mai? Innanzitutto è importante che sia stato introdotto l’obbligo di retribuzione, che scatta dopo il primo anno di pratica. C’era già un’indicazione in questo senso nel Codice deontologico, ma era disattesa. La mancata indicazione di un minimo salariale si deve al fatto che la retribuzione dipende da fattori come la dimensione dello studio e l’apporto dato dal praticante. Detto questo, così come il compenso per un avvocato deve essere dignitoso e decoroso, lo stesso principio deve valere per i praticanti. Come andrebbe cambiato il percorso per diventare avvocati? Una cosa che cambierà con la riforma è l’obbligo di frequentare delle scuole, oltre a svolgere la pratica negli studi. In questo contesto, l’attuale incognita dell’esame di abilitazione sarebbe sostituita da verifiche durante i due anni di scuola. L’esame rimarrebbe ma sarebbe semplificato. Ci sarebbe però da cambiare molto anche per quanto riguarda gli stage. Che cosa in particolare? Attualmente gli studenti di Giurisprudenza hanno la minore percentuale di frequenza di stage. Si dovrebbe mettere gli studenti nelle condizioni di frequentare stage formativi all’ultimo anno. Questo permetterebbe loro di avere più consapevolezza, prima della laurea, di cosa significhi lavorare in uno studio. Molto spesso chi consegue la laurea ha un bagaglio di nozioni enorme, ma uno scarsissimo senso pratico e ben poche competenze tecniche per avviarsi a una professione liberale. Da quando le prove d’esame sono corrette in città diverse da quelle dove si svolge l’esame, si sono ridotti i “casi Catanzaro”, cioè le disparità di trattamento dei candidati e il conseguente  “turismo  forense”. Che giudizio dà dell’esame attuale e che cosa cambierebbe? La riforma Castelli voleva risolvere due problemi: il turismo forense, permetteva di fare l’esame in una provincia dove le promozioni erano alte spostando la propria sede di tirocinio nell’ultimo semestre. Su questo aspetto un risultato è stato conseguito. Invece sul secondo obiettivo della legge, quello di garantire una valutazione omogenea in tutta Italia, il risultato non è stato ancora raggiunto [si veda anche questa analisi sul tema realizzata dal Sole 24 Ore, ndr]. Le percentuali di ammessi agli orali sono o troppo basse o troppo alte. La nostra proposta era che gli elaborati venissero portati a Roma, mescolati e ridistribuiti in maniera casuale alle varie commissioni distrettuali. A proposito di turismo forense, impazzano sui siti che trattano di avvocatura e su quelli di società come Cepu le offerte che aiutano  a ottenere l’abilitazione in Spagna.  Omologando la laurea italiana e ottenendo una laurea spagnola, infatti, si diventa avvocati in Spagna e ci si può iscrivere all’albo italiano degli avvocati come avvocato “stabilito”. Dopo tre anni, si viene integrati nell’albo italiano come avvocato a tutti gli effetti. Non le sembra scandaloso? È un fenomeno diffuso? Ho difficoltà a confermare che sia diffuso,  di certo è una pratica che contesto. Si tratta di una falla nel sistema, oggi la Spagna è un’anomalia in Europa. Non c’è troppo da preoccuparsi, tuttavia, perché la falla sarà turata nel 2011, quando anche in Spagna chi vorrà abilitarsi dovrà sostenere un esame. Fabrizio PattiPer saperne di più su questo argomento, vedi anche l'articolo «Da grande voglio fare l'avvocato - Pianeta praticanti: inchiesta della Repubblica degli Stagisti / prima puntata»

Crisi e mercato del lavoro, Tito Boeri: è il momento che i giovani si facciano sentire e lancino delle proposte

Sulla crisi economica c’è un assordante silenzio: quello dei giovani. Lo denuncia Tito Boeri [nella foto] nel suo ultimo editoriale, pubblicato l’altroieri sul quotidiano La Repubblica. Nell’articolo  l’economista, docente alla Bocconi, autore insieme a Pietro Garibaldi del saggio Un nuovo contratto per tutti  (Chiarelettere) e fondatore del sito lavoce.info, analizza criticamente il «pullulare di associazioni» dei «giovani di»: da quelli di Confindustria fino agli ultimi nati in seno all’Italia dei Valori, i Giovani di valore. «Riserve indiane», le definisce Boeri, che non lanciano «nessun campanello d’allarme» di fronte alla «redistribuzione silenziosa che si sta operando in questo difficile 2009». Il riferimento è all’aumento della spesa prevista in Italia per le pensioni e alle stime sulla decrescita del Pil. Dati aggravati dalle ultime previsioni Ocse e Confindustria (Pil a -5% e disoccupazione all’8,6% nel 2009), per far fronte ai quali crescerà la spesa pubblica a danno dei precari e di chi è in cerca di lavoro.Professore, lei ha scritto che i giovani, quelli senza «di», forse torneranno a contare quando si libereranno di tutti questi «giovani di». Ma visto che in Italia con la parola giovani si indica spesso un’entità imprecisa, cominciamo col definire chi sono quelli che non fanno parte delle «riserve indiane».Mi fa piacere che il mio articolo abbia suscitato una discussione: già questa è una reazione positiva. Perché penso che i giovani possano contare nel dibattito pubblico solo se escono fuori da queste riserve, create per far vedere che si pensa ai loro problemi ma che in realtà sono associazioni per gli amici degli amici. Ad ogni modo per giovani intendo gli studenti, i futuri lavoratori e chi è da poco nel mercato del lavoro. E che soffre, per questo, gli svantaggi di un sistema retributivo e pensionistico diverso da chi lo ha preceduto. Lei sostiene che oggi a disposizione di queste persone ci sia un’arma in più: internet. Quest’arma basta per uscire dal silenzio? E come andrebbe usata?Oggi internet è usato per lo più come strumento di dibattito, per esempio attraverso i forum. Credo invece che debba diventare spazio di proposta e di organizzazione collettiva. I giovani potrebbero usare la Rete come mezzo per emergere e diventare classe dirigente. Pensi alle primarie di un partito: si può creare il consenso organizzando una base elettorale attraverso il web, candidandosi alla dirigenza ed entrando dalla porta principale, senza sperare di essere cooptati e senza rischiare di cadere vittime della sindrome del principe Carlo d’Inghilterra. Cioè?Visto che ci si ritira sempre più tardi dalla vita attiva, per i giovani il rischio è che si allontani sempre di più il giorno in cui diventeranno classe dirigente.Torniamo al suo articolo. Ha lamentato il silenzio di fronte all’invito a non licenziare fatto alle azienda dal ministro Sacconi. Ha scritto a questo proposito che il blocco dei licenziamenti in una congiuntura come quella attuale si traduce in due cose: che a perdere il lavoro saranno i lavoratori con contratti a tempo e che non ci saranno più assunzioni. Dovremmo sperare nei licenziamenti? Non diventerebbe una guerra fra poveri?È chiaro che non auspico questo. Capisco di aver sollevato temi che evidenziano le contraddizioni del nostro mercato del lavoro e del nostro sistema pensionistico. Ma non dimentichiamo che agire solo in una direzione, quella del blocco dei licenziamenti, ci costringerà al blocco delle assunzioni. In questo modo tutte le risorse andranno a quelle imprese che non sono in grado di reggere le difficoltà, innovare, e che lasceranno fuori i giovani, appunto. Quindi?Bisogna creare le condizioni affinché si possa competere su basi uguali, valorizzando le risorse di chi – e generalmente sono i giovani – è più qualificato. E’ dimostrato che i lavoratori qualificati creano lavoro anche per chi lo è meno. Non accade mai l’inverso. Per questo dico che se chiudiamo le porte ai più preparati distruggiamo posti di lavoro.Nel suo editoriale punta anche il dito contro chi non ha protestato per i tagli alla scuola, «l’unica istituzione che toglie ai vecchi per dare ai giovani». E il movimento dell’Onda? Infatti mi riferivo ai «giovani di». L’Onda è un’esperienza importante: ma dovrebbe fare anche delle proposte, perché è questo il momento. Dalla crisi si esce superando l’immobilismo.Dalla scuola agli stage. Cosa ne pensa?Avrebbero senso se fossero solo dei brevi periodi inframmezzati allo studio. Lo stage andrebbe inteso come esperienza da tradurre in tesi e lavoro di ricerca. Oggi, invece, spesso se ne abusa, con le aziende che ne fanno ricorso per risparmiare sul costo del lavoro. Il fatto che poi queste esperienze si traducano in situazioni croniche di instabilità lavorativa è un’altra patologia del nostro mercato del lavoro. Anche per questo ho proposto l’istituzione di un contratto unico per tutti.Giuseppe VespoPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- «Non è un paese per giovani», fotografia di una generazione (e appello all'audacia)- Stage gratuiti o malpagati, ciascuno può fare la rivoluzione: con un semplice «no»

Trentenni italiani, la sottile linea rossa tra umili e umiliati nel libro «Giovani e belli»

Chi sono i trentenni italiani? Come vivono, cosa sognano, quanto guadagnano? Concetto Vecchio, giornalista di Repubblica, ha provato a scoprirlo. Si è messo sulle loro tracce, li ha intervistati, osservati, seguiti. Ne è venuto fuori un libro-reportage, Giovani e belli, sottotitolo «Un anno fra i trentenni italiani all'epoca di Berlusconi», pubblicato da Chiarelettere e uscito in libreria il 9 aprile.Concetto Vecchio, nel suo libro il mondo dei giovani italiani appare come fratturato in due: da una parte quelli che si fanno il mazzo, dall'altra quelli a cui le opportunità cadono in testa dal cielo, come le belle parlamentari descritte nel capitolo «Forza Gnocca».È così: peccato che nel secondo gruppo ci sia una piccolissima minoranza, e che la stragrande maggioranza sia rappresentata da chi fa una fatica enorme. Ho voluto anche smascherare la favola secondo cui Berlusconi metterebbe al potere i giovani: ma quali giovani? Quelli belli, telegenici e con un buon cv, da piazzare in parlamento prestissimo, senza che abbiano né vocazione né esperienza politica. Volevo raccontare questo mondo perchè poi fuori ce n’è un altro, fatto di altri ragazzi, che possono contare solo sul proprio talento e a cui le opportunità sono precluse, costretti a una vita di stage e concorsi. E sottolineo che il libro è uscito quando ancora non erano scoppiati il caso Noemi e quello delle veline candidate alle Europee!Nel capitolo «Toghe sfruttate» tocca il tema del praticantato per diventare avvocato.Questo capitolo è nato ascoltando le storie di tanti amici e conoscenti che venivano utilizzati dagli studi legali come portaborse, galoppini, spesso a zero lire. Ho cercato storie significative e ne è emerso uno spaccato desolante e moralmente ripugnante, sopratutto considerando che questi studi fatturano moltissimo. È sicuramente il risultato di un atteggiamento culturale italiano secondo cui i giovani bisogna tenerli un po' bassi,  in una condizione  subalterna, della serie «è già tanto che impari un lavoro». Come Sandra, che a 34 anni quando fa il colloquio in uno studio legale ha «l'ardire di chiedere a quanto ammonterebbe il rimborso spese» e si sente rispondere «Veramente noi pensavamo a un praticante, a un giovane da non pagare...». Ma come si può modificare questa situazione?Ho paura che i giovani l'abbiano accettata: non si vedono all'orizzonte tentativi di riscossa, è come se vivessimo in Paese cloroformizzato. Durante la stesura del libro parlavo con ragazzi che mi raccontavano condizioni di vita durissime, e però dicevano tutti «Vabbè, in Italia è così…». Il sentimento dominante è l’accettazione dell'esistente. Sicuramente c'è chi cerca di cambiare la situazione, si dà da fare, si impegna nel volontariato e nella politica - ma la maggioranza sta altrove. Il dato saliente è che i giovani non sono riusciti a «fare rete»: nel Sessantotto [al quale Vecchio ha dedicato il suo primo libro, Vietato obbedire] ci fu un'intera generazione che si coalizzò e riuscì a far saltare il tappo. Questa invece è una generazione di individualisti: e lì sta la ragione della sua debolezza.Un capitolo si intitola «Dottori d'illusioni» e punta il dito contro il sistema universitario italiano che funziona per cooptazione e dove va avanti solo chi si può permettere di lavorare gratis, col risultato che moltissimi cervelli scappano.Investiamo pochissimo in ricerca e istruzione: il nostro sistema di reclutamento dei cervelli è inadeguato. Se non si proviene da una famiglia abbiente e con un buon network di conoscenze, è ben difficile trovare uno spazio in questo mondo. Quando uno dei ricercatori che ho intervistato, che oggi vive in Olanda, si è lamentato col suo professore, quello gli ha risposto desolato: «Fare lo studioso è da figli di papà». Il che è agghiacciante, perchè se uno dimostra di avere i numeri lo Stato dovrebbe sostenerlo, non costringerlo ad emigrare! All'estero i giovani vengono pagati meglio e rispettati di più come persone: i professori magari aiutano i nuovi arrivati anche su cose pratiche, come la ricerca di una casa. Ve lo immaginate uno dei nostri baroni a fare la stessa cosa? C’è sempre la retorica del «La gavetta l’abbiamo fatta tutti…» Certo, bisogna farla: ma a condizioni dignitose, non a 500 euro al mese! È giusto essere umili, imparare lavorando, consumarsi le suole delle scarpe, ma non si deve per forza accettare di essere umiliati e mortificati. Però i giovani dovrebbero anche darsi una mossa, e non limitarsi a dare la colpa al sistema. Se la situazione è così grave e compromessa c'è anche una loro responsabilità, che sta nell'individualismo esasperato: ognuno pensa solo a se stesso. Anche l’utilizzo di Internet, da Facebook in giù, nasconde un pericolo: convincersi che si possa fare rete stando davanti al proprio computer, senza uscire di casa. Questo non è abbastanza, io lo vedo anche nel mio lavoro: trovare una notizia al telefono è molto diverso da cercarla per strada. Anche per scrivere il libro ho dovuto scarpinare, conoscere le persone, impegnarmi per ottenere la loro fiducia. Non basta stare davanti al computer.Nel libro c’è anche la storia di Annarita, laureata in lettere, che lavora per tre anni come redattrice cocopro in una casa editrice per 600 euro al mese e poi si sente fare la proposta: tramutiamo il tuo contratto in uno stage a 500 euro al mese. Sa se ha denunciato questo comportamento scorretto?No, non lo ha fatto. Probabilmente perchè non si è sentita tutelata, perchè ha pensato magari che la sua denuncia avrebbe potuto nuocerle.Lei ha fatto stage nella sua vita?Io ho cominciato a lavorare giovanissimo, nel 1990, e gli stage ai miei tempi non c'erano. Ho avuto una grande alleata, la vocazione: è da quando so leggere e scrivere che voglio fare il giornalista. È stata la mia fortuna. A 19 anni mi presentai alla redazione del Giornale di Sicilia, ebbi fortuna e mi presero subito per dei contratti a termine. Poi fui assunto in un giornale locale, la Cronaca di Verona, dove feci il praticantato. A Repubblica sono arrivato a 35 anni, dopo una gavetta di quindici anni nei giornali locali: e questo mi aiuta a tenere i piedi per terra.Come vede gli stagisti che passano nella sua redazione?Quelli che arrivano dalle scuole di giornalismo più serie, come l'IFG, la Luiss, la Cattolica sono molto preparati. Secondo me chi è veramente bravo ce la fa: però essere bravo vuol dire anche avere un buon carattere, essere maturo, sapersi comportare adeguatamente. Non bisogna nascondersi che questi sono anni molto duri per la stampa: ormai è dannatamente difficile entrare in un giornale. Nessuno ti regala niente, e oggi la sfida è più ardua che mai: occorre un supplemento di determinazione.I «giovani» che racconta nel libro hanno circa trent'anni. Il «giovane e bello» che ha ispirato il titolo, Gianni Chiodi, oggi presidente della Regione Abruzzo, ne ha addirittura 48. Oggi si è giovani in eterno?In Italia pare proprio di sì. Lo vedo anche su me stesso: quando vado a presentare i libri mi dicono «Ah, ma lei è giovanissimo!», ma io non credo proprio di essere giovanissimo: ho 38 anni! È un altro degli aspetti della regressione in atto nel nostro Paese: Chiodi viene ritenuto giovane, ma dobbiamo chiederci: da chi? Da Berlusconi, che è un settantaduenne! Eleonora VoltolinaPer saperne di più su questo argomento, leggi anche:- «Non è un paese per giovani», fotografia di una generazione (e appello all'audacia)- Crisi e mercato del lavoro, Tito Boeri: è il momento che i giovani si facciano sentire e lancino delle proposte- Stage gratuiti o malpagati, ciascuno può fare la rivoluzione: con un semplice «no»

Centro per l'impiego di Frosinone: il posto «magico» dove uno stagista su due trova lavoro

Rispolverando il sempreverde Trilussa, se in media nella vita a ognuno spetta un pollo, ci sarà sempre il fortunato che se ne mangia due, e il poveraccio che resta a bocca asciutta... E così, parlando dell'attività dei centri per l'impiego, è interessante andare a scoprire come vanno le cose in uno di quelli che funzionano meglio - almeno per quanto riguarda la promozione di tirocini: quelli che portano alla media nazionale di assunzione dopo lo stage (26,5%) i famosi due polli, e contribuiscono a innalzarla.I due polli in questo caso sono rappresentati da un dato percentuale: 44%. Che tradotto vuol dire: mentre in media in Italia chi fa uno stage attraverso un centro per l'impiego ha poco più di una possibilità su quattro di ottenere un contratto, a Frosinone le possibilità salgono a quasi una su due.«Questi risultati sono il frutto di un lavoro che parte da lontano» spiega alla Repubblica degli Stagisti Gerardo Segneri, coordinatore dei centri per l'impiego della provincia di Frosinone: «Agendo sempre su due versanti, quello delle aziende e quello dei lavoratori, in questo caso tirocinanti». In tutto nel 2007 sono stati attivati dai quattro centri della provincia - Frosinone, Sora, Cassino e Anagni - 1548 stage (di cui 19 a persone disabili). Qualche dato sull'età degli stagisti: la parte del leone la fanno i 20-24enni (36%) e i 25-29enni (23%). Un 22% degli stage ha coinvolto persone ultratrentenni e infine un 18% ragazzi con meno di 19 anni. Nella maggioranza dei casi (quasi 6 su 10) il titolo di studio è il diploma: «Ma siamo anche riusciti a collocare in stage ben 460 persone che avevano solamente la licenza media, e oggi come oggi non è facile: questo titolo di studio è ormai davvero molto debole» puntualizza Segneri.E dove sono andati a finire, questi stagisti? In oltre la metà dei casi in microimprese (con meno di dieci dipendenti); un 23% è stato inserito in piccole imprese con 10-15 dipendenti, un altro 17% in piccole imprese con 16-49 dipendenti. Solo il 4% hanno trovato posto in medie imprese (da 50 a 249 dipendenti) e come fanalino di coda un 1% nelle grandi imprese. Ma come, si dice che le microimprese sono quelle meno inclini ad assumere dopo lo stage... «Beh, nel nostro territorio no» ribatte Segneri: «Anzi noi, a differenza di altri centri per l'impiego, attiviamo stage anche ad aziende che non hanno nemmeno un dipendente. E non lo facciamo a caso: siamo persuasi che il titolare abbia la possibilità di seguire molto da vicino il suo stagista, non avendo altri dipendenti. E i fatti ci danno ragione: non di rado è capitato che alla fine dello stage l'impresa passasse da zero dipendenti a un dipendente!»: assumendo cioè l'ex stagista.Il centro per l'impiego di Frosinone è poi molto presente nel monitoraggio in itinere dello stage: svolge per ogni tirocinio tre verifiche presso l'impresa ospitante - una all'inizio, un'altra a metà e la terza poco prima della fine - parlando con lo stagista e con il tutor aziendale per accertarsi che tutto proceda bene: «In questo modo riusciamo sempre ad avere un quadro preciso dell'andamento dello stage, della capacità dell'azienda di trasmettere competenze, e della reale utilità del percorso formativo per il tirocinante». Qualche caso problematico può capitare, ma in percentuale sono davvero pochi: «Solo un 12% interrompe lo stage prima del previsto» spiega Segneri «ma nella maggior parte dei casi lo fa perchè ha trovato  un'occasione di lavoro migliore, o per motivazioni personali». Se però emergono problemi concreti con l'impresa, la convenzione non viene rinnovata: «Come ente promotore, noi abbiamo la discrezionalità di decidere se un'azienda è adatta o no ad accogliere stagisti. E questa discrezionalità la usiamo: a un'azienda che si è dimostrata incapace di condurre in modo corretto un tirocinio non mandiamo   più stagisti».  Insomma, il centro per l'impiego di Frosinone ha una ricetta magica per trasformare lo stage in lavoro? «Più che una ricetta, abbiamo alle spalle un gran lavoro» conclude Segneri: «Ci siamo impegnati negli anni per diffondere e radicare  una cultura dello stage, spiegando bene sia alle persone in cerca di lavoro sia alle aziende quali sono le finalità dello stage, cercando di prevenire gli abusi e gli usi distorti di questo strumento. E poi abbiamo fatto e continuiamo a fare un oculato lavoro di preselezione: cerchiamo insomma di mandare la persona giusta al posto giusto». Eleonora VoltolinaPer saperne di più su questo argomento, vedi anche l'articolo «Stage attivati dai centri per l'impiego: ecco la radiografia annuale dell'Isfol»

Generazione 1000 euro, il regista: «Ragazzi, ricominciate a indignarvi e a lottare per i vostri diritti»

Seguire il proprio talento ed essere condannati alla precarietà o forzare la propria natura per un lavoro relativamente sicuro? È probabilmente la domanda chiave per molti neolaureati o laureandi. Ed è quella che, mettendo il dito nella piaga, pone il film “Generazione mille euro”, da qualche giorno nelle sale (nella foto a destra, Alessandro Tiberi e Carolina Crescentini in una scena). Al centro del film, tratto dal libro omonimo di Antonio Incorvaia e Alessandro Rimassa, c’è Matteo, trentenne matematico che in attesa di un concorso universitario non truccato lavora in un ufficio marketing senza la minima motivazione. E che a un certo punto è chiamato a una scelta di vita. La Repubblica degli Stagisti ha girato la domanda direttamente al regista, Massimo Venier, già noto per il sodalizio con il trio Aldo, Giovanni e Giacomo. Chi oggi sta per uscire dall’università probabilmente dovrà scegliere, come il protagonista Matteo, tra un lavoro per cui si sente portato e uno che troverà facilmente. Vale la pena di seguire il talento?Ovviamente sì. Io penso che il tema non sia tanto quello di seguire il talento, quanto di non uccidere la propria natura. Moltissime persone seguirebbero la prospettiva di un lavoro scintillante in una città altrettanto scintillante, magari tradendo la propria passione, perché pensano che essere adulti voglia dire fare scelte di questo tipo. E io ho molto rispetto per questo tipo di approccio, il film non vuole dare lezioni a nessuno. Ma non a caso il protagonista sceglie di non tradire se stesso. Io dico che se siamo in un’epoca in cui si dice “non puoi permetterti di essere te stesso”, la situazione è molto grave. Dal punto di vista professionale, inoltre, ho il sospetto che paghi di più seguire il proprio talento.Il mercato del lavoro si è fatto più arduo: crede che la generazione dei neolaureati di oggi sia incapace di accettare i compromessi?No. Non voglio naturalmente generalizzare, ci sarà pure qualcuno viziato, ma esistono tante altre persone che col compromesso ci nascono. Una gran parte di persone si impedisce persino di pensare alcune cose. Si accettano come normali situazioni per cui bisognerebbe indignarsi, a partire dal nepotismo.  Credo che dire che i ragazzi non sono capaci di accettare dei compromessi sia troppo a favore di qualcuno. Pensare di avere dei diritti è considerata una cosa borghesoccia, da figli di papà. Invece ci sono dei diritti che sono stati conquistati duramente e che stiamo buttando via.Non ci sono stage in questo film.Ecco, lo stage è un esempio di come si accettano situazioni ancora meno tutelate. Non ho voluto inserirne nel film perché ho pensato che la scelta del protagonista dovesse essere tra due possibilità lavorative comparabili, e non tra un vero lavoro e uno stage. A proposito di scelte, le due giovani donne sembrano avere le idee molto più chiare degli uomini.Non è un caso. Credo che sia così anche nella vita reale. Ho una stima a prescindere per le donne - per il loro modo di affrontare e risolvere le cose. Se dovessi scegliere di affidare qualcosa a qualcuno, sceglierei una donna.Non mi sembra neanche casuale la presenza di Paolo Villaggio (nella foto, in una scena del film) nell cast. È un omaggio alla feroce rappresentazione del mondo aziendale che fece con Fantozzi?Sì, è vero. Visto che stiamo parlando di un grandissimo attore, mi sono stupito che nessuno finora l’abbia osservato. Anche senza i livelli di Fantozzi, nel film raccontiamo la “nuova alienazione”. Il fatto che lui interpreti un personaggio importante è senz’altro una citazione.L’azienda è rappresentata come una somma di insipienza, pesantezza, perfino sadismo. Non è possibile essere umani?Qualcuno lo è, diamo comunque una piccola speranza. Dopo i graffi non infieriamo e lasciamo che prevalga l’amore per i personaggi.Nel film Milano non è solo uno sfondo: è molto protagonista. Questo film si sarebbe potuto girare anche altrove?Secondo me no. Milano è il luogo dove il fenomeno della precarietà nasce e dove è più forte. È una città poco generosa, dove non esiste più la “solidarietà del quartiere”. Al massimo c’è un controllo sociale. E poi è una città carissima: l’aspetto economico è pesante.A Milano con mille euro si riesce a vivere?È difficile, perché la città è organizzata in modo da chiedere soldi ossessivamente, in tutti i modi. Si può vivere con mille euro rinunciando a molto. Per questo una battuta dice che è la prima volta che le persone se ne tornano in Molise. Non è per mancanza di rispetto ai molisani, che hanno frainteso il senso e se la sono presa, ma è perché per la prima volta ci sono giovani che pensano che in provincia si viva meglio. Fabrizio Patti  

Social network delle mie brame, come trovo il lavoro migliore del reame? Su Internet

Marco Scaloni, classe 1975, è un ingegnere elettronico col pallino di Internet. Nell’ambito del progetto «Senigallia 2.0» ha portato una testimonianza di come la Rete si possa utilizzare non solo per l’informazione o lo svago, ma anche per mettere in circolazione il proprio cv e tessere quelle preziose relazioni professionali che servono a trovare lavoro – o magari a trovarne uno migliore.Insomma, Internet è diventato un’enorme bacheca di annunci di lavoro?Si, ma è molto di più. È uno strumento utilissimo, che si può utilizzare a vari livelli.Partiamo dal primo, allora.Le classiche bacheche di annunci, quelle affisse nei centri per l’impiego oppure pubblicate sulla stampa cartacea, hanno trovato in Internet un luogo ideale dove crescere e migliorare. Una delle più frequentate è Trovolavoro, creata dal Corriere della Sera. Ma esistono anche motori di ricerca focalizzati sugli annunci di lavoro, che offrono la possibilità di cercare le inserzioni in centinaia di siti specializzati. Un esempio è JobCrawler.Passiamo al secondo livello.Oltre a cercare lavoro, è bene farsi trovare da chi il lavoro lo offre. Siti come Monster oppure Emurse sono enormi vetrine in cui inserire il proprio cv, con la speranza che questo sia prima o poi «pescato» da qualche selezionatore.Capita davvero?Assolutamente sì. Qualche tempo fa sono stato contattato dall’ufficio Risorse umane di un’importante compagnia telefonica che aveva scovato il mio cv su uno di questi siti. Ho fatto il primo colloquio, poi il secondo, finché non mi hanno formalizzato una vera e propria proposta di contratto. Insomma, dal virtuale al reale: mettendo un semplice cv su Internet ho trovato lavoro. Anzi, avrei, perché ho rifiutato l’offerta. Altri siti utili?Tutti quelli che permettono di caricare il proprio cv vanno bene, l’importante è che poi questo sia facilmente rintracciabile. Mentre un sito personale o il proprio blog spesso hanno una bassa popolarità, esistono servizi - anche gratuiti - che godono di un ottimo trattamento da parte dei motori di ricerca, e ciò aumenta di molto la possibilità che il cv venga “scovato”. Io, ad esempio, utilizzo ClaimId, un servizio nato per offrire un luogo rappresentativo della propria identità online: una semplice pagina dove presentarti al mondo, professionalmente e non solo, con il link al proprio blog, le gallerie di foto, i siti preferiti, e naturalmente il cv - magari tradotto in più lingue. Insomma un biglietto da visita, pubblico e ben piazzato su Google.E i social network?Sono utilissimi. Certamente tutti conoscono Facebook, il social network «generalista» che moltiplica contatti e relazioni con persone più o meno lontane. Ciò che è sempre stato vero - e lo è a maggior ragione oggi - è che sono proprio i cosiddetti “legami deboli” a rivelarsi importanti nel trovare lavoro. Ex colleghi, compagni di scuola persi di vista, amici degli amici. Chi non ha mai detto che il lavoro si trova con le “conoscenze”? I social network aiutano in maniera efficace a mantenerle e rafforzarle. Se dovessi consigliare un social network a scopo professionale, senz’altro direi LinkedIn. Da lì ho ricevuto nel giro di un anno una decina di messaggi da parte di selezionatori del personale, “cacciatori di teste” che scandagliano il sito in cerca di persone con specifiche competenze. Le offerte mi sono giunte per lo più dall’estero, anche da multinazionali molto importanti. Quando ho voluto approfondire ho risposto, facendo poi colloqui. Il sistema funziona davvero. Certo, per aiutarlo bisogna avere qualche accortezza.Per esempio?Consiglio di mettere più dettagli possibile nel cv. I selezionatori che si servono di LinkedIn fanno ricerche per parola chiave: più dettagliata sarà la descrizione delle proprie esperienze, più saliranno le possibilità che il cv «emerga» dalla massa.Ma chi ha già un lavoro non rischia di infastidire i suoi superiori apparendo su LinkedIn?Forse in passato, oggi sempre meno. In realtà il sistema serve a creare relazioni, e creare relazioni è proficuo per te e per la tua azienda. Dopo tutto su LinkedIn sono in buona compagnia: tra i miei contatti ci sono il proprietario e il responsabile delle Risorse umane dell’azienda dove lavoro!Intervista di Eleonora Voltolina

Master dei Talenti CRT, Angelo Miglietta: «Quest'anno è stato boom di candidature: ecco perché»

Il Master dei Talenti è un progetto della Fondazione CRT rivolto ai neolaureati delle università piemontesi e valdostane. Oltre due milioni di euro vanno a finanziare ogni anno una settantina di stage in giro per il mondo: i fortunati vincitori percepiscono un rimborso spese - erogato dalla Fondazione - che varia da 1400 a 3300 euro al mese, e hanno l'opportunità di fare esperienze nei quattro angoli del pianeta. La percentuale di assunzione dopo lo stage, per quelli svolti in strutture private, è superiore al 90%: una vera autostrada verso l'occupazione.Quest'anno al bando hanno risposto oltre settecento ragazzi, con un incremento del 40% rispetto alle precedenti edizioni: un boom che rende comprensibilmente orgoglioso Angelo Miglietta, docente di Economia aziendale alla facoltà di Giurisprudenza dell’università di Torino, che della Fondazione è segretario generale dal luglio del 2006.Professore, quest'anno per voi è stato boom di candidature: ne avete ricevute 723 per 67 stage. Cosa è successo?Innanzitutto Torino era letteralmente tappezzata di manifesti: la campagna di comunicazione ideata dal nostro ex borsista Andrea Martina era sicuramente azzeccata e ha convinto molti a provarci. E poi un aspetto tecnico che finalmente abbiamo risolto, quello del limite temporale di attivazione dei tirocini: fino all'anno scorso potevamo accettare solo candidati che non solo iniziassero, ma anche terminassero lo stage entro i 18 mesi dalla laurea. Ora il termine viene interpretato in senso più ampio, e basta che inizi entro i 18 mesi.Forse c'entra un po' anche la crisi?Può essere. Magari i neolaureati sentono che ci sono meno opportunità lavorative rispetto al passato, scoprono che questo Master dei Talenti non è poi così male e decidono di candidarsi. Diciamocelo: le opportunità che diamo sono eccezionali, e i ragazzi se ne sono accorti! Chi sono questi ragazzi? Proviamo a fare un identikit dei candidati.In media, si sono laureati a 24 anni e 2 mesi, con un voto medio di poco inferiore al 108. Tre su quattro hanno una laurea specialistica. Nella maggior parte dei casi (quest'anno il 58%) sono residenti in provincia di Torino, o comunque in Piemonte: c'è però un 13% di candidati residenti in altre province, formato da chi si trasferisce negli atenei piemontesi per studiare. E' giusto ricordare che questo progetto è riservato a chi si sia laureato da non più di un anno e mezzo in un'università del Piemonte o della Valle D'Aosta.Possiamo fare un prospetto degli atenei di provenienza?Quello di Torino fa sempre la parte del leone: quest'anno il 71% dei candidati proveniva da lì. Poi il Politecnico al 25%, in leggera flessione (l'anno scorso era al 26,2%, e nel 2007 al 29,3%). Un 3,7% si è laureato all'università del Piemonte orientale. E poi abbiamo anche ricevuto una candidatura dall'università della Valle d'Aosta e una dall'Accademia albertina.In cosa sono laureati i candidati?Parlando in generale, per il 57% in materie umanistico/sociali e per il 43% in materie tecnico/scientifiche. In particolare abbiamo una buona percentuale di candidati laureati in Ingegneria (15%), Economia (13,5%), Scienze matematiche, fisiche e naturali (11,4%) e Architettura (10,2%). Ma anche Lettere e Scienze Politiche non se la cavano male, rispettivamente con l'11,6% e il 10,3%. E poi seguono a ruota Lingue e letterature straniere, Giurisprudenza, Psicologia, Medicina... Insomma, ci sono opportunità per tutti. Però bisogna saperle cogliere al volo.intervista di Eleonora Voltolina Per saperne di più su questo argomento, vedi anche gli articoli - «Master dei Talenti 2009, è boom di richieste per gli stage a 5 stelle»- «Master dei Talenti, le voci degli «ex»: Paola Laiolo, da Torino a Bruxelles inseguendo l'Europa» - «Master dei Talenti, le voci degli «ex»: Francesco Imberti, dalla Cina con amore (per il cibo italiano)» - «Master dei Talenti CRT - Le voci degli stagisti più fortunati d'Italia»